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#scritti saggistici
gregor-samsung · 4 months
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" È consolante riandare alle proprie letture. Penso alle fughe nel fantastico quando si leggeva dei pirati della Malesia di Emilio Salgari, o Giulio Verne e i viaggi per ventimila leghe sotto i mari, o le memorabili avventure di Oliver Twist in Dickens, o l’Odissea che lessi da piccolo in una edizione illustrata a colori, e i favolosi volumi della «Scala d’oro» che la Utet stampava, divorati nel tepore della cucina. Daniel Pennac ricordava la sua lettura di Guerra e pace «che si svolse di notte, alla luce di una lampada tascabile, e sotto le coperte tirate su come una tenda in mezzo a un dormitorio di cinquanta sognatori, russatori e sussultatori»*. Walter Benjamin, in Infanzia berlinese, ricorda i romanzi di avventura della sua infanzia che gli venivano incontro come venti del Sud o tempeste di neve: «I paesi lontani che vi incontravo danzavano confidenzialmente l’uno intorno all’altro come fiocchi di neve. E poiché ciò che scorgiamo lontano attraverso la neve non ci invita fuori, ma dentro, cosí Babilonia, e Bagdad, Akka e l’Alaska, Tromsö e il Transvaal abitavano dentro di me»**. Tutto ciò che l’umanità ha pensato, concretizzato, fantasticato, sentito e intuito sta nei libri. La finzione della poesia o della narrativa ci fa percepire il mondo presente e ricostruire il passato. È simulazione potente di vita vera e di emozioni. Grande consolazione è il sapere che tutto sta nei libri, nella loro presenza fisica. "
* D. PENNAC, Come un romanzo [1992], Feltrinelli, Milano 2000, p . 122.
** W. BENJAMIN, Infanzia berlinese [1950], Einaudi, Torino 1973, p. 78.
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Gian Luigi Beccaria, In contrattempo. Un elogio della lentezza, Einaudi (collana Vele), 2022. [Libro elettronico]
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liviaserpieri · 6 years
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1. La cosa più singolare della lettura consecutiva dei romanzi di un autore molto amato è che si crede di leggere dei libri e invece si chiacchiera con un uomo. Un uomo che spesso non c’è più. Ho amato molto Tolstoj nell’epoca della mia meglio gioventù di lettore appassionato   e un po’ rétro.  Credo di averlo letto tutto –  quello edito e in circolazione nella  metà degli anni ’70 –  eccetto “I cosacchi” e “Chadzi- Murat” e gli scritti saggistici e religiosi dell’ultimo periodo della sua vita. In cima alla mia predilezione ci sono “La morte di Ivan Il’ič ”, “La sonata a Kreutzer”  e gli immensi “Anna Karenina” e “Guerra e pace”. Ho letto la Karenina due volte e “Guerra e pace” una:   per leggerlo due volte  occorrerebbero due vite. Ho letto questo   lunghissimo romanzo  (oltre 2000 pagine nella mia edizione Garzanti Grandi Libri, trad. P. Zveteremich) in marce forzate, è il caso di dire vista la materia bellica,  in una calda estate siciliana, nel cortile di casa, con il conforto di un pacchetto di sigarette “MS” a notte, e   boccali di  una bevanda al limone ghiacciata che mi preparavo da me. Praticamente la felicità.  Devo dirlo: non avevo altri diversivi, distrazioni o divertimenti.  Mentre i miei amici si avventuravano nei primi interrail, io che ero abbastanza malestante  e lavoravo da imbianchino   per mantenermi agli studi, chiedevo alla letteratura  di espletare il suo ufficio di narcotico  per poveri, di  proiezione a poco prezzo in mondi fantastici:  il raddoppio delle sensazioni nientemeno. Quelle mediate  dalla letteratura avrebbero dovuto affiancarsi,  nelle mie intenzioni, a quelle immediate provenienti dalla vita, ma nei fatti le sostituivano. Chiedevo alla letteratura di salvarmi la vita. E ci sono riuscito. O c’è riuscita la letteratura, nel senso che ha agito con una forza tutta propria su di me. Mi sono distratto, e distraendomi dalla vita vera, proiettandomi  in quella fantastica,  prendevo le misure di quella reale. Chiedevo all’ homo fictus, al lettore qual ero, di dare una mano all’homo naturalis, di dargli la mappa della  vita – i fondamentali –   tale che al momento di vivere più che conoscerle le emozioni, le esperienze, le situazioni, io potessi ri-conoscerle. La lettura era insomma una anticipazione della vita, una gigantesca simulazione, come quella che fanno i piloti prima di saliere sui jet, un vivere preavvisato, fuori dai condizionamenti della vita vissuta. Una specie di libertà assoluta quella del lettore dunque,  se quella del vivente è una libertà vigilata.
Sia come sia, Tolstoj (insieme a Stendhal, Rousseau, Brancati, Pavese, Verga, Moravia, Flaubert, Hemingway e tanti altri) accompagnò gli anni belli e afflitti della giovinezza. Ero angosciato – dal bisogno materiale soprattutto – ma avevo questi beni spirituali in eccesso. Rischiavo:  leggevo più di quanto mi necessitasse per vivere. Una situazione di squilibrio pericolosissima, di accumulo di eccitazioni mentali , di exacerbatio cerebri, che in genere conduce gli individui senza pesi  a  librarsi nel vuoto della nevrosi, della più grande e irrimediabile infelicità, oppure andare incontro al destino tipico dell’intellettuale spiantato: trovare impiego con artifici e raggiri a  Mediaset o vagheggiare inacidito il sovvertimento violento dell’ordine esistente. Forse  vivere significa  garantire un’accettabile integrità all’io, ovvero impedirne letteralmente la   disintegrazione, porre solide basi all’arco dell’esistenza  tra progetto ed esecuzione, giovinezza e maturità, speranza e ricordo. C’era dalla mia parte tuttavia anche la nascita plebea e l’ironia popolaresca  che mi impedivano di “prendere la tangente” come avvenne a tanti  viziati borghesi della mia città. Nel dialetto del mio popolo dopotutto la parola “pensiero” coincide con il campo semantico di “preoccupazione” e suggerisce vivamente  di non averne troppi di questi “pensieri” in testa.  Mi “salvai”, se mi salvai (« Non dire che un uomo è felice se non hai visto l’ultimo dei suoi giorni», ultima battuta di “Edipo re” di Sofocle),  soprattutto grazie a Tolstoj. Cosa ho trovato in Tolstoj di tanto salutare e salvifico? Semplice: la vita.  Boom! Sì la vita etica. Non che Tolstoj mi abbia dato chissà quale formula che mondi potesse aprirmi, forse soltanto indicato una tana (la letteratura, la lettura in sé) da dove scrutare la lotta per la vita (degli altri), o forse qualche indicazione generica sui salvacondotti per superare alcune frontiere dell’essere, allo scopo di  affrontare,  anche schivandola forse, quella res severa che è la vita stessa. Che come è noto, tanto fu seria con lui da farlo deragliare  in età tardissima  poco prima della morte (a comprova che di formule facili non ce n’è proprio).  Ma solo dopo molti anni ho compreso  che Tolstoj mi aveva indicato la vita etica, ovvero la vita matrimoniale. Una cosa dopotutto  non scontata in un’epoca  (fine anni Settanta)  di attacchi all’istituzione matrimoniale,  di  “familles, je vous haie!”, di coppie aperte, di nomadismo sessuale, di “comuni “ e di Macondi.
2. Quando si  legge un’opera non abbiamo mai contezza dell’azione che essa esercita su di noi. Spesso non sappiamo neanche condurre una ricognizione ragionata della trama, figurarsi  capire il centro   profondo che l’opera ha in sé e per sé o solo per noi (non sempre i due piani infatti coincidono).  Dell’opera  perdiamo la visione nel corso del tempo, ci sfugge non solo la trama, ma anche l’impressione complessiva, restando nella nostra memoria soltanto alcuni punti luminosi, i “fosfeni “ di quell’opera, come  quando chiudiamo gli occhi e li strizziamo a palpebre chiuse. «Un nugolo di impressioni, alcuni punti chiari che emergono da un’incertezza fumosa: è tutto questo che in genere possiamo sperare di possedere di un libro» e «un libro non è una catena di fatti, è una singola immagine».  (cit. P.Lubbock – “Il mestiere della narrativa”, Sansoni 1984”). E ciò accade per i dettagli del libro e a volte del suo insieme, si tratti del viso di Natasha,   della morte di Bolkonskij, del peregrinare cogitativo di Bezukov, del saggio Kutuzov  o dell’epilogo stesso della vicenda, che tuttavia   ricordiamo benissimo:  finisce in un tranquillo tinello familiare. Relativamente alla “forma” per esempio ancora il nostro critico inglese Percy Lubbock dice che “Guerra e pace” non ne ha, come struttura forte egli intende dire, ma   è piuttosto un “flusso” inarrestabile di eventi, lungo come un grande fiume  o come un inverno russo: «Lo scorrere del tempo, l’effetto del tempo appartiene al cuore del soggetto» di questo romanzo . Probabilmente quel tipo di narrazione “fluviale” oggi non avrebbe  corso, è fuori dalla nostra stessa percezione del tempo,  la quale è accelerata e sincopata ormai come un videogioco. Alcuni critici (Italo Calvino, non ricordo più dove, forse in “Perché  leggere i classici” che  non ho sottomano) dicono che è cambiata la nostra stessa percezione del tempo: nell’Ottocento la visione della realtà era come quella osservata da un tranquillo signore sul parapetto di una nave, oggi  è  quella, accelerata e vorticosa, di chi cade nella tromba delle scale. E qui forse ha ragione  Alfred Polgar (“Piccole storie senza morale”, Adelphi 1994) quando dice: “La vita è troppo breve per la forma letteraria lunga, è troppo fuggevole perché lo scrittore possa indugiare in descrizioni e commenti, è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo; la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in libri ampi e lunghi”. Nel vortice della nostra vita sociale suggerire la lettura di “Guerra e pace”  a soggetti debilitati dagli scossoni di un assetto sociale  che ruba vita alla vita  potrebbe perciò sembrare un azzardo quando vorrebbe essere solo  una proposta aristocratica e insieme terapeutica. Se oggi  infatti si moltiplicano gli inviti a consumare  cibo,  musica, televisione  lentamente, perché non anche la narrativa lenta di Tolstoj?
3. Nel corso di una di quelle   scorribande da lettore  onnivoro e disordinato quale sono,  mi imbattei in  un illuminante passo di Remo Cantoni (“La coscienza inquieta”,  Il Saggiatore, Milano 1976, n. 18, p.55) che improvvisamente mi delineò il rapporto tra me e Tolstoj e mi mise sulle tracce di un’ interpretazione pungente dell’arte tolstojana, sul solco delle “filosofia dell’esistenza”. Interpretazione  che da allora mi accompagna.   Il libro di Cantoni è una delle più belle e penetranti disamine del pensatore danese ancora circolante in lingua italiana. Riassumiamo a grandissime linee  (e con qualche mio tradimento) questa dialettica esistenziale. Don Giovanni, l’Assessore Guglielmo e Abramo sono nel pensiero di Kierkegaard le figure emblema  dell’itinerario   fenomenologico dell’esistenza.  Vita estetica, morale e religiosa sono i tre “stadi” possibili della vita. Sono essi coincidenti con in tre stadi della vita biologica:  giovinezza, maturità e vecchiaia? No, certamente (a me è capitato il contrario: una infanzia e giovinezza religiose, una maturità etica, un inizio di  terza età estetica, speriamo!), anche se i tre stadi in genere si attraversano secondo questa sequenza e i tre personaggi portatori delle istanze sembrano ricalcare le tre età della vita. Il giovane don Giovanni, il maturo Guglielmo, il vecchio Abramo. Diciamo subito che chiunque abbia superato le rapide dello stato nascente dell’innamoramento ed è entrato nel placido stadio istituzionale del matrimonio (o della diade stabile)  sa che la nascita di un figlio immette la coppia in un universo di valori in cui l’eticità è la “dominante”. Anche se si troverà la propria personale vibrazione estetica nel cambio dei pannolini, nei fatti ,i figli,  che pur sono una nostra vena che batte fuori di noi, non sono   noi, sono altro da noi e chiedono cure indifferibili, impegno diuturno, fatica e apprensione infinite. Oltre che serietà coscienziosa. Se la giovinezza è uno stato “estetico” per definizione (da aisthesis, esperire con i sensi) visto che si hanno addosso troppo pochi giri d’esistenza per avere una dimensione più sedimentata e ragionata della vita, la nascita di un figlio pone il soggetto immediatamente nella dimensione etica. Il marito è l’eroe coniugale se, di contro, i grandi amanti sono eroi  pre-coniugali, post-coniugali o meta-coniugali.
Ora, i tre stadi vivono in maniera autonoma nelle scelte di vita di ciascuno di noi, ma c’è da aggiungere che non sono “isolati”, allo stato puro, sono misti dialetticamente e si contaminano a vicenda,  nel senso che c’è nella vita estetica una piega a volte religiosa. Don Giovanni ha il culto della donna si potrebbe dire, ma,  oltre ai  genitali di lei, da acquisire in maniera compulsiva  e seriale in una “cattiva infinità” nel tentativo, sempre fallito, di possederli per sempre,  c’è la ricerca inesausta delle infinite modalità estetiche in cui si manifesta  l’inebriante “femminile” nelle donne. Un fatto che di per sé vale la coazione a ripetere. Ma anche nella vita religiosa vi sono componenti estetiche.  Non occorre aver letto Freud per intero per capire che in alcune esperienze religiose estreme, nei cilici e nelle autofustigazioni o addirittura nella scelta finale della morte autoinflitta come quella dei  martiri qualcuno ha visto una sorta di piacere,  voluptas dolendi  estrema  fino all’amor mortis. Clemente Alessandrino lo vide negli occhi dei martiri cristiani e se ne spaventò a tal punto  da sospettare che fossero dei voluttuosi aspiranti suicidi infiltrati tra le fila dei  “veri” cristiani. “Noi per parte nostra biasimiamo coloro che si sono gettati in  braccio alla morte: giacché esistono alcuni che non sono realmente dei nostri, ma hanno in comune con noi soltanto il nome, e che ardono dal desiderio di consegnarsi, poveri miserabili innamorati della morte (grassetto mio) in odio al Creatore. Noi affermiamo che questi uomini  commettono suicidio e non sono martiri, anche se vengono ufficialmente giustiziati. “ (citato da A. Nock.  “La conversione”, Laterza, Bari, p.155).
In fondo, la scelta della vita etica è di tipo mediano, fuori dai,  e forse contro i, grandi turbamenti  e le sfide estreme della vita estetica e religiosa. L’istanza della vita etica può imporsi in due modi secondo ciò che  ho compreso provvisoriamente. A) sorgere dalla malinconia, dallo squallore, dall’autodistruzione  insita  nella vita estetica stessa. C’è un momento in cui la vita estetica appare all’esteta come insensato scialo che  brucia solo nell’attimo; la propria genialità sensibile e sensualità demoniaca  gli appaiono senza scopo se non se stesso.  Oppure B) come strategia di ritiro calcolato della “cattiva coscienza”, la quale “spontaneamente”  tenderebbe sempre e comunque alla vita estetica, approvandola nell’intimo,  ma quasi sempre negli individui medi non ha i mezzi per metterla in atto. Accade così che non potendo vivere una vita di piaceri ce ne inventiamo una di doveri.   È, infine,  anche vero che  nella vita etica  si assaporano le dolcezze dell’uno e dell’altro stadio sia estetico che religioso (per chi ha fede). Com’è vero che nell’amore coniugale si trova sia  quella Venerem facilem parabilemque  – il sesso facile e abbordabile  di cui parlava Orazio -, sia   il  culto dell’unione familiare, che era già “sacra”, signori, prima del cristianesimo. Proprio in ultimo mi occorre aggiungere che se il seduttore non ama una donna, ma la donna, l’uomo etico è tentato di amare  la donna in una donna.
4. Analogamente, nei personaggi di Tolstoj gli stadi dell’esistenza kierkegardiana appaiono misti, mai allo stato puro. Se Pierre Bezukov e Konstantin Dmitric Levin (veri e propri alter ego di Tolstoj) sembrano scolpiti nella pietra viva della vita etica (anche se bellamente  “estetica” è la scena “etica” della falciatura del grano perché è il padrone Levin che sceglie di mischiarsi a torso nudo in uno slancio etico-estetico  con i propri  contadini), se  Nechljudov di “Resurrezione” e Ivan Il’ič sembrano smarriti nella dimensione religiosa della vita, Anna Karenina  (una crasi narrativa di Madame de Rênal ed Emma Bovary) è una bella che sbanda  tragicamente dallo stadio  etico a quello estetico, presa al laccio dei  frutti sublimi e amari dell’adulterio. Immensi sommovimenti psichici e sessuali sembrerebbe destare l’amore extraconiugale che oggi  “aggredisce” (o felix culpa!)  le coppie perlopiù intorno ai quarant’anni e ai tempi di Anna ai trenta; una forza  estetica inebriante non solo per i graditi e liberatori sensi di colpa che esso genera, per quel  lato avventuroso  e teatrale di sdoppiamento della personalità  di chi giocoforza deve recitare  due parti in commedia, ma soprattutto  per la “riscoperta”  e la reviviscenza del sesso infeltrito  dalle ambagi  del coniugio e dai gravosi impegni  “etici” dell’allevamento della prole che procurano ottundimento dei sensi e la  fatale clorosi della vita “estetica” dei primi anni matrimoniali quando i sensi scattavano come levrieri all’apertura dei cancelli. L’io tolstojano  come l’io di ogni grande artista è ovviamente frantumato in tutti i suoi personaggi e in tutt’e tre gli stadi dell’esistenza.  Tolstoj è Anna Karenina, è Pierre Bezukov, Levin,  Ivan Il’ič, Nechliudov e anche  Vronskij (l’avete visto nelle foto giovanili quant’era bello?).  Ma solo Tolstoj e i grandi artisti, o anche noi, si parva licet? Non accade anche a noi, in fondo, di attraversare per avventura romanzesca della  nostra esistenza o per adesione cosciente i tre stadi dell’esistenza?  Com’è anche vero che ci può toccare di essere  classici alle nove del mattino, romantici a mezzogiorno  e barocchi   o  decadenti alle ventuno, o se volete da giovani, nella maturità e nella vecchiaia, ad libitum. “Un io è come un club dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono” avvertiva Gadda. Il giovane Petja Rostov  vive nello stadio estetico ed estatico della vita militare,  dimensione in cui perlopiù si racchiude la vita estetica di Tolstoj  in quanto uomo e narratore, si vedano  i “Racconti di Sebastopoli”.  A noi potrà sfuggire questa dimensione estetica della vita militare. Cosa può avere di estetico l’occupazione di dare morte agli altri a colpi di cannone? Nulla, ma la vita estetica cui qui si allude è quella dell’esuberanza dei corpi, quella  dei giovani conviventi nelle caserme che hanno consuetudine con le altrui nudità  nelle camerate, quella dei giovani soldati  alle prese con bevute  colossali (com’è normale esperienza  dello zapoj, le inenarrabili ciucche russe), che scommettono sulla propria resistenza   sui davanzali  delle finestre della camerate con sotto l’abisso in cui rischiano di schiantarsi, nel gioco ferale della roulette russa, che frequentano i bordelli, esperienza quest’ultima che segnerà di interrogativi angosciosi il Tolstoj di “Sonata a Kreutzer” quando si chiede se quelle stesse mani che hanno toccato le carni guaste e viziose delle prostitute sono le stesse che dovranno sfiorare  i visi angelici di fanciulle educate tra i merletti e spinette,  intente a singhiozzare davanti ad abissali e ridicoli amori romantici e che nulla sanno degli sperdimenti della carne, della sua fosca, sporca,  inebriante fisicità “estetica”. È bene ricordare che educazione sessuale ed educazione sentimentale divergevano per tutto l’Ottocento. Che i giovani maschi apprendevano l’Ars amandi e venivano iniziati sessualmente nei bordelli. Che questo tipo di iniziazione sessuale si è protratta almeno fino agli anni ’60 del ‘900 e che forse la generazione dei nati attorno agli anni ’40-50 del secolo scorso (quella del ’68 per intenderci) è stata la prima in assoluto in Occidente in cui educazione sentimentale ed educazione sessuale coincidono e sono avvenute contestualmente con coetanei. Ma prima di allora  la vita sessuale dei giovani fino al matrimonio, e per molti  anche dopo, si svolgeva  principalmente nei postriboli.
Tolstoj è il cantore dei tre stadi dell’esistenza così  bene “isolati” e descritti da Kierkegaard in tutta la sua opera. Enten Eller, aut aut o piuttosto et et? E benché lo stadio etico-matrimoniale sembra essere il proprium di questo grande artista che secondo Isaiah Berlin era una volpe che si credeva un istrice (ne sapeva tante di cose della vita e non una sola, e inoltre era una cosa e si credeva un’altra), si falserebbe la prospettiva  nel comprenderlo appieno se ci si fermasse solo a questo stadio come abbiamo visto. Ma la vita matrimoniale, quella che Kierkegaard ha intravisto con la sua Regina Olsen, è in Tolstoj materia perenne di canto. Tutti ricordano l’incipit di Anna Karenina. “Tutte le famiglie sono felici allo stesso modo ogni famiglia è infelice a modo proprio”. Ma che dire de “La felicità domestica”? che proprio l’elemento etico ed estetico sembra già coniugare nel titolo. E la vita coniugale nella sua forma ossessiva è al centro della indimenticabile “Sonata a Kreutzer” e in “Resurrezione”.  E se si pone mente alla trama di “Guerra e pace” si ricorderà che sono scoppiate mille granate, sono state attraversate decine di fiumi, combattute battaglie eroiche  senza fine, è morto Bolkonskij  in quel modo sublime che tutti abbiamo letto, ma  sembrerebbe che le monde existe pour aboutir une … famille. Tutta la storia e tutto il mondo esistono perché la tenera  Natasha e il pacioso, pacifico e meditabondo Bezukov possano sposarsi. La pace, dopo la guerra, l’idillio domestico di questa coppia dopo lo… scoppio delle granate, sembra che l’epos di tutto il romanzo si incanali e si acquieti in questo tranquillo tinello borghese. Sembra dire Tolstoj “ I drammi ci capitano, ma le tragedie dobbiamo meritarcele, come tutto ciò che è grande”.  Ma in mezzo  o dopo  eventi così perigliosi occupiamoci delle tartine e dei  bambini, perché a  essi  si deve  tornare dopo i grandi “cannoneggiamenti” della vita.
Alfio Squillaci
La frusta letteraria
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"Felice è chi sa amare": nella concezione di Hesse l'amore è del tutto slegato dal possesso, è un'incessante ricerca esistenziale, uno stato di grazia dello spirito e dei sensi che trova appagamento in se stesso e abbraccia il mondo intero. Questa antologia di "letture hessiane" dedicate all'amore raccoglie e mescola materiali diversi: poesie, episodi narrativi, passi di scritti saggistici e di lettere, aforismi, disposti in un crescendo di intensità e profondità a illustrare tre grandi variazioni sul tema: l'amore adolescenziale, l'esperienza amorosa matura, l'amore per l'umanità.... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers #bookstore #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #hermannhesse (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/Bxgq2n_I7Ga/?igshid=1lwlt7l42jr8m
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gregor-samsung · 8 months
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" Stando alla testimonianza di chi ha avuto la fortuna di vederlo in teatro, il Totò che noi conosciamo, quello del cinema, non vale un decimo rispetto al comico caricato a molla sulle tavole del palcoscenico. Si racconta che, al momento del bis, prima di rientrare in scena, dicesse agli attrezzisti: «Adesso li faccio ridere con la A!». Entrava, improvvisava un paio dei suoi irresistibili lazzi e ritornava dietro le quinte mentre la sala si sganasciava a bocca spalancata: «Ah! Ah! Ah!». Prima del secondo bis prometteva ancora: «Adesso li faccio ridere con la I!». Infatti, la platea: «Ih! Ih! Ih!». Al terzo bis era la volta della U. Entrava in scena di sbieco come un burattino di legno, snodato, e si arrampicava su per il sipario come uno scoiattolo. E gli spettatori: «Uh, Uh, Uh!». Le risate con la A, con la I e con la U hanno sostanza ben diversa le une dalle altre: sono le reazioni emotive a tre differenti espressioni della comicità, o meglio a tre gag di natura diversa. In genere la risata con la A esplode al terzo ritorno di un tormentone o nella «chiusa» di un movimento comico a lunga durata con esplosione finale. La risata con la U è fulminante, quasi sempre provocata da una gag inattesa, da una caduta improvvisa, da una battuta a sorpresa. Quella con la I, invece, è più legata all’umorismo, alla finezza verbale o alla gag «buttata via», regalata ai pochi: arriva sempre con un attimo di ritardo e si espande nella sala per contagio, perché chi non ha capito subito l’arguzia la decifra attraverso lo scompisciarsi degli altri. "
Vincenzo Cerami, Consigli a un giovane scrittore. Narrativa, cinema, teatro, radio, Garzanti, 2002; pp. 173-174.
[1ª edizione: Einaudi, 1996]
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gregor-samsung · 3 months
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“ L'eliminazione fisica dei migliori è l'inevitabile contrappasso della «perfezione» del Lager, la conseguenza necessaria di un potere veramente assoluto, ab-solutus, sciolto da ogni limite. Ma uccidere i migliori, i più coraggiosi non significa soltanto ferire a morte anche la dignità dei sopravvissuti, ogni impulso a ribellarsi, bruciare ogni residuo di resistenza al sistema del Lager. Essa produce un altro effetto perverso: la resistenza non verrà più esercitata contro il sistema, ma la sua spinta viene canalizzata in una direzione diversa, assumerà soprattutto la forma della lotta tra i prigionieri. La rottura, sistematica e preventiva, della fraternità tra i deportati fa sì che la difesa della propria dignità si rovesci nel suo contrario, nel tradimento degli altri. I rituali d'ingresso hanno anche questa funzione, quella di distruggere gli schemi della vita quotidiana e del senso comune: il mondo che il nuovo arrivato trovava era indecifrabile, completamente diverso da quello che si era atteso, ancora incentrato intorno ad una nitida linea di demarcazione e contrapposizione tra «noi» e «loro», tra i perseguitati e i persecutori. Invece ci si accorgeva subito che: «il nemico era intorno ma anche dentro, il 'noi' perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse» [Nota: P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 25]. E dopo poco diventava evidente che nel campo ognuno è «il Caino di suo fratello».“
Franco Cassano, L'umiltà del male, Laterza, Roma-Bari, 2011. [Libro elettronico]
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gregor-samsung · 6 months
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“ Il vento è la principale avversità contro la quale devono combattere gli alberi, almeno in Europa. Oltre il 50% dei danni subìti dai boschi europei è dovuto al vento. Non sono gli incendi (16% dei danni) o i patogeni e gli insetti a minacciare i nostri boschi, ma il semplice vento. Dal 1950 a oggi, i danni da vento in Europa sono in continuo aumento: dal 1970 al 2010 gli alberi persi sono raddoppiati, passando da circa 50 milioni a 100 milioni di metri cubi. Si tratta di un enorme numero di alberi che cadendo a terra, oltre a cambiare radicalmente l’ecosistema, la stabilità e il paesaggio, riducono del 30% la capacità di fissazione della CO₂ nelle zone colpite. E la quantità di CO₂ nell’atmosfera è la causa prima del riscaldamento globale che, a sua volta, è una delle ragioni per cui assistiamo all’aumento della frequenza e della intensità di questi eventi. Tra il 28 e il 30 ottobre 2018, una tempesta di vento e pioggia investì ampie zone delle Alpi orientali con venti di velocità anche superiore ai 200 chilometri orari. Un numero spaventoso di alberi venne schiantato e decine di migliaia di ettari di bosco scomparvero. Una catastrofe naturalistica le cui conseguenze sono andate molto oltre i danni diretti sui boschi, innescando una serie di circostanze che nessuno avrebbe potuto prevedere. Fra queste, la più infausta di tutte, per me, è stato il danneggiamento del bosco di abeti rossi dal cui legno, da secoli, si ricavano le tavole armoniche dei grandi strumenti musicali. Cause ed effetti: a causa della CO₂ dispersa nell’atmosfera la temperatura del pianeta sale, i fenomeni atmosferici diventano violenti e le tempeste di vento distruggono gli alberi con cui si fanno i grandi violini, da sempre. “
Stefano Mancuso, La pianta del mondo, Laterza (collana i Robinson / Letture), 2022⁷; pp. 89-90.
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gregor-samsung · 3 days
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" Lo scorso anno tagliavo in diagonale piazza Maggiore in una tiepida notte di fine aprile con Fernanda Alfieri, storica e autrice di un bellissimo libro su un caso (di cui ci sono i documenti) di possessione demoniaca (sulla quale c’è solo una presunzione). Il libro si intitola Veronica e il diavolo (Einaudi, 2021). Chiedevo a Fernanda con una certa infantile insistenza – stavo lavorando sul Processo di condanna di Giovanna D’Arco (Marsilio, 2022, a cura di T. Cremisi) – Perché tutti credono a Giovanna D’Arco?, perché uomini che hanno studiato piú di lei, cavalieri e soldati che hanno combattuto piú di lei, sconosciuti che hanno lavorato, pregato, amato e vissuto piú di lei, le credono quando dice di sentire voci che la spingono a combattere per la liberazione della Francia e propugna di aver ricevuto un segno (una corona) che rassicura sulla natura divina e non diabolica delle voci? Fernanda, soave e precisa come pure è, mi ha risposto che il regime di profezia – il fatto che le persone credano che altri sentano le voci e a ciò che le voci dicono – vige in un mondo in cui si pensa che la storia si ripeta e dunque, ripetendosi, si possa prevedere. Quando subentra l’idea che la storia sia qualcosa di piú o meno lineare ma comunque progressivo, la sensibilità per premonizioni e anticipazioni si attenua.
Quella notte non avevo pensato subito – o forse non mi ero accorta di aver cominciato a pensare – al fatto che viviamo in un regime tecnologico che induce ripetizione, che il tempo mostra i suoi nodi. Non la storia collettiva, o forse anche, essendo la storia una stratificazione di storie (con tutta la sub- e super-additività che la faccenda contiene) ma le nostre storie personali. Le nostre vite quotidiane si ripetono, come ho già scritto, aiutate da dispositivi che per la ripetizione – sempre piú veloce ed efficiente – sono costruiti. Saremo dunque noi, con le nostre cuffiette wireless, il nostro rivolgerci ad aiutanti elettronici, i nuovi santi e i nuovi pazzi di un Medio Evo wireless dove è tornato valido il regime della profezia? Terrapiattisti, complottisti politici, antiscientisti, e apocalittici di varia natura e colore. Ma anche santi e visionari, rivoluzionari e sognatori. (Siri, ripetizione!, Chiara si è verificato un problema). "
Chiara Valerio, La tecnologia è religione, Einaudi (Collana Vele, n° 208), marzo 2023; pp. 76-77.
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gregor-samsung · 3 months
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“ Il sabato, il mercato apre al pubblico alle nove. Questo vuol dire che i veri appassionati alle otto in punto sono già lì, in attesa. Ci si incontra in un bar proprio di fronte al mercato, tutti dotati di enormi zaini vuoti che si spera di riempire. Qualche saluto imbarazzato fra persone che si conoscono di vista da anni, di cui spesso si sanno nome e professione, ma con cui non si è mai davvero scambiato quattro chiacchiere. Si beve un caffè e ci si guarda sospettosi, soprattutto fra rivali con gli stessi gusti. È una specie di maledizione, qualunque sia l’argomento della tua ricerca ci sarà sempre qualcuno contro cui combattere. Anch’io, naturalmente, ho il mio antagonista. È un signore anziano, alto e sottile come un giunco. Avvizzito e scuro di carnagione come se fosse stato a seccare per anni al sole del deserto, vestito sempre con quello che a me sembra essere lo stesso lungo impermeabile chiaro, estate o inverno che sia. Insensibile al clima come i migliori cercatori di libri: che piova, nevichi o tiri vento, che si ghiacci o ci sia un’afa irrespirabile, lui è sempre lì. Ogni sabato alle otto. Si aggira fra i banchi con una leggera zoppia che usa come un’arma per dissimulare la sua ferocia. Pensi possa essere lento nel muoversi e, invece, appena qualcosa attrae la sua attenzione è capace di scalare degli enormi mucchi di libri con la stessa agilità di un ragazzino. Io ormai lo so, ma tra i neofiti la sua apparente fragilità fa molte vittime. Fragilità? Non sa cosa sia. È duro come il legno stagionato di cui sembra essere fatto. È resistente anche, il maledetto! Non si stanca mai, controlla con pignoleria ogni mucchio e non c’è sabato che a fine giornata non vada via con il suo zaino stracolmo di pesanti tomi. Ho sentito un libraio una volta chiamarlo professeur e un altro Henri. Professor Henri era, quindi, tutto quello che conoscevo del mio avversario, oltre al fatto che era temibile, un vero osso duro, che adora la botanica e la Rivoluzione francese. E che mi sta antipatico. Sembra avere un sesto senso per i libri di botanica. Si tuffa nei mucchi come una donnola dentro la tana di un coniglio e ne emerge sempre con qualcosa fra le mani. Quando ci si incrocia fra i cumuli, sembra sempre che mi osservi con uno sguardo dove si mescolano in parti uguali sufficienza e divertimento. Ci teniamo d’occhio da lontano e normalmente a inizio giornata ci dirigiamo ai poli opposti del mercato alla ricerca di mucchi appena scaricati guardandoci in cagnesco, con la speranza di trovare per primi qualcosa che possa suscitare l’interesse dell’altro. Una vitaccia, ve lo garantisco. “
Stefano Mancuso, La pianta del mondo, Laterza (collana i Robinson / Letture), 2022⁷, pp. 19-20.
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gregor-samsung · 1 year
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“ Mala tempora currunt, ora che tutti scrivono un po’ allo stesso modo? Nulla di nuovo sotto il sole. Non è la prima volta che capita. Basta ricordare quanto agli inizi del Novecento Renato Serra annotava: «Oggi tutti scrivono, in modi diversi, press’a poco la stessa lingua», «romanzi e novelle oramai in Italia hanno realizzato il tipo unico con una felicità da fare invidia ai produttori di vino toscano. Un tipo solo in tre o quattro confezioni». Ma Renato Serra auspicava una prosa raffinata, una prosa d’arte, che trionfò per un po’, e che poi fece il suo tempo. Abbiamo dunque a che fare con la millenaria ricorrente lamentela sul presente che è sempre apparso inferiore rispetto al passato? Apro lo Zibaldone di Leopardi in data 2 aprile 1827 e vi leggo: «disgraziatamente l’arte e lo studio son cose oramai ignote, e sbandite dalla professione di scriver libri. Lo stile non è piú oggetto di pensiero alcuno. […] Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti. […] La sorte dei libri oggi è come quella degli insetti chiamati efimeri: alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre tre o quattro giorni; ma sempre si tratta di giorni». E sul tema si potrebbe raccogliere un vasto florilegio di alti lai. “
Gian Luigi Beccaria, In contrattempo. Un elogio della lentezza, Einaudi (collana Vele), 2022. [Libro elettronico]
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gregor-samsung · 3 months
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“ Le invenzioni e le scoperte portano benefici a tutti. Il progresso della scienza è una faccenda che riguarda tutto il mondo civile. Non ha una vera importanza il fatto che un uomo di scienza sia inglese, francese o tedesco. Le sue scoperte sono a disposizione di tutti e per trarne profitto non occorre niente di più dell'intelligenza. Il mondo dell'arte, della letteratura e del sapere, è internazionale; quel che vien fatto in un paese, non vien fatto per quel paese, ma per l'umanità. Se ci domandiamo che cosa eleva la umanità al disopra delle bestie, che cosa ci permette di considerare la razza umana più importante di qualsiasi specie di animali, scopriremo che non sono cose delle quali una nazione può avere la proprietà esclusiva, ma sono tutte cose che il mondo intero può spartirsi. Coloro che tengono a queste cose, coloro che desiderano vedere l'umanità feconda nel lavoro che soltanto gli uomini possono fare, non baderanno gran che ai confini nazionali e si cureranno ben poco di sapere a quale Stato un individuo deve fedeltà.
L'importanza della cooperazione internazionale al difuori del campo della politica mi è stata dimostrata dalla mia stessa esperienza. Fino a poco tempo fa ero occupato nell'insegnamento di una nuova scienza che pochi uomini al mondo erano in grado di insegnare. Il mio lavoro si basava soprattutto sull'opera di un tedesco e di un italiano. I miei allievi venivano da tutto il mondo civile : Francia, Germania, Austria, Russia, Grecia, Giappone, Cina, India e America. Nessuno di noi era cosciente di un senso di diversità nazionale. Ci sentivamo un avamposto della civiltà, occupati a costruire una strada nella foresta vergine dell'ignoto. Tutti collaboravano all'impresa comune e nell'interesse di questo lavoro le inimicizie politiche delle nazioni sembravano insignificanti, temporanee e futili. Ma non è soltanto nell'atmosfera piuttosto rarefatta di una scienza astrusa che la collaborazione internazionale è vitale per il progresso della civiltà. Tutti i problemi economici, la questione di garantire i diritti della mano d'opera, le speranze di libertà in patria e di umanità fuori, poggiano sulla creazione di una buona volontà internazionale. Finché odio, sospetto e paura, dominano i sentimenti degli uomini, non possiamo sperare di sfuggire alla tirannia della violenza e della forza bruta. Gli uomini devono imparare ad essere coscienti degli interessi comuni dell'umanità che sono identici, piuttosto che ai cosiddetti interessi dai quali le nazioni sono divise. Non è necessario, e neanche desiderabile, eliminare le differenze di educazione, di usi e di tradizioni tra le diverse nazioni. Queste differenze danno ad ogni singola nazione la possibilità di contribuire in modo distintivo alla somma totale della civiltà del mondo. “
Bertrand Russell, Le mie idee politiche. Una guida per orientarsi nelle ideologie politiche di tutti i tempi, traduzione di Adriana Pellegrini, Longanesi & C. (serie ocra, collana Pocket saggi n° 525), 1977; pp. 144-46.
[1ª Edizione originale: Political Ideals, New York: The Century Co., 1917; full text Here]
NOTA: nella prefazione l’autore puntualizza: «Questo libro è stato scritto nel 1917, ma pubblicato soltanto in America. Avrebbe dovuto essere una serie di conferenze, ma il ministero della Guerra lo impedì. Il primo capitolo doveva essere una conferenza da tenersi a Glasgow, presieduta da Robert Smillie, presidente della Federazione Minatori. Poco prima della data fissata per la conferenza il governo mi proibì l'ingresso in quelle che venivano chiamate « zone proibite », tra le quali era compresa Glasgow. Queste zone comprendevano tutto quanto si trovava vicino alla costa, e l'ordine era inteso contro le spie, per impedire che facessero segnalazioni ai sottomarini tedeschi. Il ministero della Guerra fu tanto cortese da dire che non mi sospettava di spionaggio a favore dei tedeschi; mi accusò soltanto di fomentare il disinteresse industriale, allo scopo di por fine alla guerra. Smillie annunciò che avrebbe tenuto la riunione di Glasgow nonostante la mia inevitabile assenza e infatti lesse la conferenza che avrei dovuto tenere io. Il pubblico rimase piuttosto sorpreso dalla differenza dal suo solito stile; ma alla fine, Smillie annunciò di aver letto la conferenza proibita. Il governo aveva troppo bisogno di carbone per agire contro di lui.»
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gregor-samsung · 10 months
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“ L'umanità in quanto tale non può condurre nessuna guerra, poiché essa non ha nemici, quanto meno non su questo pianeta. Il concetto di umanità esclude quello di nemico, poiché anche il nemico non cessa di essere uomo e in ciò non vi è nessuna differenza specifica. Che poi vengano condotte guerre in nome dell'umanità non contrasta con questa semplice verità, ma ha solo un significato politico particolarmente intenso. Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell'umanità, la sua non è una guerra dell'umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario, di un concetto universale per potersi identificare con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L'umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell'imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno. Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all'umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto — visto che non si possono impiegare termini del genere senza conseguenze di un certo tipo — la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev'essere dichiarato hors-la-loi e hors-l'humanité e quindi che la guerra dev'essere portata fino all'estrema inumanità. Ma al di fuori di questa utilizzazione altamente politica del termine non politico di umanità, non vi sono guerre dell'umanità come tale. L'umanità non è un concetto politico e ad essa non corrisponde nessuna unità o comunità politica e nessuno status. “
Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’, saggi di teoria politica a cura di Gianfranco Miglio e di Pierangelo Schiera, Il Mulino (Collezione di testi e di studi / Scienza politica), Bologna 1972; pp. 139-140. (Corsivi dell’autore)
Nota: il volume raccoglie una serie di testi tratti da opere di Carl Schmitt pubblicate fra il 1922 e il 1963 dall'editore Duncker & Humblot, di Berlino.
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gregor-samsung · 11 months
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“ Il poeta John Donne disse che nessuno dorme sul carro che lo porta al patibolo; è altrettanto vero che in tempo di guerra ci sono meno occasioni di sbadigliare (immagino che sia per questo che durante i conflitti bellici diminuiscono notevolmente i suicidi, spesso motivati da una noia ostinata). Ma via via che le società sono divenute sempre più individualiste e i loro membri sempre più egoisti, impegnati a godere di piaceri e di ricchezze sempre più a portata di mano, la guerra ha perduto molto del suo fascino tradizionale. Qualche ritardatario si entusiasma ancora alla notizia di guerre lontane e all'idea della guerra in generale, ma quando la bomba gli cade vicino o gli arruolano il figlio, allora perde tutto il patriottico entusiasmo. La gente non vuole problemi: non è che la pace le piaccia del tutto (c'è sempre un motivo per brontolare e poi, quando le cose vanno bene, ci si annoia), però vuole essere lasciata in pace. Solo nei paesi sottosviluppati, poveri, poco informati, collettivisti per religione o ideologia politica, malati di tribalismo assassino o suicida, si continua a conservare un certo spirito bellico. In quelli più sviluppati, da quando la classe operaia ha realizzato certe conquiste, già da tempo non si parla più di rivoluzioni e di guerre civili. A parte i trafficanti d'armi, i grandi finanzieri di settori industriali molto specializzati e i militari per vocazione (o quelli che senza esserlo, hanno la vocazione militare, che sono i peggiori), il bellicismo non ha più quell'approvazione popolare che prima non gli era mai mancata. Soltanto il nazionalismo estremo, la forma di collettivizzazione mentale più compatibile con l'individualismo moderno (i nazionalisti sono individualisti pudichi, individualisti di gruppo), continua a pompare adrenalina nelle vene di certi dementi ancora capaci di uccidere o di morire con entusiasmo. Ma se la guerra non piace alla maggioranza degli uomini, mi dirai, perché continuiamo a spendere tanti soldi in eserciti, caccia, carri armati e testate nucleari? Non è forse giunto il momento di proibire la guerra, cioè di renderla impossibile, di impedirla? Hai perfettamente ragione, figlio mio. Infatti si tratterebbe proprio di questo, di impedirla: basta lamentarsi e protestare soltanto. “
Fernando Savater, Politica per un figlio, traduzione di Francesca Saltarelli, Laterza, 1993¹; pp. 104-105. (Corsivi dell’autore)
[Edizione originale: Política para Amador, Editorial Ariel, S.A., Barcellona, 1992]
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gregor-samsung · 1 year
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“ Le ondate antiscientiste dipendono, epoca per epoca, da scarse confidenza e dimestichezza con le scienze. È vero che si ha paura di ciò che non si capisce esattamente come abbiamo paura del buio, ma è vero altrettanto che esiste qualcosa chiamato scuola italiana. Il Piano nazionale informatica (Pni), voluto da Franca Falcucci, ministro dell’Istruzione, a metà degli anni Ottanta, era stato pensato per insegnare i rudimenti di programmazione a studenti e studentesse delle scuole superiori. Cosí è stato per molti, e per me. Mi sono diplomata nel 1996 al Liceo Scientifico Leon Battista Alberti di Minturno, indirizzo Pni, sapendo programmare in Pascal, e conoscendo rudimenti di Assembler. La riforma di Letizia Moratti, ministro dell’Istruzione, a circa vent’anni dal Piano nazionale informatica, propagandava – non trovo esatto nessun altro verbo – la scuola delle «tre I». Impresa, Inglese e Informatica (non ricordo in che ordine). In questa nuova idea di informatica, studenti e studentesse, cittadini e cittadine a venire, non erano piú chiamati a programmare ma a conseguire la Ecdl (European Computer Driving Licence), dunque a imparare l’utilizzo di un pacchetto applicativo. Imparare a essere utenti consapevoli. Utenti e non programmatori. La riforma Falcucci e quella Moratti sono antipodali rispetto all’idea di istruzione e, in fondo, anche a quella di cultura. Nella proposta Falcucci, la teoria e la prassi dell’informatica si compenetrano e si rafforzano. A scuola si impara cioè che teoria e prassi non hanno differente natura e, dal punto di vista culturale, il principio che passa è che alla cultura si partecipa. La cultura non è intoccabile, altra e irraggiungibile, la cultura è fatta da chi e con chi vi partecipa. La scienza stessa è cultura, e dobbiamo lavorare perché questa coscienza la abbiano tutti. Gli studi scientifici hanno sbocchi tecnologici, l’avanzamento tecnologico richiede studi scientifici, e si impara dunque, giorno per giorno, che la tecnologia non coincide con i dispositivi. L’indirizzo della riforma Moratti è diverso, l’effetto è quello dei signori viaggiatori divenuti gentili clienti negli annunci sonori sui treni. Il fine appare non tanto la comprensione e il contributo del singolo, ma il completamento di un percorso volto a ottenere un titolo, un marchio, un bollino (torniamo al discorso sulle merci). Partecipare o ricevere, pensare di poter contribuire o non pensarci affatto. Giocare o eseguire. Esercitarsi a capire o trovare la soluzione. Cercare la soluzione o avere ragione. Esseri umani considerati viventi o merci non viventi. Ha vinto la riforma Moratti. “
Chiara Valerio, La tecnologia è religione, Einaudi (Collana Vele, n° 208), marzo 2023; pp. 45-47.
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gregor-samsung · 1 year
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“ Il più nobile (almeno dal punto di vista letterario) tra gli uccelli urbani è senz'altro il passero solitario. Quest'uccello, ignorato da tutti nonostante il meraviglioso canto del Leopardi, non ha nulla a che vedere con gli invadenti passerotti che popolano le vie e i tetti delle città. Si tratta di un uccello dalle dimensioni di un merlo, con uno splendido colore blu lavagna lavato di chiaro sulla testa e sul collo, ospite abituale delle rocce mediterranee che lascia volentieri per i ruderi e i monumenti cittadini. Il suo canto è melodioso e bellissimo: «sonoro e musicale», «simile a flauto», lo definiscono gli ornitologi, e trae maggior fascino dal fatto che viene emesso dall'alto di un tetto o di una torre dove «cantando va finché non more il giorno». Giacomo Leopardi, finissimo ornitologo oltre che sublime poeta (una qualità rara nei nostri intellettuali), dovette più volte osservare e ascoltare quest'azzurro cantore nella natia Recanati. E ancor oggi sulla torre «del passero solitario», in quella città, l'uccello nidifica tranquillo e canta come allora. Naturalmente, nessuno lo sa, nessuno se ne accorge, convinti che il passero sia stato una pura invenzione poetica. E così, a domandar di lui sul posto, addirittura sotto la torre, ben indicata da turistici cartelli gialli, tutti ti guardano con un misto di derisione e di sospetto. Mentre lassù, tra i mattoni corrosi e i cespugli rinsecchiti, lui, il solitario, scioglie al vento e sulle campagne circostanti il suo vibrato canto d'amore. A Roma è comune un po' ovunque. Per udirne il flautato canto occorre andare, a Ferragosto o Pasquetta, quando i rumori del traffico si placano, sulla piazza del Campidoglio. Da lì potrete vederlo o sulla torre del Comune o sulla cima del monumento a Vittorio Emanuele. “
Fulco Pratesi, Nel mondo degli uccelli, Laterza (collana I Robinson), 1983¹; pp. 173-174.
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gregor-samsung · 10 months
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“ «Ben altro è il cantare la Luna, che il mettervi il piede sopra come si è fatto il 20 luglio del 1969» scriveva un illustre fisico, Giorgio Salvini, inteso a mostrare la supremazia del fare e della tecnica sul sognare della poesia. Gli rispondeva un poeta, Giorgio Caproni: «altro è il cantare Laura, regalandoci per tutto frutto il Canzoniere, e ben altro è l’essere riusciti a conquistarla e ad andarci a letto»*, e sottolineava come i tecnici abbiano spesso una concezione distorta della poesia. Come se il poeta fosse il distratto perdigiorno che di notte canta la luna e le stelle... Ma anche se cosí fosse, che male c’è? Anzi, non c’è che bene, perché occorre con Caproni continuare a chiederci se conta di piú la luna sulla quale l’uomo ha messo piede con una navicella metallica, o conta la luna nella mente e nel cuore dell’uomo. Osservava George Steiner (seppur con qualche punta di estremismo) che [...] pur possedendo un fascino inesauribile e una bellezza frequente, soltanto di rado le scienze naturali e matematiche hanno un interesse definitivo. Esse cioè hanno aggiunto poco alla nostra conoscenza o al dominio delle possibilità umane; c’è maggior penetrazione del problema dell’uomo (e lo si può dimostrare) in Omero, in Shakespeare o in Dostoevskij, che in tutta quanta la neurologia o la statistica. Nessuna scoperta della genetica eguaglia o supera ciò che Proust sapeva del fascino o del fardello della discendenza; ogni volta che Otello ci ricorda la ruggine di rugiada sullo stelo lucente abbiamo un’esperienza maggiore della realtà sensuale e transeunte in cui deve trascorrere la nostra vita di quella che la fisica ha il compito o l’ambizione di comunicare. Nessuna sociometria dei moventi o delle tattiche politiche è piú importante di Stendhal**. “
* G. CAPRONI, Poesia e scienza: si può ancora cantare la Luna, in «Tuttolibri», 6 giugno 1987.
**G. STEINER, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano [1958], Garzanti, Milano 2001, pp. 18-19.
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Gian Luigi Beccaria, In contrattempo. Un elogio della lentezza, Einaudi (collana Vele), 2022. [Libro elettronico]
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gregor-samsung · 7 months
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" I neocons si formano nella “Nuova Gerusalemme” della diaspora ebraica a New York City, la Lower East Side di Manhattan. Dallo shtetl alla Jewtown, dallo yiddish all’inglese, in un contesto bianco-anglosassone-protestante (Wasp) carico di veleni antisemiti, il passo è lungo. Fra i giovani figli o nipoti di immigrati si forma una esigua quanto ipercombattiva élite intellettuale marxista e filobolscevica che si batte per affermare il socialismo in America e nel mondo. Di quella New York si diceva fosse la città più interessante dell’Unione Sovietica*. Nel City College della metropoli gli squattrinati giovani destinati a formare la spina dorsale del neoconservatorismo a venire frequentano l’odorosa caffetteria studentesca occupandone l’Alcove 1, fortilizio dell’avanguardia trozkista in dissidio con la maggioranza stalinista, che governa l’Alcove 2. Durante la Guerra fredda, le origini ebraiche e comuniste di molti neocons li renderanno sospetti agli occhi di paleoconservatori e repubblicani mainstream anche dopo che il presunto tradimento sovietico dei loro ideali li avrà spinti verso un bellicoso anticomunismo associato al sostegno di principio per Israele, per niente scontato nell’America degli anni cinquanta. Dall’antistalinismo all’avversione totale per il comunismo, dalla contestazione all’adesione al sistema, contro le derive moderate e compromissorie di liberals e appeasers disposti al dialogo con i tiranni rossi, i neoconservatori già trozkisti faranno sentire la loro voce nel dibattito pubblico del dopoguerra. Nell’accademia come nei media alternativi e nelle anticamere del potere, eminenti neocons quali Leo Strauss e Irving Kristol, Max Schachtman e Irving Howe, Richard Perle e Kenneth Adelman, fino a Douglas Feith e a Paul Wolfowitz, influente vicesegretario alla Difesa sotto George W. Bush, avranno modo di promuovere il globalismo democratico. Fine della storia. Mai come strutturata corrente politica o intellettuale, sempre al loro combattivo, lacerante modo. Il moto perpetuo della rivoluzione come fine in sé – comunista o anticomunista – impedisce di superare lo stadio delle connessione informali, esposte a litigi pubblici e odi privati, conversioni e apostasie. Fino al disastro iracheno, che nel primo decennio del secolo marca il tramonto del neoconservatorismo di governo. Non del movimento. In attesa della prossima alba. Perché in America profeti e crociati non muoiono mai. "
* Cfr. J. Heilbrunn, They Knew They Were Right: The Rise of the Neocons, New York-Toronto 2009, Anchor Books, p. 27.
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Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli (collana Varia), novembre 2022. [Libro elettronico]
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