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#racconti brevi
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'900 - di Gianpiero Menniti
STAR SYSTEM
Spirito competitivo. Vanità. Ma il fascino non è mai generato dalla "quantità".
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scampoliditesto · 10 months
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L’Incompreso
Da ragazzo mi sentivo incompreso. Mi rendevo conto di dire spesso cose che non interessavano ai miei coetanei, oppure di ascoltare dischi che venivano rimossi dal piatto con una smorfia dolorante, come se l'ascoltatore si fosse schiacciato i coglioni sedendosi malamente sulla sella di un motorino truccato. Ma l'apice del disagio lo ho raggiunto tre anni fa nel reparto cessi di Villa. In pratica, ero lì con Laura e stavamo scegliendo il bidet per la casa nuova. Io facevo prove approfondite, mi accovacciavo sui sanitari esposti, li riposizionavo nello showroom, mimavo con la mano il gesto di portare il miscuglio di idrogeno e ossigeno verso il culo sagomato da anni di libri e videogiochi. «Ho il femore troppo lungo!» dicevo a Laura. «Ci cacciano via!» ringhiava, malcelando l'imbarazzo in una smorfia divertita. Allora io mimavo con l'indice destro la distanza tra muro e ano, non credo ci sia un termine tecnico, una quota standardizzata vitruviana, insomma, introducevo questa misura a supporto del fatto che avessi le gambe troppo lunghe e che, quindi, da seduto parte del culo sarebbe uscita dal bidet. «Lo voglio stondato e attaccato al muro: fa cagare ovale e con i tubi a vista.» Questa era la risposta che ottenevo in cambio di complessi ragionamenti trigonogometri. E quindi dicevo che no, lo spazio non si può comprimere, cioè magari si può andando alla velocità della luce, però, ecco, non è che per lavarmi il culo io possa ogni volta compiere un salto nell'iperspazio. E dopo discussioni estenuanti, una specie di trattativa tra lei, signora, e io, ambulante affaticato sotto il sole, la spunto. La spunto sulla forma ma il prezzo da pagare è quello di scegliere un bidet che aderisca perfettamente al muro e non lasci intravvedere all'occhio umano tubi, manicotti e leveraggi.
E insomma, racconto questo per dire che oggi mi sono fatto il bidet e dopo che ho finito, tiro la levetta per far defluire l'acqua e si rompe. Tuc. Tuc, fa l'asticella cromata e io la guardo mentre sono seduto a cavalcioni del trabicolo di porcellana. Fisso il muro, poi il pernetto, e infine abbasso lo sguardo e vedo il piccolo specchio d'acqua sotto le mie cosce. Quindi mi alzo, impreco e comincio ad aggeggiare con le dita sul tappo per provare a rimuoverlo dalla sua sede, sede rifinita in maniera millimetrica, nemmeno fosse l'ingranaggio di un Rolex. Dopo dieci minuti mi arrendo. Mi arrendo e corro in cucina. Apro un cassetto ed acchiappo un coltello e torno nel bagno con la speranza di poter usare la lama per far leva sul tappo. Mi tuffo nell'acqua ma l'acciaio è troppo spesso: non ci passa. Il tappo rimane al suo posto, fiero del suo ruolo, una specie di oligarca in un mondo di porcellana e sa-la-madonna quali resti della mia umana ingegneria.
Dopo aver provato una teoria di oggetti, cito a memoria, un cacciavite, uno stuzzicadenti, la lama di un cutter e la tessera della Coop, mi cade l'occhio verso il lavandino. Vedo la soluzione. La vedo e mi compiaccio, addirittura ringrazio dio di avermi fatto scienziato, di avermi donato la possibilità di avere idee utili per tutti tranne che per me stesso. Glu, glu, glu. L'acqua defluisce! Acchiappo con due dita il pistone che dovrebbe alzare il tappo e dare una via di fuga all'acqua e lo tiro. Basta pochissimo e tutto ritorna a funzionare per la gioia del Signor Pozzi e del suo socio Ginori.
Esattamente quattordici ore dopo, sono seduto al Mac che lavoro. È tardi, non so più cosa fare per arginare le scadenze, in pratica sono assorbito dal fallimento professionale quando sento urlare. «Carolina, lavati i denti!» sbraita Laura. «Non posso!» «L-a-v-a-i-d-e-n-t-i!» «Ma come faccio?» urla l'Exogino con parte del mio DNA. «Ho detto che ti devi lavare i denti!» «Non trovo lo spazzolino.» E quindi inizia una rissa madre e figlia, una roba tipo tour dei Genesis quando Phil Colins e Bill Bruford se le suonano sulle note di The Cinema Show. Laura usa l'arma finale: «Adesso viene tuo padre!» Mi alzo sapendo che, ogni volta che vengo invocato, la mia autorevolezza diminuisce, come se il mio essere padre fosse regolato da un'immaginaria barra di energia che niente e nessuno può ricaricare. 
Effettivamente, Carolina ha ragione. Mentre mi gratto il mento ammetto, facendo finta di niente, che lo spazzolino non è più disponibile. «Più?» dice Laura «Più,» dico io. Per chiudere subito la questione, dico che aveva le setole rovinate, anzi, rincaro la dose e aggiungo che bisogna insegnare a nostra figlia a non masticare lo spazzolino. Ma Laura dice che era nuovo, che era diventata scema a trovarlo a forma di giraffa azzurra. «Lo avevo lasciato appiccicato allo specchio, pa'» dice mia figlia. «Proprio qua,» fa Laura indicando l'alone circolare. Mi vedo riflesso nello specchio e capisco di essere spacciato. Ma poco prima di darmi per vinto, mi ricordo di un tizio con cui ho lavorato. Mi ripeteva sempre: "Luca, bisogna sempre dire la verità, perché la verità può essere aggiustata." Allora "aggiusto" il corso degli eventi e, guardando madre e figlia, dico che è successo un incidente e che ho dovuto buttare via il simpatico dispositivo odontoiatrico dotato di ventosa. «Sei un mostro» urla Carolina. «Sei impazzito?» fa coro Laura.
Balbetto e dopo qualche istante ammetto che mi serviva per risolvere un'incomprensione del passato. E quindi spiego alla mia famiglia che non riuscivo a stappare il bidet e che ho usato la ventosa piazzata sul culo dello spazzolino per afferrare il tappo sepolto da acqua e residui pubici. Dico che lo ho fatto a fin di bene, insomma, che lo ho fatto solo nella speranza di tirare via il tappo dalla sede, dalla sua cuccia pure troppo perfetta per quanto ci è costata. «Domani risolvi questa storia» dice Laura. «Come sempre,» dico io mentre vedo madre e figlia che si allontanano senza salutare.
La mattina successiva, giro mezza Genova per cercare uno spazzolino con ventosa. Alla fine lo trovo e, anche se costa una cifra folle, lo pago e lo porto a casa. «Non mi piace,» fa Carolina e aggiunge «ormai sono grande, uso questo» e intanto brandisce un affare di plastica con sopra scritto OralB. Allora ripongo lo spazzolino nel posto segreto dove tengo il mio senso di incomprensione e tutti gli aggeggi che mi ricordano che, alla fine, ho sempre ragione.
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crisaore · 1 year
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Il capriccio di Alice
La delicata mano di Alice spostò il pesante tendaggio che celava la finestra. La luce artificiale dei palazzi irradiò la sua esile figura avvolta da un dolcevita nero e dei fuseaux del medesimo colore, brillando sui sottili capelli raccolti con uno chignon. Gli occhi della donna sovrastavano la città, percorrevano le strade notturne i cui bagliori lampeggiavano riflessi nel nevischio, fino a fermarsi sulla ruota panoramica che regalava agli avventori una vista incantevole dei viali alberati brulicanti di gente. Sorseggiava un bicchiere di vino rosso che ne ammorbidiva e ovattava i pensieri. Lo sguardo non aveva indugiato a caso sul luna park. Raggiunta l’attrazione principale, si era ancorato come un’asse di legno intrappolata da un morsetto da falegname e non si era più schiodato. Tre anni prima, dopo un giro su quella giostra iniziò il calvario dal quale ancora non si era ripresa. Scese dalla pedana e senza alcuna avvisaglia svenne, nell’incredulità generale. Gli accertamenti che ne seguirono evidenziarono il contagio di un batterio molto aggressivo che ne fiaccò il fisico e la voglia di sorridere. Passò dall'essere una ballerina in tour nei migliori teatri del paese, al fare solo tappe negli ospedali debitamente bardata di mascherina. Fu in quel contesto, in una sala d’aspetto, che incontrò Buck, un uomo che aveva perso la vista in seguito a un grave incidente. «Capriccio n. 5 di Paganini. È raro sentirla come suoneria, dev’essere un’intenditrice» disse l’uomo dopo aver udito Alice terminare una telefonata. Lei sorrise. «Già, così come è raro che qualcuno la usi per attaccare bottone. Piacere, Alice. Lei?» «Buck. Mi perdoni se le sono sembrato indiscreto» ribatté imbarazzato. «Niente affatto. Sa, la musica mi estrania dal mondo, fa sbiadire i problemi e colora con tinte vivide solo ciò che ho di bello nella vita. Chopin, Paganini, Vivaldi mi fanno sognare. È bello poterne parlare a un altro amante del genere». Buck annuiva coinvolto: «Sono d’accordissimo con i suoi pensieri! La musica è quel balsamo che lenisce i malumori e li sostituisce con candore e serenità». Dopo quel primo scambio di battute, i due intavolarono un discorso condito di ricordi e melodie. Scoprirono che Alice aveva danzato in un teatro in cui Buck si era esibito e questo piccolo particolare costituì un punto di svolta. Prima dell’incidente, Buck aveva potuto ammirare quella donna e ne aveva ancora l’immagine impressa negli occhi. La grazia e la passione che emanava con le sue movenze l’avevano incantato. Lui però si sentiva solo un violinista qualunque di un’orchestra qualunque, mentre lei era un astro in ascesa, così non ebbe il coraggio di presentarsi. C’era molto di cui discorrere, così a quell’incontro fugace ne seguirono altri e contribuirono a creare armonia. Buck rispolverò il violino per allietare la sua musa e le promise che le avrebbe composto un pezzo per renderla immortale. Doveva essere una sinfonia su cui poteva sognarla danzare con l’abito viola, con cui la ricordava. Inizialmente Alice si comportò da mamma chioccia, prodiga di protezione per il suo pulcino, ma Buck le fece comprendere di aver bisogno solo che lei si sciogliesse come avrebbe fatto con chiunque altro. Questo permise loro di gustare ogni secondo insieme e la donna tirò fuori quella forza che giaceva sopita in lei. I fiocchi di neve cominciavano a cadere più numerosi. Alice guadagnò il divano continuando a sorseggiare vino. Ciondolava la testa a ritmo del 𝑪𝒂𝒑𝒓𝒊𝒄𝒄𝒊𝒐 𝒑𝒆𝒓 𝒄𝒖𝒐𝒓𝒊 𝒗𝒊𝒐𝒍𝒂; l’ascoltava in loop. Buck ci era riuscito. Si percepiva l'amore per la musica, delizia per l’immaginaria danza di un’ex ballerina; il romanticismo dei dettagli evidente dal titolo, unione dei particolari dei loro primi due incontri; la malinconia di un uomo che stava morendo. Buck se n’era andato da un paio di mesi. In realtà gli ospedali li frequentava per una patologia che adagio adagio lo consumò. L’animo di Alice accusò il colpo e, come le sue gambe, non fu più in grado di sostenere il peso delle sofferenze. La donna finì per galleggiare sospesa, trafitta e allo stesso tempo cullata dalle note del violino. Annebbiata, posò il vino e si addormentò sul sofà affondando tra le lacrime e i rimpianti di ciò di cui, ancora una volta, la vita l’aveva privata.
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Sempre più in alto
Lei era appollaiata su quel muretto. Proprio sul margine di una primavera appena accennata, gialla di sole e di parole sparpagliate. Si guardava intorno combattuta tra l’esitazione di spiccare il volo verso l’incerto, e la paura di restare immobile e attendere. Ferma su quel muretto consapevole che l’attesa non era la scelta migliore, ma l’alternativa… poi si accorse che lui si stava avvicinando.
Lo aveva notato subito, mentre gironzolava attorno a lei con una indifferenza sintetica e sfrontata. Lo aveva visto avvicinarsi da lontano, quando era una sagoma appena accennata, eppure come se avesse già una sua presenza percepibile e concreta.
Era carino.
Non fu un pensiero esplicitò che si manifestò dentro di lei, e certo non voleva subito ammetterlo a se stessa, ma lo comprese nel momento stesso in cui capì di aver scelto l’alternativa di restare, di restare ferma su quel muretto aspettando che la vita seguisse il suo corso anche oltre la sua volontà di scegliere. Lui effettuò un altro giro, sempre più concentricamente vicino a lei, poi superò ogni titubanza e si fermò sul muretto accanto a lei.
Illuminata dai raggi del sole lei era bellissima.
Eccolo, è qui accanto a me. Ma lei girò il capo in direzione opposta fissando il vuoto sempre più denso di emozioni e ansie. Non si mossero. Esistono degli attimi che sono solidi tanto è possibile scandirli in tutta la loro prolungata istantaneità. Quelli furono tali. Prolungati, lenti e delicatamente dolci.
Lei però era voltata verso il niente e fissava l’inesistente. Quasi lui non ci fosse. Ma ormai era risoluto. Concentrò tutte le sue energie vitali in un punto della mente trasmutandole in intraprendenza, circumnavigò il suo corpo e si pose accanto a lei dal lato dello sguardo.
Se lei avesse di nuovo girato lo sguardo sarebbe stato un rifiuto definitivo. Non poteva farlo. Non voleva farlo e non lo fece. SI guardarono finalmente negli occhi. Avresti giurato che si sorridevano.
Lei batteva le palpebre nervosamente. Lui avrebbe voluto parlarle, ma non poteva. Avrebbe voluto prenderle la mano ma non aveva mani per farlo. SI limitò a emettere un cinguettio garrulo rimodulato in armonia con l’essenza dell’universo. Lei rispose con un cinguettio sincopato e irresistibile.
Si sollevarono in volo insieme, muovendosi in una nuvola profumata di suoni primaverili. Sotto di loro il mondo era sempre più distante. Le parole sparpagliate si affievolivano, e quelle sagome brulicanti erano sempre più piccole, minuscoli batteri voraci e corrosivi troppo impegnati a divorarsi reciprocamente per avere il tempo di alzare la testa e osservare il loro volo.
Sempre più distanti, sempre più inutili, sempre più inesistenti,
E loro volavano sempre più in alto.
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seyekanes · 1 year
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codicedellanima · 2 years
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Qualche mese fa avevo cominciato a scrivere un racconto, mi aveva ispirato una canzone ma come succede con molte storie, a volte non sono destinate ad avere una fine. Ad un certo punto la storia mi ha abbandonata ed è quello che ne è rimasto ho deciso di condividerlo. Avevo molta paura ma ho deciso di buttarmi quindi, ve la lascio qui di seguito:
《Era uno dei periodi migliori.
Avevo commesso uno dei peggiori crimini che potessi commettere: mi ero innamorata. Ma in uno dei periodi sbagliati, avevo un'ombra cattiva che mi perseguitava, mi diceva che non era per me.
Avevo bisogno di una motivazione. Una motivazione per lasciarla. Per abbandonarla. Mi stava intossicando la vita. Avevo anche il mio ex che voleva rientrare nella mia vita, ma quella è una storia che forse vi racconterò un'altra volta.
È stata l'estate che ricorderò con più piacere e nostalgia di sempre. Mi sono sentita amata e desiderata come non mai. Adoravo quella sensazione, ne potevo diventare dipendente ma in fondo sapevo che non sarebbe durata molto. T. era il tipo di uomo che dava tutto per la propria donna, non faceva altro che cercare di mettermi a mio agio e a non farmi sentire fuori posto. Non ero abituata a tutte queste attenzioni, a volte mi rendevano anche insopportabile. Ricordo che volevo ricambiare in qualche modo ma non ci riuscivo. Avevo delle crisi. Non mi sentivo all'altezza. Mai. In nessun caso. E c'era da dire che quella con T. è stata la mia prima relazione non tossica che abbia mai avuto, ma quando la vivevo non me ne rendevo neanche conto. Ero troppo concentrata a pensare che non fossi all'altezza e che non fossi abbastanza perfetta per lui. Facevo sempre la figura dell'egoista infantile e di quella che non sa godersi le cose, che pensa sempre al peggio o che vede sempre il lato negativo delle cose. La tipa che si fa mille problemi e che si dà mille arie di superiorità (ma quando mai?) Io non ero così, ero solo super timida e Insicurezza poteva diventare il mio secondo nome.》
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il-pipistrelloh · 2 years
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Le fidanzate delle Rockstar non parlano al microfono
"Molte donne sono attratte da uomini di potere", mi dice Claudia con l'aria di una psicoanalista in libera uscita. Siamo nei bagni della scuola, lei sta fumando una sigaretta mentre io mi costringo ad annaspare nel cubicolo stretto del gabinetto. Chissà perché poi. Forse per avere un po' di compagnia, per mettermi alla prova o per sentirmi dire che non sono matta. Ho 15 anni e mi sono innamorata di uno di quei ragazzi che in ogni situazione ha sempre tutto sotto controllo, di conseguenza per me non ha mai tempo, forse neanche per se, ma questo non gliel'ho mai chiesto. Claudia è rimasta una delle poche a non aver sentito questa storia un milione di volte e il suo verdetto è il seguente: ti piace perché è un uomo di potere. Sì forse è vero. Leggermente da rivedere la definizione di 'uomo' e di 'potere' ma concettualmente vero. Sentivo che il mio posto poteva essere solo accanto a una persona in controllo, perché l'essere degna di rientrare in quel suo ordine mi elevava a cosa importante. In me stessa sarebbe stato riconosciuta quell'autorità e serietà che tanto desideravo, ma in realtà, sotto sotto, già possedevo e desiderava disperatamente di essere vista.
Crescendo mi ero quasi scordata questa storia degli uomini di potere, passando a desiderare ragazzi più idealisti o borghesi wannabe e qualche volta - se mi sentivo particolarmente spericolata - addirittura qualcuno che mi ricambiava. Finchè una sera di recente non ho incontrato lui: La Star. Proprio quello che or ora occupa le fantasie di tutte, le mie incluse. Ammetto che era da un po' che ce l'avevo di nuovo su con le star. Brillanti, sorridenti, artisti alla comoda portata di un click, l'impegno emotivo che ci metti è pari a quello che ricevi indietro e comunque se non ti ricambiano ha perfettamente senso, non vi siete mai visti! Così quando ti ho incontrato ruotava tutto intorno a te, a te, e a me, che venivo vista da te, concretamente, nel mondo reale, per la prima volta. A metà tra il sogno realizzato e un'intrusione nelle mie fantasie. Uno scontro fortuito, un sorriso imbarazzato e quattro parole scambiate con il coraggio di un'ubriaca.
Poi ho visto lei. Ed è stato solo un attimo. Una scia di maniche di pelle nera troppo lunga per essere una sola e i capelli mossi al termine. Eccola, quella che tutte vorrebbero essere lei. Ma cos'è lei? C'è questa domanda che mi sveglia, mi destabilizza. Lei è la donna dell'uomo di potere, cioè secondo tutti i pronostici quella che vorrei essere io. Solo che dopo aver visto questa scena non ne potrei essere meno certa. Un braccio senza volto e senza nome tirato in mezzo alla folla. È questo che si ottiene da questo genere di relazione?
Tea Hacic, scrittrice, regina della notte e punkabbestia di professione, parla nel suo podcast del fenomeno delle groupies anni '60/'70: donne che volevano la fama e che non essendo autorizzate ad ottenerla si limitavano a starle vicino per adorarla. Se non puoi essere tu la rockstar puoi almeno provare a conquistarne una, o se ti senti particolarmente in gamba, anche due o tre. Così la loro aura scintillante ti avvolgerà, ne mangerai una fetta e con un pizzico di fortuna sarai un'icona accanto a una vera Star.
Ma non comunque la Star.
La ragazza della star non è tutto questo - penso - tutte vorremmo essere lei ma a lei non interessa essere noi. E a me, vi giuro, non basterebbe essere lei. Uso il termine 'bastare', perchè quello che c'è fra quei due non è una qualche forma di arrivismo, è semplicemente amore. Amore, fiducia incondizionata, quella cosa che essere un braccio trascinato da una mano ti basta e non chiedi altro, perché quel contatto ti sta dando da mangiare. Come me, a 5 anni, afferrata per il braccio durante un gioco al villaggio turistico, che mi faccio trascinare da mia madre senza neanche pensare a camminare. Mi stava slogando il polso. Non era quello che importava.
Essere felici per amore è facile, quanto ammettere di desiderarlo. Ma se ti rendi conto che non è quello che vuoi, allora lì si che sono guai. Ero presa dalla chiara convinzione che stare vicino a un uomo importante significasse in qualche modo avere il permesso di crearlo e ricevere lo stesso in cambio. Dai la fama, prendi la fama, alimenta il potere, ricevi il potere. Mi sembra di capire che non è questo l'amore, però è questo che voglio.
Dopo l'incontro con la fidanzata e la sua rockstar ho pensato spesso alle parole di Claudia, alle donne che scelgono i loro prodotti di bellezza dagli scaffali. "Molte donne sono attratte dagli uomini di potere". Molte donne sono attratte dal potere.
il-pipistrelloh
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L'Avventura di Alice e la Voce della Notte
Una sera d’estate, mentre il cielo si tingeva di sfumature arancioni e rosa, Alice camminava lungo la spiaggia deserta. Aveva appena compiuto vent’anni e sentiva l’aria fresca del mare carezzare dolcemente il suo viso. Era una serata speciale, pensò, perfetta per un’avventura. Mentre scrutava l’orizzonte, un oggetto brillante catturò la sua attenzione. Si avvicinò curiosa e si accorse che si…
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seminostorie · 23 days
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Luna
“Hey, Luna, ma qui parlano di te! Ascolta…”
Luna e Maria si sono incontrate per caso. Una domenica di giugno, più o meno intorno alle sette, Maria si recò al parco per fare una passeggiata: fu allora che sentì quel miagolio gentile provenire da sotto una siepe. Si avvicinò e una palletta nera le venne incontro con la codina all'insù. Come nei migliori video di Instagram, Maria pensò: “Cat distribution system finally chose me!” E andò proprio così. Portò a casa il micino, gli fece un bagnetto e gli diede un po’ di carne in scatola (ovviamente, non aveva in casa tutto l’occorrente per occuparsi di un gatto!). Poi, prima di portarlo dal veterinario, lo guardò con attenzione e si accorse che era una bellissima femminuccia. “Ti chiamerò Luna!” Scelse quel nome perché la gattina non era totalmente nera, ma aveva un curiosa macchia bianca sul petto, che ricordava proprio una mezza luna. Erano passati sette/otto mesi, quel pomeriggio pioveva a dirotto. Maria stava studiando per un progetto del dottorato in storia, mentre Luna poltriva tranquilla sul divano. In un libro sugli usi e i costumi medievali, Maria lesse del destino riservato ai gatti neri. “Hey, Luna, ma qui parlano di te! Ascolta: nel medioevo, i gatti neri erano associati al diavolo e, spesso, nascere gatto nero significava andare incontro alla morte. Tuttavia, bastava anche solo una macchia di un qualsiasi altro colore per risparmiargli la vita. Curioso è il caso dei gatti neri con una macchia bianca sul petto. Quella macchia, infatti, prendeva il nome di “macchina della Madonna”, perché si credeva che fossero stati benedetti, e quindi salvati, dalla Madre di Dio.” La guardò: “Lo sapevi?” - chiese. “Miau!”- rispose Luna, ribaltandosi sul divano.   
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'900 - di Gianpiero Menniti
SCELTE
Gentilezza.
Gesto quotidiano.
Senza scopo.
Senza fini nascosti.
Solo la libertà di poter essere gentile.
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gregor-samsung · 5 months
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“ Eravamo nell'atrio, tutto rivestito di capelvenere. Dinnanzi m'era lo scenario che godevo da un mese e che mi sembrava di vedere ogni giorno per la prima volta. Il declivio verde di aranci, costellato di frutti d'oro, poi l'azzurro del mare, l'azzurro del cielo; e su quell'orizzonte a tre smalti diversi, i piú divini modelli che l'arte dorica abbia, col Partenone, tramandato sino a noi. Il Tempio della Concordia, e vicino il Tempio d'Era con la sua fuga di venti colonne erette e di venti colonne abbattute, e, piú oltre, il Tempio d'Ercole, ossario spaventoso della barbarie cartaginese, meraviglia ciclopica tale che la nostra fantasia si domanda non come sia stato costrutto, ma come sia stato abbattuto; e oltre ancora il Tempio di Giove Olimpico, il Tempio di Castore e Polluce: tutte le sacre rúine che Agrigento spiega a sfida tra l'azzurro del cielo e del mare, ecatombe di graniti e di marmi che sembra dover ricoprire tutta la terra di colonne mozze o giacenti, di capitelli, di cubi, di lastre, di frantumi divini. Ma dinnanzi a noi era quello che Miss Eleanor chiamava «il mio tempio», il tempio di Demetra, eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l'unico intatto fra dieci altri abbattuti, l'unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno. — No, amico mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a noi.
Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra «i monumenti infernali dell'idolatria» per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell'invasione saracena. E l'edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel colossale Tempio d'Ercole che forni materiale per tutti i porti nel Medio Evo! Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia, abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l'architrave, meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe tagliavano, le vanghe scalzavano i capolari alle basi. E le moli precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare le terra. Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i polipi di Porto d'Empedocle. — Cose da invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori. — Il gregge! Il gregge dell'Abazia! — Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, — il gregge dell'Abazia! Guardate che incanto! Dall'interno del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d'improvviso due, trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla fresca penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s'affaccendavano con i cani per adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s'attentavano a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao, protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori le prendevano tra le braccia, passandole dall'uno all'altro, tra l'abbaiare dei cani. “
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Brano tratto dal racconto di Guido Gozzano Alcina, pubblicato per la prima volta sulla rivista culturale milanese L’illustrazione italiana il 26 dicembre 1913.
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scampoliditesto · 10 months
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Titan 750
La cosa più vicina al sottomarino Titan in cui sono stato è la Panda di Count. Raffreddata ad aria, aveva una perdita d’olio proprio sopra al raccordo tra motore e condotto che portava alla marmitta. Ogni goccia veniva nebulizzata dalla temperatura infernale e convogliata, attraverso la bocchetta d’areazione al centro del cruscotto, dentro l’abitacolo. In pochi giorni, il parabrezza era stato ricoperto da una patina nera e l’atmosfera all’interno dell’incubo bianco era sempre malmostosa, rovente e malsana. Per ovviare al malfunzionamento, Count cercava di mantenere una velocità di crociera costante, velocità che garantiva al motore un flusso d’aria sufficiente a non farci prendere fuoco. Apparentemente, la contromisura sembrava innocua e sicura. Peccato che Count, in breve tempo, maturò uno stile di guida che creava raccapriccio nei poveri passeggeri. Sì, andava al massimo a 60 km/h, ma lo faceva in ogni occasione: la velocità era sempre quella, sia che stesse uscendo da un parcheggio, imbroccando una rampa elicoidale, percorrendo una rotonda o attraversando un incrocio con il giallo lampeggiante alle 5 di mattina.
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moscanna · 27 days
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Amarsi, racconto di una conversazione interiore, 2012
-Amarsi- Racconto di una conversazione interiore . “Ruggine e ossa”, vedo questo film e si ferma tutto; il fiume di lava che scorre brucia, consumando il terreno e si solidifica. Scossa e pietrificata nello stesso tempo. I pensieri, veloci, si rincorrono per divorarsi uno con l’altro. Non guardo il cellulare non voglio sapere se ha chiamato, se ha scritto, se mi aspetta, cosa ha da dirmi, se ha…
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sognosacro · 6 months
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Una volta ho sognato che stavo ascoltando musica con il mio vecchio ipod e te ti sei interessato a me perché ero l'unica persona tranquilla tra la folla.
Ti sei avvicinato e mi hai chiesto qualcosa che non ho sentito e sei andato a prendere il bus.
Io sono salita sul mio incerta di quello che era appena successo.
Ero seduta nel corridoio ad ascoltare musica e ti sei avvicinato con il tuo ipod.
Ce lo siamo scambiati per un periodo.
Io ascoltavo il tuo e te il mio.
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Conchiglie
Quattro piccole conchiglie polverizzate da una suola di scarpa maschile, rumore, tanta polvere, sapore incombente di sangue.
Lungomare di una città mediterranea, è mattina, un grande mercato affollato, bazar di oggetti artigianali e tante bancarelle colme di conchiglie bellissime, enormi variopinte, creature di un mare che appartiene alla mitologia. Un’orda di turisti senza senso deborda oltre gli argini dello spazio fisico, rimbalzando da un souvenir all’altro senza una direzione. Tutti ammirano estasiati le conchiglie, le comprano, borse piene di oggetti in lizza per essere definiti ricordi di una bellissima vacanza. Poco distante da a una di queste esposizioni multiformi, seduta sul gradino più basso di un piccolo portoncino, una bambina guarda verso la folla, intimidita, con un sorriso appena accennato e gli occhi smisurati che osservano dal basso verso l’alto. Davanti a lei a terra un fazzoletto con sopra 4 piccole conchiglie insignificanti, e un bigliettino con una scritta: 1 euro.
Nessuno la nota. Decine di anime vaganti la oltrepassano senza vederla. Ma lei non si avvilisce e sorride a ognuno di loro. Poi un uomo si avvicina. Alto, abbronzato, forse antico come le conchiglie; le ricambia il sorriso, prende dal portafoglio due monete e acquista due conchiglie, La bambina infila la merce in una bustina, la porge al suo primo cliente e prende le monete. L’uomo procede oltre e si perde nella folla.
Adesso è il tramonto. Il luogo è lo stesso, ma molti venditori sono andati via. Le bancarelle sono sostituite dai tavolini all’esterno dei locali e i ristoratori apparecchiano le tavole per la serata. Il suo primo cliente è seduto a un bar poco distante, sorseggiando un aperitivo. La bambina è ancora al suo posto e davanti a sé ha 4 piccole conchiglie insignificanti e il bigliettino col prezzo. L’uomo paga la consumazione si alza e si avvicina. Lei sorride prende le 4 conchiglie in una mano e le offre all’uomo, con l’altra mano solleva tre dita indicando il prezzo complessivo dei suoi piccoli tesori se acquistati tutti assieme. L’uomo prende le conchiglie porge alla bambina le monete ringrazia e si allontana.
Il giorno seguente la scena è la stessa. Ma seduti a un tavolino di un bar, due uomini discutono in maniera molto concitata; si guardano intorno, sembrano diffidenti, impauriti, esitanti…
La venditrice è dietro le sue 4 conchiglie sul fazzoletto bianco. Il suo primo cliente è ancora lì, stavolta esce da un bar, ha una brioche in mano, si avvicina ma la piccola commerciante non riesce a non fissare desiderosa quel dolce. L’uomo vede la direzione del suo sguardo e le indica la brioche, a gesti le chiede se ha fame, lei annuisce, lui le porge la mano, lei si alza gli tende la sua, piccolissima tra le dita di lui, e assieme entrano nella pasticceria, le conchiglie restano sul fazzoletto. Poco dopo sono di nuovo in strada, lei sta addentando una brioche e nell’altra mano mantiene delicatamente un altro dolce variopinto.
I due uomini esitanti, lasciano il tavolino e si dirigono al centro della strada. La bambina istintivamente bacia la mano del suo benefattore e corre verso le conchiglie incustodite.
Una fortissima esplosione.
Fumo densissimo polvere caos, urla, gente che fugge in ogni direzione, la bambina è a terra impolverata, si alza portandosi le mani alle orecchie, mentre una scarpa maschile nella concitazione della fuga polverizza le sue conchiglie.
La piccola si guarda attorno non vede il suo primo cliente, ma solo una gamba che promana inerte e sanguinante dalle macerie di un porticato crollato. Allora corre e comincia a scavare, a spostare pietre, ma è impossibile, cerca di richiamare l’attenzione di qualcuno ma tutti fuggono ignorandola, quasi travolgendola. Lei allora si siede piangendo accanto a quel grumo di distruzione, finché non arrivano i primi soccorritori, e poi polizia, pompieri, ambulanze. Lamento aguzzo di sirene, ma non sono altre creature figlie del mare.
Lei ostinata richiama l’attenzione di alcuni pompieri che scavano fuori l’uomo dalle macerie. È ferito gravemente, viene caricato su un’ambulanza, lei si aggrappa alla sua mano, un infermiere le chiede se è suo padre, lei fa un cenno col capo e lui la lascia salire sull’ambulanza, dove iniziano a rianimare l’uomo.
Quando la scena sembra volgere al peggio, lui infine apre debolmente gli occhi. La bambina gli sfiora una mano, sono sola, portami con te gli sussurra, lui abbassa un minimo lo sguardo e le sorride con lo sguardo, lei felice si accarezza il viso con la mano inerte di suo padre.
Poi la scena comincia a dissolversi. L’ambulanza, gli infermieri, tutto diventa sempre più trasparente fino a sparire lasciando il posto a una nube di fumo.
Quando il fumo si dirada una scarpa maschile nella concitazione della fuga polverizza le conchiglie, poco distante la bambina è riversa al suolo impolverata e senza vita. Dietro di lei dalle macerie di un portico crollato sporge la gamba immobile e sanguinante del suo primo cliente.
Nell’eco dell’esplosione una leggera nuvola rarefatta di polvere, dal colore lievemente diverso sembra sollevarsi da quel cumulo di macerie e intrecciarsi con una scia di pulviscolo luccicante che aleggia sopra il corpo senza vita della piccola venditrice di conchiglie.
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epilexia · 6 months
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Prendi Parigi,è sempre stato uno di quei posti che ho sempre odiato.Mi fa proprio schifo,che in fondo l’apprezzo quasi.Cerco di farmela piacere in situazioni di rifugio o riparo.Quiete.Nel volo di andata ho preteso finestrino lato passegero,conosciuto anche come «foro di respirazione» Ho poi pensato!che seppur cadendo da quest’altezza potremmo farci male.Ma molto male,non serviranno ad un cazzo le misure adeguate di sicurezza.Non saremo altro che carne macinata,affondati nell’oceano atlantico,pasto di qualche squalo.Non saremo tra i feriti,dispersi e nemmeno tra i morti.Saremo macerie.Una forte turbolenza.Però non so cosa mi affascina in fondo.Forse l’abitudine culinaria?le passeggiate al parco-Trocadéro Gardens.La notte fredda e un tuffo nella Senna.La rivoluzione dei tossici storici.Spesso quando si è in viaggio ascoltare dei podcast spotify per far passare sopratutto l’ansia e digerire le goccioline di xanax sarebbe consigliato.Proprio per questo mi sono imbattuto in “Il sesso degli altri”dove c’è un intro che mi ha molto colpito e recita le seguenti parole;“Le persone si dividono in porno e non porno. Se fai parte della prima categoria non avrai così tanti problemi. Se fai parte della seconda, hai due strade: vivere una vita triste o fare finta di essere una persona porno. Io vivo una vita triste”.Bhe diciamo che le persone non dovrebbero definirsi e basta.Ma sopratutto perchè essere tristi non essendo una persona porno? Che poi chi dice che sei una persona porno? Che inoltre che cosa è realmente il porno?bisognerebbe vivere la sessualità e l’atto porno in maniera autonoma.Nel senso non c’è un limite ad un qualcosa,ma non c’è nemmeno un tempo per fare determinate esperienze.Vanno fatte come non vanno fatte.Siamo tristi proprio di natura noi esseri umani,come siamo complicati.Cosa penserà invece un cervello di un cane o di un gatto.Ve lo siete mai chiesti?Oppure vi capita di voler stare nella testa di qualcun’altro,essere non identificabile? Io mi immagino spesso nella testa di uno schizzato che inizia a rincorrere i piccioni nel parco,oppure ballare I’m Singing in the Rain di Gene Kelly sotto un temporale interminabile,sulle strisce pedonali ai semafori della stessa città metropolitana.Arriva la police nationale che mi carica a bordo mi porta in centrale e lì poi mi immagino tutta un’altra serie e situazioni.Più che triste un pò malata.L’atterraggio è la cosa che più odio,mi si ritorce lo stomaco.Per poco non arrivo diretto nella cabina di controllo,in braccio al comandante.Era meglio lanciarsi a caduta libera.Senza paracadute.Atterrato.Bienvenue à Paris.Solito Hotel(central hotel Paris).
Tolgo la modalità aereo,cerco tra la rubrica,scrivo il primo sms; Ci vediamo al solito posto-Jules Verne ore 21:00.Dopo potremmo essere anche meno tristi,ma sopratutto scegliere chi essere.
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