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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
LE PAROLE NASCOSTE
Esistono presenze che marcano l'assenza.
Senza più sguardi.
In un bacio sbiadito, in una carezza mancata.
Il dolore scava l'angoscia quotidiana.
Le giornate corrono spente.
Lungo trincee senza orizzonte.
Volontà tradite formano cortine impenetrabili d'oracolo.
A lungo desiderati, sono gli amori sbagliati.
Restano enigmi irrisolti.
Consumati invano nei silenzi trattenuti.
Mentre attonite parole nascoste recano già il responso di amori finiti.
Arnold Böcklin (1827 - 1901): - "Ulisse e Calipso", 1883, Kunstmuseum, Basilea Giorgio De Chirico (1888 - 1978): - "L'enigma dell'oracolo", 1910, collezione privata - "L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio", 1911/12, collezione privata
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUINTO - di Gianpiero Menniti
L'INASPETTATO
Edgar Degas (1834 - 1917) dipinge "Ballerina che fa un saluto", 1878, conservato al Museo d’Orsay a Parigi.
Le forme scompaiono nel colore, riappaiono tra sfumature e contrasti.
Nel 1890 dipinge "Russet Landscape" (Paesaggio color ruggine) e nel 1892 compie sperimentazioni ulteriori con la tecnica del "monotype" che coniuga incisione, disegno e pittura.
Ulteriori poichè già nel 1876 aveva prodotto opere come "Dancer Onstage with a Bouquet" (Ballerina sul palco con un Bouquet, collezione privata).
Potremmo chiuderla qui aggiungendo che si tratti di una direzione di "ricerca" poco nota dell'artista francese.
Qualcosa che nasce nel medesimo contesto dei soggetti tradizionali della sua pittura.
Certo.
Ma perchè?
Ne realizzò circa centoventi di stampe con questa tecnica.
Eppure, negli anni '90 del XIX secolo scompaiono le classiche figurazioni per dare vita a immagini che annullano la forma sondando esperienze visive abissali.
Tuttavia, sullo sfondo delle altre due opere citate, queste rappresentazioni emergevano.
L'irrazionalismo non è una corrente viva nel solo Novecento: è già negli aforismi di Nietzsche, nelle immagini poetiche di Baudelaire e nelle strutture visive dell'Impressionismo.
Degas s'immerge in questa radicale percezione, l'anticipa nell'arte, la rivela facendo segno alla parola del suo tempo.
La realtà non possiede un fondamento e la concezione tragica pervade la lunga stagione che segue alla rivoluzione scientifica e illuminista dei due secoli precedenti.
Per dirla con le parole di Dostoevskij, tratte da "I fratelli Karamazov" (1880):
«Se Dio e l’immortalità dell’anima non esistono tutto è possibile».
Nel 1882, ne "La gaia scienza", Nietzsche afferma perentoriamente:
«Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? [...] Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione?».
In entrambi i casi, la fine della "cristianità" - non significa la fine del "cristianesimo" - s'annida nell'espressione figurativa che abbandona ogni certezza e muta in invocazione metafisica: semplicemente, la vocazione alla verità s'infrange con il baratro delle inattingibili origini.
Il '900 comincia da lì, anche da un inaspettato Degas.
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IL RACCONTO DELL'IMMAGINE
POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
OCCHI OLTRE UN VELO
Esiste la vanità dell'orpello.
Illusione vacua.
Eppure proficua.
Persino remunerata.
Destinata a un bagliore.
Ma esiste il suo riflesso: la consistenza.
Sguardo che apre la luce oltre il velo.
Di occhi densi, carichi di racconti mai uditi.
Photo Credits: Gaetano Interlandi, "Dama sul marciapiede"
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti
PARADIGMI DELLA RAPPRESENTAZIONE
Due modi d'interpretare, non solo il tema religioso ma il proprio tempo: simbologie opposte.
Il Cristo di Piero della Francesca è una rappresentazione di onnipotenza disincantata, la forza della verità che si erge, maestosa eppure solitaria e rassegnata, lascia dietro di sé le tracce del mondo sconfitto dalla sterile condizione dell'umanità immersa nel sonno della ragione.
Risorgere potrebbe apparire inutile.
Eppure, è il segno potentissimo che rivela la radicalità della scelta, tra salvezza e morte.
Al contrario, il "Risorto" di Paolo Veronese è trionfante, posseduto dalla mistica ascesa al cielo, ormai incurante delle vicende terrene, come un dio pagano si erge al di sopra della materialità e delle miserie umane, avvolto nella luce che acceca e spaventa, mentre l'angelo sul fondo, in una scena lontana, indica alle pie donne il compimento del disegno divino.
Il primo è un Cristo messaggero che invita gli uomini a destarsi per contemplare la dualità della storia e la necessità della scelta.
Ed un Cristo che imprime la sua "auctoritas" sulla realtà terrena in una plateale, solida fissità capace di suscitare un ineluttabile moto di conversione.
Il secondo è un "redentore" che offre il mistero della sua resurrezione come implacabile superiorità del divino sull'umano, come luce sulle tenebre, come leggerezza che vince la "gravitas" dell'esistenza terrena.
Ma che guarda in alto.
E si lascia contemplare nella sua apoteosi.
Due narrazioni della cristianità, opposte, inconciliabili.
Tra la severità che accoglie e l'alterità che allontana.
- Piero della Francesca (1416-1492): "La Resurrezione",1460-1465, Museo Civico, Borgo San Sepolcro (AR) - Paolo Veronese (1528-1588): "La Resurrezione di Cristo",1570 circa, Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo
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IL RACCONTO DELL'IMMAGINE - di Gianpiero Menniti
FANTASMI L'apparizione di un'anima.
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IL RACCONTO DELL'IMMAGINE - POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
SENZA LUOGO
In ogni passo, un pensiero.
Pensieri.
Semplici.
Pratici.
Necessari.
In ogni passo, un suono.
Sordo.
Di una sola nota che batte un pianto silenzioso.
Come un cane alla ricerca di un tozzo di scarto.
Così è la bocca serrata dall'angoscia.
Di essere nulla oltre un vestito logoro.
Unico appiglio di un'infanzia perduta nella coscienza.
Madri.
Figli.
Ciascuno è forza dell'altro.
In ogni passo.
Senza più luogo.
- Foto di Robert Capa, Israele, Haifa. 1948. Una donna e il figlio si dirigono verso il campo di Rosh Hay’n.
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L'IMMAGINE E LA PAROLA: ESEMPI DI SCRITTURA "SPOT" - di Gianpiero Menniti
OLTRE
L'illusione dell'ombrello.
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CONFERENZE - POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
IL '600 E IL '700: L'INCESSANTE BAROCCO - di Gianpiero Menniti
Questa volta un tema spesso trascurato e sovente mal compreso: il "Barocco", una corrente artistica e culturale che investe la penisola italiana ormai rassegnata al suo inevitabile declino tra le potenze europee.
Eppure, ancora immersa in una straordinaria vena creativa: non solo Pietro da Cortona, Bernini e Borromini, ma artisti di enorme qualità, da Domenichino a Lanfranco, da Mola a Mattia Preti, da Nicolas Poussin a Baciccio, transitando poi da "Canaletto" al nipote Bellotto, da Giambattista Tiepolo al figlio altrettanto famoso Giandomenico Tiepolo, fino alle "Carceri d'invenzione" di Giovanni Battista Piranesi.
L'avvento della modernità, tra scienza e nuovi diritti emergenti, si lascia cogliere nell'arte tra modelli di purezza espositiva e il naturalismo esasperato di Caravaggio, tra il "vedutismo" che lascia segni indelebili e il proto-romanticismo che si afferma nell'ultimo trentennio del XVIII secolo accanto al neo-classicismo che abbandona al suo destino la lunga e controversa età barocca.
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Da: L'INEDITO CARAVAGGIO - di Gianpiero Menniti
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L'ARTE NON È BELLEZZA
«.... Nelle mie opere, dal 1602 e 1603, c’è un differente trattamento della luce rispetto al passato, un modo di dipingere che con l’ombra accresce la componente emotiva delle mie rappresentazioni. Quel buio che compare e dà forma è la proposizione realistica del buio metafisico. Non c’è un Caravaggio in luce ed uno in ombra, ma solo un pittore che riconosce la forza dello spirito e che sperimenta, nel contrasto tra il chiarore ed il buio, lo smarrimento. E nel medesimo tempo, la consapevolezza che anima di mistero incombente la vita. Io credo di aver raggiunto la perfetta unità di queste presenze, di realtà e spirito proprio appena prima di lasciare Roma, con la "Morte della Vergine". Non fu a caso rifiutata e tanto schiamazzo provocò: poiché quel che volli segnare fu la misera fragilità del corpo nella morte, la crudezza dell’essere che in nulla rivela dello spirito, lo spirito fatto di sola fede e non di consistenza visibile di fenomeno. Bellezza? L’arte non è bellezza. La bellezza è orpello. L’arte è maniera di visione: visione dell’idea e visione del reale. Io ho scelto il reale poiché l’idea conforta ed esalta, ma il reale impone un balzo coraggioso in groppa ad una bestia feroce: la vita. Io ho scelto il reale perché ho scelto la vita. Il colore, la luce, sono vita ma di essa occorre che il pittore tracci l’essenza astraendola dal contesto, isolandola e ricomponendola: solo in questo modo la vita prende forma innanzi a colui che animato di coraggio vuol vederla.»
- Michelangelo Merisi detto "Caravaggio" (1571 - 1610): "Morte della Vergine", 1604, 1606, Louvre, Parigi
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
COME UNA LANTERNA MAGICA
Un pittore.
Trasognato da immagini apparse sotto ogni tocco di pennello.
Infine, rapito dai suoni immaginati di un racconto: voci, grida, scalpiccio di zoccoli, latrati, la foresta persa nelle tenebre improvvisamente animata.
Il mistero, nel fondo, attrae lo sguardo.
Infonde timore.
L'essere umano esita.
Ma l'essere gruppo spinge fino al coraggio.
Vivere è l'impresa di solitudini oltraggiate dall'incontro.
"Caccia notturna" è tra le ultime o forse è l'ultima opera conosciuta di Paolo di Dono (1397 - 1475) detto "Paolo Uccello" per la rara perizia nel dipingere volatili.
Fu uno sperimentatore: intraprese una pittura prospettica ma piegandola al modello coinvolgente del realismo magico intensamente connesso al "gotico internazionale", movimento artistico e architettonico dell'Europa imborghesita e cortigiana del tempo, anelante di rappresentazioni.
L'effetto è retorico.
Eppure contiene tutti i segni dell'incipit di un racconto di cavalieri e dame, di un'esistenza gioiosa ed emotiva, illusione sgargiante sullo sfondo di un buio in attesa.
La scena concitata potrebbe narrare una battuta di caccia, capitanata da Lorenzo de Medici, in una pineta nei pressi di Pisa.
Risale a un periodo compreso tra il 1465 e il 1470.
Forse per la testata di un letto o per un cassone oppure come ornamento domestico.
Oggi è conservata nell’Ashmolean Museum di Oxford.
Come una lanterna magica perennemente accesa.
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IL RACCONTO DELL’IMMAGINE - di Gianpiero Menniti
L’ATTIMO PERENNE
Pomeriggio. La mente assorta. Il caso. Suoni delle parole, come fossero sguardi. Figure esistenti, come fossero immagini. Due mondi, mutano in uno. Felicità è percezione dell’attimo. Sospeso, come la luce di un dipinto. Mentre accade, è già perenne.
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Da: FUOCO GRIGIO - di Gianpiero Menniti
VOCI NASCOSTE
La presenza è una sensazione. Non è fatta da un corpo ma dalle sue parole. Ciascuno è quelle parole. Che attendono pazienti la carezza di uno sguardo.
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti
GLI STRATI DEL TEMPO
«Fino alla nascita dei décollage, nel 1953, io facevo della pittura neo-geometrica. Avevo studiato tutti gli stili e tutti i più grandi maestri, da Kandinskij a Mondrian, da Picasso a Matisse. Poi mi trasferii per due anni negli Stati Uniti, e realizzai una mostra anche lì. Quando tornai in Italia, non volevo più dipingere, perché ero giunto alla conclusione che tutto ormai, in pittura, fosse stato fatto. Una mattina del ’53, mi trovavo nel centro di Roma, e osservavo i muri completamente tappezzati di manifesti pubblicitari lacerati. Ciò mi colpì moltissimo, e pensai: ‘Ecco le nuove immagini che io devo dare al pubblico’. Nessuno aveva mai fatto questo. Così è nato il décollage: è stata una sorta di… illuminazione zen. Allora uscivo di notte dal mio studio e rubavo i manifesti dai muri. Una sera venne a vedere i miei lavori un critico giovane e molto intelligente, un filologo, Emilio Villa. Fu entusiasta, e mi disse: ‘Tu stai inventando una nuova forma d’arte, che va al di là della pittura’. Mi invitò ad allestire una mostra con sei pittori romani sul Tevere. All’inaugurazione c’era un critico americano, il quale sostenne nella sua recensione che l’unico a proporre un nuovo messaggio ero io. Mi definì ‘neo-dadaista’.».
Con queste parole Mimmo Rotella (Catanzaro 1918 – Milano, 8 gennaio 2006) rievocava la nascita del "decollage", intuizione capace d'innovare il linguaggio artistico del secondo Novecento, inserendosi nella scia della Pop Art, dell'Informale, del Nouveau Réalisme, del NeoDada.
Tuttavia, gli schemi non raccontano.
Indicano un percorso, delle assonanze, dei richiami.
Non bastano: gli artisti fanno storia a sé.
La libertà in quegli anni convulsi è massima.
La tecnica diviene essa stessa fenomeno creativo, così prorompente da ribaltare il tradizionale rapporto tra significante e significato, fino a una semiosi inaspettata, controversa.
Eppure dotata di una poetica profonda, ammessa, come nel caso di Rotella, all'antico mistero del tempo e delle sue infinite narrazioni.
Lo "strappo" diventa scoperta.
E quanto rimane è rappresentazione artistica di un divenire che annulla le distanze, saldando passato e presente.
Suggestione del perenne.
Nascosto.
Svelato.
- Mimmo Rotella, "Europa di notte", 1961, Mumok, Vienna
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
LE RADICI DELLA CRISI
Quando si pensa al "Rinascimento" in Italia, le espressioni si fanno idillio.
Ovviamente, è un errore.
Velato dalla bellezza delle arti plastiche e pittoriche in anni di densa produzione e di "maestri" inarrivabili, paradigmi della successiva "maniera".
Ma nell'Europa del Nord, la crisi spirituale e con essa il rivolgimento delle società e degli individui, la cui collocazione al centro della vita è già indice della modernità, si afferma senza infingimenti.
Nessuna illusione, neanche qui: si tratta di un'altra forma di retorica, severa, austera, grigia.
No, ancora di più: tormentata, angosciata, ossessionata.
L'intero vecchio continente ne verrà stravolto: l'età protestante, la riforma, la reazione delle gerarchie romane, le lotte di potere, il fanatismo religioso, la guerra, fino al "Sacco di Roma", avvenimento spartiacque che segna la fine della centralità della Chiesa cattolica e, paradossalmente, anche la fine dell'Impero incarnato da Carlo V.
Entrambe le istituzioni protagoniste della storia stanno per subire l'avvento delle Nazioni.
Lunga fu la scia, si estenderà per tutto il XVI secolo fino alla Guerra dei Trent'anni tra il 1618 e il 1648 e alla pace di Vestfalia che darà un nuovo assetto all'Europa.
La Germania rimarrà frammentata in Stati che potranno trovare unità solo oltre due secoli dopo.
È il riflesso del passaggio dall'unità religiosa alla fede vissuta come traccia individuale.
Ma non regge al fanatismo della verità: questi, non conosce la tolleranza.
E incombe, dai nuovi pulpiti.
Come il cavaliere attraversa saldo nella sua armatura di fede il dramma della morte e l'incombere del male, così l'uomo che l'arte del Nord immagina, è figura della solitudine e del sacrificio, eroe della lotta: l'unico affidavit è riposto in se stesso.
Dürer intuisce, come ogni vero artista, l'avvento di un modello diverso di umanità: più libera, cosciente.
Ma sa anche che questo modello richiede la ricostruzione di principi guida, di un'identità che dall'individuo passi alla dimensione collettiva: ecco la crisi.
La città, sul picco della montagna, è un enigma lontano, silenzioso.
Il cavaliere, meditabondo nella sua dignità di spada e di obblighi, segue il cammino e i suoi pericoli.
Li attraversa, non li teme.
Perché ne riconosce l'essenza: è identica alla sua.
Uno stanco mendicare che ha solo l'apparente baldanza muscolare di un cavallo al trotto e l'incosciente vitalità di un cane.
L'esteso simbolismo dell'immagine è anch'esso un barlume che non riesce a mascherare il senso di rassegnazione delle tre figure: fiacche comparse in un circo abbandonato al "memento mori".
Come radici senza più terra, abbarbicate sulla roccia.
Dura.
Pesante.
Scenario estremo che nulla potrà accogliere.
- Albrecht Dürer (1471 - 1528): "Il cavaliere, la morte e il diavolo", 1513, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe (Germany)
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'900 - di Gianpiero Menniti
IL POTERE DELLE IMMAGINI
Nel lessico cinematografico il "primo piano" rappresenta la ricerca d'introspezione, la psicologia del personaggio che emerge dal testo narrativo.
Lo spettatore rimane colpito da un'espressione, uno sguardo carpito che lascia intuire l'emozione del protagonista.
Così, i volti di Hollywood hanno influenzato, fin dall'infanzia e per sempre, l'esperienza estetica individuale.
La fiction si è trasformata in psiche vivente.
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
IMPROVVISO SOSPESO
Da decenni, ormai, si è vaticinata la "scomparsa" della pittura, già entrata in competizione, sul consumarsi dell'Ottocento, con la fotografia, infine superata dalle opportunità espressive delle molte tecniche di acquisizione delle immagini.
Il tema è assai più antico e coglie la presunta limitatezza della duplice dimensione contro il tutto tondo della scultura.
Eppure, il segno pittorico, anche adesso, rimane affascinante, cattura lo sguardo, interroga, trasporta in un altrove.
Davvero il dipinto possiede un valore artistico meno intenso di uno scatto fotografico?
Oppure, risulti meno coinvolgente di un'immagine in movimento?
Se appare chiaro che non sia così, la domanda è: perché?
Risposta: perché l'immagine di un dipinto "non esiste".
Non importa che sia il riflesso di un'immagine reale veduta e ritratta dal pittore: il realismo è atto di stile e non vocazione alla produzione di una copia.
Non conta nulla che lo si possa considerare espressione dell'artista: supera di gran lunga anche questa presunta riduzione concettuale.
Il dipinto fa mondo a sé.
Sorge come un "improvviso" e manifesta la sua unicità.
Si salda al presente e lo annulla, segnando di sé il tratto vivente di infinite visioni, nel flusso di un tempo reso immobile.
Non esiste.
Miracolo dell'impossibile, reso in immagine.
Improvvisa apparizione, sospesa per sempre nella memoria.
Un tempo "sospeso" che attende l'ennesimo sguardo, l'ennesima emozione, l'ennesimo incanto.
- Claude Monet (1840-1926): "Donna con il parasole, madame Monet con il figlio", 1875, National Gallery of Art, Washington D.C.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
CUM NAUFRAGIUM FECI, TUNC BENE NAVIGAVI
Ossimoro latino, forse risalente a Zenone, riproposto da Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536) nel suo “Adagia”, 1500, (Centuria 1878) con questa formulazione:
«Nunc bene navigavi, cum naufragium feci.» «Posso dire di aver ben navigato, solo dopo aver fatto naufragio.»
Non si tratta di riferirsi al viaggio, ma al viaggio per mare, là, dove nessuna strada è tracciata e ogni rotta è possibile e ogni istante può mutare in tempesta.
Metafora drammatica.
Temuta.
Accettata.
Subita.
Agognata.
Come per ogni domanda profonda, solo portandosi fino all’estremo confine è possibile scorgere la luce della coscienza consapevole.
Così, la pittura di Turner, agli esordi dell’800, ha già nelle corde il vibrare della crisi di un secolo impetuoso, durante il quale sarà impossibile cambiare rotta per evitare la furia degli elementi.
La metafora diviene simbolo: la tempesta è la metà del piatto spezzato - σύμβολον (symbolon) - che indica l’origine e l’identità da ritrovare.
Essenza del pensiero “romantico” agli albori: esistere, è tragedia.
Il “dipinto-simbolo” racconta il senso, necessario, del vivere: prendere il mare aperto e ogni rischio che questo comporti.
Ogni rischio, anche mortale.
Pur di ricongiungersi con l’altra metà del piatto.
Rimasto ad attendere in un placido canale.
L’ossimoro, si compie.
- Joseph Mallord William Turner (1775 - 1851): “Il naufragio”, 1805, Tate Britain, Londra e “Canale di Chichester”, 1828, Tate Gallery, Londra
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