Questa sera c'è una calma piatta, bella, che quasi non sono più abituata. Mi aspetto sempre che debba succedere qualcosa - deve succedere qualcosa, me lo sento, è dietro l'angolo - e tutta quest'immobilità mi destabilizza.
A volte mi convinco che prima o poi il cielo - che stasera mi è così caro - mi cadrà addosso. Se continuerò a fissarlo, se i miei occhi non si sposteranno altrove, la luna e tutti gli astri piomberanno giù, fino ad inghiottirmi in qualche buco nero. È un pensiero che faccio sin da bambina, quando mi sdraiavo sui sedili posteriori della macchina di mio padre e facevo finta che il cielo fosse la strada di una città lontana lontana.
"Ora mi cade addosso" mi dicevo e ad un certo punto non esistevo più nell'automobile ma ero una stella ad illuminare la mia città - lontana lontana.
Poi un giorno qualcuno mi ha detto che alcune stelle si sono spente da un pezzo ma che noi non lo sappiamo perché vediamo ancora la loro luce. Ho pensato alla magia di un cielo scuro che si accende in riva al mare o sul tetto del mondo, a come gli angoli bui possano prendere fuoco semplicemente spostandosi un po'.
Mi sono ricordata che una sera, in auto, ero una stella e non ho mai smesso di esserlo. Però mi sono spenta e la mia luce continua a viaggiare nello spazio e nel tempo. Te ne sei accorto? Guardandomi da vicino noteresti che ciò che vedi è un riflesso di qualcosa che non esiste più.
Forse sto solo aspettando di cadere giù - questo cielo che sprofonda e si poggia sugli occhi di me bambina - perché poche volte mi sono spostata per permettermi di prendere fuoco.
Questa sera c'è una calma piatta, bella, che quasi non sono più abituata. E infatti cado giù, come il cielo, come la luce che una volta era mia.
Che ero io.
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Fumo
L’uomo decide di non ammazzarsi quel giorno, non in quel momento, per non indulgere alla tentazione del silenzio, per evitare che il mondo svapori in un sibilo di fumo risucchiato dentro il nucleo primordiale. Resta così in bilico sull’orizzonte degli eventi, dove il fumo non può raggiungerlo, mentre si compatta in figure arcane e mostruose per poi declinare nella massa grigia di materia gassosa che precede la cronologia solida del pianeta. Il suolo sotto i suoi piedi, la roccia millenaria alle sue spalle, che immotivata vede lambire i suoi lineamenti dalle propaggini del fumo, pronto ad avvolgere l’ultimo gesto di un uomo.
(il fumo si avvicina alle gambe e si inerpica sulle caviglie, lui si allontana, alcuni passi all’indietro poi si volta e vede dinanzi a sé le grotte e l’antro aperto che sembra attendere la sua decisione)
Non morirò oggi. Non in questo fumo senza gioia né malinconia. Ti ammazzi quando smetti perfino di soffrire, quando anche la tristezza svanisce, terminando quell’ultimo cameo di umanità nel tuo presente. Oggi vedo il fumo e il fumo mi manifesta una tristezza angosciosa.
Ancora un giorno.
Vivrà ancora un giorno per lasciar completare l’arco tracciato dai suoi pensieri prima di tuffarsi dietro la balaustra della mente e scompaginarsi in pezzi, forse in fumo o in parole anzi in lettere senza significato se nessuno può leggerle e ricomporle.
Se questo fosse il mio ultimo giorno vorrei fosse ancor più inutile degli altri, ancor più vuoto, ancor più silenzioso, al riparo in quelle grotte mistificando la luce e le ombre, il dì e la notte, il sole e la luna, il sonno e la veglia.
(Entra nelle grotte)
Statue. Una dopo l’altra in una teoria di concetti inesplicati. No! Se dici statue pensi a figure classiche, definite, immobili ma umane. Forse sono troppo condizionato da secoli di sculture antropomorfiche e reali, queste sono espressioni artistiche, dilatate nel loro tentativo di afferrare ciò che sfugge, molli, elastiche, potrebbero muoversi, cambiar forma e riapparire in una fenomenologia diversa, le scolpisci guardandole, sei l’osservatore che muta la forma delle cose, sei parte di una inafferrabile meccanica quantistica fusa nel bronzo.
Forme. Appare l’idea cangiante che ne sottende la genesi e prova a dimenarsi in questa dimensione illogica dove niente è reale e tutto è razionale. Oddio forse razionale, ma non comprensibile.
Gira su se stesso quell’uomo, vorrebbe toccarle, ma teme che anche quelle immagini impresse nel metallo siano inconsistenti come ogni pensiero e ogni attimo che non fai a tempo a percepire, che scorre via da te e con lui la vita, squama di dosso sgretolando dietro le spalle.
Sono così stanco!
Non riesco a esistere, non sono dentro il flusso che scorre lento e costante e mi passa attraverso, ma non posso concepire nemmeno l’idea di non esistere, se non in un insopportabile eccesso di terrore. Sono così stanco di questa prigionia, di questa costante sensazione di impossibilità.
“Che fai?”
(Una voce leggera e ariosa rimbalza nella grotta. È Alice.)
Se questo fosse il mio ultimo giorno vorrei fosse ancor più inutile degli altri, ancor più vuoto, ancor più silenzioso.
Ma entro nelle grotte, un complesso… sì credo sia un complesso archeologico sede anche di una mostra d’arte surreale, una roba particolare. È mattina, anche abbastanza presto, all’interno non ci sono altri visitatori, quindi la voce che sento o credo di sentire, è solo dentro la mia mente o fuori le labbra di un guardiano, una guida, personale comunque del museo, personale femminile come la voce che sento, molto flebile, leggera, giovanile al limite del possibile. E se rispondo alla domanda senza neanche chiedermi chi me l’abbia posta è per un riflesso e per distrazione, sono così fuori, io, non la voce, così fuori del mio spazio e del mio corpo, che rispondo anzi mi sento rispondere anche se non vedo altre esseri umani, nessuno se non statue, statue surreali che si propagano tra la pietra e gli echi dello spazio esterno alle grotte, gli echi del mondo, gli echi ancora indifferenti dell’ultimo giorno.
Niente, niente ho risposto alla prima domanda, ora che mi chiede chi sono, non la vedo, solo la voce e una statua di fanciulla, mi fissa, e ricordo il fumo che albeggiava all’orizzonte accanto al sole…
Quel fumo è l’aria solida che mi circonda. Una cortina di materiale plastico trasparente, quasi nebulizzato ad arte attorno a me, talmente lieve nella sua presenza da sembrare sospeso nel vuoto, senza agganci, senza sostegni visibili. Davvero una ostentazione di perizia creativa, o di semplice modifica della materia di base. Non cambia molto la mia prospettiva. Ora che sono dentro, ora che la parete di questo complesso monumentale scavato nella roccia millenaria mi fa da sfondo e cornice, ora che Alice è ferma dinanzi a me, a pochi metri ma irraggiungibile nella sua fiera bellezza estatica, tutto viene predisposto per dare principio alla forma, per consegnare alla memoria una rappresentazione di una realtà incanalata a forza nel bizzarro progetto di un singolo artefice.
Alice forse riesce a scorgermi con la coda dell’occhio. Ennesima beffa, è posizionata in modo tale che io posso fissare lei, anzi non posso fissare nient’altro che lei, ma lei non guarda me, sente la mia presenza ma non può guardarmi diritto nel mio sguardo, non può neanche concedermi un sorriso astratto che sembri dedicato solo a me, seppur volesse.
Se questo fosse il mio ultimo giorno, forse vorrei trascorrerlo guardando lei. Imparando a conoscerla, a sentirne i pensieri più impercettibili, a scoprire quale animo si cela in quel denso e articolato garbuglio di elementi solidi, che ancora una volta la fantasia di un singolo ha manipolato in modo tale da lasciarne solo intendere una potenziale bellezza non espressa. Una incarnazione di serenità e pace modellata su angolature improbabili, eppure così argute da sembrare a un attimo dal ricomporsi in una forma perfetta.
Se questo fosse davvero il mio ultimo giorno vorrei fosse sincero. Chiarificatore. Vorrei mi parlasse e mi spiegasse i motivi della mia origine. Le idee che hanno contribuito alla mia genesi inaspettata, ma inevitabile se sono qui, se ancora il fumo mi avvolge, se la roccia millenaria ospita la mia essenza visiva, quasi imprimendola nella propria paterna accoglienza indistruttibile.
E vorrei trascorrerlo semplicemente accanto a lei, nutrendomi del suo alito, provando a sfiorare i suoi angoli inattesi, le sue proiezioni improbabili, rimettendo a posto i pezzi che una casualità caotica sembra aver mescolato, limando concetti di spazio e tempo e offrendo una idea distorta e vaga della forma.
Forse vorrei soltanto che questo fosse davvero il mio ultimo giorno. E non solo un dubbio perenne impresso in un titolo. Che la simulazione cedesse spazio alla realtà e, dopo, il vuoto potesse accogliere la mia inutile presenza su questo spuntone di materia stellare. Incorniciato così come sono ora su questa parete di roccia millenaria, e poi chissà dove, chissà cosa ci attende, quale nuovo scenario porranno alla nostra squallida manifestazione…
Per favore fate attenzione che quelle statue valgono milioni. Nemmeno se ci mettiamo tutti assieme col guadagno di una vita riusciamo ad apparare il valore di una sola di loro.
Già che vita di schifo, valere meno di un oggetto…
Ma dai almeno quell’oggetto è stato fatto da un artista tu invece,,,
Sì scherzateci pure, intanto io una roba del genere in casa non la metterei mai, tutte quelle forme strane… a svegliarsi di notte e trovarsela davanti c’è da rimanerne secchi…. Pagarla milioni poi, io proprio non capisco più la gente ha i soldi e meno sa spenderli… ne avessi io altro che statue
Non c’è niente da fare di arte non capisci niente perciò stai a fare il facchino, intanto ci tocca trasportarle e fare pure attenzione che se a una di queste robe come le chiami salta via un pezzo siamo fottuti.
Ma chi vuoi che se ne accorge che manca un pezzo, sono così incasinate ste statue, pezzi ovunque, messi lì a caso, io dico che manco l’autore se ne accorge se manca qualcosa.
Fidati meglio non fare la prova e stare attenti,,,, che qua non rischiamo solo il lavoro ma anche il culo te lo garantisco. Comunque, sarà come vuoi, ma a me quella statua lì mi piace molto.
Quale
Quella in fondo, quella figura maschile avvolta dalla nebbia… guarda che quel fumo è impressionante per come è reso, solido e trasparente, così denso e realistico, certo ci vuole abilità a fare una cosa del genere non puoi negarlo.
Non lo nego ok, ma non la comprerei lo stesso seppure potessi… poi sai come si chiama quell’opera che dici tu? Ecco leggi qua si chiama “Se questo fosse il mio ultimo giorno”, ma che titolo è?
Beh certo… un titolo bizzarro da dare a una statua.
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Parasite non il film.
In questa domenica pomeriggio sono qui piena di stizza nei confronti del mondo. No, scherzo, sono infastidita, dalla mentalità alla “Parasite” della popolazione autoctona. Non mi abituerò mai a loro e a quanto sono sgradevole, maleducati ed estremamente invadenti.
Secondo la loro filosofia di vita, tu estraneo, devi abituarti e accettare ogni forma di fastidio che loro possano causare.
Per quale cavolo di motivo devo portarmi nelle mura domestiche persone con l’indole della zizzania che inventano storie? Oltre a farmi venire il sangue amaro, sti stronzi (ops) volevo dire: questi individui, hanno il potere di decentrarmi, o meglio sdoppiarmi, tra la me calma e mite che vorrebbe farsi scivolare addosso la monnezza, e la me che con la mia lingua affilata li ridurrebbe a brandelli come a un corso di cucito per principianti
E pure sono estremamente trasparente, si intuisce che non amo le rotture di scatole, gli intrighi da vecchie stupide analfabeta in menopausa, e mi chiedo il perché?
Vorrebbero tenermi buona perché mi temono, ma hanno un livello di idiozia che inevitabilmente devono pestarmi i piedi, credendo di essere immuni alle conseguenze, vi asfalto.
Adesso devo giustificare alla “collega” perché non le rispondo al telefono, facendomelo notare: con la scrittura di chi non ha terminato la quinta elementare sul quaderno degli appunti del menù della cucina.
Avevo deciso di ignorarla, dopo di che le ho risposto contestualizzando il mio atteggiamento: Non devi telefonarmi per raccontarmi i pettegolezzi; anche perché ogni che poi vado a chiedere spiegazioni mi dicono che non è vero.
Sono due anni che le dico che non deve entrare in dinamiche lavorative tossiche e che, a causa del suo atteggiamento, ci avrebbero prese in antipatia. Due anni.
E lei decide di infilarmi nella sua trama di pettegolezzi, forse sperando in delle mie reazioni.
La cieca presunzione nell’essere convinti di manipolarmi, solo perché tra l’essere una vastasa, io ho deciso di mettere l’educazione al primo posto, mi irrita di più. L’educazione viene vista come un segnale di debolezza, fin che poi non dimostro che sono imbattibile pure a vastasaggine.
Non è la prima volta da quando vivo a Bari che la gente mi prende per idiota, poi quando gli sventaglio il crimine spariscono come tante blatte al buio nell’umidità.
Imparate a non fare salsicce con i testicoli della gente e lasciateci tranquilli.
Cribbio, vanno piangendo dalla mattina alla sera, ma questi, bollette da pagare, non ne hanno?
Passo e chiudo.
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Facciamo finta di tutto perché il nulla è uno spazio vuoto che non contiene niente. Noi invece ci stiamo infilando un po’ di cose e siamo così bravi che abbiamo sempre le spalle rilassate e un’espressione tranquilla e l’idea non ci sfiora mai. O se lo fa io che ne so, perché in questo tutto la prima cosa che abbiamo incastrato è quello che non ci diciamo, spinto così in fondo che quanta paura fanno queste parole che rimangono incastrate tra i denti. Ogni tanto sento che spingono, me le immagino imploranti di uscire con un retrogusto amarognolo di quei cibi che vorrei sputare ma che poi mando giù e che sotto sotto, per qualche motivo, alla fine mi piacciono pure. Ma poi le ricaccio al loro posto - con le mani, con gli occhi, con uno sbadiglio - perché le parole che non dico non valgono la sbavatura di quei momenti imperfetti che trovano senso e ordine in un universo agli altri sconosciuto.
In questo tutto che ignoriamo ci sono i ricordi di una città che si prepara per l’ora di cena, l’aria frizzantina che sa di casa e che puoi afferrare solo per un momento prima che scappi via di nuovo.
Un po’ come noi.
In questo tutto abbiamo cucito le storie degli altri - che sono sempre belle e piene di vita - perché non sappiamo com’è la nostra e ci pungiamo con gli aghi con cui ricamiamo questi racconti che ci piacciono tanto. In questo tutto ci sono gli oggetti perché anche loro hanno un peso e questa cosa è bellissima e dovresti proprio vederla perché ti ho pensato. Però non te l’ho detto.
E in questo bagaglio che è pieno di tutto noi continuiamo a fare spazio perché il nulla non ci basta per ogni cosa che andremo ad aggiungere.
Facciamo finta di tutto perché siamo bravi e l’espressione è tranquilla e ci sorridiamo, respiriamo e le spalle sono rilassate.
La schiena come va invece? Fa male?
E io che ne so, mica ce lo diciamo.
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