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#pool antimafia
gregor-samsung · 11 months
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“ Il metodo Falcone
«Nemico numero uno della mafia», l'etichetta gli resterà attaccata per sempre. Circondato da un alone leggendario di combattente senza macchia e senza paura, il giudice Giovanni Falcone, cinquantadue anni, ne ha trascorsi undici nell'ufficio bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo a far la guerra a Cosa Nostra. Queste pagine ne costituiscono la testimonianza. Non si tratta né di un testamento né di un tentativo di tenere la lezione e ancor meno di atteggiarsi a eroe. «Non sono Robin Hood,» commenta in tono scherzoso «né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium». Si tratta dunque piuttosto di un momento di riflessione, del tentativo di fare un bilancio nell'intervallo tra vecchi e nuovi incarichi: il 13 marzo 1991 il giudice Giovanni Falcone è stato nominato direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia a Roma.
Lontano da Palermo.
La partenza dal capoluogo siciliano, il distacco da una vita che si alternava tra auto blindate, dall'atmosfera soffocante del Palazzo di Giustizia, dalle lunghe notti a leggere e rileggere le deposizioni dei pentiti dietro le pesanti tende di una stanza superprotetta, dai tragitti tortuosi con la scorta delle auto della polizia a sirene spiegate sono forse stati una specie di sollievo. Ma Falcone non si fa illusioni, non dimentica il mancato attentato del 21 giugno 1989. cinquanta candelotti di tritolo nascosti tra gli scogli a venti metri dalla casa dove trascorre le vacanze: «È vero, non mi hanno ancora fatto fuori… ma il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno». Tommaso Buscetta, il superpentito della mafia, lo aveva messo in guardia fin dall'inizio delle sue confessioni: «Prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il suo turno. Fino a quando ci riusciranno!».
Roma è soltanto in apparenza una sede più tranquilla di Palermo; ormai da tempo i grandi boss mafiosi l'hanno eletta a loro domicilio. La feroce «famiglia» palermitana di Santa Maria di Gesù vi ha installato antenne potenti. Senza contare la rete creata dal cosiddetto «cassiere» Pippo Calò, con il suo contorno di mafiosi, gangster e uomini politici. Le ragioni per le quali Falcone ha scelto Roma come nuova sede di lavoro sono diverse: nella capitale di Cosa Nostra non poteva più disporre dei mezzi necessari alle sue inchieste e il frazionamento delle istruttorie aveva paralizzato i giudici del pool anti-mafia. Era diventato il simbolo o l'alibi di una battaglia disorganizzata. Conscio di non essere più in grado di inventare nuove strategie, l'uomo del maxiprocesso, che aveva trascinato in tribunale i grandi capimafia, non poteva rassegnarsi a rimanere inerte. Ha scelto di andarsene. Le informazioni da lui raccolte possono essere utilizzate con profitto anche lontano da Palermo. Certo, non dovrà più svolgere personalmente le indagini, dovrà invece creare condizioni tali per cui le indagini future possano essere portate a termine più rapidamente e in modo più incisivo, dando vita a stabili strutture di coordinamento tra i diversi magistrati. Il clima nel capoluogo siciliano è cambiato: è spenta l'euforia degli anni 1984-87, finita la fioritura dei pentiti, lontano il tempo del pool antimafia, dei processi contro la Cupola istruiti magistralmente. In questa città impenetrabile e misteriosa, dove il bene e il male si esprimono in modo ugualmente eccessivo, si respira un senso di stanchezza, il desiderio di ritornare alla normalità. Mafiosi regolarmente condannati sono tornati in libertà per questioni procedurali, alcune facce fin troppo note ricompaiono nei ristoranti più alla moda. Le forze dell'ordine non hanno più lo smalto di un tempo. I pool di magistrati sono ormai svuotati di potere, il fronte ha smobilitato. Cosa Nostra dal canto suo ha rinunciato all'apparente immobilità. La pax mafiosa seguita alle pesanti condanne del maxiprocesso, da un lato, e al dominio dittatoriale dei «Corleonesi» sull'organizzazione, dall'altro, non è più salda come prima. Si moltiplicano i segnali di un progetto di rivincita delle «famiglie» palermitane per riconquistare l'egemonia perduta nel 1982 a favore della «famiglia» di Corleone, i cui capi, latitanti, si chiamano Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Luciano Leggio, quest'ultimo in carcere. La mafia sta attraversando una fase critica: deve riacquistare credibilità interna e rifarsi una immagine di facciata, in quanto entrambe gravemente compromesse. «Abbiamo poco tempo per sfruttare le conoscenze acquisite,» ripete instancabilmente Falcone «poco tempo per riprendere il lavoro di gruppo e riaffermare la nostra professionalità. Dopodiché, tutto sarà dimenticato, di nuovo scenderà la nebbia. Perché le informazioni invecchiano e i metodi di lotta devono essere continuamente aggiornati.». “
Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose Di Cosa Nostra, Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli. Prima edizione: 13 novembre 1991.
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vintagebiker43 · 3 hours
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Il candidato ideale della destra:
Condannato per :
-reato di falso e truffa aggravata ai danni dello Stato per produzione di documenti falsi
-diffamazione aggravata sulle indagini del pool antimafia di Palermo
-infinite altre condanne di diffamazione
-oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale.
occasionalmente vende quadri rubati
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cinquecolonnemagazine · 10 months
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La strage di via D'Amelio e il senso della memoria
Il 19 luglio, giorno in cui ricorre l'anniversario della strage di via D'Amelio, a Palermo è un giorno da segnare sul calendario. C'è una memoria da celebrare. C'è un momento che vede le migliori energie di una città impegnate per mantenere l'attenzione alta sul tema mafia. Quest'anno non è così. In genere dopo tanti anni anche i fatti più sconcertanti tendono a sbiadire nella memoria e la tensione emotiva cala. Per la strage di via D'Amelio, come quella di Capaci, la strada è un'altra: il caso politico che, come tale, divide. La strage di via D'Amelio 31 anni fa Sono passati 57 giorni dalla strage di Capaci. Un attentato senza precedenti che ha scosso un intero Paese. Sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino erano consapevoli del destino che li attendeva e quel tritolo esploso in autostrada ne era stata un'ulteriore conferma. La vita per Borsellino aveva ripreso a scorrere con lo stesso impegno di sempre e quella domenica era andato a far visita alla madre come di consuetudine. Lo scenario che si aprì agli occhi degli inquirenti appena giunti sul posto fu raccapricciante. Il senso di sconforto che nacque si allargò da Palermo a tutta Italia in pochi istanti. Chi non ricorda le parole di Antonino Caponnetto dopo l'ultimo saluto a Paolo Borsellino: "E' finito tutto...". Dal pool antimafia all'abolizione del concorso esterno in associazione mafiosa Grazie al magistrato siciliano era, infatti, nato il cosiddetto pool antimafia, una nuova strategia nella lotta alla mafia nata grazie a un'idea di Rocco Chinnici. I punti di forza di questa strategia erano il coordinamento tra i magistrati, la possibilità di raccordare le diverse inchieste. Grazie a questa metodologia, i magistrati fecero grandi passi in avanti nella lotta alla mafia. Ricostruirono la struttura di Cosa Nostra, istruirono un maxiprocesso per crimini di mafia. Nacque il cosiddetto metodo Falcone che seguiva i flussi di denaro per individuare le attività criminali di Cosa Nostra. Con l'istruzione del maxiprocesso Falcone e Borsellino configurarono una nuova fattispecie di reato che era il concorso esterno in associazione mafiosa. Con questa tipologia di reato si andavano a colpire le persone che favorivano la mafia pur non essendone parte. La memoria tra le polemiche A essere precisi il concorso esterno in associazione mafiosa non è una fattispecie di reato quanto una creazione giurisprudenziale. Uno strumento che nel tempo i magistrati hanno utilizzato per andare a colpire quella rete di connivenze che aveva contribuito in maniera fattiva allo sviluppo della mafia. Parliamo di imprenditori, parliamo di politici. Grazie a questo strumento fu individuata la prassi del cosiddetto voto di scambio che assicurava nelle amministrazioni locali (e non solo) la presenza di politici appoggiati dalla mafia. Quello stesso strumento che oggi il ministro della Giustizia Carlo Nordio vuole abolire. Inondato dalle critiche, il ministro ha precisato che in realtà vuole riformarlo poiché così com'è stato concepito può generare confusione e soprattutto si affida troppo alla discrezionalità del giudice. Le precisazioni non sono bastate a placare le polemiche arrivate soprattutto dal fratello del giudice Borsellino, Salvatore, e dalle associazioni che operano sul territorio come il Movimento delle Agende Rosse. Il timore è che questa riforma segni un clamoroso passo indietro nella lotta alla mafia. Salvatore Borsellino ha dichiarato alla manifestazione di oggi non accoglierà politici che fanno parte del governo e chiesto alla premier Meloni di prendere le distanze dal ministro Nordio. La giornata sarà scandita da due manifestazioni: la prima organizzata dallo stesso Salvatore Borsellino e dalle Agende Rosse che vedrà la partecipazione di Cgil, partiti, associazioni e movimenti di sinistra. Il corteo prenderà il via alle 15 dall'albero Falcone e arriverà a via D'Amelio dove, alle 16.58 (ora della deflagrazione) saranno ricordare le vittime sulle note del silenzio. La seconda sarà la fiaccolata organizzata dalla Destra che si snoderà da piazza Vittorio Veneto a via D'Amelio a partire dalle 20. Che senso ha la memoria se non è condivisa? La lotta alla mafia è un dovere politico non una bandiera da sventolare. In copertina foto di Nat Aggiato da Pixabay Read the full article
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arcobalengo · 1 year
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Agli inizi degli anni Novanta era il pupillo di Riina. Si chiamava Matteo Messina Denaro. Ed era figlio di don Ciccio, capo mafia di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Matteo era giovane, sconosciuto e impunito. Caratteristiche utili per guidare la “missione romana” dei trapanesi, voluta da Riina. Nella Capitale dovevano essere uccisi alcuni giornalisti per allontanare l’attenzione dalla Sicilia. Se necessario, bisognava portare anche l’attenzione sui vecchi brigatisti. Così spiegava Matteo Messina Denaro agli altri del commando omicida. Ma, soprattutto, bisognava raggiungere Roma per far fuori a colpi di kalashnikov il giudice Giovanni Falcone. Così a febbraio 1992, Matteo “U siccu” partì con altri picciotti di Cosa Nostra alla volta di Roma. Francesco Geraci arrivò in aereo con Enzo Sinacori, mentre Messina Denaro era partito con Renzo Tinnirello, e Giuseppe Graviano con Fifo De Cristoforo. Il gruppo di fuoco prese un alloggio ai Parioli e Geraci noleggiò un’auto perché era l’unico che aveva una carta di credito. Per quella trasferta il giovane Matteo diede a ciascuno cinque milioni di lire. Rimasero a Roma in tutto nove giorni. Il gruppo di fuoco cercò inutilmente Falcone nel ristorante “al Matriciano” nel quartiere Prati. Scoprirono in seguito che il giudice frequentava “La Carbonara”, nella centralissima Campo de’ Fiori. Poi fu la volta del Teatro Parioli, dove lavorava Maurizio Costanzo, e lì cercarono di capire dove piazzare il tritolo. Individuarono un cassonetto dell’immondizia. Entrarono anche in teatro per assistere al “Maurizio Costanzo Show”. Quel giorno, in sala, pare ci fosse anche Falcone. Improvvisamente però, il 4 marzo, Riina cambiò i programmi e ordinò ai picciotti di tornare a casa. Otto giorni dopo partì l’offensiva stragista in Sicilia. Il 12 marzo venne freddato a Mondello l’eurodeputato Salvo Lima, prima uomo del potentissimo ministro Giovanni Gioia, poi passato armi e bagagli dai fanfaniani a trasformare in corazzata nazionale il vascello laziale della corrente di Giulio Andreotti, portando in dote al sette volte presidente del Consiglio la cassaforte dei voti della famiglia più inquinata dell’Isola, come l’aveva definita il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Clientele e favori. Grandi affari e mafia. Fino al Maxiprocesso, che fu la condanna di Lima. Non era tra gli imputati, ma i tempi del giudizio coincisero con la sua parabola discendente. Lima era ormai incapace di garantire gli interessi di una Cosa Nostra alla ricerca di un canale per neutralizzare i guasti del pool antimafia di Giovanni Falcone.
Franco Fracassi - The Italy Project
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pettirosso1959 · 1 year
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Utilissimo ricordare cosa e come avvennero i fatti, pare che con questa polemica di oggi (Alfonso Bonafede-Nino Di Matteo), si ricalchi esattamente quello che successe tanti anni fa:
Oggi non è la ricorrenza della Strage di Capaci. Ma quello che successe il 19 gennaio di trent’anni fa fu una delle tappe che portarono all’isolamento di Giovanni Falcone. Uno dei tanti atti di ostilità e di gelosia che annunciarono pubblicamente la sua condanna a morte, raramente ricordati durante le commemorazioni e per questo necessari da ricordare.
Il Maxiprocesso era finito: la sentenza del 16 dicembre 1987 condannava la mafia per la prima volta nella storia d’Italia. Giovanni aveva vinto, ma era diventato “il morto che cammina”.
Come raccontato da Giovanni Brusca, l’uomo che avrebbe premuto il pulsante che fece detonare l’esplosivo allo svincolo per Capaci, Ignazio Salvo, un altro mafioso, gli disse che c’erano amici più in alto che avrebbero pensato a delegittimare Falcone, a cercare di ostacolarne la carriera. Che forse non ci sarebbe stato bisogno di ucciderlo.
Ad attaccare Falcone ci aveva già pensato Sciascia sul Corriere della Sera, in prima pagina, il 10 gennaio 1987, nel mezzo del Maxiprocesso, scatenando contro i giudici del Pool la celeberrima polemica dei “professionisti dell’antimafia”.
Antonino Caponnetto, allora anziano capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e guida del Pool, conclusosi il Maxiprocesso decise di tornare a Firenze, avendo ricevuto rassicurazioni sul fatto che il suo erede naturale, Giovanni Falcone, avrebbe meritatamente preso il suo posto.
Ma le promesse non vennero mantenute, e le parole di Ignazio Salvo si rivelarono come una profezia: Falcone non avrebbe ottenuto quel posto. Partito Caponnetto si aprì il concorso per l’Ufficio Istruzione e a un uomo anziano con diverse e più grandi ambizioni venne chiesto di candidarsi per quel posto destinato a Falcone.
Antonino Meli non era un corrotto. Aveva però tutti i requisiti per essere il candidato ideale per soffiare il posto a Falcone: vent’anni di anzianità in più, ma sopratutto non capiva niente di mafia. Il tradizionale criterio dell’anzianità di servizio fu anteposto a quello del merito. Palermo in quegli anni aveva il più alto tasso di omicidi tra le città delle democrazie occidentali: nessuna ragione dunque per non applicare inflessibilmente quei tradizionali criteri di selezione basati sull’età.
Il 19 gennaio 1988 il CSM votò: 10 voti a favore di Giovanni Falcone, 14 a favore di Antonino Meli. Vanno ricordati tutti, uno a uno.
A favore di Meli votarono Agnoli, Borrè, Buonajuto, Cariti di Persia, Geraci, Lapenta, Letizia, Maddalena, Marconi, Morozzo della Rocca, Paciotti, Suraci, e Tatozzi.
A favore di Falcone Abbate, Brutti, Calogero, Caselli, Contri, D’Ambrosio, Gomez d’Ayala, Racheli, Smuraglia, Ziccone.
Astenuti: Lombardi, Mirabelli, Papa, Pennacchini, Sgroi.
Come disse in seguito Borsellino, “il CSM mi fece un bel regalo di compleanno…“. Pochi mesi dopo, il Pool antimafia cessò di esistere.
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marcoleopa · 2 years
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Palermo, A.D. 2022 - gli interventi di Fiammetta Borsellino e don Totò vasavasa/S. Cuffaro
Fiammetta Borsellino, “oggi Palermo, alla fine della 'era Orlando', si appresta ad affrontare delle nuove elezioni e purtroppo assistiamo alla riemersione nell'impegno elettorale - seppur nell'ombra - di persone che purtroppo hanno scritto delle pagine buie della nostra terra e sono condannati per mafia: Salvatore Cuffaro e Marcello Dell'Utri. Si stanno impegnando per queste elezioni e il problema non è se lo possono fare o meno, perché hanno scontato delle condanne, il problema - e qui torniamo alla questione morale che non si vuole più affrontare - è di dire che questa cosa è politicamente e moralmente inopportuna. Il rischio è che con queste modalità si possano fare passi indietro è veramente altissimo, ma la questione morale sembra essere scomparsa dall'agenda di tantissimi candidati. "Ricordare vuol dire riappropriarsi delle testimonianze di vita di determinati uomini affinché diventino patrimonio di tutti noi, lo dico sempre ai ragazzi perché costituiscano un faro per il nostro avvenire. Solo così la vita può avere una prevalenza sulla morte. Ricordare non può essere una mera celebrazione, non può essere una santificazione perenne, quando ciò accade diventa retorica, un oppio, e svia dai problemi. La memoria non può essere disgiunta dalla ricerca verità. In questi anni abbiamo assistito a tantissime celebrazioni ma il diritto alla verità su queste terribili vicende, che io definisco una ferita collettiva, non individuale, è stato totalmente calpestato attraverso percorsi voluti e depistaggi. parte innanzitutto in quei 57 giorni che intercorrono tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio. Lì inizia il depistaggio perché a mio padre fu impedito di riferire quello che stava facendo anche in riferimento a delle indagini sulla morte di Falcone. Lui chiese alla Procura di Caltanissetta di essere sentito ma non lo vollero mai ascoltare, tant'è che al famoso discorso alla Biblioteca Comunale di giugno in un atto di disperazione si mise in pericolo dicendo di sapere ma che avrebbe riferito solamente alle autorità giudiziarie. Fu gettato in una solitudine assoluta, che poi è l'origine della maggiore esposizione al pericolo: tutti coloro che sono morti in quegli anni, sono morti sicuramente per mano mafiosa ma principalmente perché lo Stato italiano non è stato in grado di difendere i suoi uomini migliori. Nei minuti successivi alla strage di via D'Amelio, quando non viene attuata nessuna forma di tutela per quel luogo, tanto da permettere alla "mandria di bufali" di cancellare qualsiasi prova, grazie anche al comportamento inadeguato di addetti ai lavori che maneggiarono la borsa senza accertarsi del contenuto e della persona a cui andava consegnata. Dopo di questo abbiamo una serie di indagini e processi condotti violando le norme del codice, in quegli anni duranti i processi non furono fatte verbalizzazioni di sopralluoghi importantissimi da cui si poteva immediatamente evincere l'inattendibilità del falso pentito Scarantino, il "pupo" scelto per auto-accusarsi di questa strage nonostante le evidenze che fosse assolutamente inattendibili. I confronti tra Scarantino e mafiosi "doc" che non lo riconoscevano - sottolinea Fiammetta Borsellino-, non furono mai depositati. E anche quando alcuni magistrati si accorsero che i colleghi non applicavano le norme del Codice come riportato nel caso delle lettere scritte dalla dott.ssa Boccassini al dott. Saieva, che a un certo punto se ne andarono sbattendo la porta. Addirittura, in queste lettere si dice che i colleghi devono verbalizzare tutto, anche i respiri di Scarantino, eppure furono semplicemente protocollate e i magistrati che sono stati sentiti su questo dichiararono di non averne avuto notizia se non dopo tanto tempo. Ecco, una denuncia del genere andava fatta sotto altre forme, come ci ha insegnato mio padre che quando tentarono di smantellare il pool antimafia denunciò la cosa.  Mio padre non fu mai avvisato nemmeno dell'arrivo del tritolo dal procuratore capo di allora, Giammanco, che non fu mai sentito dalla procura di Caltanissetta. Procura che fu totalmente inadeguata perché fatta da magistrati alle prime armi, che, come hanno poi dichiarato, prima di allora non si erano mai occupati di mafia. Nessun uomo dotato di una minima intelligenza - sottolinea Fiammetta Borsellino - crederà che un depistaggio, definito come il più grave della Repubblica Italiana, sia stato compiuto da un manipolo di poliziotti. La sentenza del processo Borsellino-quater, che sancisce quello di via D'Amelio come il depistaggio e l'errore più grave della storia, dice che Scarantino è stato indotto a dire il falso da coloro che lo gestivano. Coloro che lo gestivano sono sicuramente investigatori ma, come sappiamo tutti, sono controllati e coordinati dai magistrati. A questo impianto così grave, queste gravissime anomalie che hanno caratterizzato le indagini e i processi, non ha fatto seguito nessun accertamento di responsabilità nei confronti di coloro che ne sono stati attori, né nei confronti del Csm, né da parte della Procura Generale della Corte di Cassazione. Ritengo offensiva la chiamata fattami qualche giorno fa dal procuratore generale della Corte di Cassazione che mi invitava a partecipare a un convegno dei super procuratori generali di Palermo: io dalla Procura Generale mi aspetto delle risposte, da tanto tempo, nonostante io e mia sorella abbiamo dato un grossissimo contributo in termini di audizioni e verbali. Non c'è stata mai alcuna restituzione e credo che questa di via D'Amelio e di tante altre stragi che hanno caratterizzato la storia del Paese sia una storia torbida, e lo Stato ha perso la possibilità di poter fare anche pulizia al proprio interno perché è evidente che la mafia non agisce da sola, e qui torniamo alle "menti raffinatissime" di cui parlava Giovanni Falcone che sicuramente sono rimaste nell'ombra e hanno avuto una convergenza di interessi affinché determinate stragi potessero essere portate a termine. Il depistaggio, ha ottenuto il suo principale effetto che è stato il passare del tempo: il passare del tempo allontana la verità per lo sgretolamento delle prove, la morte dei testimoni. Non si può buttare però tutto "sui morti": in questi anni ci sono stati i processi, potevano essere assunte testimonianze anche incentrate sulla collaborazione e invece io stessa a Caltanissetta, avendo partecipato a quest'ultimo processo, ho assistito a testimonianze di funzionari dello Stato piene di "non ricordo". Questa è una cosa molto triste perché denota che l'omertà non è soltanto quella mafiosa ma c'è un'omertà istituzionale che è ben più grave"  
don Totò vasavasa, al secolo S. Cuffaro: “Disgustoso inquinare il giorno della memoria. Io e tanti palermitani e siciliani onesti, abbiamo un sogno che comincia a realizzarsi, rifare la Democrazia Cristiana. Scegliere di inquinare un solenne giorno di memoria  con uno squallido spettacolo politico da campagna elettorale per tentare di “mascariarla” è stato a mio modesto parere disgustoso. È accaduto pure questo il 23 maggio con la volontà di certa parte della sinistra politica e la complicità di una parte di quella artistica e giornalistica.Vorrei dire a Pif - prosegue - che può tenere il suo animo disteso perché normalmente io querelo le persone non “i pif”. Considerata, quindi, la mia volontà di non querelarlo può anche sollevare l’avvocato che ha nominato dal palco, perché non avrà certo bisogno di essere difeso dall’avvocato Leoluca Orlando Cascio. Questo mi è molto di conforto perché non dovendo difendere “i pif”' non querelati da me, potrà occuparsi - tra una indignazione e l’altra nei miei confronti - di dare degna sepoltura alle oltre 1200 bare accatastate al cimitero dei Rotoli da oltre un anno. Questa però è la mia speranza ma non credo che lo farà. E comunque io “i pif” non li querelo.Gridate con me: la mafia fa schifo!”
Notare bene: la stessa frase,  la mafia fa schifo!, che pronunciò quando era presidente della Regione e che fece stampare sui manifesti pubblicitari di grandi dimensioni, poco prima di venire condannato per favoreggiamento alla mafia e rivelazione del segreto istruttorio. 
p.s. don Totò, attendo querela
Palermo, A.D. 2022
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alessandrocorbelli · 5 months
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Perché la Mafia dopo 150 anni esiste ancora ed il Terrorismo no? Risponde il magistrato Leonardo Guarnotta, ex pool antimafia.
a cura di: Alessandro Corbelli (Digital News 24) 08/08/2023 Con questa intervista, il Magistrato ex Pool Antimafia Leonardo Guarnotta, mi ha fatto ben comprendere perché tanti casi di mafia, come quello da me scoperto e denunciato riguardo la vicenda di “Verità e Giustizia per Irene Palacino”, restano inspiegabilmente impigliati nelle fitte maglie della Giustizia e […]Perché la Mafia dopo 150…
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staipa · 7 months
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Un nuovo post è stato pubblicato su https://www.staipa.it/blog/cosa-pensa-di-te-una-intelligenza-artificiale/?feed_id=1029&_unique_id=65267e6f6c608 %TITLE% Ho parlato in più di un articolo del rischio che una Intelligenza Artificiale non ben alimentata possa avere dei forti bias e dei pregiudizi, sia in Le sfide tecniche e sociali dell’intelligenza artificiale (https://short.staipa.it/emfjl) che in maniera più specifica in L’intelligenza artificiale può essere razzista? (https://short.staipa.it/0m16a), ma non è facile darne una prova esplicita e chiara, soprattutto senza offendere qualcuno nello specifico. Sarebbe stato facile scegliere uno qualsiasi dei numerosi stereotipi che noi stessi italiani diamo ad alcuni abitati dell'una o dell'altra regione o città, o utilizzare gli stereotipi di etnie con minor frequenza ma bene o male il rischio di offendere (anche giustamente) qualcuno sarebbe stato comunque eccessivo, e la resa piuttosto bassa. Alla fine in ogni stereotipo tende ad esserci una certa percentuale di verità, alta o bassa a seconda del caso e se avessi scelto uno stereotipo razziale ci sarebbe stato comunque il razzista di turno che avrebbe detto "non è uno stereotipo, quelli lì sono così davvero". Ho scelto così di puntare genericamente sugli Italiani. Lo sono io e lo è sicuramente la gran parte del mio pubblico, probabilmente anche tutto perché immagino che chi raggiunge il mio sito da altre nazioni sia comunque più o meno indirettamente Italiano. Ho scelto di puntare sugli italiani anche perché così ognuno di noi può sentire su di sé, più o meno ironicamente il pregiudizio dell'Intelligenza Artificiale. Le immagini che seguono le ho fatte generare ad una IA basata su DALL·E 3 (https://openai.com/dall-e-3) sempre dei produttori di Chat Gpt. Ho fatto diversi tentativi, sempre più generici possibili: Disegnami una rappresentazione artistica di vita di italiani, nello stile più adatto a degli italiani Ok, secondo DALL·E lo stile più adatto per rappresentare gli italiani è quello della pittura rinascimentale (non sono un critico d'arte, la definizione è probabilmente MOLTO approssimativa), di fatto le rappresentazioni forse ci stanno, pur non capendo il perché di quel piatto che naviga sul fiume, ma guardando bene spunta quell'aria di mafia stereotipata da Padrino tutti che mangiano e festeggiano e quell'aria di mandolino, anche se siu tratta di una chitarra Ma non è questo che volevo, io volevo una rappresentazione contemporanea, per capire come l'intelligenza Artificiale immagina gli italiani Disegnami una rappresentazione artistica di vita di italiani contemporanei nello stile più adatto a degli italiani L'italiano contemporaneo continua a mangiare, bere e avere l'aria da Paadrino ma gira con il suo scooter sotto la Tour Eiffel... mangiando prevalentemente per terra in un guazzabuglio di confusione e automobili d'epoca, immancabili caffè e sigaretta da seduti, cosa che un italiano ben sa a quali conseguenze porti. Ho provato anche in inglese Paint a representation of common life of Italian people. Gli italiani tipici hanno il Big Ben vicino, mangiano e bevono, suonano la chitarra, sono piuttosto disordinati e se la giacca e la pettinatura fa un po' meno padrino per terra ci sono un mucchio di soldi. Il risultato di quello che ho fatto è di certo goliardico ed evidenzia qualcosa che può sembrare poco grave, ma ci vuole poco a immaginare cosa potrebbe accadere se gli stessi pregiudizi venissero applicati in altri ambiti, un italiano verrebbe scelto per un viaggio su Marte dove il cibo è risicato? Un italiano verrebbe scelto come persona fidata in un pool antimafia internazionale? Non da una Intelligenza Artificiale alimentata come questa, che è attualmente considerata una delle più importanti, fa solo disegni, sì, ma anche questi disegni evidenziano un possibile problema. Per chi volesse, i commenti sono aperti a caccia di altri piccoli e grandi pregiudizi.
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Rocco Chinnici, grande precursore della moderna lotta alla mafia
Professore ci offre un suo ricordo del giudice Chinnici?In tanti lo ricordano come il padre del pool antimafia. Io vorrei commemorarlo, nel quarantesimo anniversario della sua uccisione, soprattutto evidenziando la sua lungimiranza nel comprendere le continue evoluzioni del fenomeno mafioso. Era in grado di occuparsi di impressionanti quantità di fascicoli studiandoli tutti meticolosamente. Che…
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giancarlonicoli · 9 months
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20 lug 2023 19:44
“IN VIA D'AMELIO INCIAMPAI IN UN TRONCO ANNERITO, ERA IL CORPO DI PAOLO BORSELLINO” – GIUSEPPE AYALA, EX PM DEL POOL ANTIMAFIA, RICORDA LA STRAGE DEL 19 LUGLIO 1992: “CI SONO ANCORA ZONE D'OMBRA SUL DEPISTAGGIO, SU QUELL'AGENDA ROSSA CHE NON È MAI STATA TROVATA” – “COSA NOSTRA HA CAMBIATO STRATEGIA: NON AMMAZZA PIÙ, NON FA PIÙ STRAGI, È PIÙ DEBOLE” – SUL CONCORSO ESTERNO, CHE IL MINISTRO NORDIO VORREBBE ABOLIRE: “È UN REATO MOLTO DEFINITO E FISSATO DA CRITERI BEN PRECISI” -
Estratto dell’articolo di Laura Anello per “La Stampa”
Lui c'era, in mezzo al fumo, all'asfalto sventrato, ai corpi di Borsellino e dei suoi cinque agenti di scorta in via D'Amelio. Era lì il 19 luglio del 1992 Giuseppe Ayala, magistrato di lungo corso, pm del primo maxiprocesso, amico di Falcone e di Borsellino, parlamentare nell'anno delle stragi.
«Abitavo lì vicino – racconta Giuseppe Ayala –, ho sentito un botto incredibile e mi sono precipitato, in mezzo al fumo. Lì sono inciampato in qualcosa che all'inizio non avevo capito che cosa fosse, era un tronco annerito, senza braccia né gambe, color carbone, ci ho messo qualche istante a capire che era Paolo».
A trentuno anni dalle stragi, il ministro della Giustizia Nordio ha sollevato un vespaio annunciando la volontà di abolire il reato di concorso esterno, prima di essere stoppato dalla premier Meloni. Lei che cosa ne pensa?
«Io credo che dopo le parole di Meloni, il tema sia abbondantemente chiuso. Conosco e stimo molto il ministro Nordio, siamo entrati in magistratura insieme, ma le sue prime sortite a riguardo mi hanno molto sorpreso. Mi pare non ci sia alcuna esigenza di tipicizzare, termine che usa il ministro, un reato che mi sembra molto definito e che viene fissato da criteri ben precisi in una sentenza del 2005 […]».
[…] Il fratello di un agente di scorta di Borsellino, Luciano Traina, ci ha detto che lo Stato ha fallito su tutti i fronti contro la mafia, che non l'ha voluta combattere. Lei che bilancio fa?
«La cosa più importante da sottolineare è che Cosa nostra ha cambiato strategia: non ammazza più, non fa più stragi, è più debole, anche se non del tutto debellata. Lo Stato si è attrezzato e ha messo a segno colpi importanti. L'arresto di Matteo Messina Denaro è uno di questi, seppur tardivo, seppure denso di interrogativi, anche se io non credo alle teorie dietrologiche sul fatto che sia stato un arresto, per così dire, concordato.
Forse bisogna ricordarsi più spesso che fino al 29 settembre 1982 nel codice penale italiano non esisteva la parola mafia, fu introdotta dopo l'uccisione del generale Dalla Chiesa. La mafia è un fenomeno umano, ha avuto un suo inizio a avrà una sua fine, come diceva Falcone. Non so quando succederà, ma mi piacerebbe moltissimo esserci».
Non crede che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire nelle stragi?
«Certo che sì, soprattutto sulla fine di Paolo, sul depistaggio, su quell'agenda rossa che non è mai stata trovata. La speranza dopo trentuno anni si è affievolita, ma è ancora viva».
Agenda rossa contenuta nella borsa su cui lei è un testimone prezioso. Ha raccontato di essersela ritrovata in mano in mezzo alle macerie e di averla consegnata a un ufficiale dei carabinieri in divisa. Ma Giovanni Arcangioli, l'ufficiale dei carabinieri fotografato in maniche di camicia con la borsa in mano, sostiene che gliela portò, la aprì davanti a lei e al suo collega Giovanni Teresi e che constataste insieme che era vuota.
«Come ho già detto, è pura invenzione».
Secondo la Cassazione, la trattativa Stato-mafia non c'è mai stata.
«Io sono un magistrato all'antica, le sentenze le rispetto». […]
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lamilanomagazine · 11 months
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Mafia, Giorgia Meloni: "un feroce attacco allo Stato, una guerra dichiarata alla Repubblica per vendicarsi del carcere duro"
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Mafia, Giorgia Meloni: "un feroce attacco allo Stato, una guerra dichiarata alla Repubblica per vendicarsi del carcere duro" All’1:04 della notte tra il 26 e 27 maggio del 1993 una bomba esplose a Firenze, in via dei Georgofili, a poca distanza dalla Galleria degli Uffizi. Morirono cinque persone. A piazzare la bomba fu Cosa Nostra, la mafia siciliana, ma questo venne accertato solo tempo dopo. Il boato si sentì in tutto il centro della città. All’inizio, e fino alle prime ore della mattina, le notizie riferirono di una possibile fuga di gas. A provocare l’esplosione erano stati invece 277 chili di tritolo posizionati in un furgoncino Fiat Fiorino lasciato in prossimità della Torre dei Pulci. L’esplosione provocò un cratere largo quattro metri e venti e profondo un metro e trenta. Lo scoppio causò il crollo della Torre, che era sede dell’Accademia dei Georgofili. Morirono la custode dell’Accademia, Angela Fiume, il marito Fabrizio Nencioni, ispettore dei vigili urbani, le loro figlie, Nadia, di nove anni, e Caterina, che aveva due mesi. Nell’incendio che si propagò in alcune abitazioni morì anche uno studente universitario, Dario Capolicchio, che abitava nei pressi della Torre. L’esplosione danneggiò il 25% delle opere d’arte presenti nella Galleria degli Uffizi e nel corridoio Vasariano. Alcune opere furono danneggiate in maniera molto grave e tra queste qualcuna fu completamente distrutta. La bomba di via dei Georgofili fu uno degli attentati compiuti dalla mafia nel cosiddetto biennio delle stragi, tra il 1992 e il 1993. La strategia degli attentati fu decisa in una serie di riunioni della cosiddetta commissione regionale, che riuniva i capi di Cosa Nostra delle varie province siciliane, presieduta da Totò Riina. L’obiettivo era quello di intimidire lo Stato, in particolare politica e magistratura. Alla fine del 1991 si stava infatti concludendo il cosiddetto maxiprocesso a Cosa Nostra, iniziato nel 1986. Furono giudicati 460 imputati tra cui i maggiori esponenti di quella che veniva definita la cupola mafiosa, cioè il vertice di Cosa Nostra. Quando il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione confermò le condanne dei primi due gradi di giudizio, comprese quelle all’ergastolo per Totò Riina e altri capi mafiosi, la commissione regionale e la commissione provinciale di Palermo decisero di mettere in atto il piano che era già stato stabilito in precedenza. I vertici mafiosi stabilirono di colpire innanzitutto alcuni politici considerati referenti di Cosa Nostra, e da cui Totò Riina e gli altri capi mafiosi si aspettavano interventi perché facessero annullare dalla Corte di Cassazione le condanne inflitte in primo e secondo grado nel maxiprocesso. Il 12 marzo 1992 fu ucciso Salvo Lima, leader in Sicilia della Democrazia Cristiana e, secondo quanto stabilito da processi successivi, referente politico di Cosa Nostra. L’obiettivo successivo fu Giovanni Falcone, allora il più celebre giudice antimafia, colui che aveva istruito, con il pool palermitano guidato da Antonino Caponnetto, il maxiprocesso. Falcone fu ucciso il 23 maggio 1992 assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro nell’attentato di Capaci, lungo l’autostrada da Palermo all’aeroporto di Punta Raisi. L’attentato successivo doveva essere realizzato per uccidere un altro politico democristiano: Calogero Mannino, all’epoca ministro nel governo Andreotti. Il progetto fu però accantonato. Il 19 luglio venne assassinato invece Paolo Borsellino, anche lui giudice del pool antimafia, molto vicino a Giovanni Falcone. Una bomba esplose in via D’Amelio, a Palermo, dove Borsellino era andato a trovare la madre. Oltre a Borsellino morirono cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il 27 luglio 1992 la mafia assassinò a Catania l’ispettore capo Giovanni Lizzio; il 14 settembre a Mazara del Vallo ci fu un agguato al commissario Calogero Germanà, collaboratore di Borsellino: fu ferito, ma si salvò uscendo dalla sua auto, sparando e fuggendo in spiaggia. Il 17 settembre venne assassinato Ignazio Salvo, imprenditore palermitano legato a Salvo Lima, anche lui ritenuto ormai inaffidabile dai vertici mafiosi. Il 15 gennaio 1993 Totò Riina venne arrestato. I capi mafiosi ancora liberi, tra cui Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Gioacchino La Barbera, decisero di iniziare a colpire personalità al di fuori delle istituzioni ma molto in vista. Fu anche stabilito di creare terrore in tutta Italia con attentati a monumenti molto frequentati e conosciuti. L’obiettivo era quello di indurre lo Stato ad attenuare l’intensità nella caccia ai latitanti mafiosi e costringere le istituzioni a quella che poi sarebbe stata chiamata la “trattativa Stato-mafia”, che però un recente processo ha stabilito non essere mai avvenuta. Obiettivo principale della mafia allora era che venisse cancellato l’articolo 41-bis, il particolare regime carcerario ampliato e modificato nel 1992 per impedire ai boss mafiosi di comunicare con l’esterno del carcere. Il 14 maggio 1993 un’auto piena di esplosivo fu fatta scoppiare a Roma mentre stavano passando, a bordo di una macchina, il giornalista Maurizio Costanzo e la sua futura moglie, Maria De Filippi. La bomba esplose con qualche istante di ritardo e Costanzo e De Filippi rimasero illesi. Il primo attacco a un luogo d’arte fu proprio quello compiuto in via dei Georgofili. Un collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, disse nel 2008 che gli obiettivi, tra cui quello di Firenze, erano stati scelti dai mafiosi consultando depliant e guide turistiche. L’attentato in via dei Georgofili e altri due successivi vennero decisi durante una riunione a cui parteciparono Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, lo stesso Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e Giuseppe Barranca. L’esplosivo venne confezionato in una casa di corso dei Mille, a Palermo. Quindi un gruppo mafioso andò, il 23 maggio, a Prato: da lì vennero effettuati alcuni sopralluoghi nel centro di Firenze. L’esplosivo arrivò a Prato nei giorni successivi, trasportato nel doppiofondo di un camion e nascosto in un garage appartenente allo zio di un mafioso. Il 26 maggio venne rubato il furgoncino Fiat Fiorino che venne portato nel garage. Poi, secondo quanto dissero i collaboratori di Giustizia, furono Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano a parcheggiare il Fiorino in via dei Georgofili.   La strategia stragista della mafia proseguì nei mesi successivi: il 26 luglio due auto cariche di esplosivo scoppiarono a Roma, davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro e a San Giovanni in Laterano. Poco prima degli attentati a Roma una Fiat Uno, precedente rubata da Spatuzza e Giuliano e riempita di esplosivo, scoppiò a Milano in via Palestro. Morirono il vigile urbano Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Carlo La Catena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto e il cittadino marocchino Moussafir Driss. Il 23 gennaio un’autobomba fu parcheggiata fuori dallo Stadio Olimpico, a Roma, dove si giocava la partita Lazio-Udinese. L’autobomba doveva esplodere alla fine della partita al passaggio di un pullman di carabinieri. Il telecomando, azionato da Spatuzza, però non funzionò: l’attentato fallì. Le indagini sugli attentati del 1993 di Firenze, Roma e Milano furono riunite. Venne incaricata la procura di Firenze guidata da Piero Luigi Vigna. Il processo iniziò nel 1996: le posizioni di Totò Riina e Giuseppe Graviano vennero stralciate. Il processo si concluse con la condanna all’ergastolo di 14 mafiosi tra cui Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Salvatore Spatuzza. Nel 2000 anche Riina e Graviano vennero condannati all’ergastolo. Nel 2008 Gaspare Spatuzza divenne collaboratore di giustizia: le sue dichiarazioni fecero riaprire le indagini sulle bombe del 1992-1993. Nel 1994 la procura di Firenze aveva anche avviato l’indagine sui cosiddetti “mandanti occulti”.   “Un feroce attacco allo Stato, una guerra dichiarata alla Repubblica per vendicarsi del carcere duro, una ferita gravissima inferta all’Italia e al suo patrimonio artistico e culturale. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio di trent’anni fa la mafia decise di colpire con tutta la sua forza Firenze, facendo saltare in aria un’autobomba carica di 250 chilogrammi di esplosivo sotto l’Accademia dei Georgofili. Il crollo della Torre delle Pulci uccise Fabrizio e Angela Nencioni, le figlie Nadia di 9 anni e Caterina di appena 50 giorni. A perdere la vita anche Dario Capolicchio, 22 anni, morto nell’incendio dell’edificio di fronte alla Torre. Decine di feriti e incalcolabili i danni al patrimonio: l’onda d’urto della bomba investì il centro storico della città, Palazzo Vecchio, la Chiesa di Santo Stefano e Cecilia e la Galleria degli Uffizi, distruggendo per sempre alcuni capolavori e causando danni ingenti a molte opere. Nessun fiorentino, nessun italiano, potrà mai dimenticare la strage dei Georgofili. Così come nessuno potrà mai cancellare dalla memoria quegli anni così difficili per la nostra Nazione, segnati da altri sanguinosi attentati e stragi. Una lunga scia di terrore di fronte alla quale il nostro popolo seppe reagire, dimostrando la forza della legalità e la solidità delle Istituzioni. Il Governo rivolge il suo pensiero commosso a tutti i famigliari delle vittime e rinnova il suo ringraziamento ai servitori dello Stato che, spesso nell’ombra e tra mille difficoltà, hanno lottato e lottano contro la mafia. E che con il loro instancabile lavoro avvicinano sempre di più il definitivo tramonto della criminalità organizzata”. Questa la dichiarazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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frualeirazzifrua-blog · 11 months
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Rivedere Giovanni Falcone con gli occhi di Paolo Borsellino, ripartire da quel 19 luglio di 25 anni fa in via D’Amelio per ritornare a Capaci. “In questo momento è importante che ricordi a me stesso e voi che sono un magistrato” dice Paolo Borsellino subito dopo la morte del collega, dell’amico, consapevole di essere diventato testimone, sopravvissuto con i giorni contati. Tutta la violenza e lo sgomento di allora sono parte integrante del docufilm “Falcone, Borselllino e gli altri”, firmato da Attilio Bolzoni, scritto da Salvo Palazzolo, Emilio Fabio Torsello, Diana Ligorio e realizzato dal nostro giornale in collaborazione con 42° Parallelo. La memoria di quei 57 giorni che separano le stragi attraverso le testimonianze dei protagonisti di allora: la vedova del caposcorta Antonio Montinaro, la signora Tina, Angelo Corbo, il più giovane agente sopravvissuto a Capaci e Antonino Caponnetto, il capo del pool antimafia di Palermo
Montaggio di Simone Taddei Fotografia di Maurizio Felicetti
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CACCIATORE DI MAFIOSI di Alfonso Sabella
Come si riesce a catturare un boss latitante? Come si organizza una caccia alla preda più difficile, l’uomo? Alfonso Sabella ha condotto in prima persona alcune delle indagini più importanti del pool antimafia palermitano, culminate nella cattura di boss come Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pasquale Cuntrera. In questo libro racconta la sua verità quotidiana, fatta di trionfi ma anche di…
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sinapsimagazine · 1 year
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‘The bad guy’ su Amazon Prime Video: Guia Jelo è l’enigmatica Giuseppina Corifena, capo del pool antimafia.
È un personaggio enigmatico e ricco di contraddizioni Giuseppina Corifena, il magistrato capo del pool antimafia interpretato da Guia Jelo nella nuova serie ‘The bad guy’, nuova serie di Amazon Prime Video. Diretta da Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, la crime story può vantare un cast d’eccezione, con protagonisti Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi. La serie è ambientata in Sicilia, e…
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grifo80 · 2 years
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Roberto Scarpinato, ex magistrato pool antimafia Falcone-Borsellino. Candidato a queste elezioni con il Movimento 5 Stelle 💪🏻 #DallaParteGiusta https://www.instagram.com/p/CheTXl8M6Vq/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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telodogratis · 2 years
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Rocco Chinnici e la rivoluzione del pool antimafia
Rocco Chinnici e la rivoluzione del pool antimafia
AGI – In via Pipitone Federico, a Palermo, sono le 8:10 quando una devastante esplosione scuote violentemente l’intero isolato. Una 126, imbottita di tritolo e fatta esplodere con un comando a distanza, trasforma una elegante zona residenziale nell’inferno e uccide il giudice Rocco Chinnici, padre del pool antimafia. Era il 29 luglio 1983. “Palermo come Beirut”, titoleranno i giornali 39 anni fa.…
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