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giancarlonicoli · 4 days
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23 apr 2024 11:18
“GIORGIA MELONI E’ CIRCONDATA DA IMBECILLI” - “IL FOGLIO”: “LA VICENDA SCURATI È L’ULTIMO ESEMPIO: SE QUEL MONOLOGO FOSSE ANDATO IN ONDA NON SE NE SAREBBE ACCORTO NESSUNO. E INVECE L’HANNO CENSURATO, PENSANDO DI FARE COSA GRADITA ALLA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO. SICCHÉ TRA DUE GIORNI IL MONOLOGO SARÀ LETTO PURE NELLE PIAZZE DEL 25 APRILE. L’IMBECILLE DI DESTRA TENDE A ESSERE ZELANTE NEI CONFRONTI DEL SUO CAPO. SOLTANTO CHE NON DI RADO LO METTE IN DIFFICOLTÀ - LA PAROLA D’ORDINE È UNA SOLA: BASTA COGLIONI” -
Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo per “il Foglio”
Giorgia Meloni […] dopo due anni circa di governo, […] si trova davanti a un guaio gigantesco che ipoteca il futuro e la possibile evoluzione di questo fenomeno politico a destra: è circondata da troppi imbecilli. […] le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. […] La vicenda Scurati è l’ultimo […] esempio: se quel monologo fosse andato in onda in quella trasmissione dai non ragguardevoli ascolti non se ne sarebbe accorto nessuno.
L’avrebbero potuto anzi mandare in loop, come sigla di apertura, come intermezzo danzante, al posto della réclame e infine anche, di nuovo, come sigla di chiusura, e ancora non se ne sarebbe accorto nessuno. E invece l’hanno censurato, pensando di fare cosa gradita alla presidente del Consiglio. Sicché tra due giorni un banalissimo monologo sarà letto pure nelle piazze del 25 aprile. Leonardo Sciascia sosteneva che il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile, ovvero crede che la difficoltà sia profondità.
Al contrario, l’imbecille di destra, come ben si vede, non ama scimmiottare la complessità ma tende piuttosto a essere zelante, specialmente nei confronti del suo capo. Soltanto che non di rado l’imbecille lo mette in difficoltà, il capo. […] l’imbecille compare improvvisamente a scatafasciare i piani del leader. […] Accadde quasi due anni fa quando un prefetto utilizzò il decreto sui rave per fare proprio quello che il governo aveva detto che non sarebbe mai accaduto: vietare manifestazioni di piazza.
Ed è riaccaduto altre volte in questi mesi. Abbiamo ascoltato la deputata che va in tv a dire che le ragazze devono stare a casa e fare figli, quello che dice che la maternità surrogata è peggio della pedofilia, fino a quello che porta una pistola al cenone di Capodanno e gli parte un colpo. Meloni dovrebbe ricordarsi del monito di Almirante, il quale, quando bisognava compilare gli elenchi della direzione nazionale diceva così: “Bisogna distinguere nettamente la fase del è un cretino ma è mio amico dalla più delicata è un amico ma è un cretino” . […] La parola d’ordine è una sola e categorica, come diceva il protagonista del romanzo di Scurati: basta coglioni.
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giancarlonicoli · 4 days
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23 apr 2024 16:53
“UMBERTO BOSSI E’ DI SINISTRA, PER QUESTO CE L’HA CON SALVINI” - MASSIMO FINI INFILA LA PENNA NELLE DIVISIONI DELLA LEGA: “BOSSI HA PRESO DECISAMENTE LE DISTANZE DA SALVINI PERCHÉ NON GLI VA A SANGUE LA POSIZIONE DI ESTREMA DESTRA PRESA DALLA LEGA IN UN GOVERNO GIÀ DI DESTRA, NÉ TANTOMENO IL RAZZISMO ANTROPOLOGICO ESPRESSO DALL’ATTUALE CARROCCIO. LA MITICA PADANIA ERA DI “CHI CI VIVE E CI LAVORA”, SENZA FARE ESAMI DEL SANGUE A CHICCHESSIA (INFATTI HA UNA MOGLIE SICILIANA). BOSSI AVEVA UNA VISIONE VISIONARIA E IN ANTICIPO SUI TEMPI…” -
Estratto dell’articolo di Massimo Fini per il “Fatto quotidiano”
Una notte, tanti anni fa, mi trovavo, verso le 3, in una pizzeria affianco di Bossi. Si parlava non solo di politica, ma anche di donne, amori, motori, […] quando gli feci improvvisamente una domanda a tradimento: “Umberto, tu sei più di destra o di sinistra?”. “Di sinistra, ma se lo scrivi ti faccio un culo così”. Va da sé che lo scrissi […]
Di recente […] Umberto Bossi ha preso decisamente le distanze da Salvini e dalla Lega di quest’ultimo. Non gli va a sangue, all’Umberto, la posizione di estrema destra presa dalla Lega di Salvini in un governo già di destra, né tantomeno il razzismo antropologico espresso dall’attuale Lega. La mitica Padania della prima Lega era di “chi ci vive e ci lavora”, senza fare esami del sangue a chicchessia (Bossi, lo ricordo, ha una moglie siciliana). […] Bossi, in concordanza col grande costituzionalista Gianfranco Miglio, aveva, […] una visione visionaria e totalmente in anticipo sui tempi.
Pensava che in un’Europa politicamente unita i punti di riferimento periferici non sarebbero più stati gli Stati nazionali, ma macroregioni coese economicamente, socialmente, culturalmente e anche dal punto di vista climatico. Non c’è nessuna ragione, per fare qualche esempio, che la Liguria di Ponente abbia un regime diverso dalla costa nizzarda o che Alto Adige e Tirolo siano divisi.
Così come, e al contrario, non c’è nessuna ragione per cui poniamo un professore di scuola di Milano guadagni la stessa cifra di uno di Canicattì, dove il costo della vita è il 30 per cento più basso che a Milano. È il principio delle “gabbie salariali” che Bossi voleva introdurre e per cui fu accusato di razzismo antimeridionale.
[…] L’Europa politicamente unita non si è fatta, anzi è più che mai disunita avendo voluto allargarla a 27 Paesi, troppo lontani tra di loro per storia e cultura. Ma, poiché ognuno ha diritto di veto, l’Europa si trova di fatto paralizzata […] La prima Lega di Bossi, essendo sostanzialmente un movimento antipartitocratico, fu ovviamente osteggiata in tutti i modi dai partiti […] L’ascesa della Lega […] si lega […] alle inchieste di Mani Pulite che stavano scoperchiando il vaso di Pandora della corruzione della classe dirigente politica ed economica.
Più i magistrati di Mani Pulite facevano il proprio, doveroso, mestiere, più cresceva la Lega di Bossi, che spezzava finalmente il consociativismo (alleanza, di fatto, fra Dc e Pci/Pds) che garantiva l’impunità alla classe dirigente […] Gli errori di Umberto Bossi furono sostanzialmente due. Il primo, e più grave, è stato unirsi all’avanzante Silvio Berlusconi, che pur Bossi aveva sprezzantemente chiamato Berluscaso, Berluschì, Berluscosa, Berluskaz.
Il terrore di Bossi era la moltitudine di reati da cui era stato investito. La sua Lega non aveva i quattrini sufficienti per farvi fronte. […] Il secondo errore, forse meno perdonabile perché Bossi non vi era spinto da alcuna esigenza, è stato l’atavico familismo italiano, per cui diede al figlio Renzo, il delfino, il “trota” […], il ruolo di consigliere regionale della Lombardia, dove Renzo fu coinvolto proprio in quei reati di appropriazione indebita dei rimborsi elettorali che erano stati una delle basi delle critiche della Lega bossiana a quello che allora si chiamava il “sistema”. […]
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giancarlonicoli · 4 days
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24 apr 2024 09:57
“NEL CALCIO SI È VINCENTI SOLO SE SI VINCE UN TITOLO?” - GASPERINI SI INCAZZA ALLA DOMANDA E SPIEGA A DAZN CHE IL DISCORSO SUI VINCENTI È UNA “IDIOZIA GRANDE COME UNA CASA, ALIMENTATA DA PERSONE FRUSTRATE” – “ALLORA SE FAI SOLO IL GIORNALISTA E NON SEI UN DIRETTORE SEI UN PERDENTE? NELLA TUA VITA PROFESSIONALE AVRAI PURE RAGGIUNTO DEI TRAGUARDI… E QUELLI NON CONTANO? COSÌ SONO TUTTI PERDENTI E SI AMMAZZANO". -
Da fanpage.it
"Si è vincenti solo se vince un titolo?". Quando Gasperini ascolta l'ultimo quesito che gli viene posto in diretta tv a Dazn sbotta, quasi trasecola. E non usa giri di parole per spiegare come la pensa. Anzi, è molto diretto ed efficace nel definire quella supposizione come una "idiozia grande come una casa". Una delle ipotesi che è "alimentata da chi è frustrato". È quel vecchio tema che riaffiora a corredo della vittoria dell'Atalanta a Monza, un successo che – al netto della gara con la Fiorentina da recuperare, non si sa quando – la proietta in zona Champions e si aggiunge a una serie di risultati che impreziosiscono la stagione della ‘dea'.
La conquista della semifinale di Europa League eliminando il Liverpool rappresenta l'esperienza più bella vissuta finora dai bergamaschi: lo 0-3 ad Anfield Road resta storico. "Noi cerchiamo di dare soddisfazioni ai nostri figli e al nostro popolo. Io per primo ne ho ricevute molte perché mi sono sentito voluto bene ovunque sono andato e allenato. Poi magari questo non sarà questa una Champions League o uno scudetto".
La riflessione è anche più articolata, perché sia meno fumosa il tecnico cita un esempio particolare e fa riferimento alla carriera dei suoi interlocutori: i media. "Allora se fai solo il giornalista e non sei un direttore sei un perdente? Nella tua vita professionale avrai pure raggiunto dei traguardi… e quelli non contano? Così sono tutti perdenti e si ammazzano".
Il ragionamento torna poi sulle prospettive dell'Atalanta e, oltre ai prossimi impegni ambiziosi (compresa la semifinale di Coppa Italia), anche alla possibilità di ripetersi. "Cerchiamo di migliorare ogni anno – ha aggiunto Gasperini -. Se tutti gli anni perdiamo dei giocatori e riusciamo comunque a rinnovarci e a rinforzarci è una cosa buona. Ma il risultato non è sempre lo specchio del lavoro o dei calciatori che puoi prendere. Magari ne prendi anche alcuni migliori rispetto all'anno precedente ma non è detto che le cose vadano ugualmente bene".
La sintesi del pensiero dell'allenatore sul cammino della sua squadra non può che esser pervasa da considerazioni positive. Non è questione di orgoglio ma di evidenza dei risultati. "Quest’anno in termini di risultati è straordinario e possiamo ancora migliorarsi. La stagione è fantastica a prescindere, adesso entriamo nei verdetti definitivi. Mercoledì avremo una prima risposta per la Coppa Italia, poi avremo anche l’Europa League".
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giancarlonicoli · 4 days
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24 apr 2024 19:21
"DICEVANO SIMONE NON È DA INTER, IO MI ARRABBIAVO E LUI RISPONDEVA: 'CALMA, MI SONO SEGNATO TUTTO E NON DIMENTICO'" - GIANCARLO INZAGHI, PADRE DELL'ALLENATORE DELL'INTER, SI LEVA QUALCHE MACIGNO DALLE SCARPE DOPO LA VITTORIA DELLO SCUDETTO DA PARTE DEL FIGLIO: "E SE LUKAKU NON SBAGLIAVA QUEL GOL, ORA SAREMMO ANCHE CAMPIONI D’EUROPA" - "ALL’INTER SIMONE È DIVENTATO UN MURO DI GOMMA. NE HO VISTI DI PRESUNTI FENOMENI CHE SI SONO COMPRATI L’AEREO DOPO UN PO’ DI VITTORIE. GENTE SPARITA PRESTO, GIOCATORINI..." -
«E se Lukaku non sbaglia quel gol, ora saremmo campioni d’Europa. Ma a me interessa solo che Simone sia una brava persona, e Filippo lo stesso».
Estratto dell'articolo di Maurizio Crosetti per "la Repubblica"
Giancarlo dice che a un certo punto li ha solo guardati, i suoi ragazzi a tavola con lui, ieri a pranzo. Non c’è gioia più grande per un genitore: non i figli per quello che fanno, ma i figli per quello che sono. Simone, Filippo, papà Giancarlo, un boccone a Brera e seicento metri per arrivarci tra la gente in festa. Seicento metri più tutta una vita.
Lei adesso è il padre più felice d’Italia: si può dire?
«Sì, ma perché ho due ragazzi splendidi. Sono felice della loro gentilezza, della loro bontà e del bene che si vogliono, non dei 360 gol o dello scudetto».
[…] Quando ha cominciato a vincere lo scudetto, il suo ragazzo?
«Quando scrivevano che non era da Inter. Io mi arrabbiavo e lui “papà, calma...” Poi però mi ha detto: “Mi sono segnato tutto e non dimentico”. Quando sarà tempo, ogni cosa verrà fuori. Non ora. Ora c’è solo da stare contenti».
Quando giocavano, Simone era il fratello di Filippo. Adesso, da allenatori, Filippo è il fratello di Simone. Ombre tra loro?
«Mai! Si sono invertite le parti, ma loro hanno sempre goduto uno dell’altro. Si telefonano due volte al giorno e si chiedono: “Come giochi domenica?” Posso dire che si amano».
[…] Lei come ha vissuto il derby?
«Nel mio solito modo: da solo in stanza, tapparelle abbassate, nocino e sigaretta. A San Siro sarò andato tre volte in tre anni. Sono stato milanista per una vita, però adesso tengo per l’Inter, così come tenevo per la Lazio quando in ritiro si giocava a carte con Immobile e Peruzzi, il mio compagno fisso, grande Peru».
È vero che Simone è cambiato?
«Forse a Roma era troppo amico dei calciatori. All’Inter è diventato più maturo, più riflessivo, sa essere un muro di gomma. Ma è sempre la solita enciclopedia: conosce, ruolo per ruolo e caratteristica per caratteristica, tutti i giocatori d’Europa. Basta fare un nome e lui tòc, risponde al volo».
[…] Simone li manterrà?
«Sì, nessuno dubbio. Ne ho visti di presunti fenomeni che si sono comprati l’aereo dopo un po’ di vittorie. Gente sparita presto, giocatorini. A loro vorrei dire di prendere esempio da Simone e Filippo, che per spostarsi usano soltanto i treni di linea».
Uno scudetto e una finale di Champions in meno di un anno.
«E se Lukaku non sbaglia quel gol, ora saremmo campioni d’Europa. Ma a me interessa solo che Simone sia una brava persona, e Filippo lo stesso».
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giancarlonicoli · 9 days
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18 apr 2024 12:31
IN CISGIORDANIA I COLONI ROMPONO I COJONI – I GRUPPI INTRISI DI NAZIONALISMO E INTRANSIGENZA RELIGIOSA SONO LA VARIABILE IMPAZZITA NELLA CRISI MEDIORIENTALE: OGNI GIORNO SI CONTANO ATTACCHI CONTRO I VILLAGGI DEI PALESTINESI, NEGLI ULTIMI SEI MESI I MORTI SAREBBERO 500, MA GLI ATTACCHI RIMANGONO IMPUNITI E IL GOVERNO ISRAELIANO FOMENTA LE ASPIRAZIONI DEI COLONI, PIANIFICANDO NUOVI INSEDIAMENTI - BIDEN PREME SU NETANYAHU AFFINCHÉ LI CONTROLLI, MA SA BENE CHE "BIBI" DIPENDE DA LORO PER LA SUA SOPRAVVIVENZA… -
Estratto dell’articolo di Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera”
Dici «coloni ebrei» e immediatamente riveli un universo fatto di estremismo nazionalista e religioso montante. Una variabile impazzita nella crisi mediorientale, alimentata da fanatici che, in nome della legittimità derivante dall’auto-dichiarato status di «vittime universali» e dal messianismo del «ritorno alla terra dei padri», motiva ogni tipo di violenza e abuso ai danni della popolazione palestinese.
Sono mezzo milione (oltre ai 250.000 che vivono nelle zone annesse da Israele a Gerusalemme est) e tra loro i più radicali non superano i 100.000, ma il loro numero è in crescita dopo l’eccidio del 7 ottobre, con una forte componente di neo-immigrati, specie dalla diaspora Usa. Ormai non passa giorno che dalla Cisgiordania non giungano notizie di attacchi di coloni contro i villaggi palestinesi nella totale impunità, che comprendono violenze e minacce per scacciare i beduini, strade chiuse in modo del tutto arbitrario, sradicamento metodico di uliveti e piantagioni, danni alle fonti idriche, abitazioni bruciate e persino ferimenti e assassinii di civili con armi da guerra.
[…] Secondo il ministero della Sanità dell’Autorità palestinese a Ramallah, i civili uccisi da soldati e coloni negli ultimi 6 mesi sarebbero quasi 500, i feriti migliaia. Il governo israeliano attuale fomenta le aspirazioni dei coloni e, pur in questo periodo di guerra a fronte dell’amministrazione Biden che chiede moderazione, continua a pianificare nuovi insediamenti al cuore di quelle stesse regioni che dovrebbero fare parte di un ipotetico Stato palestinese.
C’è di più. Negli ultimi anni le organizzazioni dei coloni più radicali hanno infiltrato i quadri alti dell’esercito e ora interferiscono nella catena di comando. Ci sono alti ufficiali, anche inquadrati nei battaglioni che operano a Gaza, che pare si facciano pochi problemi a «coprire» i soldati troppo violenti. Anzi, spesso sono loro stessi ad aizzarli.
«Per molti di loro l’operazione a Gaza è diventata la prova generale per svuotare tutti i territori occupati nel 1967 della loro popolazione araba», hanno scritto i maggiori editorialisti del quotidiano liberal israeliano Haaretz.
L’amministrazione Usa è spaventata: preme su Netanyahu affinché li controlli, ma sa bene che lui stesso dipende da loro per la sua sopravvivenza politica.
I diplomatici europei non sanno che fare, divisi tra la solidarietà allo Stato ebraico dopo l’eccidio del 7 ottobre e la necessità di bloccare un movimento che ormai boicotta ogni possibilità di pace e minaccia le radici della democrazia israeliana. […] Un recente rapporto di Human Rights Watch accusa i coloni di avere commesso una sorta di pulizia etnica contro «centinaia di beduini» scacciati dalle loro terre nella valle del Giordano in autunno.
«Almeno 7 comunità sono state espulse dopo il 7 ottobre», specifica. […] Il Guardian denuncia la scelta israeliana di intensificare la costruzione di migliaia di abitazioni per gli ebrei nelle zone occupate di Gerusalemme est e proprio nel cuore di quartieri densamente popolati dai palestinesi come Beit Safafa e Ras el Amud. Il giornale britannico cita l’organizzazione umanitaria israeliana Bimkom, che riporta che alcuni dei progetti erano nell’aria da tempo, ma sono stati approvati «solo poche ore dopo l’attacco di Hamas». Il disegno politico che li sottintende resta quello delle destre nazionaliste di impedire la nascita di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme est. L’approvazione finale dei progetti edilizi sarebbe avvenuta il 4 gennaio .
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giancarlonicoli · 20 days
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28 mar 2024 20:06
CI SONO MINISTRI CON IL NASO CHIACCHIERATO? - IL PROCURATORE CAPO DI NAPOLI, NICOLA GRATTERI, VA ALLA GUERRA CONTRO IL GOVERNO, DOPO L'INTRODUZIONE DEI TEST PSICO-ATTITUDINALI PER GLI ASPIRANTI MAGISTRATI: “FACCIAMOLI A TUTTI, ANCHE A CHI GOVERNA. E METTIAMOCI ANCHE ALCOL E DROGA”. E AL TG1 FA UNA PESANTE ALLUSIONE: “UN POLITICO CHE GOVERNA PUÒ ESSERE RICATTATO SE È FOTOGRAFATO O È STATO FOTOGRAFATO VICINO A DELLA COCAINA”. SI RIFERISCE A QUALCHE MEMBRO DEL GOVERNO IN PARTICOLARE? – IL COMITATO DI REDAZIONE DI RAINEWS CONTRO IL DIRETTORE, PAOLO PETRECCA: “HA NASCOSTO LE DICHIARAZIONI DI  GRATTERI. UN COMPORTAMENTO INACCETTABILE” – VIDEO
1 - NICOLA GRATTERI " "I TEST FACCIAMOLI AI POLITICI E METTIAMOCI ALCOL E DROGA"
Estratto dell'articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa”
Francesco Grignetti Roma
Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli, ha il dono del parlar chiaro. Alcune sue battute lasciano il segno. Così come l'ultima, a proposito dei test psico-attitudinali per i magistrati: «Io sono pronto a sottopormi a qualsiasi test. Ma facciamoli a tutti, anche a chi governa. E mettiamoci anche alcol e droga».
Procuratore, scandalizzato per i test?
«Sicuramente sorpreso. Sia per il merito del provvedimento, di cui non riesco a cogliere il senso, che per le modalità, essendo inserito nell'articolato attuativo della riforma Cartabia che non lo prevedeva affatto. Quindi doppiamente incostituzionale».
Anche lei vede un implicito attacco ai giudici italiani?
«Si va a innestare nel quadro complessivo di riforme che a partire dalla legge Cartabia tendono a vedere con sfiducia l'operato dei magistrati: dalla riduzione significativa dei rapporti con gli organi di stampa, alla riforma delle intercettazioni, passando per la separazione delle carriere. La sensazione è che i problemi della giustizia, di cui non nego l'esistenza, vengano addebitati ai magistrati, come se non esistesse la carenza di uomini e mezzi, e una legislazione inadeguata e inutilmente macchinosa».
Citando la nota intervista di Silvio Berlusconi: siete tutti matti a voler vestire la toga?
«Assolutamente no! Questa professione richiede senso di responsabilità, sacrifici, rinunce e anche rischi. Se questo significa essere matto, sono orgoglioso di esserlo».
Lei ha già rilanciato: allora testiamo tutti.
«Se si devono introdurre i test, lo si faccia oltre che per i magistrati, anche per i medici che devono curare le persone, per i tecnici pubblici o incaricati dalle stazioni appaltanti per valutare complessi progetti ingegneristici (tipo il ponte di Messina) e, perché no, per chi ricopre cariche pubbliche, dovendo assumere scelte strategiche per la comunità».
Arriva il nuovo fascicolo del magistrato. La preoccupa?
«Assolutamente sì. Perché la cosiddetta pagella del magistrato si fonda su un presupposto sbagliato: l'esito processuale delle cause. Sbagliato perché si basa anche e soprattutto su fattori che esulano dalla bravura del magistrato sottoposto a valutazione. Ma poi nel fascicolo si inseriscono non solo i provvedimenti (sentenze, ordinanze cautelari), ma tutti gli atti indistintamente. Ma chi pensa a queste riforme, sa quante migliaia di atti scrive un magistrato durante l'anno? Che senso ha inserire la convocazione di un testimone a un processo? E chi se li legge tutti questi atti? Ma veramente vogliamo essere seri? Così si devono valutare i magistrati? ».
[...]
Quanto inciderà l'impossibilità di usare le intercettazioni in fascicoli diversi da quelli per cui sono state autorizzate?
«Inciderà parecchio, incrementando la giustizia di classe. Se un soggetto intercettato per altra ragione confida al suo interlocutore di avere rubato un pezzo di formaggio del valore di 20 euro questa conversazione costituisce piena prova. Se rivela di essersi fatto corrompere con una mazzetta di 200.000 euro sotto forma di consulenza, no».
[...]
Ed è in avvicinamento la separazione delle carriere. Che ne pensa?
«Il mio pensiero è chiaro e lo ribadisco. Le carriere unificate arricchiscono professionalmente i magistrati, salvaguardando la cultura della giurisdizione, che significa, in parole povere, che il Pm ragiona come un giudice, avendo autonomia decisionale e rispondendo, nell'esercizio delle sue funzioni, a un solo superiore gerarchico: la legge».
2 - CDR RAINEWS, 'SPARITE FRASI DI GRATTERI SUI TEST DEI MAGISTRATI'
(ANSA) - "Ancora una volta il direttore di RaiNews24 decide di nascondere una notizia. Le dichiarazioni del procuratore Gratteri sui test psicoattitudinali dei magistrati sono un fatto di cui bisogna dare conto in nome della libera informazione; una notizia ampiamente raccontata dai principali tg e siti d'informazione. Un'informazione che i nostri utenti non trovano, e anche per questo motivo decidono sempre di più di informarsi altrove. A un certo punto nei nostri notiziari le dichiarazioni di Gratteri sono scomparse. Ci chiediamo perché? Sul sito RaiNews.it la notizia è stata data solo grazie alla pubblicazione del servizio del Tg3 delle 19".
È quanto afferma in una nota il Cdr della testata all news della Rai. "Nel giorno in cui l'assemblea ha dichiarato lo stato di agitazione - continua il Cdr di Rainews - è ancora più grave riscontrare che un fatto simile non sia raccontato in modo completo. Questo comportamento da parte del direttore non è più accettabile. Chiediamo rispetto per tutti i colleghi che intendono svolgere la propria attività senza condizionamenti di parte. L'assemblea ha dimostrato che la misura è colma ed è pronta a ogni iniziativa che restituisca dignità al servizio pubblico informativo".
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giancarlonicoli · 20 days
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7 apr 2024 16:40
“QUANDO GIOCAI CONTRO PELE, FINI’ 7-6, IL MIO PORTIERE PIANGEVA E TRE SPETTATORI MORIRONO DI INFARTO” – IL MANUALE DEL CALCIO SECONDO JOSE’ ALTAFINI: “QUANDO INIZIAI, GIOCAVO CON DELLE SCARPETTE RIPARATE CON IL FIL DI FERRO. L’ESORDIO IN NAZIONALE A 18 ANNI, SEGNAI UN GOL E FECI UN ASSIST IL GIORNO DOPO SCRISSERO CHE ERO UNA "SPERANZA", OGGI FAI UN GOL DIVENTI SUBITO UN FENOMENO” – “ERO VICINO ALLA ROMA, UNO SCOUT SCRISSE CHE ERO “BRAVO MA EPILETTICO”, MA IL MILAN, AL MOMENTO DELLE FIRME, MANDÒ UN TELEGRAMMA OFFRENDO DI PIÙ” – I GOSSIP, I TORMENTONI, GLI ANNI A NAPOLI E A TORINO E I “GOL ALLA ALTAFINI…” - VIDEO -
Estratto dell’articolo di Antonio Barillà per “la Stampa”
Da bambino, quando giocava a piedi nudi tra i campi, José Altafini sognava la maglia del XV de Piracicaba. La vita l'ha portato ben oltre la squadra della sua città: campione del mondo con il Brasile accanto a Pelè nel 1958, azzurro a Cile 1962, vincitore della Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica di Eusebio, stella del Napoli con Sivori e Core 'ngrato dopo il passaggio alla Juventus.
Altafini, la sua infanzia è nota grazie al docu-film su O Rei...
«Romanzata e lontanissima dalla realtà: raccontano sua mamma cameriera in casa mia, invece la mia famiglia era povera. Papà Gioacchino lavorava in una piantagione di canna da zucchero, avevo una sola camicia a maniche corte che mamma Maria lavava la sera e mettevo di nuovo al mattino.
Ho fatto il garzone del barbiere, l'aiutante in una fabbrica di mobili e in lavanderia, mi sono alzato alle 4 per consegnare carne, a 15 anni sono diventato apprendista meccanico».
Sempre tra scuola e calcio.
«I libri non mi piacevano, il pallone era tutto. L'unico a possederlo, nel quartiere, era Foca, il figlio del droghiere: scarso, ma lo invitavamo sempre, e quando si innamorò del circo, dopo aver visto uno spettacolo, per farcelo amico e non dover giocare con stracci annodati costruimmo un trapezio su un albero di mango».
Prima squadra il Club Atletico Piracicabano.
«Lì, in un magazzino, trovai un paio di scarpette: una era squarciata ma la riparai con il fil di ferro, ero felice».
Poi il Palmeiras..... […] La chiamavano Mazzola.
«Mazola. Con una zeta. Allo stadio era appesa una foto del Grande Torino e Cardoso, l'allenatore, mi chiamò così per la somiglianza con Valentino. Un grande orgoglio, ma anche una grande responsabilità. In Italia tornai Altafini».
Nel 1958 incontrò Pelé in Santos-Palmeiras 7-6, la più bella partita della storia in Brasile.
«L'ho sempre ammirato: era il più forte di tutti. A fine primo tempo perdevamo 5-2, il portiere scoppiò in lacrime e non volle rientrare: rimontammo fino al 6-5 con due gol miei, ma nel finale una doppietta di Pepe ci sorpassò. Tre spettatori morirono di infarto».
Un emissario della Roma venne a vederla contro il Vasco.
«Segnai due gol, ma poiché loro quando vincevano facevano melina, sul 4-2 per noi ricambiai e dopo un fallo mi contorsi a terra per perdere tempo. Nella relazione scrisse che ero bravo ma epilettico».
La Seleçao a 18 anni.
«Il Ct Pirillo mi fece giocare con il Portogallo: una rete e un assist per Del Vecchio. Il giorno dopo scrissero che ero una "speranza", oggi fai un gol e diventi subito un fenomeno».
Mondiali 1958: […] Campione del mondo […] Premi, oltre alla gloria?
«Una bicicletta, una piccola tv, un orologietto e un terreno nella regione del Pantanal, tra i coccodrilli, il cui costo di registrazione superava il valore. Quando si sparse voce che regalavano anche un frigorifero, mio zio Angelo Marchesoni, che mi faceva un po' da procuratore, si presentò in fabbrica con un furgoncino: gli diedero un portatile da picnic».
A luglio, tournée in Italia.
«I gol nella partita d'addio al calcio di Julinho e nell'amichevole con l'Inter stregarono la Roma, ma il Milan, al momento delle firme, mandò un telegramma offrendo di più».
Anni bellissimi in rossonero.[…] Andò via dal Milan per i rapporti tesi con Viani
«È stato prima allenatore, poi direttore tecnico con Rocco: mi dava la colpa di ogni sconfitta e arrivò a chiamarmi coniglio. A me che non ho mai indossato parastinchi. C'era l'accordo con la Juve per Bercellino e 150 milioni, però successe qualcosa e il presidente strappò il contratto. Andai al Napoli con Sivori, amico mio nonostante le maldicenze. Gli dissi "Fai tu il re, basta che mi fai segnare"».
A Napoli divenne idolo...
«La gente mi amava e volevano darmi la fascia di capitano: dissi no affinché la prendesse Juliano, più portato. Poi, a 34 anni, mi fecero un contratto a gettone con svincolo a fine stagione: pensavano fossi finito, invece segnai 10 gol ed ebbi cinque offerte. Loro non fecero nulla per trattenermi e io scelsi la Juve per rigiocare la Coppa dei campioni: quando con un gol feci fuori il Napoli dalla lotta scudetto diventai Core 'ngrato. Ingiusto».
Nacquero i gol alla Altafini...
«Stare in panchina non era bello, non c'erano le rotazioni di oggi, ma alla Juve, subentrando, sapevo essere decisivo. Rimasi tre anni, poi spiccioli in Canada e in Svizzera».
[…] É stato apprezzato opinionista tv, inventore del Golaço.
«L'ho solo importato. Semmai ho inventato il manuale del calcio. Mi piaceva commentare i gesti tecnici, non raccontare se un calciatore ha il gatto nero o bianco. Ma in Italia la competenza non sempre vale e forse ho pagato essere vecchio».
Oltre che per i gol lei finì al centro dei gossip per amore.
«Amore, esatto. Annamaria era moglie di un mio compagno, Barison, ma i nostri matrimoni erano già finiti. All'epoca fu uno scandalo, ma non c'era ombra di ipocrisia e stiamo insieme da oltre cinquant'anni. Lei è il mio gol più bello». […]
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giancarlonicoli · 20 days
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31 mar 2024 20:40
“TRANNE L’EROINA, HO PROVATO TUTTE LE SOSTANZE STUPEFACENTI” – VASCO SENZA FILTRI VUOTA IL SACCO CON ALDO CAZZULLO. L’ARRESTO PER DROGA: “IN GALERA SOLO DE ANDRÉ VENNE A TROVARMI, CON DORI. DOPO IL CARCERE RIMASI CHIUSO IN CASA 8 MESI. SENZA ANFETAMINE NON RIUSCIVO AD ALZARMI DAL LETTO. IN TANTI ERANO CONTENTI. MI SPUTAVANO PER STRADA. ERO IL DROGATO. IL CAPRO ESPIATORIO DEI PRIMI ANNI 80” – IL PADRE TORNATO DAL LAGER NAZISTA (“PESAVA 35 CHILI”), LE DONNE CHE GLI HANNO DETTO “NO”, I TEST DEL DNA PER RICONOSCERE I DUE FIGLI E LA PASSIONE PER KANT – VIDEO
Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
Vasco Rossi, qual è il suo primo ricordo?
«La noia. Sono seduto al tavolo della cucina, e mi annoio. Ero un bambino solo. Volevo un fratellino con cui giocare».
Vasco è un nome di famiglia?
«È il nome del compagno di prigionia di mio padre che gli salvò la vita».
Suo padre era uno dei 600 mila internati militari in Germania che rifiutarono di combattere per Hitler.
«Gli americani bombardarono il lager, lui cadde in una buca, questo Vasco lo tirò su di peso e papà gli disse: se un giorno avrò un figlio, lo chiamerò come te. Mio padre teneva un diario. L’ho riletto da poco».
Cosa c’è scritto?
«Racconta la morte di un prigioniero, ucciso a bastonate da un kapò italiano, di cui papà scrive nome e cognome. Non aveva studiato, non era mica uno scrittore, ma aveva visto i suoi compagni morire di fatica e di botte: cose talmente terribili che voleva testimoniarle. E io le ho assorbite. Non riesco a vedere i film sui deportati e sulla Shoah, non ho visto neppure Schindler’s List. Mi turbano troppo. Per questo ogni anno ricordo il Giorno della Memoria».
L’hanno attaccata per questo.
«E io sono caduto nella provocazione. Non vorrei più parlarne...».
Dobbiamo parlarne.
«Io rifiuto di schierarmi come se fosse una partita di calcio, Israele contro Palestina. Gli ebrei, dopo quello che hanno sofferto, hanno diritto a uno Stato. “Free Palestine” è un bello slogan, da anime belle; ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, allora sarebbe più onesto dirlo. E alla distruzione di Israele io mi ribello.
Leggo cose superficiali, in cui non mi riconosco; io sono semplice, non facile. Mi hanno dato del sionista, ma io non so neppure cosa voglia dire. So che se mettessi il like a “Palestina libera” mi amerebbero tutti; ma io non sono fatto così. Se avessi voluto piacere a tutti, non avrei scritto “C’è chi dice no” o “Gli spari sopra”. Questo ovviamente non mi impedisce di piangere le vittime civili di Gaza, e di criticare i bombardamenti di Netanyahu, che è pure lui una specie di fascista».
Lei ha detto che i rivoluzionari da salotto non le sono mai piaciuti.
«Mai. Ricordo quelli di Potere operaio: erano tutti studenti; il pomeriggio giocavano alla rivoluzione, la sera tornavano a cena dalla mamma. A diciassette anni vuoi cambiare il mondo: anche io ci credevo, anche io ci ho provato. Poi ho capito che prima di cambiare il mondo dovevo cambiare me stesso. Anziché distruggere il sistema, dovevo creare il mio sistema. Poi certo i ragazzi che scendono in piazza li rispetto» […]
È Putin a minacciarla.
«Putin è un dittatore guerrafondaio che va fermato. Sostenendo l’Ucraina, ma anche avviando una trattativa che metta fine ai massacri».
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Nella bellissima serie sulla sua vita, Supervissuto, lei racconta che la svolta fu la morte di suo padre.
«Tornò dal lager che pesava 35 chili. Si chiamava Giovanni Carlo e faceva il camionista. Morì di fatica a 56 anni, mentre faceva manovra tra i silos del porto di Trieste. Sono andato a prenderlo e qualcosa dentro di me è cambiato. Papà era un combattente, aveva detto no ai nazisti. È entrata dentro di me una forza che prima non avevo, e che si è fusa con la malinconia, la gioia, l’amore per la musica di mia madre. E mi sono detto: qui non si scherza più. Qui mi gioco tutto. Mi rischio la vita».
Vita spericolata.
«Per anni, all’inizio degli 80, vivevo solo per scrivere canzoni e fare concerti. Un giorno dell’estate 1982 andai da un concessionario per far vedere una macchina e non trovai nessuno, sentivo boati a distanza, non capivo cosa stesse succedendo: era la finale dei Mondiali di Spagna, ma io non lo sapevo.
Potevo stare tre giorni senza dormire, grazie alle anfetamine. Poi ho capito che le anfetamine sono pericolose. Ho sperimentato la mia psiche, sono entrato nella mia mente, ho fatto un viaggio dentro la mia coscienza. Le sostanze stupefacenti le ho provate quasi tutte, tranne l’eroina. Mettere l’eroina sullo stesso piano della marijuana è criminale, perché così i ragazzi si convincono che si equivalgano, e se lo spacciatore non ha una, allora si può comprare l’altra...».
Lei finì in carcere.
«Cinque giorni di isolamento. Giorni infiniti, minuti lunghissimi. Non passava mai. Cercavo di dormire, mi svegliavo credendo di aver fatto un brutto sogno; infine realizzavo che era tutto vero. Poi altri 17 giorni di galera. Solo De André venne a trovarmi, con Dori. Pannella mandò un telegramma. Fu l’occasione per resettarmi. Mi sono disintossicato da solo, senza bisogno di andare in comunità. Dopo la galera sono tornato a casa, a Zocca, e non ne sono uscito per otto mesi. Senza anfetamine non riuscivo ad alzarmi dal letto. E in tanti erano contenti».
Lei è amatissimo.
«Ma sono stato anche molto odiato. Dai perbenisti, dai benpensanti. Mi sputavano addosso per strada. Ero il drogato. Il capro espiatorio dei primi Anni 80. Il diretto responsabile della diffusione degli stupefacenti perché, secondo loro, le mie canzoni spingevano all’uso della droga. E per decenni me l’hanno rinfacciato, una cosa che succede solo in Italia: nessuno si permetterebbe di trattare da drogato, che so, Paul McCartney o Keith Richards.
Aprì la strada Nantas Salvalaggio, che mi scagliò contro un articolo pieno di insulti, su Oggi; conservo ancora la lettera che mia madre gli scrisse per difendermi. Una volta a Rimini, quando mi videro, mi negarono la stanza d’albergo che avevo prenotato. Così aspettai l’alba sul lungomare di Riccione e scrissi “Ieri ho sgozzato mio figlio”».
[…]
Esiste una donna che ha detto no a Vasco Rossi?
«Ne esistono moltissime! La prima fu Anna Maria, e aveva sette anni. Era la mia vicina di casa. Ci fidanzammo. Ogni volta le chiedevo: “È sempre così?”, lei rispondeva di sì, e io ero felice. Un giorno però rispose di no, che le piaceva un altro; e a me crollò il mondo addosso».
Quando ha fatto l’amore per la prima volta?
«Tardi, a 17 anni, con una ragazza di Modena che a differenza delle altre aveva ceduto. A 13 anni sperimentai l’importanza del denaro...».
Come andò?
«Ero alle giostre con la mia fidanzata Cristina, ma ero povero, avevo pochi gettoni. Un altro ragazzo la invitò sugli autoscontri, io vidi che era brutto, le diedi il permesso. E lei si mise con lui».
Il primo grande amore?
«Paola, una femminista che si era prefissata di distruggermi, e ci è riuscita. Il colpevole di diecimila anni di patriarcato ero io...
Dopo di lei, e prima di Laura, mia moglie, è stato solo sesso. Tutte le canzoni in cui sono arrabbiato con le donne me le ha ispirate Paola; dovrei darle i diritti d’autore».
Albachiara come è nata?
«Me l’ha ispirata Giovanna, una ragazza che vedevo arrivare a Zocca con la corriera. Anni dopo l’ho ritrovata in discoteca e gliel’ho detto, ma lei non ci credeva: “Lo dici a tutte perché te le vuoi fare!”. Così ho scritto Una canzone per te».
Il mese scorso è morto Andrea Giacobazzi, l’Alfredo che con i suoi discorsi seri e inopportuni le faceva sciupare tutte le occasioni. Oggi riscriverebbe «è andata a casa con il negro la troia»?
«In realtà la ragazza che corteggiavo era andata via con Salvino, che non era affatto nero, solo abbronzato. Non mi riferivo al colore della pelle, ma alle dimensioni... Era insomma una canzone da cui i neri uscivano benissimo. Se la riscrivessi oggi mi arresterebbero; ma il politicamente corretto non mi convince. Non conta come definisci una persona, ma cosa ne pensi e come ti comporti».
Lei ha due figli, Davide e Lorenzo, nati nel 1986 a un mese di distanza. Come andò?
«Avevo avuto una storia con una ragazza bellissima, Gabriella, che purtroppo è mancata qualche giorno fa, all’improvviso.
L’avevo lasciata, per vivere fino in fondo la mia avventura con la musica, ma mi ero preso cura di lei: era rimasta a Zocca con mia mamma, mentre le cercavo una nuova casa e un nuovo lavoro. Le lasciai anche una macchina, una Renault5, perché potesse andare in giro, trovarsi un altro fidanzato. E lo trovò. Quando tornai, la rividi nella roulotte prima del concerto, e la salutai con affetto, per l’ultima volta. Mesi dopo mi dissero che era incinta».
Il padre era lei.
«Ma io non lo sapevo e non lo credevo possibile. Qualche tempo dopo, però, venne a Zocca un’altra ragazza, Stefania. Una che neppure ricordavo. E aveva un bimbo nel passeggino».
Davide.
«Un po’ mi arrabbiai: mi avevano rubato un figlio, a me che non ne volevo! Il tribunale mi impose il test del Dna. Mentre andavo a Roma, chiamai Gabriella: “Siccome dici che il tuo bambino è mio, e sto andando a fare il test del Dna, se vuoi lo facciamo pure noi...”. Ma Gabriella disse di no. Comunque feci questo test, e con mio grande stupore risultò che il padre di Davide ero io. Così lo riconobbi, e versai 5 milioni al mese per il mantenimento. Mi sfogai con l’avvocato Gatti, che mi consolò: “È un miracolo, sapesse signor Rossi la fatica che ho fatto io...”».
Poi il test del Dna l’ha fatto anche per il secondo figlio, Lorenzo.
«Mi chiamò Gabriella, cui ho sempre voluto bene, per dirmi che il ragazzo ci teneva. Venne fuori che era mio pure lui. L’avvocato Gatti esultò: “Un altro miracolo!”».
Poi però lei si è innamorato davvero, di sua moglie Laura.
«Tentai due volte di mandarla via. La prima volta la trovai sette ore dopo, fuori dalla sala d’incisione; non si era mossa da lì. La seconda la trovai fuori di casa, seduta sulla valigia. Pensai che sarebbero venuti i carabinieri ad arrestarmi di nuovo; e me la ripresi. La verità è che l’ho amata dal primo momento in cui l’ho vista. Una passione travolgente».
Da Laura ha avuto Luca.
«Con Laura ho realizzato il progetto di famiglia. La passione dura sei anni, massimo sette. Poi subentra l’amore per il progetto. Ti rendi conto che sei diventato padre quando daresti la vita per salvare quella di tuo figlio».
A giugno lei riempirà per altre sette volte San Siro; in tutto fanno 36 concerti nel più grande stadio d’Italia. Milano dovrebbe darle un premio...
«In effetti è un bel record, non esistono paragoni al mondo. Come se avessi vinto 36 scudetti. Forse meriterei una Coppa dei Campioni...».
La sua prima volta a San Siro fu il 10 luglio 1990.
«E fu una svolta per la nostra musica. Prima si cantava nelle piazze, nei palasport, o per la curva di uno stadio. Gli stadi li riempivano solo gli stranieri che venivano una volta ogni dieci anni: Bob Marley, Madonna. Dimostrai che lo poteva fare anche un italiano. Uno stadio a tre piani: avevano appena fatto il terzo anello per i Mondiali; 75 mila persone». […]
È vero che agli inizi era in ansia prima di salire sul palco?
«Ansia? Ero terrorizzato! Ogni sera mi violentavo per salire sul palco. Infatti dovevo bere per farmi coraggio, arrivare quasi ubriaco...».
Ubriaco?
«Diversamente lucido. Poi mi sono detto: non stanno chiamando me; stanno chiamando Vasco Rossi. Prima non mi divertivo sul palco, e cercavo il divertimento dopo il concerto. Adesso mi concentro del tutto sul presente. E dopo il concerto mi faccio una doccia e vado a dormire. Io non ho una vita normale, non posso mai andare da nessuna parte; ma il palco mi ripaga di tutto».
Lei una volta mi ha detto: «Ho fatto ragioneria, una scuola assurda. Studi per cinque anni cose per cui basterebbe un corso di tre mesi, e non sai che sono vissuti Socrate e Platone».
«Io adoro la filosofia. Vita spericolata viene dal vivere pericolosamente di Nietzsche. Leggere “Aut-aut” di Kierkegaard, “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer, la “Critica della ragion pura” di Kant mi ha cambiato la vita».
Vasco che legge Kant è titolo.
«I grandi filosofi sono molto più facili di quelli che hanno scritto su di loro».
Ora cosa sta leggendo?
«Vivere momento per momento, di Jon Kabat-Zinn. Vivere nel passato significa appartenere ai rimpianti, vivere nel futuro vuol dire essere schiavi dei progetti; in entrambi i casi siamo condannati alla sofferenza. Esiste soltanto il presente. Ho coltivato ogni genere di paura, prima di capire che la realtà non è mai così brutta come il fantasma della realtà».
E l’aldilà?
«Non c’è. È tutto qui e ora. Sono sempre stato un materialista. Ma ora i fisici pensano che la materia sia solo un insieme di vibrazioni, e che la coscienza venga prima della materia. È questa la vera immortalità. A volte mi fermo a respirare, senza pensare a nulla, o meglio accogliendo i pensieri e lasciandoli passare. All’inizio restare solo con me stesso mi faceva impazzire. Ma solo così arrivi alla consapevolezza».
Mi sembra un guru.
«La prossima volta arrivo vestito di arancio, come un santone, con un altro nome...
(quando sorride Vasco pare un grande bambino)».
Lei è mai stato comunista?
«Mai. Ero anarchico. Poi mi sono riconosciuto nelle battaglie di Pannella per i diritti civili. Solo in fatto di tasse sono un po’ comunista...».
Se difende le tasse, la insulteranno più che per la difesa di Israele.
«Non pagare le tasse è una vergogna. Io sono italiano, fiero e orgoglioso di esserlo, e ho voluto mantenere la residenza in Italia. Voglio e debbo versare tutte le tasse al mio Paese. Se guadagno, vuol dire che posso pagare. Sono favorevole anche a un’imposta sul patrimonio: chi ha di più deve dare di più. E dovrebbero pagare le tasse pure le multinazionali, a cominciare dai padroni della Rete».
Cosa vota ora?
«Non voto. Sono semplicemente dalla parte dei deboli. E sono impressionato dalla quantità di balle che sparano i politici. Tanto, a sparar balle non si muore e non si paga...».
La Meloni come la trova?
«È certamente simpatica, adesso sono tutti un po’ innamorati. Ma per decenni ha detto cose assurde, vergognose, irresponsabili. Che non si cancellano».
La Meloni ha vinto le elezioni.
«Vero. Ora forse le vince pure Trump. La verità è che la democrazia funziona solo con una popolazione informata in modo plurale e possibilmente non strumentale. E comunque resta il miglior sistema che per ora abbiamo a disposizione».
Da dove nasce la rivalità con Ligabue?
«Nessuna rivalità. Una montatura dei giornali».
E con Lucio Dalla che rapporto avevate?
«Bellissimo; ma non appartenevo alla sua parrocchia. Una volta venne a pranzo da me a Zocca con Gianni Morandi, per vedere se potevamo fare una cosa insieme. Al momento di ripartire mi disse: “Noi due insieme forse potremmo aprire dei negozi in centro a Bologna”».
Tra i giovani chi le piace? Ghali? Mahmood?
«Ghali ha fatto centro a Sanremo, cantando prima in arabo poi in italiano. Mahmood è un piccolo genio. In generale le cose nuove mi incuriosiscono sempre».
Ma il suo preferito chi è?
«Madame. Ha la stessa genuinità di Carmen Consoli. Mi piacciono anche Levante e Marracash».
I rapper?
«Parlano il linguaggio dei ragazzi, esprimono i loro valori: comprese le scarpe, i vestiti firmati. Il consumismo, la pubblicità».
E i cantautori?
«Io sono un provocatore, scrivo per provocare le coscienze e per mantenerle sveglie: è il compito dell’artista».
Tra gli artisti, quindi?
«Su tutti, Francesco De Gregori e Gino Paoli. Paoli lo andai a sentire da ragazzo, al Piro Piro, una balera di provincia. Lo ascoltai cantare “Non andare via”, la sua versione di “Ne me quitte pas” di Jacques Brel. A quel concerto capii la differenza tra cantante e interprete, e mi dissi: io nella vita voglio fare questa cosa qui».
È vero che un tempo pensava di morire giovane?
«Sì. Adesso invece vorrei morire sul palco».
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giancarlonicoli · 20 days
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7 apr 2024 17:30
TAAC! RENATO POZZETTO RACCONTA A “GENTE” LO SCHERZO TREMENDO CHE FECE CON COCHI E JANNACCI A LINO TOFFOLO: “LO SEGUIMMO, MENTRE ERA APPARTATO IN AUTO CON UNA GIORNALISTA DI “FAMIGLIA CRISTIANA”. APPOGGIAI IL SEDERE NUDO AL SUO FINESTRINO. POI SCAPPAMMO VIA. QUANDO TORNÒ AL DERBY ERA  ROSSO PER LE RISATE E CI RACCONTÒ COSA GLI ERA SUCCESSO MENTRE LIMONAVA. NOI ZITTI, MORIVAMO DAL RIDERE…” – E POI LE DONNE, LA DROGA AL DERBY, LA CARRA’ CHE NON VOLEVA A "CANZONISSIMA" LUI, COCHI E BOLDI (“ERA UNA BALLERINA, CHE NE CAPIVA?”) E COME NASCE IL MITOLOGICO “TAAC”... -
Maria Elena Barnabi per Gente 
Gli occhi sono un po’ velati, il viso è pieno di rughe, ma la voce fa impressione: è quella di sempre. Stentorea, delineata, con la ben riconoscibile cadenza milanese che l’ha reso famoso in tutta Italia. «Quando salgo in taxi mi basta dire: “Mi porta in via Calatafimi?”, che il tassista si gira e dice: “Ma lei è Pozzetto?”». Ed è proprio quella voce lì che dovete sentire nelle orecchie quando leggete le risposte che Pozzetto ci dà in questa lunga chiacchierata. 
Lei è il ragazzo di tutti. 
«Sì, abbastanza». 
Uomini, donne, bambini, le vogliono bene tutti. 
«Me lo dicono spesso». 
È sempre stato così? 
«Sì. Perché anche da ragazzo andavo sempre alla ricerca dell’allegria. Non costava niente. Ci divertivamo tutti. Qualcuno aveva la casa libera, facevamo scherzi, suonavamo. Cantavamo le canzoni popolari. Ci prendevamo in giro anche in modo feroce. Come la commedia all’italiana: che fa ridere anche quando racconta le tragedie». 
L’intervista potrebbe già finire qui, perché in queste frasi c’è già dentro tutto: l’ironia di uno degli artisti che ha inventato il cabaret italiano, l’amore per il surreale che ha conquistato diverse generazioni, la consapevolezza di chi era povero ed è diventato ricchissimo.
Ma siccome Renato Pozzetto a quasi 84 anni è venuto apposta per noi a Milano dal Varesotto – dove abita in una grande villa, la moglie Brunella non c’è più dal 2009 – per parlare della sua bella autobiografia, andiamo avanti. Lo incontriamo in pieno centro a Milano, nella luminosa sede della società di produzione televisiva e cinematografica dei figli Francesca e Giacomo, alle pareti quadri di Mario Schifano: «Se volete fare il cinema, rimanete dietro le quinte gli ho detto», spiega lui.
«E così abbiamo aperto questa società». La sua autobiografia si chiama Ne uccide più la gola che la sciarpa e dentro c’è la storia d’Italia, quella del Dopoguerra e del boom economico e dei giovani che volevano divertirsi, creare, inventare e lasciarsi alle spalle l’infanzia sotto le bombe. Oltre a ciò c’è anche, naturalmente, la storia personale di Pozzetto: l’infanzia da sfollato nelle montagne di Varese dove incontra e diventa amico di Cochi Ponzoni. Le notti all’osteria l’Oca d’oro insieme agli artisti Piero Manzoni e Lucio Fontana. Le serate a cantare al cabaret, dove il duo Cochi e Renato viene notato da Enzo Jannacci che da allora decide di prendere i due ragazzi scatenati e geniali sotto la sua ala protettrice. I successi al Derby, lo storico locale milanese di cabaret, insieme con i ragazzi del “Gruppo motore”, cioè Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Felice Andreasi, Bruno Lauzi. E poi la Rai, la Carrà, “la vita l’è bela”, le mille traversate Roma-Milano in auto, il film, i soldi, le case, le mangiate alla mitica trattoria Cantarelli di Busseto nella Bassa padana, le bevute, i ristoranti, le donne. Da sfondo, una Milano che ti fa venire voglia di averla vissuta in quegli anni lì. 
Perché ha scritto la storia della sua vita a 83 anni suonati? 
«Prima insistevano gli editori. Poi gli amici: bevi un bicchiere in più e magari racconti qualcosa in più. E così alla fine mi sono deciso a farlo. È stato piacevole scrivere cose che non mi ricordavo. Volevo raccontare le cose con la mia filosofia». 
(...)
Il suo “Taac” e i mille modi di dire di Cochi e Renato sono entrati nel costume di tutti gli italiani.
«Le frasi che sono rimaste le ho trovate io. Mi è sempre piaciuto osservare le persone, mi affascinavano, e poi volevo aggrapparmi a qualcosa che mi faceva sorridere. “Bravo sette più” era un modo per far ridere gli studenti, era portare in scena la stronzata dei voti. Invece Taac lo diceva un amico che veniva al Derby: “Ciao Renato, sono andato al casinò, ho vinto. Taac”. Lo feci mio». 
Si dice che al Derby ci fosse una stanza per gli artisti e le loro “amiche” della serata. «Tutto vero. Una sera la stanza era occupata da non so più chi e allora Lino Toffolo – caro Lino, scriveva delle canzoni bellissime – uscì in auto con una sua amica, una giornalista che lavorava pensi un po’ a Famiglia Cristiana. Io, Cochi e Enzo lo seguimmo e, mentre erano appartati, scesi dall’auto e appoggiai il sedere nudo al suo finestrino. Poi scappammo via. Quando tornò al Derby era tutto rosso per le risate e ci raccontò cosa gli era successo mentre limonava. Noi zitti, morivamo dal ridere». 
Nel libro cita spesso le “simpatiche signorine” che vi stavano attorno.
«Ho iniziato con la chitarra in mano nei locali a 15 anni. Dai, di certo non ho mai dormito all’umido...». 
E di droga ne girava al Derby? 
«Ma che domanda mi fa? Era il cabaret, erano gli Anni 60. Come chiedermi se c’era la “mala”...». 
Lo prendo per un sì. Passiamo oltre. Mentre eravate stelle del Derby, nei primi Anni 70 vi chiamò la Rai per fare un programma con Raffaella Carrà. Era Canzonissima, il varietà del sabato sera, il più seguito in Italia. 
«Ci convocarono dall’oggi al domani, andammo a Roma in fretta e furia, con noi c’era anche Massimo Boldi. La sera poi dovevamo tornare per fare uno spettacolo. La Carrà alla riunione non si fece vedere e ci dissero poi che non ci voleva. Ma era normale: era una ballerina, cantava il Tuca tuca. Cosa c’entrava con noi? Cosa ne capiva?». 
Invece voi rimaneste, e aveste l’idea di andare in onda per finta da un seminterrato. 
«Facevano finta di guardare su con un periscopio e dicevamo che le ballerine erano bellissime, usavano minigonne vertiginose e che avevano gambe perfette come la Carrà. Facevamo lo sketch del contadino, io parlavo con la radio. Poi la sigla E la vita, la vita entrò in classifica, divenne un successo incredibile. Si ricredettero tutti». 
Mentre facevate Canzonissima arrivò la prima offerta del cinema per lei solo: Per amare Ofelia, era il 1974. 
«Feci leggere il copione a Jannacci, lui mi disse: “Per me è una cagata”. E io gli risposi con l’ultima frase della sua canzone Prete Liprando: “E io lo faccio lo stesso!”. (Segue visione su YouTube del filmato di Jannacci che canta la canzone, ndr)». 
Da lì la sua vita cambiò. 
«Una bomba. Uscì il film, fu un grande successo, mi diedero il David di Donatello. Tutti parlavano di me, mi volevano. Quell’anno mi offrirono tre contratti con De Laurentiis credo, oppure erano cinque, non ricordo. Giravo a Madrid e poi tornavo nel weekend per fare la tv». 
Quanto guadagnò in quel primo anno? 
«Cento milioni. La mia vita cambiò totalmente. Io ero nato povero, sfollato, senza casa. Per anni avevo fatto la fame di notte nei locali, di giorno vendevo ascensori. Anche a teatro, da famosi, ci davano due lire. Con il cinema arrivarono cachet altissimi. 
Cosa ne fece?
«Comprai subito la casa per i miei genitori insieme a mio fratello che era un agente immobiliare. Facemmo la casa di Gemonio, al lago, una casa grande per tutti, camere da letto per l’intera famiglia. Così anche i ragazzi erano a posto». 
(...)
Fu a causa del cinema che le strade tra lei e Cochi si separarono? 
«All’inizio lui fece qualche film da solo e poi anche con me. Quando era possibile facevo lavorare i miei amici, come in Sturmtruppen. Alla fine Cochi scelse il teatro, lasciò la moglie e i figli e andò a Trieste dove c’era la sua nuova fidanzata. E così le nostre strade si divisero». 
Il ragazzo di campagna è senza dubbio il suo film più amato. 
«Quel ragazzo lì ero io. Anche in Sono fotogenico misi molto del mio, la scena del provino in cui non cambio espressione era una mia idea. Sa quel che mi dà fastidio? Dicono che Il ragazzo di campagna sia stato visto da 100 milioni di persone in tv. Però allora non c’erano i diritti dello sfruttamento televisivo. E io di quelli non prendo niente». 
Ha girato più di 70 film. Si è mai pentito di qualcuno? 
«E lei non si è mai pentita di niente? Ma la vita è fatta così». 
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giancarlonicoli · 20 days
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5 apr 2024 17:03
“SANTA” E INTOCCABILE – PERCHÉ GIORGIA MELONI NON RIESCE A MOLLARE AL SUO DESTINO DANIELA SANTANCHÉ? ALESSANDRO DE ANGELIS: “L'UNDERDOG DEL ‘NON SONO RICATTABILE’ TENTENNA SUL LUSSO CHE NON VUOLE ESSERE PROCESSATO” – “PER  MELONI È STATO PIÙ FACILE EMANCIPARSI DA TRUMP E DA PUTIN CHE DA IGNAZIO LA RUSSA. LA STORIA È TUTTA QUI, NEL POTERE DI CONDIZIONAMENTO DELLA TRIBÙ (LA RUSSA-SANTANCHÉ), CONSOLIDATOSI NELL'INTRECCIO DI POLITICA, SALOTTI, MILANO FESTAIOLA E PARLAMENTO, VISIBILIA E PARTITO LOMBARDO…”
Estratto dell’articolo di Alessandro De Angelis per “La Stampa”
Paolo Cirino Pomicino, che per un periodo ne fu mentore, la fotografò così: «Daniela non è appassionata di politica, ma di potere». Se il metro […] è la sua capacità di incassare, resistere con furbizia, sfoggiarlo (il potere) come un cappello da cow boy a dispetto della sobrietà e financo della coerenza – per molto meno lei chiese le dimissioni di una trentina di avversari politici – meriterebbe la lode. Gli altri, costretti a difenderla cincischiando di garantismo, una clamorosa insufficienza. Proprio così: per Giorgia Meloni è stato più facile emanciparsi da Trump e da Putin che da Ignazio La Russa.
La storia è tutta qui, nel potere di condizionamento della tribù (La Russa-Santanché), consolidatosi nell'intreccio di politica, salotti, Milano festaiola e Parlamento, Visibilia e partito lombardo, cogestito o meglio gestito dall'una per conto dell'altro. Mica male, come rottura narrativa: l'underdog del «non sono ricattabile» tentenna sul lusso che non vuole essere processato. In fondo, era prevedibile già prima delle inchieste che in quella vita fatta di eccessi ci fossero pasticci su cassa integrazione e ristori, fornitori e dipendenti malpagati.
E forse era anche prevedibile che fosse quantomeno sospetto l'acquisto e la rivendita in un'ora con guadagno da un milione di euro della villa del sociologo Francesco Alberoni.
L'atto l'hanno firmato, a proposito di sodalizi, da una parte la moglie del presidente del Senato, Laura De Cicco, dall'altra il compagno e socio in affari di Santanché, Dimitri Kunz.
C'è da chiedersi che c'azzecchi con gli stilemi pauperisti della destra italiana, e col racconto che essa fa di sé e della sua mitologia delle origini, questo personaggio modaiolo che ha gestito se stesso col talento di un influencer quando gli attuali influencer bevevano ancora il latte. Occhialoni e foto sulle battigie, Cortina e Twiga, il regno della Pitonessa dove uomini e donne sono tutti pitonizzati.
[…] le spiagge […] Sono la sua fissazione. Quelle organizzate, ovviamente: tendaggi e financo televisori sotto l'ombrellone. Non quelle libere, sinonimo di disordine e degrado. Peccato che da ministro se ne sia occupata assai poco e non per una questione di conflitto di interessi.
Le azioni del Twiga le ha cedute, ma al compagno Dimitri Kunz, che assomiglia al Ridge di Beautiful e al grande amico e socio Flavio Briatore, ma la delega l'ha mantenuta. Spetterebbe al governo […] stabilire i criteri per la messa a bando delle concessioni. E invece si continua a prendere tempo.
[…] L'Enit poi (l'Ente nazionale per il turismo), trasformato in spa, è rimasto il carrozzone di sempre. Dovevano andarci Alberto Tomba o Briatore, è stato riempito di Carneadi. Agli annali, si fa per dire, non resta che Open to meraviglia, la campagna, tanto costosa quanto kitsch, con la Venere del Botticelli che pare un incrocio tra Barbie e Chiara Ferragni. Non proprio un successo.
Giorgio Gaber diceva di temere più che «il Berlusconi in sé, il Berlusconi in me» […]. La Santanché «in me», parimenti, è un po'questo per la destra che fu missina: frustrazione e vizio. È il ristorante costoso dove se vai, a prescindere dal come si mangia, significa che hai dimenticato i sapori della miseria, senza bisogno di imparare il Galateo. È il tacco 12 sui marmi del Transatlantico, il dito alzato ai manifestanti e via col Suv verso il Billionaire. Perfetta per il «me ne frego» dei barbari che […] stappano lo champagne a sciabolate come i russi in Costa Smeralda.
Disse una volta, e davvero disse tutto: «Mi criticano, ma quei sepolcri imbiancati nei miei locali ci sono venuti tutti, a Milano, Forte dei Marmi e anche Montecarlo». Forse si spiega così anche la frequentazione con Giorgia Meloni, con cui condivide la passione del burraco. Ci andava pure lei al Twiga, immortalata dai paparazzi con l'ex first gentleman Andrea Giambruno, un vero habitué del posto. Secondo solo a La Russa, che ci è tornato a farsi immortalare anche Pasqua (messaggio neanche tanto velato in direzione Parlamento).
Ci sa fare lei con i capi, avvolti e poi abbandonati […]: Fini mollato per Storace, poi a sua volta mollato per Fini, a sua volta mollato per Berlusconi, un «genio», che prima però era prima stato mollato anche lui («vede le donne solo orizzontali»). Memorabili le immagini con Francesca Pascale mentre fanno jogging in Costa Smeralda. Se va in tv è una tigre, difende l'indifendibile con energia anche urticante. Ha costretto la maggioranza a difenderla. La Pitonessa non viene mai abbandonata, semmai abbandona.
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giancarlonicoli · 20 days
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4 apr 2024 14:23
DI BRUNO CE NE E’ UNO E VIENE DA NETTUNO! “FUI BOCCIATO A DIVERSI PROVINI, OGGI TUTTI I GENITORI SONO CONVINTI DI AVERE UN FIGLIO FENOMENO” – BRUNO CONTI SI RACCONTA: "IO PER ANDARE A GIOCARE ALLA ROMA PRENDEVO IL TRENO DA NETTUNO, POI LA METRO E FACEVO UN PEZZO A PIEDI, OGGI I GENITORI PORTANO LA BORSA AL BAMBINO. COSI’ IMPARARE IL SACRIFICIO È DURA” – L’ABUSO DI FARMACI? ASSOCIARE CERTI PRODOTTI ALLE MALATTIE È UN MECCANISMO NON SEMPLICE. LE POLEMICHE CI SONO SEMPRE STATE, ANCHE SULLA CARNITINA AL MONDIALE” – E POI ERIKSSON, MARADONA, PERTINI E IL PARAGONE DE ROSSI-ANCELOTTI -
Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” - Estratti
Bruno Conti, lei ha debuttato in A 19enne, 50 anni fa. Era già pronto o fu Liedholm a buttarla nella mischia?
«Non mi sentivo pronto, ma il Barone me lo disse all’ultimo, fu questo il segreto».
La Roma è ancora parte della sua vita. Un caso unico.
«Soprattutto se penso che ho realizzato il sogno di mio padre, che era un tifoso romanista e ha cresciuto sette figli. Ho giocato, allenato i ragazzi, la prima squadra, ho fatto il direttore tecnico e del settore giovanile: quando potevo essere d’aiuto non mi sono mai tirato indietro».
Se oggi deve spiegare a un ragazzino che cos’è il professionismo, che parole usa?
«Il problema è spiegarlo ai suoi genitori. Noi siamo cresciuti in strada, pensando solo a divertirci. Oggi se a 11 anni un bambino viene selezionato c’è un’esasperazione incredibile, si pensa solo al risultato, a litigare e a sovrastare gli altri, invece di far capire poche cose, ma con chiarezza».
(...)
Uno dei provini fu con Helenio Herrera. Come andò?
«Scrisse che ero bravo tecnicamente ma che fisicamente non potevo giocare a calcio.
Non fu l’unico a dirlo, ma non ho mai mollato. E come dico sempre ai più giovani, ho sempre pensato a divertirmi».
Ma per emergere pesa di più la fame o il talento?
«Io un po’ di talento ce l’avevo, anche nel baseball. Ma ottieni tutto solo con la fame e la passione, che sono quelle che ti fanno fare i sacrifici. Se racconto ai ragazzi che per andare a giocare alla Roma prendevo il treno da Nettuno, poi la metropolitana e facevo anche un pezzo a piedi, mi rispondono che i tempi sono cambiati. Ma se i genitori portano la borsa al bambino, imparare il sacrificio è dura...».
(...)
Se la Roma è l’amore di una vita, la Nazionale cos’è stata?
«La prima convocazione con il Lussemburgo fu un sogno e dalla seconda con la Danimarca non sono più uscito: vincere il Mondiale significa ricevere ancora oggi lettere dal Giappone, dalla Cina, dalla Croazia. Vuol dire lasciare un segno nella gente».
I campioni dell’82 sono più amati di quelli del 2006?
«Fare paragoni è difficile. Però la nostra vittoria arrivò in un Paese che dopo gli anni di piombo aveva voglia di felicità, di fare festa. E battere quel Brasile, quella Argentina, poi Polonia e Germania, fu speciale: siamo stati snobbati, ma non eravamo da meno di tutti quei fenomeni».
Per dimostrarlo avete quasi fatto annegare Bearzot?
«Era sempre cupo e triste dopo le prime tre partite. Ma dopo la vittoria sul Brasile io e Graziani lo abbiamo buttato in piscina con la tuta e il borsello delle pipe: non sapeva nuotare e ci siamo dovuti tuffare in tanti per soccorrerlo».
Lei è anche il responsabile della colonna sonora di quella spedizione, giusto?
«Presi in prestito da Cabrini la cassetta di Battiato e cuccurrucucù paloma la ascoltavo in continuazione: l’ho messa sul mangianastri del pullman ed è diventata la nostra musica».
Che ricordo ha di Pertini?
«In ritiro con la Roma eravamo rimasti svegli tutta la notte per seguire la vicenda del povero Alfredino, con il presidente che seguì da vicino tutta la tragedia. Ritrovarcelo in Spagna fu particolare, ma lui era semplice, alla mano. Era davvero uno di noi».
Maradona le faceva una corte così serrata?
«Ad ogni abbraccio in campo, Diego mi sussurrava nell’orecchio di andare a Napoli.
C’era grande stima e rispetto, venne a Trigoria a trovarmi quando allenavo. Oltre al calciatore c’era un uomo fantastico, buono nell’anima».
Lei è stato campione del mondo, ma ha sbagliato un rigore chiave in finale di Coppa dei Campioni, per giunta a Roma: un campione ricorda di più i momenti di gioia o quelli brutti?
«Nessun italiano in tre anni consecutivi ha vinto Mondiale, scudetto e Coppa dei Campioni e io ci sono andato molto vicino. Ma lo sport è fatto di gioie e dolori: questi te li porti dietro, bisogna accettare le sconfitte e reagire, perché il calcio è bello comunque».
Con De Rossi allenatore della Roma cosa è cambiato?
«Per me Daniele è sempre stato un allenatore in campo, per l’intelligenza tattica e per le scelte che faceva: quando vedevo Ancelotti in campo avevo la stessa sensazione. Poi è un grande uomo, mai banale: ha preso la squadra in un momento delicato e si sta dimostrando un allenatore vero, preparato in tutto. Sono contentissimo per lui».
Cosa pensa della paura per i farmaci assunti in carriera, manifestata da tanti suoi ex colleghi?
«Personalmente non ho mai preso nulla di nulla e le polemiche ci sono sempre state, anche sulla carnitina al Mondiale. Ma associare certi prodotti alle malattie è un meccanismo non semplice».
Eriksson è stato suo allenatore. La sua lotta al tumore è un’altra pagina dura.
«Non dimenticherò mai la sua presenza, in quel momento non scontata, al mio addio al calcio. Forza Sven, gli auguro tutto il bene possibile».
Che padre è stato Bruno Conti con i suoi figli?
«Protettivo. Ho cercato di crescerli come ha fatto mio padre con me, grazie anche a una moglie incredibile, nel rispetto assoluto per la famiglia. Esserci riuscito è una grande soddisfazione».
La dinastia prosegue coi nipoti?
«Ne ho cinque, due giocano a calcio. Bruno nel Verona e Manuel con il Cagliari».
C’è un ragazzo del settore giovanile della Roma su cui non avrebbe scommesso e che invece è arrivato in alto?
«Politano era considerato come me, troppo gracile. Nessuno ci credeva invece è arrivato dove è arrivato. Ma quello che mi ha dato più soddisfazione di tutti è proprio De Rossi: lo avevamo preso come attaccante, poi è stato spostato in mediana ed è diventato grande. Anche per questo vederlo oggi sulla panchina della Roma è speciale».
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giancarlonicoli · 20 days
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2 apr 2024 09:30
I SERVIZI SEGRETI AMERICANI? SONO UN PARTITO, DIVISO IN CORRENTI - LO SPIEGA CLAUDIO SIGNORILE, EX VICESEGRETARIO DEL PSI, CHE SI ATTIVO’ PER LIBERARE GLI OSTAGGI AMERICANI NELL’AMBASCIATA USA DI TEHERAN NEL 1980: “ERA UN MOMENTO DIFFICILE PER JIMMY CARTER. A NOVEMBRE GLI STATI UNITI SAREBBERO ANDATI AL VOTO E LUI RISCHIAVA DI NON ESSERE RIELETTO. NOI CI ATTIVAMMO MA UNA PARTE DELLA CIA AVEVA COME FINALITÀ LA SCONFITTA ELETTORALE DI CARTER: SE L’OPERAZIONE FOSSE PROSEGUITA SAREBBE STATA DIVULGATA LA NOTIZIA CHE IL PRESIDENTE STAVA TRATTANDO CON I TERRORISTI. MI CONVINSI CHE QUALCOSA DOVESSE ESSERE ACCADUTO NELL’AMBASCIATA A ROMA. CHE QUALCUNO AVESSE PARLATO…”. E INFATTI GLI OSTAGGI VENNERO LIBERATI SOLO DOPO L’ELEZIONE DI REAGAN… -
Estratto dell’articolo di Francesco Verderami per www.corriere.it
Quindi lei il 12 maggio del 1980 volò a Beirut per salvare il presidente americano?
«Era un momento difficile per Jimmy Carter. A novembre gli Stati Uniti sarebbero andati al voto e lui rischiava di non essere rieletto. Il suo punto debole era la vicenda dei 52 cittadini statunitensi, da sei mesi ostaggi dell’ayatollah Khomeini in Iran».
Sembra un film, invece è una storia mai raccontata da Claudio Signorile, che allora era vicesegretario del Partito socialista italiano e che quel giorno aveva il compito di «avviare una trattativa per la liberazione dei prigionieri americani». Una missione impossibile di cui «la Casa Bianca era a conoscenza e che di fatto aveva autorizzato».
La vicenda degli ostaggi teneva il mondo con il fiato sospeso, perché dopo l’avvento del regime islamico a Teheran gli «studenti della rivoluzione» avevano invaso l’ambasciata statunitense, sequestrando i funzionari. Per ottenerne il rilascio «Carter aveva bisogno di un successo negoziale». […] Il tentativo militare […] era fallito due settimane prima […]
[…] «Noi del Psi, che avevamo un solido legame con Yasser Arafat e sapevamo che il leader dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, aveva un rapporto molto forte con Khomeini. […] Perciò chiamai un omino negli Stati Uniti».
E chi era questo «omino»: una spia?
«Il nome ovviamente non lo rivelo. Posso dire che era un mio amico professore, con cui avevo avuto rapporti accademici e che era diventato membro del National security council americano. E si sa che l’Nsc è il punto di snodo tra il presidente e la “parte ufficiale” della Cia».
Perché «ufficiale»?
«Perché c’è anche l’altra parte della Cia».
Sempre a che fare con le spie, lei...
«Allora facevo le cose che Bettino Craxi non poteva fare. Ero andato negli Stati Uniti nell’autunno del 1977, un anno dopo l’elezione di Carter. Il mio amico mi portò anche al Pentagono, e al termine della visita il direttore disse sorridendo: “Ora dovremo disinfestare gli uffici perché lei è il primo socialista che mette piede qui”».
A quanto pare ci mise piede stabilmente.
(Pausa) «Il problema era aiutare Carter senza coinvolgerlo, perché gli Stati Uniti non potevano avere alcun rapporto con l’Olp […] incontrai il portavoce dell’Olp in Italia Nemer Hammad e gli spiegai che, mentre l’Europa lavorava a una soluzione del problema palestinese, si poteva affrontare la questione degli ostaggi a Teheran».
Offrì uno scambio politico, quindi: e quale era?
«Dissi ad Hammad: “Khomeini potrebbe affidare anche solo una parte degli ostaggi ad Arafat, poi lui li consegnerebbe all’Italia e noi li daremmo agli Stati Uniti. Ritieni che Yasser possa farsi mediatore? Se così fosse, andrei a Beirut a parlargliene”. Giorni dopo ebbi una risposta positiva e il 12 maggio partii».
Senza avvertire nessuno?
«Ovviamente lo comunicai a Craxi, al presidente del Consiglio Francesco Cossiga e al ministro degli Esteri Giulio Andreotti. Poi informai l��Nsc e per ultimo l’ambasciatore americano in Italia Richard Gardner. Dovetti farlo anche per avere una riserva di ufficialità».
Ma in Libano non andò in visita ufficiale...
«Non ci fu traccia nemmeno del mio arrivo. Una volta atterrato a Beirut, non passai dal controllo passaporti ma da un gate gestito dai palestinesi. […] di Yasser avevo fiducia, ma un’altra parte dell’Olp diffidava dell’Occidente. Mi venne a prendere il capo dei servizi di sicurezza di Arafat, mi trasferì in un hotel e mi avvisò: “Non diamo mai orari per gli appuntamenti. Verremo a prenderla”».
E quando accadde?
«Alle quattro di notte sentii bussare alla porta della camera. Cinque uomini armati mi chiesero di seguirli. Ci muovemmo a piedi, imboccammo un vicolo, entrammo in un edificio e ci indirizzammo verso un sottoscala dal quale si accedeva a una cantina. Iniziammo un percorso da cantina a cantina, collegate tra loro da tunnel. Capii che stavamo attraversando sotterraneamente la città, con un dedalo di incroci. Voleva dire che c’erano percorsi diversi».
[…] Quanto durò il percorso?
«Mezz’ora, forse più. Finché arrivammo in quello che immagino fosse il luogo transitorio di lavoro di Arafat, che mi accolse con affetto. La stanza era priva di finestre e senza aria condizionata. Alle pareti erano appesi dei tappeti. Per sedie i loro sofà».
Un bunker.
«Ma il mondo nel quale si viveva allora era questo. E il loro era un mondo di rivoluzionari: temevano di venire centrati dai missili israeliani. […] dovevo far capire che il progetto era serio perché il governo italiano era impegnato e gli Stati Uniti erano solo informati. Glielo ripetei: “Informati, Yasser. Non coinvolti”. Era quello che lui voleva sentire. Fu attento a ogni parola, d’altronde si era esposto in prima persona. […]».
Sì, ma gli ostaggi li teneva Khomeini.
«Quando Arafat iniziò a parlare dell’ayatollah, lo fece come se si trattasse di un suo interlocutore costante. […] mi disse: “Proviamoci”. Si alzò e si appartò al telefono. A quel punto Hammad, che mi aveva accompagnato da Roma a Beirut, mi sussurrò all’orecchio: “Sta parlando con Khomeini”».
E lei?
«[…] Quando tornò, Arafat si limitò ad accomiatarmi con un sorriso. Ore dopo, ripartendo per l’Italia, Hammad mi informò che il contatto era stato “avviato”. Appena a Roma, avvisai i miei interlocutori. C’era un clima di fiducia. Ma due giorni dopo ricevetti una strana telefonata da Washington».
Era l’«omino»?
«Sì. Mi spiegò che nell’establishment era scoppiato il putiferio. […] una parte della Cia aveva come finalità la sconfitta elettorale di Carter».
Un pezzo della Cia giocava contro il presidente degli Stati Uniti?
«Non so se è chiaro: si stava giocando la sfida su chi avrebbe governato il mondo. Il mio amico mi disse testualmente: “Rallenta perché ci sono forti reazioni”. […] se l’operazione fosse proseguita sarebbe stata divulgata la notizia che Carter stava trattando con i terroristi. Mi salì l’angoscia. Avevo toccato con mano un atteggiamento disponibile da parte araba e il problema nasceva nel mondo americano. L’operazione quindi si fermò. […] mi convinsi che qualcosa dovesse essere accaduto nell’ambasciata a Roma. Che qualcuno avesse parlato…».
Gli ostaggi vennero liberati solo il 20 gennaio del 1981, esattamente alla fine del discorso di insediamento pronunciato dal nuovo presidente americano: Ronald Reagan.
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giancarlonicoli · 29 days
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27 mar 2024 20:07
“NON AVREI MAI PENSATO CHE LA GABRIELLA SE NE SAREBBE ANDATA PRIMA DI ME” - VASCO ROSSI SALUTA LA SUA GABRI, LA DONNA CHE HA ISPIRATO LA CANZONE DEL ‘93 E CON CUI HA AVUTO IL FIGLIO MAGGIORE LORENZO: “TUA MAMMA SARÀ SEMPRE VIVA NEI NOSTRI RICORDI PIÙ BELLI” - GABRIELLA STURANI AVEVA RACCONTATO QUALCHE TEMPO FA LA STORIA D’AMORE CON IL ROCKER: DOPO DUE ANNI INSIEME ERA RIMASTA INCINTA E… VIDEO -
Estratto dell'articolo di Gabriella Sturani per www.repubblica.it
vasco rossi Gabriella Sturani
“Non avrei mai pensato che la Gabriella se ne sarebbe andata prima di me. Caro Lorenzo tua mamma sarà sempre VIVA nei nostri ricordi più belli. Ti abbraccio forte… Ti sono vicino… E ti voglio bene”. Vasco Rossi saluta così la sua Gabri, Gabriella Sturani che ha ispirato la canzone del ‘93 e con cui ha avuto il figlio maggiore Lorenzo che lo ha reso nonno di due nipotine.
[…] La donna aveva raccontato qualche tempo fa la storia d’amore che l’aveva legata al rocker, due anni insieme tra l’83 e l’85 poi era rimasta incinta e aveva deciso di avere il figlio da sola. Nel 2003 poi lo aveva riconosciuto.
[…]
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giancarlonicoli · 29 days
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26 mar 2024 19:39
NANI E GIGANTI - “OGGI IO NON SONO NESSUNO/ DOMANI SONO IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA” - ENRICO MARIA PAPES, BATTERISTA E FONDATORE DEI GIGANTI, RICORDA LA CENSURA PER IL BRANO “IO E IL PRESIDENTE”: ''FU CONSIDERATA COME UN VILIPENDIO. NELLO STESSO ANNO FU BANDITA "DIO E' MORTO" DEI NOMADI. PENSATE IN CHE PAESE VIVEVAMO" – "CANTAVAMO "METTETE FIORI NEI VOSTRI CANNONI". E TENCO DISSE A GABER: “I GIGANTI HANNO IL CANNONE, MA SPARANO A SALVE” – IL NOME DEL GRUPPO SCELTO PER “MEGALOMANIA” E I RIMPIANTI: “ABBIAMO SCIUPATO UN SACCO DI SOLDI..." - VIDEO -
Walter Veltroni per il Corriere della Sera - Estratti
«Conclude il tema Enrico Maria Papes». Chi, tra quelli che hanno frequentato l’Italia in questi decenni, non ha mai sentito questa frase? Veniva detta, non cantata, in un brano musicale del 1966 che si classificò terzo al «Disco per l’estate». Ma quando si andava nei negozi di dischi — allora affollati come oggi sono i pub o i bar degli «apericena» — il 45 giri più ascoltato era proprio quello che si concludeva con la parte cantata da Enrico Maria Papes, batterista dei Giganti, uno dei gruppi più importanti di quella fase della musica italiana.
«Io avevo iniziato a suonare nel 1961 e le prime esperienze le avevo fatte in due gruppi già allora considerati musicalmente eversivi, quelli di Clem Sacco, di Ghigo e di Guidone, del Clan Celentano. Incontrai Checco Marsella, tastierista e voce fantastica, e Mino De Martino che suonava la chitarra. Poi si aggiunse il fratello minore di Mino, Sergio. Decidemmo così di costituire un gruppo che chiamammo, forse per megalomania, I Giganti.
(...)
Poi arrivò il Disco per l’estate del 1966 e la nostra vita cambiò. Per merito di una canzone, “Tema”, che sovvertiva molti canoni tradizionali. Intanto era fatta di quattro strofe diverse, cantate da ciascuno di noi, poi aveva delle introduzioni parlate, una cosa quasi blasfema. Musicalmente, il brano nasceva dall’idea di un nostro amico del Conservatorio, ma fu il testo a fare rumore. Per la sua struttura, più che per il suo contenuto. Per la mia voce da basso, che appariva in contrasto con la solarità delle altre, per quella parola, “Tema”, che parlava subito ai ragazzi di quel tempo, che, nel boom e con la scolarizzazione di massa, affollavano le scuole. Vendemmo un milione di copie di quel brano».
La critica impegnata non ha mai amato la musica dei Giganti, considerata troppo leggera e lontana dai canoni che la canzone d’autore e quella di protesta stavano assumendo. I Giganti furono anche accusati, sì accusati, di essere cattolici. Una versione moderata della musica ribelle, beat da famiglia, insomma. «Cattolici? Io non sono nemmeno credente, si figuri. In verità nel nostro primo 45 giri “Giorni di festa” cantavamo queste parole:
Ho deciso di andare a messa
Perché credo sia mio dovere
Penso proprio che andrò
Oggi è un giorno di festa
Perché sono felice
E voglio andare a dir:
“Prega per noi”.
Non mi chieda perché l’abbiamo fatto, non me lo ricordo. Forse perché all’inizio suonavamo nelle parrocchie e cercavamo di farci ben volere…».
Con Papes parliamo di una mattina del 1967, poco ricordata. Io ero, dodicenne, tra il pubblico di ragazzi che affollava il mitico teatro Sistina dove eravamo stati convocati da una rivista che uscì solo per uno o due numeri, prima di chiudere per sempre. Si chiamava, se non ricordo male, «Dopodomani». Quella mattina si sarebbero esibiti, davanti allo stesso pubblico, i Giganti e Claudio Villa, il reuccio. Appena Villa comparve sul palcoscenico fu subissato di fischi. In quel momento il popolare re della canzone melodica, uomo di sinistra da sempre, veniva identificato con il potere, con i genitori, con un mondo giurassico dal quale non si vedeva l’ora di separarsi.
Racconta Papes «Noi eravamo usciti per primi e avevamo avuto un grande successo, con il corredo di urla e svenimenti del tempo. Poi Villa non lo fecero cantare e lui venne nel nostro camerino a pregarci di accompagnarlo con degli stornelli romaneschi. Così riuscì a cantare. Erano due mondi che per una volta si lambivano ma erano definitivamente separati, per sempre.
Per noi era un momento d’oro. Eravamo andati a Sanremo con “Proposta”, sempre in quell’anno. “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, era stata un’idea di Mino. La struttura del brano era simile a quella di “Tema” ma si sentiva più forte l’influenza di quegli anni: concepita come una sorta di documentario musicale, la canzone spaziava dalla condizione dei giovani operai: “Me ciami Brambilla e fu l’operari, lavuri la ghisa per pochi denari...” a quella di un pittore disoccupato che vende giornali “Dipingo soltanto l’amore che vedo... E alla società non chiedo che la mia libertà”, fino a un giovane in conflitto generazionale con i genitori : “Con mamma non parlo, col vecchio nemmeno”. 
Chi, tra i giovani di quel tempo, poteva non sentirsi chiamato in causa? Eravamo i giovani, avevamo i nostri dischi, i nostri giornali, il nostro modo di vestire. Eravamo un potere, eravamo un mondo. Arrivammo terzi a Sanremo, fummo il primo gruppo a salire sul podio. Era il festival della morte di Tenco. Giorgio Gaber una volta ci disse che Tenco gli aveva detto, a proposito della nostra musica: “I Giganti hanno il cannone, ma sparano a salve”.
Ci rendemmo conto che le cose cominciavano ad andare male quell’estate, stagione dominata sempre dal Cantagiro. C’era questa carovana di auto scoperte che si spostava da una città all’altra tra ali di folla che ci assediava, ci toccava, aspettava che ci affacciassimo alla finestra dell’albergo. Erano molti i complessi: I Dik Dik, I Camaleonti, I Primitives, I Nomadi... Ma il nostro brano fu censurato. Si chiamava “Io e il Presidente” e diceva, a un certo punto, “In un paese libero/ a me piace pensare che/ oggi io non sono nessuno/ domani sono il Presidente della Repubblica”. Fu considerata come un vilipendio.
Nello stesso anno fu bandita “Dio è morto” dei Nomadi. Pensi in che Paese vivevamo... Insomma “Io e il Presidente” non fu mai trasmessa, né in radio né in televisione. Mai, fino a oggi, una specie di fatwa per un brano francamente non eversivo. Da quel momento le cose per noi cominciarono a scivolare male. L’anno dopo, 1968, andammo a Sanremo con “Da bambino” cantata in coppia con Massimo Ranieri, allora giovanissimo. Era una bella canzone, ma il nostro pubblico non gradì.
Oggi qualsiasi cantante ha attorno manager, uffici stampa, media manager. Noi eravamo soli e non eravamo pronti per il successo che avevamo avuto con “Tema“ e con “Proposta”. Abbiamo sciupato un sacco di soldi, come tutti i gruppi di quel tempo ubriaco. Pensi che Sergio ed io litigammo quando dovemmo mettere in vendita il nostro bel furgone, con la scritta “Giganti”. Litigammo per stupide questioni di soldi e per orgoglio, non meno stupido.
Finimmo alle mani, unica volta in vita mia. Quando se ne è andato, era ancora giovane, io ero nella stanza di ospedale con la sua compagna. Non so se a lui facesse piacere, ma a me sembrò giusto essere con lui, mentre moriva. Noi Giganti ci siamo rimessi insieme varie volte, ma non funzionava più. C’è una cosa, però, della quale siamo molto orgogliosi. È un concept album sulla mafia che si chiamava “Terra in bocca”. Era del 1971, dopo due anni di separazione. Lo abbiamo eseguito, noi tre rimasti, al Premio Borsellino. Anche quello fu censurato, a lungo».
Chiedo a Enrico Maria Papes se ha conservato qualche cimelio, di quegli anni incredibili.
«Avevo qualche vestito, forse quelli bianchi di Sanremo, ma poi li ho dati a mio figlio e ora non so dove siano. La mia batteria Grace con la scritta “Giganti” l’ho venduta nel 1969 a uno in Veneto. Poi volevo ricomprarla ma non ne venivo a capo. Ognuno l’aveva ceduta a un altro. Fino a un negoziante di Vittorio Veneto. L’ho recuperata e ora è qui, con me. È tornata a casa, è tornata a vivere. Vede, noi siamo passati rapidamente dall’ombra alla luce e poi, con la stessa velocità, siamo tornati nel cono d’ombra. Dalle stelle alle stalle, si dice. Ma le stalle, non lo si dimentichi mai, sono luoghi in cui c’è vita, c’è calore».
I Giganti si sono sciolti nel 1968. Come molti di quei gruppi. Forse perché il «sessantotto», nel sessantotto, era già finito. Il vero «sessantotto» era stato in quegli anni sessanta, i più rivoluzionari, nella storia del costume e dei consumi culturali.
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giancarlonicoli · 29 days
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26 mar 2024 15:18
I MEGAFURBETTI DELL'EXTRAVERGINE - CIRCA 30 RISTORATORI ROMANI SONO FINITI NEL MIRINO DEI NAS, CON L'ACCUSA DI AVER ACQUISTATO DELL'OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA FALSO, E POTENZIALMENTE DANNOSO PER LA SALUTE, PER POI RIVENDERLO NEI LORO LOCALI - TUTTO E' COMINCIATO DOPO CHE I MILITARI HANNO SMASCHERATO IL PRODUTTORE CHE AVEVA LA SUA BASE IN PUGLIA E CHE VENDEVA MIX DI OLI SEMI MISCELATI CON BETA-CAROTENE E CLOROFILLA... -
Estratto dell'articolo di Giuseppe Scarpa per www.repubblica.it
È una maxinchiesta con 40 persone indagate. Un sistema collaudato — un’associazione a delinquere — per portare a Roma fiumi di extravergine di oliva falso: un mix dei peggiori oli di 0,semi miscelati con beta-carotene e clorofilla. Sono decine i ristoratori che lo hanno acquistato sapendo di comprare un prodotto adulterato, pericoloso per la salute, identico solo alla vista all’originale e vagamente simile nel sapore. […]
Adesso la procura ha chiuso il cerchio ha individuato i produttori in Puglia, i pusher che lo distribuivano nella Città Eterna e gli acquirenti — gestori di locali — che lo compravano nella consapevolezza che si trattasse di un “olio fake”. Ai produttori e ai rivenditori viene contestata l’associazione e delinquere finalizzata alla frode in commercio, si tratta di dieci persone in tutto. Mentre ai gestori dei locali — ne hanno individuato per adesso trenta — la ricettazione.
Tra i ristoranti - che hanno acquistato l’olio contraffatto - ne compaiono anche sette in amministrazione giudiziaria sottratti alla camorra. Ma questa è solo la punta dell’iceberg: con il sommerso si potrebbero raggiungere numeri da capogiro. […]
I carabinieri del Nas hanno passato al setaccio il centro storico, sono stati individuati ristoranti, osterie, gastronomie a pochi passi dal Senato e dalla Fontana di Trevi, altri a Testaccio, Trastevere a Fiumicino e ai Castelli Romani, anche due supermercati. Le zone a maggiore attrazione turistica hanno restituito un quadro inquietante, perfino la mensa del ministero dell’Istruzione.
L’inchiesta degli specialisti dell’Arma è partita dal produttore clandestino che aveva la sua base in Puglia. Il Nas di Roma seguendo la filiera, ha colpito prima il produttore, poi il rivenditore romano e infine molti dei ristoratori suoi clienti. Per gli investigatori uno dei nodi sta nel prezzo: 3 euro al litro contro una media di 9 euro. […]
Ma da cosa è composto questo finto extra vergine? La base è l’olio di semi corretto con beta-carotene (per mascherare il sapore) e clorofilla (per modificarne il colore). Il liquido viene imbottigliato con etichette come “extravergine made in Italy”. L’olio di semi utilizzato è della qualità più infima, non tracciato, di provenienza ignota, arrivato nei laboratori conservato in chissà quali recipienti e quindi pagato a prezzi ancora più bassi. In questa indagine, è una novità, sono finiti nel mirino anche i ristoratori. […]
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giancarlonicoli · 29 days
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25 mar 2024 11:12
LE SCUOLE? UN CAMPO DI BATTAGLIA – ENNESIMA AGGRESSIONE A ROMA: UN PRESIDE È STATO MASSACRATO DI BOTTE DAL PATRIGNO DI UNO STUDENTE CHE ERA STATO SOSPESO. IL POVERETTO È FINITO IN OSPEDALE CON 90 GIORNI DI PROGNOSI - L'UOMO PRIMA HA INSULTATO UN INSEGNANTE, POI HA FATTO IRRUZIONE NELL’UFFICIO DEL DIRIGENTE CHIEDENDO DI ANNULLARE IL PROVVEDIMENTO. SECONDO I TESTIMONI "PIANGEVANO SIA IL PRESIDE, MENTRE VENIVA MASSACRATO DI BOTTE, SIA IL BAMBINO..." -
Estratto da www.lastampa.it
Massacrato di botte dal compagno della madre di uno studente per colpa di una sospensione non gradita. È accaduto al preside dell’istituto paritario San Gabriele, in via della Giustiniana a Roma. Raimondo Pietroletti ora è ricoverato in ospedale con 90 giorni di prognosi. […]
Secondo quanto emerso da una prima ricostruzione, il compagno della madre dell’alunno non accettava il fatto che il ragazzo avesse preso una nota e poi anche la sospensione. L'uomo prima ha insultato un insegnante, poi ha fatto irruzione nell’ufficio del preside intimandolo di annullare il provvedimento disciplinare. Raimondo Pietroletti lo ha invitato a calmarsi, ma l’uomo è andato oltre, scagliandosi contro il dirigente sotto gli occhi dello studente e dei collaboratori presenti.
«L'hanno massacrato» raccontano i genitori degli alunni dell'istituto. Una «gravissima aggressione» si legge nella comunicazione che il Consiglio d’amministrazione dell’istituto ha inviato ai genitori degli alunni per informarli dell’accaduto. '«Piangevano sia il dirigente mentre veniva massacrato di botte, sia il bambino. Alcune insegnanti hanno chiamato il personale scolastico, che ha allertato i soccorsi e la polizia'» racconta Il Tempo. […]
«Al di là delle risibili ragioni scatenanti la criminale aggressione, dobbiamo riflettere sulla crescente mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione scolastica e di chi la rappresenta» afferma Antonello Giannelli, Presidente ANP, commenta il recente episodio di violenza a Roma. «Lo scorso 15 marzo è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge 4 marzo 2024, n. 25 che intende contrastare il fenomeno delle aggressioni da parte di studenti e genitori nei confronti del personale della scuola.
L’ANP ha espresso apprezzamento per tale intervento legislativo ma non basta. Tutte le componenti della nostra società devono farsi carico di questo fardello perché un alunno che impara a rispettare i propri docenti sarà un cittadino migliore. E comunque, se un familiare non condivide le decisioni dell’istituzione scolastica ha solo il diritto di adire le vie legali. Se aggredisce il personale dovrà essere punito con la massima severità» conclude Giannelli.
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giancarlonicoli · 29 days
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25 mar 2024 09:03
LA DISTRUZIONE DELL’ISTRUZIONE – NEL 2022 I GIOVANI CHE IN ITALIA HANNO ABBANDONATO LA SCUOLA PREMATURAMENTE SONO STATI 465 MILA, PARI ALL'11,5% DI TUTTI GLI STUDENTI TRA I 18-24 ANNI – NELLO STESSO ANNO, I “CERVELLI IN FUGA” CHE SE NE SONO ANDATI DAL PAESE PER TRASFERIRSI ALL'ESTERO SONO STATI 55 MILA – I PRIMI SONO OTTO VOLTE SUPERIORI DEI SECONDI, EPPURE LA DISPERSIONE SCOLASTICA NON È AVVERTITA COME UN’EMERGENZA DALL'OPINIONE PUBBLICA... -
(ANSA) - Nel 2022 i giovani che in Italia hanno abbandonato la scuola prematuramente sono stati 465.0001, pari all'11,5% della popolazione presente nella fascia di età compresa tra i 18-24 anni. Sempre nello stesso anno, invece, i cosiddetti 'cervelli in fuga' che se ne sono andati dal Paese per trasferirsi all'estero sono stati 55.500.
I primi, dunque, sono un numero 8 volte superiore a quello dei secondi. Lo denuncia la Cgia di Mestre, sottolineando che sono due problematiche estremamente delicate che, tuttavia, continuano ad avere, da parte dell'opinione pubblica, livelli di attenzione molto diversi.
Se la dispersione scolastica non è ancora avvertita come una piaga educativa con un costo sociale spaventoso, la 'fuga' all'estero di tanti giovani, invece, lo è, sebbene il numero della prima criticità sia molto superiore a quello della seconda.
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