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#poeti d oggi
mancino · 8 months
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- Oggi ti spiegherò perché devi essere fragile come un cristallo.-
- Non rischierò così di andare in mille pezzi?-
- Sì. Ma tutto è un rischio. Anche incominciare a vivere.-
- Capisco. La alternativa sarebbe di rinunciarvi.-
- Sì. Chi non vive non rischia niente. Però è morto.-
- Ma perché proprio hai nominato il cristallo?-
- Perché è trasparente, lascia passare la luce, ne distilla i riflessi.-
- La trattiene pure, no?-
- Sì, la fa sua. Ed è bellissimo.-
- Non avviene lo stesso anche con il vetro più spesso, con il plexiglas infrangibile?-
- Sì, ma non è la stessa cosa. L'effetto della luce sul cristallo è unico.-
- Sembrerebbe proprio che tu mi imponga di diventare vulnerabile.-
- No. La vulnerabilità non è uno scopo, ma soltanto un effetto collaterale. Io ti impongo di diventare cristallo. Di filtrare la luce come un cristallo.-
- Si deve proprio diventare deboli?-
- No. Non ho detto questo. Confondi, come fanno molti, la fragilità con la debolezza, la vulnerabilità con l'inevitabile ferita. La delicatezza con uno stato di costante pericolo.-
- Potrebbe diventare un pericolo reale, però.-
- Torniamo al discorso iniziale: per paura di un possibile pericolo, si rinuncia a vivere. Cosa c'è di tanto terribile? Cosa può accaderti nella peggiore delle situazioni?-
- Morire.-
- Dunque, vorresti essere già morto per non rischiare di morire. Dobbiamo parlare un momento di questo. Io sono la tua morte. Come scrisse Pavese, verrà la morte e avrà i miei occhi. Ne parli sempre.-
- I tuoi occhi. Sì, screziati d'oro. È vero: ci sono annegato dentro.-
- Volevo dire una cosa diversa. Non intendevo far uso di metafore, di immagini figurate.-
- Vuoi dire che sei realmente la mia morte? La mia assassina?-
- Sì. Sono la tua assassina. Uccido quello di te che deve morire per lasciare spazio a una altra vita, a una diversa dimensione.-
- Non è quello che Accade ogni giorno? Muore sempre qualcosa perché si possa cambiare.-
- Sì. Baciami i piedi perché sono come quelli di Shiva: piedi delicatamente tinti di blu come la notte, che calpestano i fiori danzando, in modo da consentire alla nuova fioritura di crescere e maturare. Sempre si uccide qualcosa.-
- Per questo si dice: morire d' amore?-
- Sì. Chi ama perde ciò che era prima, diventa un altro. Chi appartiene non possiede. Chi si arrende vince. Chi muore può rinascere.-
- Ma un cristallo infranto non si può rimettere insieme.-
- No. Diventa migliaia di frammenti di luce. Moltiplica la luce tante volte quanti pezzi è diventato. Non svanisce nel nulla. Diventa semplicemente un tutto maggiore.-
Franco Coletti
Cit. e prima immagine (opera di Kevin Carden) da Poeti Viandanti
"A-mors" significa senza morte.
E anche se qualche volta ci si sente così vulnerabili amando, e fragili nell' incertezza in cui alcune prove, da affrontare per stare insieme, ma da soli, ci "catapultano"...
dobbiamo lasciare che alcune parti di noi, in cui non ci riconosciamo più, muoiano, solo così potremo rinascere insieme in una nuova luce. Con colori e riflessi completamente nuovi e sconosciuti anche per noi.
Senza paura.
Perché come diceva "Yogiji" "Dove c'è amore non c'è paura e dove c'è paura non c'è amore"
Buon venerdì anime, a volte anche fragili e vulnerabili, ma insieme, nell' energia del cuore, fortissime.
🙏💚💚🔥❤️🔥💚💚
... Gurpreet
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Mors tua vita mea
Vorrei essere in grado di scrivere
Di divinità amorevoli e di amori sinceri
Come fanno i veri poeti
Ancora oggi con gli occhi spenti
Di chi guardando fuori capisce che certi sentimenti
Sono vecchi e non più sinceri
Intorno a me vedo solo disperazione
Non sono altro che un riflesso
Un libro aperto di commiserazione
Che cerca di raccontare un pantagruesco
Scempio mentre ti chiedo se anche tu
Vedi ciò che sto vedendo
Ma nonostante questo
I silenzi rumoreggiano
Anche oggi scriveremo di Amore
Con la A maiuscola e di Dio con la D maiuscola
Per ricordarci di ciò che non saremo mai
E che i nostri antenati aspiravano ad essere
Ti prego
Dimmi che c'è qualcun altro che sente
Questa sete, questa specie di sesto senso
Un sentimento di inquiete come se il mondo fosse già finito
E noi fossimo i condannati a vedere il risultato del cinismo
Perché mi hai detto che ti dispiace ma dopotutto
Mors tua vita mea
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cinquecolonnemagazine · 4 months
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Geolier: evoluzione, slang o scelta artistica?
È vigorosa la polemica, nata sui social, intorno al testo scritto, reso pubblico in questi giorni, della canzone "I p' me, tu p' te" che il rapper napoletano, Geolier, porterà al Festival di Sanremo di quest’anno. Già dal titolo se ne comprende il motivo: la scrittura non ortodossa usata dagli autori e illeggibile in svariati punti, che ha dato vita a due schieramenti opposti tra coloro che l’aborrono e coloro che la salutano come un tentativo d’innovazione del napoletano scritto. Ma cos’è il napoletano, prima di tutto, una lingua o un dialetto? E quanto sta avvenendo è da considerarsi una sua evoluzione inevitabile o uno slang ad esso parallelo? O, ancora, una mera scelta artistica? Lo abbiamo chiesto, prima di tutto, al Prof. Renato Casolaro, poeta, docente di italiano e profondo conoscitore della lingua napoletana, e raccolto alcuni degli infuocati interventi letti sui social. Il napoletano, prof. Casolaro, è una lingua o un dialetto? Bisogna innanzitutto chiarire che lingua e dialetto non sono termini in competizione fra loro. Una lingua è l’idioma che un paese utilizza nei suoi atti ufficiali e che insegna nelle sue scuole, e in questo senso il napoletano non è mai stata una lingua - tranne un breve periodo di sperimentazione, fallita, in epoca aragonese - negli atti ufficiali del Regno di Napoli si è sempre usato l’italiano, anche sotto i Borbone. Ma si può senz’altro parlare di lingua letteraria, perché in napoletano è fiorita una letteratura di tutto rispetto. I dialetti dell’Italia invece sono tutti lingue nel senso che derivano tutti dal latino parlato, e dunque costituiscono il patrimonio linguistico dei “volgari” neolatini (così anche il fiorentino, assurto più tardi a lingua di tutti i paesi d’Italia grazie all’eccellenza di alcuni suoi poeti, come i tre famosi trecentisti). Il napoletano è una lingua codificata da norme? Il napoletano, come tutti i dialetti, ha una sua grammatica e una sua sintassi formatesi nel tempo dall’evoluzione del latino parlato nei vari luoghi - e che era già diverso da luogo a luogo, come d’altronde nei vari paesi neolatini europei. Questa grammatica è stata descritta in molti manuali fin dal 700. Oggi abbiamo molte “grammatiche” napoletane, ma, contrariamente a quanto avviene per la lingua ufficiale di un paese, esse non hanno e non possono avere un carattere autorevole di norma ufficiale, appunto per lo statuto naturale del dialetto. Dal punto di vista dell’uso scritto del dialetto, poi, quelli che lo scrivono per uso letterario non sempre sono d’accordo sul modo di trascrivere alcuni suoni, nessi, parole (es. “deve” = ha dda oppure ha da oppure adda?). Ma sulla necessità di segnare le vocali anche quando sono semimute gli scrittori “tradizionalisti” sono tutti d’accordo. Oggi per esempio si è diffusa una modalità di scrittura - i cui prodromi si vedono già in parte in autori come Pino Daniele - che ignora la tradizione di scrittura precedente e improvvisa il tentativo di scrivere riproducendo i suoni del parlato. Questa tendenza si è accentuata enormemente negli ultimi autori, tanto che a volte non si riesce a capire subito ciò che si legge, perché non c’è nessuna consapevolezza etimologica e i suoni sembrano riprodotti da persone che non parlano il napoletano. Quanto sta avvenendo è da considerarsi evoluzione o slang? Credo che tu ti riferisca a questo punto non solo al modo di scrivere, ma al napoletano com’è oggi, in particolare sulle bocche dei giovani, che sembrano averlo a modo loro riscoperto. Certo, le lingue tutte si evolvono, e quello che oggi sentiamo come un errore può diventare una nuova “regola”. Avvenne lo stesso nel passaggio dal latino alle lingue romanze: abbiamo testimonianze di maestri che severamente correggevano certi errori che poi sono stati integrati in un nuovo sistema grammaticale-sintattico, la nuova lingua romanza (ad es. l’italiano), sistema formatosi gradualmente per molteplici motivi, soprattutto ad opera dei parlanti stessi, sia pure inconsapevoli. E riguardo alla nuova scrittura, se la funzione di una lingua è la comunicazione, ha senso una scrittura non comprensibile a tutti? Assolutamente nessun senso. A mio modesto parere bisognerebbe battere su questo punto quando si discute di un testo scritto in modo illeggibile, come ad esempio quello che circola su rete del rapper Geolier, che ha suscitato un vespaio di reazioni forse più per i contenuti (a volte inesistenti, ma questo è solo il mio parere personale) che per la forma, la quale invece secondo me dovrebbe essere al centro dell’attenzione: se un testo è scritto in modo chiaro (dicevo ai miei alunni quando insegnavo italiano) si possono valutare i contenuti, altrimenti puoi avere le idee più vaste e profonde del mondo ma non comunichi. Diversi pareri sulla questione Geolier Di diverso parere è Il Prof. Nicola De Blasi, ordinario di Storia della lingua italiana e di Dialettologia italiana presso l'Università di Napoli “Federico II”, che intervistato in merito alla questione Geolier, dalla giornalista Ida Palisi per il Corriere del Mezzogiorno, si è così espresso: “Come canta Geolier è una scelta artistica che non ha una forza modellizzante o normativa e non penso che questo giovane rapper abbia in mente di suggerire a tutti di scrivere come sono scritti i suoi testi. Canta in un dialetto che fa parte dell'esperienza quotidiana di molti parlanti, non solo dei giovani. Forse per lui la grafia usata è per così dire parte integrante della sua creazione artistica, quindi una diversa scrittura gli apparirebbe poco adeguata alle sue intenzioni. Comunque una cosa singolare è che un dibattito sul tema "il dialetto napoletano si deve scrivere come si parla" si è svolto a Napoli a fine Ottocento”. Quindi potremmo deporre le armi e tranquillamente decidere se seguire o meno il rapper e Sanremo, se non fosse per la questione dei contenuti delle sue canzoni e del contesto sociale nel quale sono nate: Luigi Ascione – agronomo ed enologo – attento osservatore dei cambiamenti della cultura napoletana: “Bisognerà ragionarci, questi sono soprattutto i nuovi creativi dialettali, questo è il dialetto che si parla, questa è la trascrizione. D’altra parte consistenti strati di popolazione lasciati a sé stessi, senza lavoro, senza istruzione, senza diritto di cittadinanza prendono spazi di sopravvivenza e creano la propria cultura. Se non hanno filtri culturali a monte non possono fare altro che assumere gli elementi che la società mercantile indica loro come simboli del successo.” Riflessioni più che condivisibili e, in parte, riprese anche dall’attore e autore di poesie che hanno a tema la periferia industriale di Napoli, Giovanni Merano: “È la mercificazione del napoletano, a mio avviso. Non so se sia una evoluzione o una deriva della lingua. Due punti di vista del medesimo fenomeno. Ognuno può e deve esprimersi come meglio crede o sa fare, e se arriva anche ad una sola persona, la missione è compiuta. Lungi dallo screditare l’uomo e anche l’artista, non mortificherei mai il lavoro altrui, la lingua usata dal rapper non è di mio gusto, per me è una deriva.” Contrario si è detto anche Michele La Veglia, ingegnere e cultore della storia e della lingua napoletana, autore di due saggi e una quarantina di pubblicazioni sulla storia dei “Vigili del fuoco”: "Napolitano Evolution 2024” è una sintesi mia di quanto vado leggendo. L'evoluzione di un linguaggio passa comunque attraverso uno standard di correttezza grammaticale ed è noto che il napoletano di Pino Daniele costituiva un’ evoluzione rispetto alla letteratura del 1600, per esempio, di Giambattista Basile. Qui si tratta di slang e lo slang è parlato e tt kk = tutte le cose, scritto soprattutto nei messaggini ci sta. Poi, mi permetto di dire che una canzone in napoletano, presentata al Festival della canzone italiana, dovrebbe essere scritta in lingua napoletana corretta. Ecco anche evoluta, senza sofismi di inizio secolo, ma comunque con parole comprensibili ad un vasto pubblico.” … anche Carlo Rinaldi, autore di poesie in napoletano e insegnante di lingua napoletana: “Non credo che conoscano il napoletano parlato visto che mutuano termini italiani napoletanizzandoli con l'esclusione della finale.” Per il momento è tutto ma prima, ecco il testo “incriminato”. A voi soprattutto le conclusioni possibili: "I p' me, tu p' te" - Geolier - Testo di D. Simonetta - P. Antonacci - E. Palumbo - M. Zocca - D. Simonetta - G. Petito - D. Totaro - F. D’AlessioEd. Eclectic Music Publishing/Thaurus Publishing/Golden Boys/ Nuova Nassau/Music Union/Management33 Music/ Wonder Manage/Studio Uno Sound - Milano Nuij simm doije stell ca stann precipitann T stai vestenn consapevole ca tia spuglia Pur o’mal c fa ben insiem io e te Ciamm sprat e sta p semp insiem io e te No no no comm s fa No no no a t scurda P mo no, no pozz fa Si ng stiv t’era nvta A felicità quant cost si e sord na ponn accatta Agg sprecat tiemp a parla Nun less pnzat maij Ca all’inizij ra storij er gia a fin ra storij p nuij O ciel c sta uardann E quant chiov e pcchè Se dispiaciut p me e p te Piccio mo sta iniziann a chiovr Simm duij estranei ca s’incontrano E stev pnzann a tutte le cose che ho fatto E tutto quello che ho perso, non posso fare nient’altro I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu pe’te Tu m’intrappl abbraccianm Pur o riavl er n’angl Comm m può ama si nun t’am Comm può vula senz’al, no È passat tantu tiemp ra l’ultima vot Ramm natu poc e tiemp p l’ultima vot No, no no no comm s fa No no no a t scurda P mo no, no pozz fa Nun less pnzat maij Ca all’inizij ra storij er gia a fin ra storij p nuij O ciel c sta uardann E quant chiov e pcchè Se dispiaciut p me e p te Piccio mo sta iniziann a chiovr Simm duij estranei ca s’incontrano E stev pnzann a tutte le cose che ho fatto E tutto quello che ho perso, non posso fare nient’altro I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu p’te Sta nott e sul ra nostr, Si vuo truann a lun a vac a piglia e ta port, E pur si o facess tu nun fuss cuntent, Vuliss te stell, vuless chiu tiemp cu te. Piccio mo sta iniziann a chiovr Simm duij estranei ca s’incontrano E stev pnzann a tutte le cose che ho fatto E tutto quello che ho perso, non posso fare nient'altro I p’me tu p’te I p’me tu p’te I p’me tu p’te Immagine di copertina: DepositPhotos Read the full article
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francesco-nigri · 3 years
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La tenerezza della passione
La tenerezza della passione
La tenerezza della passione Aggiunge rotondità alla profondità  .. e sapore allo spessore colore al profumo e vastità allo sguardo e non si scorda  perchè mai passa nel gusto dell’oggi  e nel ricordo di quello di ieri e la desideri più del domani ‘chè più d’ogni anello lega  la carne del cuore e l’anima della mente e ti pulsa dentro più d’ogni pulsare di vena  e ti fa giovane nella…
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napoliglamour · 3 years
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Arturo Schwarz, viene voglia di cominciare il racconto della sua vita con l'incipit di Cent' anni di solitudine di Gabriel García Márquez: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato...». Cosa pensava lei, in quella primavera del 1949, prima di salire sul patibolo in Egitto?
«Patibolo, esatto. Non mi aspettava un plotone, ma il nodo scorsoio: mi avevano condannato all' impiccagione lasciandomi tutto il tempo per riflettere sugli anni vissuti fino ad allora, 25, pochi ma intensi. Da tempo sapevo in cosa credevo e cosa volevo dalla vita. Come disse lo scultore Constantin Brancusi: "Tutte le mie opere sono databili dall'età di quindici anni". Per me, forse, da prima ancora».
Riavvolgiamo il nastro: com'era finito un italiano, quasi settant' anni fa, in una galera egiziana con la pena capitale pendente sulla testa? E com' è che oggi, a 94 anni, è qui, di fronte a noi, nella sua casa di Milano, zeppa di capolavori e libri, con una moglie giovane e bella, Linda, a raccontarcelo?
«Sono nato ad Alessandria d'Egitto da padre tedesco di Düsseldorf e da madre milanese, Margherita Vitta, figlia di un colonnello dell' esercito italiano. Entrambi ebrei. Si conobbero lì e si sposarono. Avevo la doppia cittadinanza ma nel 1933, con l'ascesa di Hitler al potere, rinunciammo a quella tedesca e mio padre, separatosi da mia madre e trasferitosi al Cairo, mi vietò di rivolgermi a lui nella sua lingua madre.
Non feci fatica: mi sentivo italiano, studiavo in scuole prima inglesi e poi francesi, e avevo una naturale repulsione per la Germania. Mio padre era influente in Egitto: aveva inventato la formula per disidratare le uova e le cipolle, dando un grande impulso alle esportazioni di un Paese esclusivamente agricolo.
Nel '38, a 14 anni, ero già trotskista. Con un paio di amici copti e uno musulmano, io, ateo, fondai la sezione egiziana della Quarta internazionale, voluta da Lev Trotskij da poco riparato in Messico. Aspetti, le mostro una reliquia che ha segnato tutta la mia lunga esistenza...».
(Si alza, stacca dalla parete un quadretto e me lo mostra) Ma questo è il biglietto da visita di Trotskij. Lo ha incontrato?
«Me lo fece avere dal poeta Benjamin Péret. Doveva essere il lasciapassare per il mio viaggio in Messico. Due mesi prima della partenza, però, i sicari di Stalin lo assassinarono e io decisi di dedicare la mia esistenza ad affermare le sue idee. Nel frattempo era scoppiata la Seconda guerra mondiale ed entrai, come volontario, nella Croce Rossa. Ero ad El Alamein a caricare i feriti sulle ambulanze, italiani o inglesi che fossero, e mi presi qualche scheggia nel polpaccio.
Di notte scrivevo poesie, come ho fatto per tutta la vita. Mandai le prime ad André Breton. Avevo letto il Manifesto del surrealismo ed avevo chiesto all' ambasciata di Francia al Cairo chi fosse questo Breton. Dissero che faceva lo speaker di Radio France Libre a New York. La risposta mi giunse sei mesi dopo, sfidando l'Atlantico infestato dagli U-Boot nazisti. Cominciò allora a trattarmi come fosse un padre. Mi incoraggiava, mi coccolava quasi. Finita la guerra mi iscrissi a medicina ma non dimenticai Trotskij».
Fu per causa sua che venne arrestato?
«Sì, aprii una libreria e cominciai a pubblicare i suoi libri in Egitto. All'alba di una mattina del gennaio 1947, la polizia irruppe in casa mia. Ero accusato di sovversione. Regnava Re Farouk. Da giovane sembrava potesse diventare un governante illuminato ma si rivelò un despota crudele.
Aveva abbandonato persino le buone maniere, a tavola mangiava come un animale, per dimostrare che a lui tutto era concesso. Mi trascinarono nella prigione di Hadra e mi rinchiusero nei sotterranei, in una cella piccola, senz' aria, solo con topi e scarafaggi. Dopo qualche settimana cominciarono le torture, mi strapparono le unghie dei piedi, causandomi la cancrena e la perdita di un dito, ma non parlai. Non era comunque necessario, perché l' amico musulmano spifferò tutto, raccontò della cellula trotskista, della nostra visione del mondo, dei contatti internazionali.
Mi trasferirono al campo di internamento di Abukir, dove venni a sapere della condanna a morte. Non la eseguirono subito perché servivo loro come ostaggio. Era scoppiata la guerra arabo-israeliana, e io ero ebreo. Dopo due anni di prigionia, l' impiccagione venne fissata per il 15 maggio, ma poche settimane prima Egitto e Israele firmarono l'armistizio. Negli accordi era prevista la liberazione dei prigionieri ebrei detenuti in Egitto.
Una mattina mi rasarono, lasciandomi credere che di lì a poco sarei salito sul patibolo. Invece mi accompagnarono al porto e mi imbarcarono su una nave diretta a Genova con il foglio di via e stampato, su tutte le pagine del passaporto, "Pericoloso sovversivo - espulso dall' Egitto". Così com' ero, senza poter rivedere i miei genitori, né procurarmi un ricambio d' abito».
Come le apparve l'Italia, quando sbarcò a Genova?
«Il paradiso terrestre. Raggiunsi Milano e trovai lavoro da un ebreo, Marcus, che aveva un ufficio d' import-export dietro al Duomo. Allora nessuno conosceva bene l'inglese e il francese. Appena possibile, una notte presi il treno per Parigi. Alle sei del mattino salii su un taxi, lasciai la valigia in un albergo di quart' ordine, e bussai alla porta di 42 rue Fontaine, a Montmartre. Aprì Breton, lo vedevo per la prima volta, ma mi abbracciò come fossi un vecchio amico.
L'appartamento era piccolo, il letto in un angolo e ogni spazio occupato da oggetti e opere d' arte. Sul muro, in fondo, occhieggiava una raccolta di bambole Hopi. Nello studio, straordinarie sculture africane e, sotto la finestra, La boule suspendue di Alberto Giacometti. Alle pareti, Giorgio De Chirico, Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Max Ernst, Man Ray, Dalí... Salvador Dalí non mi è mai piaciuto, non era dei nostri, era Dalí e basta. Come, da trotskista, non ho mai accettato l' approccio commerciale di Pablo Picasso».
Quando decise di tornare a fare il libraio, l'editore e poi il gallerista?
«Un fratello di mia mamma, direttore di una filiale della Comit, mi fece avere un piccolo fido. Pubblicavo libri difficilmente commerciabili, giovani poeti e saggistica: Breton, Einstein e, soprattutto, Trotskij. Mandai in stampa La Rivoluzione tradita con una fascetta gialla: "Stalin passerà alla storia come il boia della classe operaia". Sa cosa accadde? Me lo confidò, tempo dopo, Raffaele Mattioli, amministratore della Comit e uomo di grande cultura.
Lo chiamò personalmente Palmiro Togliatti, chiedendogli di togliere il fido "alla iena trotsko-fascista di Schwarz". Così finì la mia prima esperienza di editore: per rientrare dovetti vendere tutto il magazzino a meno del 10% del prezzo di copertina e anche la libreria rischiò di chiudere. Per sopravvivere, cominciai a organizzare mostre di incisioni, acqueforti e libri illustrati dagli artisti.
Mi aiutarono molto Carlo Bo, Raffaele Carrieri, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo e molti altri amici. Non potendomi permettere l' arte contemporanea che andava per la maggiore (e nemmeno m' interessava), decisi di sfidare la legge capitalistica della domanda e dell' offerta: recuperai il Dadaismo e il Surrealismo che nessuno voleva. Feci uscire dalle soffitte le opere di Marcel Duchamp, che da tempo si era ritirato e non era più interessato ad esprimersi artisticamente. Con lui il rapporto fu meraviglioso: presi lezioni di scacchi dal maestro Guido Capello per un anno intero per poter giocare contro di lui. Rimase imbattibile, ma qualche soddisfazione riuscii a togliermela».
Poi, una mattina del 1974, senza avvisare nessuno, chiuse la sua galleria, ormai divenuta mitica, per dedicarsi agli studi di arte, di alchimia, di kabbalah. Cominciò a collocare (spesso donandole), in giro per il mondo, le sue collezioni. Sentiva il bisogno di prendere le distanze dal passato?
«No. E poi non le chiami collezioni, è una parola che non mi piace. Sentivo il bisogno di trasmettere un patrimonio senza smembrarlo. Resto trotskista e surrealista, ho venduto opere d' arte, ma ne ho anche donate moltissime, chiedendo in cambio che fossero trattate in maniera scientifica: catalogate, documentate, fatte sopravvivere, insomma. Del denaro non ho mai fatto una necessità, ho sempre cercato di sfuggire alla logica del suo dominio. Tutto questo ha a che fare anche con gli studi alchemici e cabalistici. Mica andavo cercando l' oro materiale, cercavo quello spirituale».
L' Italia, come ha detto lei, è stata il suo «paradiso terrestre», però molte delle sue opere sono finite in musei all' estero. Come mai?
«Un migliaio sono in quattro grandi musei internazionali, però un consistente nucleo di opere surrealiste e dada sono alla Galleria d' Arte Moderna di Roma. Non ha idea di quanto sia stato difficile. La burocrazia italiana è un nemico spietato: devi giustificarti per il tuo atto di liberalità, vissuto quasi con sospetto, mentre lo Stato non fornisce garanzie di corretta gestione. Mi sono anche visto rifiutare la donazione dei testi dada e surrealisti. Qualcuno pare li abbia definiti "robaccia pornografica". Li ho così regalati a Israele»
Per cosa combatte ora il trotskista Arturo Schwarz?
«Per l' amore di Linda. Così come ho amato la mia prima moglie, Vera, strappatami vent' anni fa da un tumore. E per un soffio d' aria fresca e pulita, un bisogno lasciatomi da quei mesi passati nei sotterranei di una prigione egiziana»
[Pier Luigi Vercesi]
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Vocalismo e consonantismo nel dialetto salentino
di Gianmarco Simone
Il dialetto salentino conosciuto e parlato al giorno d’oggi ha avuto un secolare  processo di nascita e di affermazione durante il quale ha assorbito nella sua struttura linguistica i tratti tipici delle parlate e delle lingue delle diverse popolazioni che hanno abitato ed occupato la penisola salentina. Da madrelingua salentino, alcune delle domande che mi sono sempre posto erano pure curiosità: da dove nasce la mia lingua? Perché la pronuncia leccese non è uguale a quella brindisina o gallipolina? Quali sono i tratti tipici del dialetto salentino e come si sono originati? A queste domande cercheremo di dare una risposta lungo l’arco di questo articolo e per farlo bisogna iniziare a guardare un po’ indietro nel tempo.
Un dato certo è che il dialetto salentino deriva dal latino volgare, ovvero quella variante latina parlata dalla gente (vulgus) che si contrapponeva al latino classico utilizzato dai grandi oratori e poeti nella sua forma puramente scritta. Per intenderci, il latino classico era la lingua dei dotti utilizzata per la scrittura a cui si affiancavano le numerose lingue volgari del vastissimo Impero Romano utilizzate soprattutto dalla plebe per lo più analfabeta per parlare.
Il processo di romanizzazione e latinizzazione[1] della penisola salentina inizia nel 90 a.C, anno della Guerra Sociale tra i Messapi[2] e Taranto che ne sancì la loro sconfitta e la conquista del Salento da parte dei Romani. Come per qualsiasi altra lingua volgare, anche nel Salento il processo di latinizzazione dovette far fronte a forti resistenze dal punto di vista fonetico e fonologico dovute alle influenze dalle parlate pre-esistenti, quali quelle dei Messapi di base greca, e quelle che invece si erano già diffuse prima dell’arrivo dei Romani, ovvero le parlate osche[3]. La latinizzazione durò molti secoli ma è partire dalla caduta dell’Impero Romano nel 476 d.C che il sistema fonetico-fonologico del dialetto salentino comincia a mutare e ad assumere le caratteristiche che lo compongono. Infatti, dapprima con i Bizantini e successivamente con i Normanni, il sistema vocalico della penisola salentina subisce un imbarbarimento dovuto alle innovazioni linguistiche portate dalle genti provenienti dalle terre straniere.
  Vocalismo tonico
Le innovazioni a cui faccio riferimento prendono il nome di “metafonia” e “dittongazione”. La prima è un fenomeno linguistico che modifica il suono di una parola per l’influenza della vocale postonica su quella tonica, invece la dittongazione è un fenomeno simile alla metafonia ma che si manifesta attraverso i dittonghi ié,ué, in base alla vocale postonica. In seguito vedremo gli esempi. Pertanto, questi due fenomeni linguistici che subentrarono in un’epoca post-romana sono, per così dire, i responsabili della tripartizione del sistema vocalico tonico del dialetto salentino come noi oggi lo conosciamo. Ci siamo mai chiesti perché si pronuncino sia oce che uce (it. voce) sia nuéu che nou (it. nuovo), sia ucca che occa (it. bocca)? La risposta risiede proprio nel mutamento metafonetico e nel fenomeno della dittongazione.
A questo punto, vediamo la suddivisione del sistema vocalico tonico del dialetto salentino nelle sue varianti linguistiche (Mancarella,1974: 10)[4]:
Sistema napoletano: zona del Salento settentrionale
Ī > i ; Ĭ,Ē > e,i ; Ĕ > e,ié ; Ā,Ă > a ; Ŏ > o,ué ; Ō,Ŭ > o,u ; Ū > u
 Cerchiamo di rispondere a delle domande che inevitabilmente possono sorgere. Partendo dalla denominazione, perché si definisce sistema napoletano quando, effettivamente, stiamo parlando del dialetto salentino? Il nome si deve al fatto che questo sistema vocalico si ritrova anche nel napoletano. In generale, quando si studiano i fenomeni linguistici di una lingua o un dialetto, un alleato molto utile per capire alcuni fenomeni è proprio la storia. Infatti, anche Napoli, come tutto il Meridione, è stato dominato per molti secoli sia dai Bizantini sia dai Normanni, i quali si imposero nei territori e inevitabilmente diffusero le loro parlate lasciando tracce nella tradizione linguistica. Continuiamo. Quali sono i limiti geografici del salentino settentrionale? Su questo punto potremmo dire che i territori dove si utilizza questo sistema sono: i territori del brindisino, Oria e Nardò. Dove troviamo nello schema i fenomeni linguistici? La metafonia si ha in Ĭ,Ē > e,i[5] ed in Ō,Ŭ > o,u[6] mentre la dittongazione condizionata si ha in Ĕ > e,ié[7] ed in Ŏ > o,ué[8]. Vediamo alcuni esempi: HĪLU > filu, PĬLUS > pilu, PĬRA > pera, TĒLA > tela, SĒRA > sera, STĒLLA > stedda, PĔDEM > pete, MĔRUM > miéru, APIS > apu, RŎTA > rota, FŎCUS > fuécu, CŎRIUS > cuéru, NŎVUS > nuéu, BŎNUS > buénu, CŌDA > cota, VŌCEM > oce, SŌL > sole, SŌLUS > sulu, BŬCCA > occa, VŬLPE > orpe, CRŪDUM > crutu.
Sistema di compromesso: zona del Salento centrale
Ī,Ĭ,Ē > i ; Ĕ > e,ié ; Ā,Ă > a ; Ŏ > o,ué ; Ō,Ŭ,Ū > u
 Anche qui cerchiamo di dare delle risposte. Innanzitutto, questo sistema viene definito di “compromesso” in quanto trovandosi nel mezzo tra quello settentrionale e quello meridionale prende tratti vocalici sia da uno sia dall’altro sistema. Il sistema vocalico centrale si può incontrare nel leccese e a differenza di quello settentrionale non presenta casi di metafonia, bensì casi di dittongazione condizionata in Ĕ[9] ed in Ŏ[10]. Alcuni esempi sono: HĪLUM > filu, PĬLUS > pilu, PĬRA > pira, TĒLA > tila, SĒRA > sira, STĒLLA > stidda, PĔDEM > pete, MĔRUM > miéru, APIS > ape, RŎTA > rota, FŎCUS > fuécu, CŎRIUS > cuéru, NŎVUS > nuéu, BŎNUS > buénu, CŌDA > cuta, VŌCEM > uce, SŌL > sule, SŌLUS > sulu, BŬCCA > ucca, VŬLPE > urpe, CRŪDUM > crutu.
Sistema siciliano: zona del Salento meridionale
Ī,Ĭ,Ē > i ;  Ĕ > e ; Ā,Ă > a ; Ŏ > o ;  Ō,Ŭ,Ū > u
La zona del salentino meridionale comprende tutti i territori all’interno della linea immaginaria che va da Gallipoli-Maglie-Otranto fino al capo di Santa Maria di Leuca. Questo sistema si definisce di tipo “siciliano” per la sua vicinanza al dialetto siciliano, anch’esso costituito da 5 vocali e privo di fenomeni linguistici. Inoltre, prima di procedere con l’esemplificazione, è bene sapere che tale sistema è fonte di grande interesse da parte degli studiosi, i quali ritengono che proprio la presenza del sistema penta vocalico nelle zone del estremo Salento, nel centro Calabria e in alcune zone della Sicilia, possa essere la prova di un’antica unità linguistica del Meridione. A tal proposito, Parlangeli afferma che “il dialetto salentino continua una fase arcaica di una comune unità linguistica meridionale in quanto si è sviluppato in una regione d’antica romanizzazione” (Mancarella, 1974: 70).  Il sistema di tipo arcaico, così come definito, deriverebbe da una koiné dialettale[11] originatasi dall’antica lingua osca che era ben diffusa in tutto il centro-meridione prima dell’arrivo dei Romani. Il fatto stesso che la zona del Salento meridionale abbia conservato questo sistema confermerebbe l’idea che le innovazioni linguistiche portate dai Bizantini e dai Normanni si infiltrarono gradualmente dal nord fino alla zona centrale del Salento, lasciando così il Meridione isolato da tali cambiamenti (Mancarella, 1998: 280-281).Vediamo alcuni esempi: HĪLUM > filu, PĬLUS > pilu, PĬRA > pira, TĒLA > tila, SĒRA > sira, STĒLLA > stidda, PĔDEM > pete, MĔRUM > meru, APIS > ape, RŎTA > rota, FŎCUS > focu, NŎVUS > nou, BŎNUS > bonu, CŌDA > cuta, VŌCEM > uce, SŌL > sule, SŌLUS > sulu, BŬCCA > ucca, VŬLPE > urpe, CRŪDUM > crutu.
 Vocalismo atono
 Un altro aspetto dell’analisi sul vocalismo salentino verte su quello atono. Per vocalismo atono si intende il comportamento delle vocali atone (quelle su cui non ricade l’accento) sia in posizione iniziale, intertonica e finale. Per capirci meglio, ci siamo mai chiesti perché nel brindisino si dica lu pani, invece nel leccese lu pane?. Ecco, quindi, che per comprenderne la differenza dobbiamo analizzare il vocalismo atono. Vediamo di seguito i diversi sistemi:
Zona del Salento settentrionale
Ī,Ĭ,Ē,Ĕ > i ; Ā,Ă > a ; Ŏ,Ō,Ŭ,Ū > u
Dallo schema possiamo vedere come tutte le vocali atone latine in Ī,Ĭ,Ē,Ĕ danno come risultato i. Ad esempio: FORĪS > fori, PĀNIS > pani, SEMPĔR > sempri, FACĔRE > FARĔ > fari, MĂRĔ > mari, VĪCĪNUM > vicinu, FĔNESTRA > finešša , NĔPŌTIS > nipute.
Zona del Salento centrale
Ī,Ĭ,Ē,Ĕ > e ; Ā,Ă > a ;  Ŏ,Ō,Ŭ,Ū > u
 Per quanto riguarda il vocalismo atono del salentino centrale possiamo notare la differenza con quello settentrionale nel comportamento di Ī,Ĭ,Ē,Ĕ. Infatti, le vocali latine danno sempre e. Ad esempio: FORĪS > fore, PĀNIS > pane, SEMPĔR > sempre, FARĔ > fare, MĂRĔ > mare, VĪCĪNUM > bbešinu, FĔNESTRA > fenešša, NĔPŌTIS > nepute.
Zona del Salento meridionale
Ī,Ĭ,Ē,Ĕ > i,e ; Ā,Ă > a ; Ŏ,Ō,Ŭ,Ū > u
Generalmente nel sistema vocalico atono del salentino meridionale le vocali latine Ī,Ĭ,Ē,Ĕ possono dare sia i sia e. Tuttavia, un tratto abbastanza diffuso in questa zona è quello di pronunciare le stesse vocali in a. Per esempio: PĔNSABAM > pansava, FĔNESTRA > fanešša, NĔPŌTIS > napute.
Consonantismo
L’ultimo aspetto fonetico-fonologico del dialetto salentino riguarda le consonanti e la loro pronuncia. Anche in questo caso, siamo di fronte ad un panorama abbastanza variegato e pieno di casi particolare. Tuttavia, seguendo lo studio condotto da D’Elia ne Ricerche sui dialetti salentini (1957) in Mancarella (1974: 109-118), è possibile avere una panoramica dei diversi fenomeni consonantici che occorrono nelle diverse zone del Salento:
Occlusiva velare sorda –C- ([k]): si mantiene nel Salento meridionale e settentrionale (ĂPŎTHĒCA > putèca), mentre scompare in quello centrale (putèa).
Occlusiva velare sonora – G- ([g]): si pronuncia k se seguita da a,u nel salentino meridionale e centrale (GUSTŬS > kustu, GALLŬM > kaḍḍu), mentre in quello settentrionale se in posizione iniziale e seguita da a si converte in i (GALLŬM > iaddu), se invece è seguita da o,u cade (it. GUARDO > wardu).
Occlusiva dentale sonora –D- ([d̪]): in posizione intervocalica si pronuncia come sorda [t] (PĔDEM > pete).
Gruppo –LL: si pronuncia come cacuminale ḍḍ ([ɖ]) in tutto il salentino centrale e meridionale, ad eccezione di quello settentrionale dove il suono è una dentale dd (CĂBALLUS > cavaḍḍu / cavaddu). Tuttavia, troviamo casi particolari di pronuncia cacumiale nel neretino.
Gruppo –TR: il suono è cacuminale [ṭṛ] nel salentino centrale e meridionale, mentre nel salentino settentrionale è una dentale [tr] (PĔTRA > peṭṛa/petra).
Gruppo –STR: nel salentino centrale e meridionale è molto frequente la palatalizzazione in šš ([ʃ:]) mentre nel salentino settentrionale questo fenomeno è abbastanza irregolare (NOSTRUM > noššu/nuéstru).
Gruppo –ND- y –MB: si tratta di due gruppi ai quali l’assimilazione è alquanto irregolare. In alcuni casi si mantengono (QUANDŌ > kuandu, PLUMBUM > kiumbu), in altri si assimilano entrambi (QUANDŌ > kuannu , PLUMBUM > kiummu).
Gruppo: BR: generalmente si mantiene però in alcuni casi si pronuncia vr o r (BRACHIUM > bracciu/ vrazzu/razzu).
Gruppo CR: generalmente si mantiene però, soprattutto nel salentino centrale e meridionale, è possibile che la occlusiva [k] cada (CRASSUS > crassu/rrassu).
Gruppo GR: si mantiene nel salentino meridionale e settentrionale, mentre dà solo r nel salentino centrale (GRĀNUM > granu/rranu).
Gruppo ALC: nel salentino settentrionale dà –aṷč– mentre in quello centrale e meridionale troviamo diverse soluzioni come –ṷče– ğğe – š – ṷğğe– (CALCEM > kaṷče, kağğe, kaše, kaṷğğe).
Gruppo NG + E,I: può sia rimanere sonoro sia prendere il suono [č] (MANDŪCĀRE > it. mangiare > mančiare).
Conclusioni
Dall’analisi condotta è stato possibile rispondere ai quesiti posti all’inizio dell’articolo e in particolar modo si sono potuti osservare i tratti tipici del dialetto salentino in tutte le sue varianti. E’ stato possibile avere un quadro generale di come il nostro modo di parlare si diversifichi in base alla zona geografica in cui ci troviamo e capire che il perché di tali differenze è da ricercarsi molti secoli addietro. Inoltre, vorrei esortare i lettori a non prendere quest’analisi come un qualcosa di totalmente fisso ed invariabile. Per intenderci, gli schemi rappresentano i tratti generali dei tre sistemi nelle rispettive zone linguistiche ma ciò non esclude il fatto che si possono incontrare dei casi in cui i tratti di una zona linguistica si ritrovino anche in quella limitrofa. Inoltre, quando si trattano temi riguardanti i dialetti italiani, bisogna sempre tenere in considerazione la componente della lingua italiana che ha una fortissima influenza sui parlanti, soprattutto tra i più giovani, e ciò ha provocato un ulteriore, permettetemi il termine, imbarbarimento del vernacolo, modificandone così non solo i tratti fonetico-fonologici ma anche quelli lessicali. In definitiva, gli esempi presentati sono utili per spiegare i fenomeni generali di ciascuna delle zone linguistiche osservate e servono ad affermare che il dialetto salentino è figlio del latino volgare.
Bibliografia
Mancarella, G.B.,(1974), Note di storia lingüística salentina, Lecce, Edizioni Milella.
Mancarella, G.B., (1998), Salento. Monografia regionale della Carta dei dialetti Italiani, Lecce, Edizioni del Grifo.
[1] Per romanizzazione si intende il processo mediante il quale i Romani, una volta conquistato un determinato territorio, importavano la loro cultura e religione diffondendole in maniera non coatta. In un certo senso era un orchestrato ricatto psicologico in quanto non si forzava la popolazione vinta ad aderire alla cultura romana però solo chi decideva romanizzarsi poteva godere dei benefici sociali, mentre chi si rifiutava rimaneva ai margini della società. Per latinizzazione, invece, ci si riferisce prettamente al processo linguistico di diffusione della lingua latina per scopi puramente ufficiali, cioè come mezzo per poter controllare dal punto di vista politico e militare le innumerevoli provincie.
[2] Gli antichi abitanti del sud della Iapigia, insieme ai Peucezi al centro e i Dauni al nord.
[3] La lingua osca era una lingua italica diffusa nel centro-meridione prima ancora del latino.
[4] G.B. Mancarella ,(1974), Note di storia lingüística salentina, Lecce, Edizioni Milella
[5] Danno e quando la vocale postonica è A-E-O, mentre danno i quando è I-U.
[6] Danno o quando la vocale postonica è A-E-O, mentre danno u quando è I-U.
[7] Danno e quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ié quando è I-U
[8] Danno o quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ué quando è I-U.
[9] Danno e quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ié quando è I-U
[10]Danno o quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ué quando è I-U
[11]Dal greco κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”.
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donaruz · 6 years
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Venite pure avanti, voi con il naso corto, signori imbellettati, io più non vi sopporto,
infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio perchè con questa spada vi uccido quando voglio.
Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza;
godetevi il successo, godete finchè dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura
e andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l' ignoranza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L'arrivismo? All' amo non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese.
Non me ne frega niente se anch' io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz' ora da sempre mi precede
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore;
non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d' essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo,
ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo, ma sono triste
perchè Rossana è bella, siamo così diversi,
a parlarle non riesco: le parlerò coi versi, le parlerò coi versi...
Venite gente vuota, facciamola finita, voi preti che vendete a tutti un' altra vita;
se c'è, come voi dite, un Dio nell' infinito, guardatevi nel cuore, l' avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso, che Dio è morto e l' uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali, tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti, per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Io tocco i miei nemici col naso e con la spada,
ma in questa vita oggi non trovo più la strada.
Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo,
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo:
dev' esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un' ombra e tu, Rossana, il sole,
ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perchè oramai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo...Cirano
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Cirano l'italiano
Venite pure avanti, voi con il naso corto, signori imbellettati, io più non vi sopporto,
infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio perchè con questa spada vi uccido quando voglio.
Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza;
godetevi il successo, godete finchè dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura
e andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l’ ignoranza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L’arrivismo? All’ amo non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese.
Non me ne frega niente se anch’ io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz’ ora da sempre mi precede
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore;
non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d’ essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo,
ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo, ma sono triste
perchè Rossana è bella, siamo così diversi,
a parlarle non riesco: le parlerò coi versi, le parlerò coi versi…
Venite gente vuota, facciamola finita, voi preti che vendete a tutti un’ altra vita;
se c’è, come voi dite, un Dio nell’ infinito, guardatevi nel cuore, l’ avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso, che Dio è morto e l’ uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali, tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti, per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Io tocco i miei nemici col naso e con la spada,
ma in questa vita oggi non trovo più la strada.
Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo,
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo:
dev’ esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un’ ombra e tu, Rossana, il sole,
ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perchè oramai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo…Cirano
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stefandreus · 6 years
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Venite pure avanti, voi con il naso corto,
signori imbellettati, io più non vi sopporto,
infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio
perché con questa spada vi uccido quando voglio.
Venite pure avanti poeti sgangherati,
inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni che campate di versi senza forza,
avrete soldi e gloria, ma non avete scorza;
godetevi il successo, godete finché dura,
che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura.
E andate chissà dove per non pagar le tasse,
col ghigno e l'ignoranza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna,
però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L'arrivismo?
All'amo non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Facciamola finita, venite tutti avanti
nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze,
feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte,
coraggio liberisti, buttate giù le carte
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto,
assurdo bel paese.
Non me ne frega niente se anch'io sono sbagliato,
spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz'ora da sempre mi precede
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore;
non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d' essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo,
ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo, ma sono triste
perché Rossana è bella, siamo così diversi,
a parlarle non riesco: le parlerò coi versi, le parlerò coi versi...
Venite gente vuota, facciamola finita,
voi preti che vendete a tutti un' altra vita;
se c'è, come voi dite, un Dio nell'infinito,
guardatevi nel cuore, l' avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso,
che Dio è morto e l' uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti,
per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!
Io tocco i miei nemici col naso e con la spada,
ma in questa vita oggi non trovo più la strada.
Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo,
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo:
dev'esserci, lo sento, in terra o in cielo
un posto dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un'ombra e tu, Rossana, il sole,
ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perché oramai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo,
per sempre tuo, per sempre tuo... Cyrano.
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pangeanews · 6 years
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Vogliono tramutare Emily Dickinson nella Madonna delle femministe. Ecco perché leggere una poesia al giorno del “mito” vi cambierà occhi, lingua, cervello
C’è stato un momento. Quel momento fu un apice. E fu rapace. Siamo nell’Ottocento, e non conta la scansione prometeica della cronologia e neppure la trincea ‘sociologica’. Accade che appaiano degli uomini. A diverse latitudini. Non si conoscono. Questi uomini hanno un linguaggio. E cambiano per sempre il modo di guardare le cose, di nominarle, perfino. Friedrich Hölderlin in Germania, Arthur Rimbaud in Francia, Giacomo Leopardi in Italia, Emily Dickinson negli Stati Uniti d’America. Questi quattro angeli portano lingue diverse ma sono accomunati da un fatto. Vissuti nell’Ottocento, sono i più grandi poeti del Novecento. Di oggi. Di sempre. Voglio dire. La loro poesia nasce già ‘postuma’, è scritta per chi verrà dopo di loro, è un dono ai venienti, ai nascituri, a chi deve ancora nascere. La cosa è straordinaria. Entrambi, sono accomunati da silente sfrenatezza, da una poesia che è oltranza, che oltraggia il lettore comune, che rompe le convenzioni. Sono poeti irrefrenabili, inauditi, di cui non sai darti ragione perché ti si spappola il cervello, come un fiore marcito. Per la storia della poesia, questi poeti inaugurano un nuovo modo di fare poesia – per la storia dell’uomo, impongono nuovi occhi sul mondo. Rinominano le cose, appunto. Sono di una purezza tale da eludere perfino la parola ‘poeta’. Bene. L’occasione per ribadire questa idea, talmente abbagliante da risuonare banale, è un film. A Quiet Passion. Uscito nel 2016, flirtando con un anniversario – i 130 dalla morte – il film racconta la vita di Emily Dickinson. In realtà, c’è poco da raccontare, ma c’è molto da leggere: fare un film su un poeta – a meno che non sia Byron o D’Annunzio – è giocare a rugby su una lastra di vetro sospesa nel vuoto. Mi fido di quanto ha scritto ‘il Mereghetti’ sul Corriere della Sera: il regista – Terence Davies – è bravo, la protagonista, Cynthia Nixon, “l’Amanda di Sex and the City” (qui trovate un suo bel profilo) è brava pure lei, il film si fa vedere, è piuttosto raffinato. Andatelo a vedere. Meglio un film sulla Dickinson, supereroe della poesia, che l’ennesimo film sul solito supereroe della Marvel, un atto di bullismo bulimico contro i poveri spettatori paganti. Spiando qua e là e leggendo su e giù, però, una cosa mi irrita assai. Il regista, riportano le italiche cronache, ha detto, parlando di Emily, “era divertente, aveva un grande umorismo, e faceva tutte quelle cose che noi esseri umani facciamo”. Di certo, Emily era ironica, fino al cinismo, ovviamente era un essere umano – ma non come noi, forse più di noi, sapeva essere vespa e vispa, albero e nuvola, amante e virile – ma non userei mai l’aggettivo divertente per descriverla. Io la immagino come una fiamma. “Era una santa”, mi dice, piuttosto, Isabella Santacroce. “Mi basterebbe attraversare le pareti. Far apparire Emily Dickinson. Parlare con lei”. Emily Dickinson, la poetessa che scrive 2mila poesie e ne pubblica in vita una manciata, Lei, la rara, che decide la clausura nel suo mondo, fino a fare della propria stanza l’ombelico del creato e delle tende il verbo di un dio analfabeta. “Ad Amherst… è chiamata il mito. Non esce di casa da quindici anni… è sotto molti aspetti un genio. Veste di bianco, si pettina come usava quindici anni fa, quando scelse la reclusione. Ha voluto che io cantassi per lei, ma senza incontrarmi… Quando ho finito mi ha fatto avere un bicchiere di sherry e una poesia…”, appunta, il 15 settembre del 1881, Mabel Loomis. Emily, linguaggio addestrato dai millenni, che pietrifica chi lo attraversa, qualcosa di simile a Eraclito (“Vela il tramonto e svela:/ incanta ciò che vedi/ minaccia d’ametista/ e fosse di mistero”), alla parola che avvia la rivoluzione della terra (“Questi sono gli affluenti della mente –/ i suoi emissari – se li vuoi vedere/ ascendi con me la vetta/ dell’immortalità –”). Emily non va vista – il vedere rimuove l’enigma, riduce il sacro a un biglietto d’ingresso – ma va letta, leccandone i versi, semmai. Le lettere, ad esempio, vanno crocefisse di sottolineature (“Quanto al fatto ‘che rifuggo da Uomini e Donne’ – è perché parlano di cose Consacrate, ad alta voce – e mettono in imbarazzo il mio Cane”, scrive, “agosto 1862”, a Thomas W. Higginson, ed è così, Emily va sussurrata, non berciata sul grande schermo, va letta al buio sapendone la luce). Ecco. Nel film Emily sembra una proto femminista, l’ennesimo ritratto della femmina che si ribella alle consuetudini patriarcali, magari una Madonna lesbo. Emily va letta. In Italia, per altro, gli adoratori sono tanti, solidi. Già nel 1938, pur con una punta di paura, Mario Praz la esalta (“In uno stile audacissimo di modernità, talora involuto per troppa compattezza, talora diretto come grido dell’anima, le brevi poesie della D. costituiscono una delle più notevoli serie di confessioni liriche che la letteratura ricordi”). Molto tradotta dai poeti – ma Mario Luzi è notevolmente pessimo, mentre Amelia Rosselli ha la stessa tempra e temperatura d’ossessione retorica – la Dickinson potete leggerla, tutta, qui, per grazia di Giuseppe Ierolli; l’Emily Dickinson Archive, invece, è qui, dove potete sfogliare i suoi manoscritti, e lasciarvi soggiogare dal suo mondo. La Dickinson è una terapia contro l’ovvio e l’osceno: basta una poesia al giorno per forgiare nuovi occhi, darvi una lingua d’argento e un cervello meno scemo. Provate. (d.b.)
L'articolo Vogliono tramutare Emily Dickinson nella Madonna delle femministe. Ecco perché leggere una poesia al giorno del “mito” vi cambierà occhi, lingua, cervello proviene da Pangea.
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Poesie haiku sulla natura: doni dal Giappone
Le poesie haiku sulla natura rappresentano una delle forme più di componimento più rappresentativo della cultura orientale. Nate in Giappone, sono uno strumento di contemplazione e meditazione. In pochi righi sono capaci di trasmettere suggestioni che inducono all'introspezione. Cos'è un haiku? Un haiku è una forma di poesia giapponese composta da tre versi, con una struttura sillabica fissa di 5-7-5, per un totale di 17 sillabe. Tradizionalmente, l'haiku è un'immagine poetica che cattura un momento fugace della natura, spesso con una forte connessione alla stagione in cui è stato scritto. L'haiku è spesso concentrato sulla natura o su una breve esperienza, ed è progettato per evocare un'immagine mentale o un'emozione in modo semplice ed essenziale. Un haiku classico di solito include un riferimento alla stagione o al tempo dell'anno, chiamato kigo, e un "taglio" o kireji, che separa il poema in due parti, creando una tensione o un contrasto tra di esse. Il linguaggio utilizzato nell'haiku è spesso metaforico o suggestivo, piuttosto che esplicito, e lascia spazio all'interpretazione personale del lettore. Poesie haiku sulla natura: che scopo hanno? Lo scopo principale delle poesie haiku sulla natura è quello di evocare una reazione emotiva o una connessione con la natura attraverso la sua immagine mentale, utilizzando poche parole e un linguaggio semplice ed essenziale. L'haiku tradizionale giapponese si concentra sulla bellezza della natura, sul passaggio delle stagioni e sui momenti fugaci della vita quotidiana, cercando di catturare la sua essenza con la massima precisione possibile. Oltre a rappresentare un'esperienza o un'immagine naturale, l'haiku può anche riflettere l'umore, il pensiero o l'esperienza personale del poeta, o suggerire un senso di armonia, equilibrio o semplicità nella vita. Nella cultura giapponese, l'haiku è spesso utilizzato come forma di meditazione o contemplazione, e la sua brevità e semplicità sono premurose virtù estetiche. Oggigiorno, l'haiku è ampiamente apprezzato e praticato in tutto il mondo come forma di poesia distinta e raffinata, sia nella sua forma tradizionale che in varianti più sperimentali. Chi ha inventato l'haiku? L'haiku è una forma di poesia giapponese che si è sviluppata nel XVII secolo. E' stata poi perfezionata da un poeta giapponese di nome Matsuo Basho. Basho è considerato uno dei più grandi poeti di haiku di tutti i tempi. Ha scritto molti dei più famosi e iconici haiku della tradizione giapponese. La sua opera più famosa è il "Sentiero del dorso di cavallo" (Oku no Hosomichi), un diario di viaggio poetico che descrive il suo viaggio attraverso il Giappone e che contiene molti haiku. La sua opera ha influenzato profondamente la forma e lo stile dell'haiku. Tuttavia, il formato di poesia che oggi conosciamo come haiku ha avuto origine molto prima di Basho. L'haiku deriva da una forma di poesia chiamata hokku. L'hokku una parte integrante di una forma di intrattenimento chiamata renga, in cui i partecipanti si alternano nella scrittura di una serie di versi collegati. Il primo hokku è stato scritto nel XII secolo da un monaco buddista giapponese di nome Saigyo. E' stato Saigyo ad aver introdotto l'idea di utilizzare una descrizione della natura come primo verso di una sequenza di versi. Chi scrive haiku? L'haiku è una forma di poesia che può essere scritta da chiunque, in qualsiasi lingua. Tuttavia, l'haiku ha origini nella tradizione giapponese e molti poeti che scrivono haiku oggi si ispirano alla tradizione giapponese. Nella tradizione giapponese, l'haiku è stata scritta da un'ampia gamma di autori, da poeti professionisti a dilettanti, da uomini e donne, e da persone di tutte le età. L'haiku è sempre stata una forma di poesia popolare, che è stata scritta e apprezzata dalle persone comuni. Oggi, l'haiku è una forma di poesia molto popolare in tutto il mondo, e molti poeti contemporanei scrivono haiku in diverse lingue. Molti di questi poeti cercano di rispettare la forma e la struttura del haiku giapponese, mentre altri sperimentano con la forma e la adattano alle proprie esigenze espressive. In generale, l'haiku è una forma di poesia che incoraggia la contemplazione della natura e della vita, e molti poeti scrivono haiku per riflettere su momenti fugaci e per catturare l'essenza del mondo che li circonda. In copertina foto di For commercial use, some photos need attention. da Pixabay Read the full article
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francesco-nigri · 3 years
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La notte
La notte La notte non disegna le tue ombrela notte respira le tue grotte Per questo la notte è del poetae il giorno della poesia Il respirarti ti cercacome l’anfratto il suo bacio di pane un tempo per il morso edun tempo per la saliva e i tempi sudano l’unicotempo dei chiaroscuri L’inverno è nudola luce s’affaccia e rivuole il buio è un’altalena di freddo al caldoche solo il mare…
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federicodeleonardis · 3 years
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La specificità dei linguaggi artistici
Un mio pallino.
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G.B Tiepolo, Ca Rezzonico, Venezia             Gordon Matta Clark,                                                                                               Conical intersect, Parigi
Durante i forzati ozi natalizi voglio occuparmi di linguaggio visivo. Per non essere accusato di lavorare pro domo mea, conoscendo un poco anche quelli musicale e letterario, m’è venuta l’idea di servirmene, riportando solo la voce di persone appartenenti a quelle parrocchie. Non sono le uniche. Potrei citare per esempio frasi di Carmelo Bene su quello cinematografica o alcune di Marco Paolini per il Teatro e, sul piano letterario ma non solo, pescare da un celebre saggio di Susan Sontag che centra con una chiarezza rara l’origine del discorso contenutistico in arte in genere (1). Preferisco però rivolgermi all’aiuto di due soli autori la cui autorevolezza (scusate il bisticcio) è fuori discussione in due campi distinti che niente hanno a che vedere con l’arte visiva: Josif  Brodskij per la poesia e Glenn Gould per musica. Limitarsi a registrare solo le loro opinioni, oltre a garantire obbiettività, offre il vantaggio di assicurare un’ indiscutibile coerenza. Infatti mi servirò solo di citazioni più o meno lunghe tratte da testi scritti in occasioni diverse, ma tutti di poetica: il mio commento sarà ridotto al minimo e avrà il solo obiettivo di legare fra loro discorsi fatti in occasioni particolari e magari lontani fra loro nel tempo. Questo florilegio servirà a illustrare la mia opinione sul linguaggio visivo, perché tutte le parole estratte valgono per me anche per questo. E’ da sottolineare poi che JB e GG non sono critici di professione, ma poeti, poeti nel loro linguaggio, e se si sono occupati di critica lo hanno fatto per la pagnotta (dichiarandolo) e forse anche perché altri al posto loro non lo facevano bene. Ambedue sono stati molto generosi nei confronti dei colleghi della stessa disciplina e questo è a favore della loro obiettività. Naturalmente hanno avuto, come tutti, i loro bravi paraocchi, ma l’ampiezza dello sguardo sulla poetica altrui sia dell’uno che dell’altro è stata molto superiore a quella di qualsiasi critico di professione.
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Giorgio de Chirico, Il sogno del poeta          Mark Rothko, Cappella di Huston
La critica d’arte non sta molto simpatica neanche a me, ma quando si riscontrano lacune così ampie nel campo di cui ci si occupa, è gioco forza impegnarsi con la penna e se, non sarà mera presunzione, verrà giudicato da chi avrà la pazienza di leggere fino in fondo.
La penna. Già, perché si tratta  di usare la lingua franca, non il linguaggio specifico, elettivo. La lingua di Duchamp e c/o, la lingua di Germano Celant, quella di Boatto, a essere buoni, ma anche la lingua di qualsiasi giornalista accreditato sulle riviste d’arte, di qualsiasi studioso della materia, dai più seri ai meno, la lingua usata in questo caso anche da JB e da GG, l’unica con la quale è possibile affrontare l’argomento. Non più dilazionabile, visto che l’arte è arrivata dove è arrivata e quello che ho definito il Barocchetto Volgare domina la scena internazionale, trascinando con sé anche elementi di culture altre, comunque molto interessanti, ma nelle condizioni del clima instauratosi ovunque, finite anch’esse cotte nel minestrone.
Siamo in trincea. E lo siamo perché da molto tempo, a partire dal celebre Pissoir di Duchamp, pochi saranno  disposti a seguirmi sulla specificità dei linguaggi. Pensiamo a uno come John Cage: influenzato dal francese ma comunque artista vero, mi darebbe addosso senza pietà da quando “4’ e 33’’ (significativamente ma erroneamente titolato come Silence dalla critica duchampiana) ha fatto la sua comparsa nelle sale da concerto. Il silenzio di Duchamp, seguito dal rumore assordante provocato da tutti gli altri e soprattutto dai critici, nel pezzo in questione è stato imitato alla perfezione dal musicista americano: per quell’intervallo di tempo si scatena solo il rumoreggiare del pubblico. Ma c’è da riflettere sul fatto che, al termine dell’interruzione, l’orchestra riprende a suonare. Al contrario il rumore provocato dal silenzio di Duchamp continua ancora oggi.
In trincea sono pochi i compagni. Parlo della trincea da combattimento sulla linea del fronte della lingua franca, contro l’influenza nefasta di colui che parlò del puzzo di trementina e di idiosincrasia per il retinico, dopo che ebbe la brillante idea di lavorare con gli objets trouvé. Confermo, brillante. Che io sappia soltanto Franco Vaccari con il suo Duchamp messo a nudo ha osato dare una mano. A parole (verba volant) conosco molti artisti che si dicono solidali, che continuano a lavorare come se Lui non fosse mai esistito e sostengono che invece di chiacchierare, come faccio io, bisogna esprimere le proprie opinioni, appunto, solo lavorando: del resto non lo faceva anche Brancusi, amico di D e fornitore di sculture che aiutavano a sopravvivere entrambi? (2)
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L’argomento non è capzioso e anch’io lo seguo. Solo che, limitandosi a questo, la trincea rimane vuota, perché nessun critico, nessun esperto nella lingua franca è disposto a seguirmi.
Bene, rischio di annoiarmi e di annoiare. Sono immerso in una vasca d’acqua calda (e me la godo tutta), reduce da una cura in un ospedale (per Covid) di un sistema sanitario certamente carente sul piano della medicina di base, ma non nelle strutture ospedaliere (per me lo Stato ha speso per il mio ricovero almeno trecento euro al giorno e non ero un’eccezione: accanto a me era ricoverata una signora senza fissa dimora, una “barbona” e con lo stesso trattamento); ieri, dimesso, ero in un supermercato a scegliere il pane che più mi piace tra una ventina o forse un centinaio di variazioni (e sono contro il consumismo!); torno a casa un po’ debole, ma tutto sommato curato, in un luogo caldo e accogliente; apro il computer e mi metto a scrivere le cazzate che leggete. Ma immerso nella vasca calda mi attraversa la testa un’immagine: quella di bambini africani privi di latte, si sostanze nutritive di base, destinati a morire o comunque a malattie gravi per inedia. Già, mentre a me salta in testa di parlare di linguaggio visivo, di linguaggio specifico in generale: a chi, dotato di un minimo di empatia, può interessare?
Lo vedremo signori, a fine testo.
Parlano JB e GG, alternativamente. Premetto che quanto dicono appartiene a un passato di un quarto di secolo fa ma, a mio avviso, sempre attuale e che il mio è un florilegio arbitrario. Altri potrebbero scegliere dallo stesso contesto altri brani, ma il loro discorso è coerente e parla per me.
Di Gould ho tratto le citazioni dall’edizione Adelphi L’ala del turbine intelligente, il cui titolo l’editore ha mutuato da un testo in cui il formidabile pianista commenta Le Variazioni Goldberg di Bach, composizione che lo ha impegnato praticamente tutta la vita: tanto per parlare di serietà d’impegno e dare una spintina a chi ignora il tema della specificità dei linguaggi artistici. Del russo le citazioni vengono da numerosi testi che lo stesso editore ha pubblicato praticamente subito dopo l’assegnazione a lui del Nobel per la letteratura (1986). Si tratta di Dolore e Ragione, Profilo di Clio, Fuga da Bisanzio, Il Canto del pendolo e infine di una raccolta di interviste, Conversazioni, rilasciate a giornalisti e colleghi americani fino a una settimana dalla morte (1996). Come accennato, l’impegno nella critica d’arte di ambedue questi poeti è stata, soprattutto per il secondo, obtorto collo: si sa che la poesia non paga mentre la prosa un po’ di più. Ma lo hanno fatto ambedue con una serietà e una costanza che nessun critico ha mai dato per nessuno (ci sono naturalmente eccezioni e penso per es. a Gianfranco Contini per la letteratura e a Cavalcaselle o Giovanni Morelli per l’arte visiva): GG  presentava dischi da lui stesso interpretati (aveva scelto di lasciare le sale concerto e dedicarsi esclusivamente alle registrazioni (scelta che ha a che vedere con il “lo vedremo” di cui sopra), mentre JB girava il mondo e soprattutto l’America per conferenze nelle varie prestigiose università di quel paese.
Le citazioni tratte da quest’ultimo saranno corredate semplicemente dalla provenienza dei testi, mentre quelle dal secondo esigono una presentazione. GG, nei suoi commenti all’opera di vari musicisti, pur parlando la lingua franca usa termini tecnici tali che non aiutano a seguire il discorso chi è digiuno di nozioni di tecnica musicale. Non potendo poi le citazioni essere troppo estese, è opportuno avvertire che quanto riporto è insufficiente: si tratta di un discorso lungo e complesso, che va comunque letto per intero. I pezzi che riporterò saranno in ogni caso utili a entrare nel merito della questione. Lui parla di tonalità, variazioni, fughe, cromatismi, sequenze ecc, tutti termini pertinenti al suo mestiere di interprete, ma lo fa con un occhio al linguaggio musicale e alla sua assoluta specificità tale da non lasciare dubbi sull’insufficienza della lingua franca che è costretto ad usare per farsi capire. Diverso è il caso di JB: la sua lingua franca è più che esaustiva: la poesia è un’altra cosa, mentre la prosa a volte può essere confusa con il linguaggio elettivo. Infatti lui si lamenta spesso di doverla usare e nei confronti di quella letteraria con finalità artistiche è sicuramente troppo severo. Dove mettiamo Beckett o Wallace (per indicare solo due capisaldi della prosa agli estremi del secolo XX°)?
Chiunque dalle parole da me spese fin qui si sia convinto che l’arte visiva, al pari della musica e meno della poesia, non sia semantica, (1) può tranquillamente interrompere la lettura e non proseguire. Ma se Duchamp, il negatore del valore retinico, ha gettato un’ombra su di lui o anche semplicemente un dubbio (e ne conosco tanti e fra questi anche artisti di valore), è bene che si immerga nel florilegio che gli propongo.
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Donatello, Il Gattamelata                     Richard Serra, Spirale
Cominciamo con Glenn Gould:
Riporto un brano tratto da Arte della Fuga, per dimostrare la sua attenzione nei confronti del proprio strumento di interpretazione, che è la prima virtù di un artista. Bisogna sapere però che per lui… … la musica di Bach, non contiene indicazioni né di tempo né dinamiche; dovrò quindi evitare con cura che l'entusiasmo di una convinzione interpretativa si presenti come l`inalterabile assolutezza della volontà dell`autore. Inoltre, come ha saggiamente osservato Bernard Shaw, fra i compiti del critico non rientra l`analisi grammaticale…
… Bisogna riconoscere, a credito dello strumento a tastiera moderno, che il potenziale della sua sonorità, quell'implicita ricchezza di legati morbidi e setosi, può essere ridotto oltre che
sfruttato a fondo, se ne può fare uso, oltre che abuso. E in realtà, a parte uno stretto rigore archivistico, non vi è nulla che impedisca al pianoforte moderno di rendere con fedeltà le implicazioni architettoniche dello stile barocco in generale e di quello bachiano in particolare…
… Come L'Arte della fuga, anche il Clavicembalo bentemperato è stato eseguito (per intero o in parte), oltre che sullo strumento di cui porta il nome, al clavicembalo, al pianoforte, da complessi di archi o di fiati, complessi jazz e da almeno un gruppo di vocalisti. E questa splendida indifferenza a una sonorità specifica non è la minore fra le attrattive che sottolineano l'universalità di Bach.
 Mi sembra interessante, per illustrare quanto ho affermato circa la destinazione dell’arte, cioè il suo pubblico, quanto GG afferma nell’intervista rilasciata a Bruno Monsaingeon (Mozart e dintorni): spiega chiaramente la ragione del suo abbandono delle sale da concerto in favore di quelle di registrazione: non si tratta solo di una preferenza per un controllo minuzioso di tutta la composizione, controllo che è possibile solo in queste ultime, né solo di un sano approccio ai vantaggi della tecnologia digitale, ma anche di idiosincrasia per il pubblico delle prime: selezionato, snob e comunque mai popolo nel senso da me indicato alla fine di questo scritto. GG non aveva peli sulla lingua e spesso si è espresso molto negativamente nei confronti  dell’atmosfera da iniziati “intima e assorta” che si ritrova sempre nelle sale da concerto. Ecco in tre righe la sua posizione:  
 Secondo me la radice di ogni male non è tanto il denaro quanto lo spirito competitivo, e nel
concerto si può vedere una perfetta analogia musicale di questo spirito.
 E a conferma della posizione di cui sopra, basta questa frase, dettatagli  dall’ esame de Le ultime tre sonate di Beethoven:
L’analisi di Marliave sull’ “atmosfera intima e assorta che incanta l’uditore” illustra un’interpretazione di queste opere basata su congetture filosofiche invece che sull’analisi musicale.
 Quanto alla sua posizione nei confronti della critica ufficiale, basti questa frase tratta dalla Perorazione  per Richard Strauss:
 Per questi critici è inconcepibile che un uomo così geniale non abbia desiderato contribuire all'arricchimento del linguaggio musicale, che un autore cui la sorte aveva concesso di scrivere dei capolavori ai tempi di Brahms e Bruckner e di sopravvivere a Webern fino a vedere l'epoca di Boulez e Stockhausen, non abbia voluto trovarsi un posto tutto suo nella grande vicenda dell'evoluzione musicale . Che cosa si deve fare per spiegare a costoro che l'arte non è tecnologia e che la differenza fra un Richard Strauss e un Karlheinz Stockhausen non è paragonabile a quella fra un umile addizionatrice da ufficio e un elaboratore IBM?
 Sempre sulla critica ufficiale, ma questa volta dall’articolo Strauss e il futuro elettronico:
 … Un'ultima valutazione del nostro ipotetico brano: supponiamo che, anziché attribuirlo a Haydn o ad un compositore più tardo, 1'improvvisatore lo faccia passare per un’opera, a lungo dimenticata e recentemente scoperta, nientemeno che di Antonio Vivaldi, nato settantacinque anni  prima di Haydn. Sono quasi sicuro che dopo una simile presentazione il pezzo verrebbe salutato come un'autentica rivelazione storica, una prova della genialità profetica del grande maestro, il quale avrebbe scavalcato con un solo balzo prodigioso tutti gli anni che separano il barocco
italiano dal rococò austriaco; e il nostro povero brano sarebbe dichiarato degno di figurare nei programmi delle  grandi occasioni. Quasi tutti i nostri criteri estetici si basano quindi, malgrado le nostre fiere rivendicazioni di indipendenza di giudizio artistico, su un principio che non ha nulla a che fare con quello dell'arte per l'arte, ma che si potrebbe definire "dell'arte rispetto alla società dell'epoca".
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… Il punto debole di questa tesi sta nell'incapacità dei suoi fautori di ammettere che l'adesione a un
determinato movimento storico non impone l'obbligo di accettare le conseguenze logiche. Uno dei
tratti più irresistibilmente simpatici degli esseri umani è la loro scarsissima propensione ad accettare le conseguenze dei loro ragionamenti... La verità è che, a parte ogni considerazione di età e di resistenza, l'arte non è opera di animali razionali (cosa che, in ultima analisi, non le
nuoce affatto).
Credo che una lucidità come quella espressa in questi brani sia veramente rara, come rara è la sicurezza di giudizio di GG nei confronti del rapporto dell’arte con i tempi in cui viene creata: non si misura in rapporto alla società dell’epoca, ma in un certo senso solo a se stessa, a un discorso semplicemente di linguaggio. In parole povere, i tempi dell’arte non sono quelli della storia.
 Da Arnold Schoemberg: una prospettiva estraiamo quattro brani in cui GG dimostra un notevole coraggio di giudizio nei confronti delle novità in campo linguistico. Un ridimensionamento non di Schoemberg, ma della critica che, appoggiandosi a lui e alle indubbie qualità innovative della sua composizione, ha sottovalutato quelle di suoi contemporanei, giudicandole “reazionarie”. (come se l’objet trouvé avesse cancellato di colpo le lingua di Picasso e di Braque, tanto per fare un esempio nel nostro orticello):
 La grande arte non procede sempre verso ciò che, analiticamente parlando, potremmo chiamare emancipazione: a me sembra anzi che si possano benissimo riconoscere grandi anche opere composte da artisti considerate dai loro contemporanei come pericolosi reazionari… Per chi come me ha una predilezione per le ultime composizioni di Strauss, è indispensabile adottare un criterio di giudizio più flessibile di quello che ubbidisce all’equazione novità uguale progresso uguale grande arte…
 … I primi sostenitori dell'atonalità non mancarono di fare orgogliosamente notare che il movimento astrattistico cominciò quasi contemporaneamente a quello atonale, ed effettivamente è possibile trovare alcune facili analogie fra le carriere del pittore  Kandinsky e del musicista Schoenberg. Credo però che sia pericoloso insistere troppo su queste affinità, per il semplice motivo che la musica è sempre astratta, non ha connotazioni allegoriche se non in senso supremamente metafisico e non pretende né ha mai preteso, a parte qualche rara eccezione, di essere altro che un modo per esprimere i misteri del comunicare sotto una forma altrettanto misteriosa.
Mi sembra quindi che sia un grave errore interpretare in chiave unicamente sociale la straordinaria trasformazione della musica contemporanea. Non si può certo negare che esistano rapporti fra l'evoluzione di un ceto sociale e l'arte che si sviluppa attorno ad esso (il carattere pubblico delle prime musiche barocche, ad esempio, si può far dipendere in qualche misura dalla prosperità di una certa classe mercantile nel Cinquecento), ma  è molto pericoloso ricorrere a complesse argomentazioni sociologiche per spiegare una trasformazione che interessa essenzialmente l'aspetto tecnico della disciplina artistica …
 … Un ultimo motivo, poi, è certo il fatto che ogni musica deve obbedire a un sistema e che è molto più necessario aderire a questo sistema, accettarne tutte le conseguenze nei momenti di rinascita, come appunto quelli in cui ci ha condotti Schoenberg, che in una fase successiva e più matura della sua esistenza …
 … Secondo me la conseguenza principale è stata senza dubbio la separazione fra pubblico e compositore. E’ una verità sgradevole, ma è la verità. Molti accusano Schoenberg di aver spezzato per sempre il legame che univa il pubblico al compositore, distruggendo i punti di riferimento comuni e creando fra di loro un profondo antagonismo, e sostengono che il suo linguaggio non si è imposto perché è privo di quel sistema di rimandi emotivi cui sono generalmente sensibili gli ascoltatori di oggi.
La musica colta dei nostri giorni, o quanto meno quella che ha subìto in larga misura l'influenza di Schoenberg, ha sicuramente un peso irrilevante nella vita quotidiana di molte persone ed è ben lontana dal suscitare l'interesse destato cinquanta o sessant'anni fa dalle più significative fra le composizioni nuove.
 E qui GG tocca un punto importante. Quello del distacco tra la musica colta e il pubblico nella sua accezione più ampia. Certo non si può attribuire a Schoemberg la responsabilità di questo distacco, e lui non lo fa, ma non si può ignorare che questo distacco è avvenuto e il pubblico della musica così detta colta è una minoranza che non se ne rende conto. E’ compito dei compositori più seri, come aveva capito anche Schoemberg con la sua attenzione per il jazz, colmare questo distacco: penso a certi brani di Maderna e di Berio. Questo discorso, si sarà capito,  interessa anche il nostro orticello, ma la soluzione non è certo quella indicata dalla Pop art. Lo riprenderemo in seguito.
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 Gordon Matta Clark, Split                                FDL, Fessura e Contravvento
Passiamo ora a JB e come nel caso di GG illustriamo la sua posizione nei confronti del proprio mestiere di scrittore. E’ un brano tratto dall’esame minuzioso di un’importante poesia di Robert Frost, Home burial, in un saggio intitolato Un’immodesta proposta  in Dolore e ragione. Nello stesso saggio si evidenzia la suo posizione nei confronti della cultura e del rapporto arte e vita:
 Leggere poesia, se non altro, è un processo di formidabile osmosi linguistica. E anche una forma assai economica di accelerazione mentale. Entro uno spazio ridottissimo una buona poesia abbraccia un immenso territorio mentale, e spesso, verso l'epílogo, offre al lettore un'epifania o una rivelazione. Questo avviene perché nel processo di composizione un poeta adopera - in genere senza nemmeno saperlo - i due principali modi di cognizione dìsponibili alla nostra specie: l'occidentale e l'orientale. (E' vero, naturalmente, che i due modi sono disponibili ovunque esistano lobi frontali, ma le diverse tradizioni li hanno adoperati con diversi gradi di pregiudizio). Il primo asseconda generosamente il razionalismo, l' analisi. In termini sociali, è accompagnato da autoffermazione dell'uomo ed è esemplificato in generale dal «Cogito ergo sum›› di Descartes. Il secondo si affida principalmente alla sintesi intuitiva, invoca l'autonegazione ed è rappresentato, come meglio non si potrebbe, dal Buddha…
… D’altronde l’arte non imita la vita, ma la contagia.
 Quanto a scrivere poesia, nello stesso volume in Corteggiando l’anonimato, ecco chiaramente sintetizzata la sua posizione:
 Di sicuro i motivi sono tanti e così ovvi da togliere di mezzo tutta la questione. Uno sarebbe, per cominciare, il puro piacere di scrivere o leggere un verso memorabile: un altro, la logica puramente linguistica - e il bisogno- di metro e rima. Ma oggi, ormai, la nostra mente è condizionata in modo da operare per vie indirette e tortuose, mentre a quel tempo pensavo solo che una buona rima è ciò che alla fìn dei conti salva la poesia dal pericolo di diventare un fenomeno demografico. E a quel tempo i miei pensieri andavano a Thomas Hardy...
…Se un'epoca può essere paragonata a un sistema politico, una porzione significativa del clima culturale del nostro secolo potrebbe, a buon titolo, essere definita una tirannia: la tirannia del modernismo. O per dirla più esattamente, di ciò che naviga sotto quella bandiera.
 Mentre in Novant’anni dopo, sempre in Dolore e ragione e a proposito di Orfeo. Euridice. Ermes di Rilke, ecco il suo pensiero sulla dea di tutte le arti, Mnemosine, e del rapporto storia arte:
 Infatti il potere della memoria (che spesso mette in ombra la nostra stessa realtà) ha la sua fonte in un senso di incompiutezza, di interruzione. Quello stesso - va notato - che sta dietro al concetto di storia. La memoria è essenzialmente un prolungamento, con altri mezzi, di ciò che è rimasto incompiuto.
 E sullo stesso argomento in Un volto non comune, tratto dal Discorso per il Nobel, del 1986 e poi in Elogio della noia, due dei saggi raccolti in Profilo di Clio:
 Non c'è niente che possa persuadere un artista dell'arbitrarietà dei mezzi ai quali ricorre per raggiungere uno scopo - per quanto permanente possa essere - come lo stesso processo creativo, il processo della composizione. Davvero, come dice Anna Achmatova, i versi nascono dall'immondizia; né le radici della prosa sono più nobili.
 Qui, naturalmente, sta il potere salvifico dell'arte. Non essendo lucrativa, ha una certa riluttanza a cadere vittima della demografia. Perché se, come abbiamo detto, la repetitività è madre della noia, la demografia è l'altro genitore…
… Qui sta la distinzione ultima tra l'amata e la Musa: questa non muore. Lo stesso vale per la Musa e il poeta: quando lui è scomparso, lei si trova un altro portavoce nella generazione successiva. Detto in altro modo, la Musa frequenta sempre il linguaggio e non sembra importarle di essere scambiata per una ragazza qualunque.
 In Profilo di Clio estraggo altre affermazioni estremamente illuminanti la sua posizione nei confronti del linguaggio elettivo, la poesia e la letteratura in genere:
 Ciò che detta un componimento poetico è il linguaggio, ossia la voce del linguaggio, quella che
noi conosciamo sotto i nomignoli di Musa o Ispirazione.
C'è un abisso immenso tra Homo sapiens e Homo scribens, giacché per lo scrittore il concetto di    « tema » si manifesta, se pure si manifesta, come esito di un processo che combina le varie tecniche e i diversi strumenti. Scrivere è letteralmente un processo esistenziale, un processo che usa il pensiero per fini suoi propri, consuma concetti, temi e simili, non viceversa …
 … Poi venne la svalutazione, inevitabilmente, e la reazione prese i nomi di futurismo, costruttivismo, imagismo e così via. Ma erano «ismi» che si opponevano ad altri «ismi», espedienti contro  espedienti. Soltanto due poeti, Mandel'štam e Marina Cvetaeva, si fecero avanti con un contenuto qualitativamente nuovo, e il loro destino rispecchiò in maniera fedele e terribile la loro autonomia spirituale …
 … La civiltà è la somma totale di differenti culture animate da un comune numeratore spirituale, e il suo principale veicolo - in senso metafisico e in senso letterale – è la traduzione. Il lungo cammino di un portico greco che arriva alla latitudine della tundra è una traduzione.
La sua vita, come la sua morte, fu un risultato di questa civiltà. In un poeta l'atteggiamento etico, anzi il temperamento stesso, è determinato e plasmato dall'estetica. Questo spiega perché i poeti si trovano invariabilmente in contrasto con la realtà sociale; e il loro tasso di mortalità indica la distanza che il reale frappone tra sé e la civiltà.
 Nell’esame minuzioso di una poesia di Auden, scritta alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, 1° Settembre 1939, presente nel Canto del Pendolo, in Inglese Less than one:
 Semplicemente, suppongo, mi rifiutavo di credere che nel lontano 1939 un poeta inglese avesse detto: «Time worships language ››, e che tuttavia il mondo intorno fosse ancora quello che era.
 Una rima trasforma un'idea in legge; e ogni poesia è in un certo senso un codice linguistico...
...ora un poeta non sceglie il proprio metro; è tutto i1 contrario, perché i metri sono più vecchi di qualsiasi poeta....
…Ma non si seziona un uccello per scoprire le origini del suo canto. Quello che va sezionato e i1 vostro orecchio. …
…Del resto, l'arte in genere nasce sempre come risultato di un'azione rivolta verso l'esterno, obliquamente, verso l'acquisizione (cognizione) di un oggetto che con l'arte non ha alcun rapporto immediato. L'arte è un mezzo di locomozione, il paesaggio che balena al finestrino di un treno...
…C’è di più: la differenza tra il linguaggio (l'arte) e a realtà sta specificamente nel fatto che qualunque enumerazione di ciò che non esiste più o non esiste ancora è una realtà del tutto indipendente. Per questo il non-essere, e cioè la morte, che consiste essenzialmente e interamente di assenza, non è nient'altro che una continuazione del linguaggio.
Una miniera di saggezza, tratta dalle sue esperienze di esule dal regime sovietico immigrato in una società che si dichiara democratica, dominata comunque da tutta una serie di pregiudizi sull’arte e la storia, ci viene regalata dall’applicazione di una lente di ingrandimento eccezionale, puntata sul mestiere del poeta, il rapporto tra questo e il linguaggio e tra questo e la società in cui opera, Sempre da Less than one:
 Il modello lineare, un prodotto dell'istinto di conservazione, ottunde quello stesso istinto. Sia come sia, comunque, entrambe le versioni del socialismo, quella tedesca come quella russa, si modellarono esattamente sul principio del determinismo storico, che riecheggiava, in un certo senso, la ricerca della Città dei Giusti.
Letteralmente, occorre aggiungere. Perché il tratto principale del determinista storico è il suo disprezzo per la classe rurale, e l'insistita attenzione per la classe dei lavoratori urbani. (Ecco perché in Russia rifiutano ancora di decollettivizzare l'agricoltura, mettendo - letteralmente, anche in questo caso - il carro davanti ai buoi).
 Ancora, sempre da Less than one:
 I pagani, anche se sconfitti, avevano nel loro Pantheon la Musa della Storia, dimostrando con questo di comprenderne la divinità meglio dei loro conquistatori. Temo che non esista una figura simile, un raggio d'azione comparabile nell'intero e ben studiato percorso dal peccato originale alla redenzione. Temo che il destino della nozione politeistica del tempo, in mano al monoteismo cristiano, rappresenti il primo stadio della fuga del genere umano dal senso di arbitrarietà dell'esistenza verso la trappola del determinismo storico. E temo che sia precisamente
questo universalismo nel senno di poi a rivelare la natura riduttiva del monoteismo.
 Particolarmente interessante il suo giudizio sull’elitismo dell’arte, nella stessa raccolta e presente nell’edizione italiana in Fuga dalla civiltà in Fuga da Bisanzio:
 Vorrei spingermi un passo più avanti, a questo punto. Di per sé la realtà non vale un accidente. È
la percezione a elevarla, a promuoverla alla dignità di significato. E c'è una gerarchia tra le percezioni (e, parallelamente, tra i significati): una gerarchia che ha al vertice le percezioni acquisite attraverso i prismi più raffinati e sensibili. Affìnamento e sensibilità sono conferiti a questi prismi dal1'unica possibile fonte di approvvigionamento: la cultura, la civiltà, il cui strumento principale è il linguaggio. La valutazione del reale fatta attraverso uno di questi prismi - e l'acquisizione di questa capacità è uno degli scopi cui tende la specie - è perciò la più esatta, forse anche la più giusta. (Se a questo punto si levano grida di << Vigliacco » e « Elitista », e magari si levano, guarda un po', proprio in certe università occidentali, sarà bene infischiarsene, perché la cultura è <<elitista ›› per definizione, e l'applicazione dei princìpi democratici nella sfera della conoscenza porta a mettere saggezza e idiozia sullo stesso piano).
 Nella lettera (nell’edizione Adelfi in Profilo di Clio) che JB scrive ad V. Havel, collega scrittore diventato Presidente della liberata Cecoslovacchia, c’è un passo sullo stesso argomento. Eccolo:
 Così come sarebbe davvero scomodo - specificamente per i cowboy delle democrazie industriali occidentali - riconoscere nella catastrofe che si è verificata sul territorio degli indiani d'America il primo grido della società di massa: un grido, per così dire, dal futuro del mondo, e riconoscerla non solo come un ismo ma come una voragine che si è spalancata improvvisamente nel cuore umano, a inghiottire onestà, compassione, civiltà, giustizia, e che, una volta saziata, ha presentato
al pur sempre democratico esterno una superficie monotona, ragionevolmente perfetta ...
... Essendo stato spesso paragonato a un re filosofo, lei può, Signor Presidente, comprendere meglio di molti altri quanto di ciò che è successo alla nostra «nazione indiana» si ricolleghi all'Illuminismo, con la sua idea (derivante da1l`epoca delle scoperte geografiche, in effetti) del buon selvaggio, della bontà innata dell'uomo che le cattive istituzioni solitamente guastano, con
la sua fede nel fatto che migliorando quelle istituzioni la bontà naturale dell'uomo sarà ripristinata.
 Dalle interviste raccolte in Conversazioni, le risposte alle domande postegli dai vari intervistatori precisano in maniera illuminante la sua posizione nei confronti del linguaggio:  
 Steven Birkerts: Usi "intervento divino" come una sorta di metafora psichica?
JB: Quello che intendo, in realtà, è l'intervento del linguaggio su di te e dentro di te. È
come in quel famoso verso di Auden su Yeats: « la folle Irlanda ti ferì facendoti poeta ››. Ciò che ti « ferisce ›› e ti rende poeta, o scrittore, è il linguaggio, è la tua sensibilità nei confronti del linguaggio. Non sono la tua filosofia personale o il tuo credo politico, e nemmeno la tua spinta creativa, o la giovinezza...
 ... S.B. Quali sono i tuoi momenti più ispirati allora, quando stai lavorando nelle profondità del linguaggio?
JB. Il punto di partenza è questo. Perché se per me esiste una divinità, questa è il linguaggio.
 Dall’intervista di David Montenero
 Nella prosa non c'e niente che ti impedisca di sbandare, di perderti in digressioni.
In poesia, la rima ti tiene sotto controllo. Il mio atteggiamento di base verso la prosa -- a parte
che è un mezzo per guadagnarsi da vivere, perché infatti la prosa te la pagano, se non meglio, quantomeno più facilmente della poesia -, quello che posso dire in favore della prosa è che forse è più terapeutica della poesia….
 ...Ma ci sono agnostici e agnostici. E direi che i poeti, in ultima analisi, venerano una sola cosa, che non conosce altra incarnazione se non nelle parole, vale a dire... il linguaggio. Al giorno d'oggi l'atteggiamento di un poeta verso la Divinità Suprema assente è più di rimprovero per la Sua assenza che non di puro giubilo o di osanna…
 …Più c'è confusione, più grande è la gloria per chi riesce a mettere un po' d'ordine. C’è sempre stata -- la confusione, intendo. E' che oggi, data l'esplosione demografica, abbiamo avuto anche un aumento esponenziale di avvocati del diavolo. Oggi il dubbio è più in voga delle convinzioni.
  Dall’intervista concessa a Missy Daniel:
 Più un uomo e esteticamente, per così dire, evoluto, meno è, a dir poco, soggetto a ogni tipo di - come posso chiamarle? -idiozie sociali. E' meno soggetto alla demagogia, all'autocompiacimento, incluso il summenzionato, è meno soggetto a quella specie di vocazione universale a crogiolarsi nell'idea che siamo vittime di questa o quella circostanza. L'estetica sviluppa la dignità umana. Ci rende più resistenti, più indistruttibili sotto vari aspetti, no? Una buona poesia agisce su di te...
 ... la gente pensa in pensieri e sogna in sogni. Poi li raccoglie nel linguaggio. Quando cresciamo il linguaggio diventa il nostro modo di espressione naturale e per questo crediamo di pensare in una lingua. ...
 ... La poesia è un arte irrimediabilmente semantica, non c'è nulla da fare. Si deve scrivere qualcosa
che abbia senso. È l'aspetto che la distingue dalle altre arti... da tutte le altre arti.
 Il mestiere del poeta sono le parole, è la creazione delle parole, il linguaggio. Quindi se pensi di scrivere la biografia di un poeta, devi scrivere la biografia dei suoi versi … la capacità di vivere, di esistere, di creare qualcosa a partire dal tessuto della vita è molto più limitata della capacità di creare qualcosa a partire dal tessuto del linguaggio. Quindi se cerchi quel genere di combinazione, può finire che ti ritrovi con molto poco tra le mani.
  Dall’intervista concessa a The Argotist:
 A: « Le apparenze sono tutto 1°esistente ›› (Less than one). David Hockney ha detto che << tutta l'arte è superficie ›› e che la superficie è « la prima realtà ». State dicendo la stessa cosa? E quali profondità vengono negate quando si privilegia la superficie?
JB. Non esiste alcuna profondità: l'apparenza è la somma dei fenomeni...
 … A: Ieri parlava della rabbia e della persecuzione. Potrebbe dirci qualcosa sulla natura della catarsi in poesia, nella sua poesia?
JB: A essere sincero, non è una categoria di cui mi servo. E a riguardo alla catarsi nell'arte in generale, non bisognerebbe mai credere che la si possa determinare semplicemente attenendosi a questo o a quel principio. Un'opera d'arte o una poesia possono indurre la catarsi attraverso aspetti secondari o terziari dell'opera, una certa rima, per esempio; senti sollievo, e sei libero.
 Tornando al suo libro  in prosa più importante (Less than One), nel saggio intitolato All’ombra di Dante, ecco una chicca:
 A differenza della vita, un’opera d’arte non è mai accettata per quello che è, viene sempre messa a confronto con le opere del passato, con precursori e predecessori…
… La poesia, in fondo, è già in sé una traduzione; o, per dirla in altro modo, la poesia è uno degli aspetti della psiche riversati nel linguaggio. Non è tanto che la poesia sia una forma d'arte: piuttosto, l'arte è una forma cui ricorre spesso la poesia. In sostanza, la poesia è 1'articolarsi della percezione, il tradursi di questa percezione nel patrimonio ereditario del linguaggio,  perché il linguaggio è, dopo tutto, il migliore strumento disponibile.
 Ancora, ma da Il suono della marea:  
 Se etica ed estetica fossero sinonimi, la letteratura sarebbe la provincia dei cherubini, non dei mortali. Per fortuna, però, è tutto il contrario: i Cherubini, con ogni probabilità, essendo già abbastanza impegnati nei loro cori, non avrebbero tempo per inventare il monologo interiore...
...Niente di male, in fondo, perché quello che va a scapito dei serafini va sempre a profitto dei mortali.
E  poi, un estremo o l'altro è di per sé alquanto noioso, e nell'opera di un bravo scrittore cogliamo sempre un dialogo tra le sfere celesti e la fogna.
 Infine, da Catastrofi nell’aria:
 Nel migliore dei casi sarà ritenuta soggettiva o elitista. Sarebbe un verdetto abbastanza equo, se non dovessimo ricordare sempre che l'arte non è un'attività democratica: nemmeno l'arte della prosa che pure ha un' apparenza tale che chiunque può sentirsi autorizzato a praticarla e a
giudicarla.
Il fatto è, però, che il principio democratico, così ben accetto in quasi tutte le sfere dell'impegno umano, non trova applicazione in almeno due di esse:nell'arte e nella scienza….
… La storia dell’arte è  una storia che procede per addizioni e affinamenti,  allungando la prospettiva della sensibilità umana, arricchendo o, più spesso, condensando i mezzi di espressione.
 *
 Quanto sopra non lascia dubbi su come la pensavano questi due sui loro specifici linguaggi, musicale e letterario. Ma questo pensiero può essere esteso all’arte visiva? Presumo di aver addotto ragioni sufficienti perché la risposta sia sì. Quelle contrarie sono naturalmente tratte solo dal  Grande Maestro Francese.
Costui è autore del gesto forse più rivoluzionario del Novecento, perché ha spostato l’attenzione sul già fatto e ha gettato un ponte verso l’operatività comune, quella di tutti. Ma si è riflettuto a sufficienza sul fatto che, oltre a quel gesto, l’accompagnamento che ne è seguìto, con le affermazioni di idiosincrasia nei confronti del “puzzo di trementina” e di diffidenza nei confronti del “retinico”, ha bloccato l’arte, deviandola su un sentiero che, con l’aiuto di qualche artista vero (penso soprattutto a Warhol), l’ha portata inevitabilmente al Barocchetto Volgare che viviamo oggi? Non è una domanda retorica: da parte della critica abbiamo sofferto, tutti noi della parrocchia, grandi e piccini, di questo condizionamento: si è buttata a pesce sulle affermazioni di questo ultimissimo illuminista (3), perché dava la stura a una serie di discorsi che non tenevano affatto conto della specificità del linguaggio visivo, dell’impossibilità di ridurre il suo messaggio a un discorso nella lingua franca. E così si sono scritti tomi e tomi, assegnando a Duchamp la patente del più nominato in assoluto nell’ultimo secolo. Certo l’amico Brancusi continuava a credere nel retinico (con vantaggio anche di D che vendendo le sue opere lo aiutava, e aiutava se stesso, a vivere). E così facevano tutte le persone serie, a cominciare ai suoi colleghi dell’epoca (per citarne solo alcuni, Picasso, Giacometti, Braque, de Chirico) a finire ai successivi miei contemporanei: il linguaggio visivo non si tocca e i discorsi lasciano il tempo che trovano.
Anche il mio, in questo momento. Ma mi preme, prima di finire, tornare a quel “vedremo” che ho piantato come un cuneo in mezzo a questo sproloquio. E qui interviene un discorso che ha poco a che vedere con l’arte e molto con il rapporto che essa intrattiene con il sociale. Quindi la politica. Appoggiandosi anche alle parole dei due artisti del florilegio, arte e vita hanno molto poco in comune. Poco, non niente e quindi occorre precisare.
Vediamo di condire il piatto con qualche considerazione aggiuntiva, ma lo farò prendendo in considerazione il passato. C’è da ragionare e non poco sul fatto che la Cia nel periodo della Guerra Fredda abbia finanziato e promosso l’arte americana dichiaratamente anticomunista (4) e che, dall’altra parte della barricata, il KGB si desse da fare per sopprimere qualsiasi pensiero libero nell’URSS: non basta dire così va il mondo e lavarsene le mani. L’ingerenza della politica e del mercato nell’arte sono e restano inquinamenti gravi e richiedono un ragionamento a parte. Del resto la pratica di eliminazione sistematica (ancor prima della Soluzione Finale, ufficialmente dal ’39 al ‘42’), (5) messa in piedi dai nazisti  nei confronti dei propri connazionali “indegni di vivere perché malati di mente o di peso per la comunità”,  chiarisce senza ombra di dubbio che siamo tutti complici nelle pratiche contro il “diverso”. Il pensiero deve spingersi fino a interrogare se stesso, perché l’eugenetica non è un’invenzione di Hitler e forse in qualche modo ha a che vedere con l’Illuminismo, chiamato in causa proprio dalla Scuola di Francoforte negli anni “successivi a Auschwiz”(3). Un artista vero non deve mettere la testa sotto la sabbia: può commettere errori anche gravi sul piano della morale corrente, ma deve esserne cosciente: solo il linguaggio è puro. Questo significa svincolarsi  dai condizionamenti politici, come hanno saputo fare per es. Mandelstam e la Cvetaeva durante il regime stalinista o dall’altra parte della barricata Whistam Auden negli Stati Uniti. Faccio solo degli esempi, tra i quali è opportuna una menzione di lode nei confronti di un russo come JB o di un canadese come GG.
Tornando nel nostro campicello, ricordo che il Grande Caravaggio non fu certamente perdonato dalle madri di chi lui assassinò (un paio), anche se questo non toglie nulla al suo valore come artista visivo. Voglio dire in parole povere che il metro col quale valutiamo l’arte non è quello della morale, ma dell’onestà intellettuale nei confronti del linguaggio elettivo. L’arte, preciso, non la vita. Se l’uomo, come afferma JB, è “prima un animale estetico e poi etico”, ciò non vuol dire che lo Stato Pontificio non dovesse inseguire l’artista a Napoli piuttosto che a Messina per fargli regolare i conti con la giustizia: era dalla parte delle madri summenzionate e se ne fotteva che quello fosse un grande pittore (grande soprattutto perché non si peritava di guardare con occhio apertissimo le miserie umane e si alzava all’alba per mettersi sotto il palco per assistere all’Assassinio di Stato di Beatrice Cenci e della sua famiglia: il sangue praticato dalle sue Giuditte scorreva a fiumi). Con questo certamente non mi sento di chiudere l’argomento  dell’implicazione di Duchamp nell’Affair Cia all’epoca in cui lui era negli Stati Uniti. Ma nel giudizio sul valore della sua opera è giusto che la critica seria ammetta almeno, per coerenza, che l’arte visiva, come del resto la musica, non ha alcun valore semantico. Chiedo troppo?
Tornando a noi, alla contemporaneità con un occhio al recente passato, dicevo che Warhol ha dato una mano alla pletora dei critici che ancora campano sul francese e le sue sparate. L’aura e l’aurum, con buona pace di Benjamin, vanno a braccetto, soprattutto dove domina il mercato (fortunatamente, perché dove domina l’Arte di Stato le condizioni sono peggiori). Questo aiutino ha fatto danni enormi, a giudicare da cosa è successo dopo di lui. Non mi interesso di gente come Basquiat, ma del fatto che la caratteristica e sana superficialità del sentire dell’inventore della Pop, che ha prodotto capolavori come i suoi sketch cinematografici e la sua grafica, non significa andare verso il popolo. Quest’ultimo non è superficiale, sa bene che per es. i cuscini luccicanti e volanti nelle sale del Museo di Pitzbourg, quanto di più significativo possa aver prodotto l’americano sulla leggerezza della vita, non sposterà di una virgola il suo problema. Parlo del popolo in tutte le sue sfaccettature e non certo quello che può permettersi di acquistare una sua grafica e foraggiare la sua flotta privata di aerei. Il popolo è quello formato da elettricisti, sturacessi, rottamai , casalinghe di Voghera (compresa mia moglie) ecc ecc, da quelli insomma che, entrando per caso nello studio di un artista rimangono perplessi: la loro mancanza di “sovrastrutture intellettuali” li mette in condizioni di sentire, non pretendo il famoso “colpo d’ascia nel mare di ghiaccio del lago del cor”(6), ma che qualcosa è veramente successo in quel mondo dell’arte che a loro è rimasto sempre estraneo. Non voglio insistere, ma se non parli il loro linguaggio, non hai fatto centro. E questo è costituito dagli strumenti che loro usano tutti i giorni (per lo meno ne è un derivato), spaccandosi il culo per guadagnarsi la pagnotta. Il popolo è questo. L’altro, quello dei collezionisti e degli esperti ne è una piccola frangia, utile a farci campare tutti, ma vagolante nel deserto delle gallerie e dei musei. Il popolo vero purtroppo ne è stato fuori fino ad oggi e se non segue più il crocifisso di Cimabue nelle processioni ci sarà un motivo!
Siamo all’empasse, ma avanzo una speranza e una modesta proposta: per uscire dal guado bisognerà partire di nuovo dalla specificità del nostro linguaggio, quindi dalla sua assoluta autonomia dalla semantica.
Grazie dell’ascolto.
FDL
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 Giovanni Anselmo.  ... Mano che lo indica
1.      Against interpretation, Penguin Books, 1965. Di questo saggio mi piace riportare alcune frasi (trad. mia) perché sostengono senza mezzi termini quanto vado dicendo sulla non semanticità dell’arte visiva:
Dopo aver sottolineato che l’origine contenutistica dell’arte in genere risale addirittura a Platone e Aristotele (E’ un fatto che la coscienza e la riflessione Occidentale sull’arte è sempre rimasta dentro i confini stabiliti dalla concezione greca di questa come mimesi o rappresentazione),la Sontag prende lo slancio e afferma che l’interpretazione, basata sulla dubitabile teoria che un lavoro d’arte si componga di contenuti, lo viola. Ma è più precisa: una fuga dall’interpretazione sembra lo scopo particolare della pittura contemporanea, da una parte dell’astrattismo e dall’altra per eccesso di superficialità della Pop.
Non voglio qui riassumere un testo particolarmente illuminante sulla sua posizione nella lotta fra la forma e il contenuto (sul quale ultimo si concentra senz’altro il lavoro della critica), ma devo citare almeno la chiusa: Ciò che è importante oggi è riscoprire i nostri sensi: dobbiamo imparare a vedere di più, a udire di più a sentire di più … Al posto di un’ermeneutica abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte.
2.      V. FDL, In Forma, L’arto a lato, In forma di Pamphlet, Ed. Bacacay,1993
3.      V. M. Horkeimer e T. W. Adorno,  Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, 1947
4.      Quando la politica si intromette nell’arte, non c’è da aspettarsi niente di buono. Lo stesso successo di JB in America, negli anni in cui il regime sovietico lo espulse dall’URSS ma ancora di Cold War, può apparire sospetto. Lui aveva sposato senza riserve la democrazia, ma è significativo che quando Solzenicyn ottenne il premio Nobel, e fu negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino, non si peritò di osservare che “fu una gigantesca commessa navale svedese dalla Russia a determinare la decisione”. Ma la sua posizione nei confronti della letteratura del suo collega e connazionale non è mai stata politica (e del resto è ampiamente spiegata in un saggio molto lungo su di lui): questo significa coerenza.
Che la Cia, durante la Guerra Fredda ma anche negli anni successivi, facesse di tutto per promuovere gli artisti americani dichiaratamente di destra e non “comunisti” (“Non vogliamo che i nostri contribuenti paghino i nemici della democrazia”) naturalmente getta un’ombra non indifferente sul successo di qualcuno. Non occorre scomodare Noam Chomsky e la sua Fabbrica del consenso per sostenere quanto apre questa nota. Quindi che anche Duchamp fosse implicato e seriamente nelle manovre dei servizi segreti americani (e ciò è ampliamente documentato: v.    ) non stupisce affatto e basterebbe da solo a spiegare il suo successo in quel paese (successo poi esportato anche in Europa con l’aiuto di mercanti piuttosto interessati, come in Italia Arturo Schwarz). Ci sono prove inoppugnabili sul suo coinvolgimento nella campagna della Cia negli anni in cui lui espatriò dalla Francia occupata e non si tratta di pettegolezzi politici. Va comunque rilevato che la spigliatezza nel comportamento di molti artisti nei confronti della politica è sicuramente all’origine dello stato di fatto attuale, in cui il mercato ha sostituito l’azione dell’intelligence. Esso ormai è diventato l’unica dimensione della vita (come aveva profetizzato un amico di Adorno (H. Marcuse). Perché il mondo dell’arte ufficiale ne dovrebbe star fuori? Del resto, dall’altra parte della barricata, Mario Sironi e Arturo Martini, tanto per fare un paio di esempi, erano fascisti, ma questo nulla toglie al fatto che fossero grandi artisti. L’onestà intellettuale pertanto costringe questa nota a basare il giudizio sulla figura di Duchamp esclusivamente sull’esame della sua posizione nei confronti del linguaggio visivo. E’ questo a doverci impegnare qui. Ma non è un handicapp, proprio perché, come sostiene giustamente anche JB, una cosa è la vita e un’altra il linguaggio elettivo. Nella prima siamo tutti insufficienti e debitori gli uni degli altri, nel secondo le uniche regole da seguire sono, appunto, l’onestà intellettuale e la coerenza. Ciò non toglie che affermazioni del tipo “La mia arte sarebbe quella di vivere ogni istante, ogni respiro; è un’opera che non si può ascrivere a nessun ambito specifico, non è né visiva, né cerebrale. È una specie di euforia costante” appaiano quanto meno ridicole e molto illuminanti sulla sua stessa intelligenza. La senilità, il successo gli avranno dato alla testa? Non basta un gesto rivoluzionario a definire la grandezza di un artista; è il lavoro quotidiano sul linguaggio a determinare il giudizio finale. Su questo dovrebbe esprimersi la critica seria. A cent’anni dalla data di quel gesto non è ancora stato fatto.
 5.      La famigerata T4, le cui vicende sono state narrate da Marco Paolini in Ausmerzen (Einaudi, 2020) clandestinamente lavorò dal ’42 fino al giorno in cui entrarono in Germania le truppe americane, aprile del ‘45
 6.      Franz Kafka citato a memoria
#1
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giancarlonicoli · 4 years
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2 nov 2020 10:10
PERCHÉ LE RSA SONO DIVENTATE FOCOLAI - GABANELLI: I MORTI NELLE CASE DI RIPOSO E LE COLPE DEL NOSTRO WELFARE, CHE PREVEDE POCHI LETTI, ASSISTENZA AI PIÙ FRAGILI APPALTATA AI PRIVATI (DE BENEDETTI, ANGELUCCI...) CON INFERMIERI PAGATI MENO E IL 75% DELLE IRREGOLARITÀ - 1,6 MILIONI DI ANZIANI PRENDONO L'ASSEGNO DI ACCOMPAGNAMENTO, MOLTI LO UTILIZZANO PER PAGARE LA BADANTE. 600.000 SONO IRREGOLARI. FINANZIAMO CON DENARO PUBBLICO IL LAVORO NERO
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https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/rsa-covid-perche-case-riposo-sono-diventate-focolai-virus/c79559d4-1c5c-11eb-a718-cfe9e36fab58-va.shtml
Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera”
Partiamo da una domanda: porteresti tua madre in una casa di riposo dopo aver visto che in soli quattro mesi il 40% dei decessi avvenuto nelle Rsa è attribuibile al Covid? E adesso ci risiamo. L' elenco di cosa è andato storto durante la prima ondata è lungo: mancanza di dispositivi di protezione individuale, impreparazione sulle procedure da svolgere per contenere l' infezione, assenza di personale sanitario qualificato, difficoltà nel trasferire i residenti infetti in strutture ospedaliere, impossibilità di far eseguire i tamponi. Ma questo non basta a spiegare il perché le Rsa sono diventate cimiteri. Il problema è che uno dei pilastri del nostro sistema di welfare non ha le fondamenta.
Siamo il Paese più anziano d' Europa, dove si campa più a lungo e si fanno meno figli. Gli over 80 sono 4,4 milioni, di cui 2,2 sopra gli 84. In prospettiva tra 10 anni ci saranno quasi 800 mila ultra 80enni in più, che diventeranno quasi 8 milioni nel 2050. Eppure l' interesse pubblico è così basso che ad oggi non esiste nemmeno una mappa completa della situazione reale. Rispetto al resto d' Europa abbiamo 18,6 posti letto ogni 1.000 anziani, contro una media di 43,8. Dopo di noi Lettonia, Polonia, Grecia. In rapporto alla popolazione over 80 dovremmo avere oltre 600.000 posti letto. Qual è invece l' offerta?
Per arrivare ad avere un quadro il più possibile realistico Dataroom , con l' aiuto dell' Osservatorio settoriale delle Rsa della Liuc Business School, ha incrociato dati Istat, del ministero della Salute, dell' Annuario statistico e una pila di normative regionali. Risultato: ci sono all' incirca 200 mila posti letto accreditati, di cui 160 mila occupati da non autosufficienti. Altri 50 mila posti sono disponibili in strutture private dove il costo è totalmente a carico dell' ospite. La degenza media è di 12 mesi: si porta la persona anziana nella casa di riposo quando non è proprio più possibile gestirla a casa con la badante.
Da notare: 1,6 milioni di anziani prendono l' assegno di accompagnamento, molti lo utilizzano per pagare la badante. 600.000 sono irregolari. Paradossalmente finanziamo con denaro pubblico il lavoro nero.
Il sistema di welfare pubblico ha di fatto quasi interamente appaltato alle strutture private l' assistenza ai più fragili. Le case di riposo sono in tutto 7.372. I Comuni ne gestiscono il 26,7%, i privati no profit (cooperative, fondazioni religiose) il 48%, le società private profit il 25%. In questa realtà ogni Regione va per la sua strada, e quindi c' è una grande difficoltà a ricostruire un quadro complessivo dei punti di caduta del sistema.
Punto primo: quanto costa la retta mensile?
Dipende dal grado di autosufficienza, e va dai 2.400 agli oltre 4.000 euro, a seconda delle Regioni. Il finanziamento pubblico di norma copre la metà del costo, e l' altra metà è a carico dell' ospite, ma anche qui entrambe le voci variano a seconda delle Regioni. Se la media è di 50 euro al giorno, a Milano nelle strutture profit può arrivare a 102 euro, perché le spese sanitarie (farmaci, visite mediche, riabilitazione) in Lombardia sono «caricate» sulla retta dell' ospite, mentre in Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna ci pensa la Regione. In Lombardia puoi sceglierti la struttura, in Veneto devi essere autorizzato dall' Asl, in Emilia-Romagna puoi esprimere una preferenza, ma se non c' è posto t' accontenti.
Poi ci sono le case famiglia, che non prendono contributi pubblici e coprono 50.000 posti letto: a loro ci si rivolge quando non trovi posto altrove. La retta mediamente è di 1.800 euro al mese, e possono avere al massimo 7 ospiti. In teoria dovrebbero rappresentare la condizione migliore per un anziano, ma gli unici controlli a cui sono sottoposte è la saltuaria visita dei Nas, come i bar. Delle oltre 1.500 irregolarità riscontrate nel 2019 per abbandono di persone incapaci, maltrattamenti, omicidi colposi, esercizio abusivo della professione, troppi ospiti in una stanza, scarsa pulizia, pasti o alimenti in cattivo stato di conservazione, oltre il 75% riguardano proprio le case famiglia e i privati convenzionati.
Balza all' occhio la grande espansione delle società private profit accreditate e i loro utili, a fronte di una gestione pubblica in via di dismissione e sempre più in perdita. Korian-Segesta (il principale azionista Crédit Agricole): fatturato 2018 di 368 milioni, utile 800 mila euro. Kos (controllato dalla famiglia De Benedetti): 595 milioni di fatturato, utile di 30 milioni. San Raffaele della famiglia Angelucci: fatturato 142 milioni, utile di 11 milioni. Sereni Orizzonti di Massimo Blasoni (indagato per truffa aggravata al servizio sanitario nazionale): fatturato 147 milioni, utile di 12 milioni. Gruppo Gheron controllato al 90% dagli imprenditori Massimo e Sergio Bariani: fatturato 43,8 milioni, utili per 1,5.
Alcuni di questi grandi gruppi gestiscono case di riposo anche all' estero, fanno in aggiunta attività diagnostica e riabilitativa, e tengono stanze per ospiti totalmente «solventi», mentre per le società più piccole c' è qualche sofferenza. Estrapolando i dati sulla Lombardia, ma esemplificativi a livello nazionale, se guardiamo i risultati operativi della gestione della sola Rsa, il privato è in perdita per il 28% dei casi, il no profit e il pubblico per il 62%. Se consideriamo anche le attività collaterali invece perde il 19% del privato, contro il 38% del pubblico. Come si spiega questa differenza?
Nelle case di riposo private accreditate ci sono certamente maggiori capacità manageriali, ma anche maggior ricorso a medici e infermieri esterni pagati da cooperative (il 43%), che non pesano sui bilanci con i giorni di malattia, perché pagati dall' Inps. Gli infermieri sono anche pagati meno rispetto al pubblico: 1.200/1.300 euro al mese contro 1.600. Spesso la formazione del personale che deve assistere anziani in condizioni cliniche sempre più complesse, non è adeguata. Le statistiche elaborate sui dati della Regione Lombardia, ma che riflettono l' andamento generale, mostrano che nelle Rsa pubbliche lo standard di assistenza medio a ciascun ospite è di un' ora e mezzo in più a settimana rispetto alle società profit.
La cosa migliore che ci possa capitare è quella di diventare anziani, sapendo magari di essere assistiti con dignità, se non ce la facciamo da soli. I nodi da affrontare subito: un aumento dei posti letto che non diventi conquista solo dei privati, soprattutto per i casi più gravi di fragilità; regole più severe di accreditamento (da fare rispettare pena l' espulsione dal sistema); arruolamento di figure professionali adeguatamente formate; una generale riqualificazione professionale degli operatori sanitari; un sistema di finanziamento al passo con la complessità dei casi ricoverati.
Riorganizzazione delle strutture. Ne è consapevole il ministro Roberto Speranza, che ha dichiarato: «L' epidemia ha scoperchiato il problema di una fascia di popolazione, la terza età, abbandonata a se stessa». Per questo ha incaricato monsignor Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, di guidare il team per il cambiamento delle Rsa. Nella commissione ci sono epidemiologi, geriatri, professori, registi, poeti, scrittori. Produrranno certamente un lavoro pieno di importanti suggestioni sugli scenari futuri, ma è difficile che possa uscirne un piano operativo di ricostruzione del settore. Più probabile un bel libro.
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di Armando Polito
Incisione di Geronimo Cock del 1556 (per comprendere il suo inserimento bisogna arrivare alla fine) tratta da https://lib.ugent.be/catalog/rug01:002293875
  Uno dei fenomeni più diffusi del nostro tempo è la proliferazione dei concorsi letterari, farsesca imitazione degli storici Premio Strega e Premio Campiello. Facendo leva sul narcisismo di quel terzo della popolazione italiana appartenente in via del tutto autopresunta alla categoria dei poeti (le altre, com’è noto sono quella dei santi e quella dei navigatori, ma come la prima, non sono a tenuta stagna, nel senso che a seconda della convenienza chiunque può ascriversi a ciascuna di esse, anche se ignora l’esatta sequenza delle lettere dell’alfabeto o cos’è la bussola o ha già ammazzato quattro suoi simili), si stimola la partecipazione dei concorrenti, il cui numero sarà, grazie alla quota d’iscrizione, direttamente proporzionale al guadagno finale degli organizzatori. L’editoria in genere, però sembra aver messo da parte l’ingrediente fondamentale di qualsiasi attività imprenditoriale, cioè il rischio, adagiandosi nel comodo letto di sponsorizzazioni private e pubbliche (penso soprattutto ai quotidiani), trascurando il parametro del talento e del merito ed assecondando il gusto dominante di una caterva di lettori superficiali e suggestionabili. Così è difficile che essa scopra e promuova (pardon, produca …) personalità che entreranno a far parte della storia, anche minore o, addirittura, locale della letteratura e sarà sempre costretta a costringere gli autori a darsi da fare per il lancio della loro creazione in una serie di presentazioni, dalla più visibile (in tv) alla meno (qualche pro loco). Nemmeno sotto tortura”editori” ed “autori” confesserebbero questo stato di cose che dal punto di vista valoriale presenta molti, se non solo, lati deboli e su domanda farebbero intendere l’esistenza di un rapporto di reciproca stima. Stavano così le cose pure in tempi in cui il libro, fosse anche il più leggero, era un prodotto riservato a pochi (oggi, magari, per non sentirsi fuori, molti lo acquistano, pochissimi lo leggono …), oggi diremmo di nicchia, perché la pubblicazione comportava costi elevati non esistendo i mezzi messi a disposizione dalla moderna tecnologia (basta pensare alle tavole che prima di arrivare alla stampa dovevano fare i conti con la penna del disegnatore e poi col rame dell’incisore), per cui non era neppure immaginabile l’abbassamento del prezzo che di regola l’economia di scala comporta? Chi ha dimestichezza con libri datati avrà notato che è immancabile una dedica, in alcuni casi chilometrica, a personaggi politicamente (ed anche allora il gemellaggio tra questo avverbio ed economicamente era quasi automatico) di rilievo, del quale padrone colendissimo il dedicatore si dichiarava umilissimo ed obbligatissimo servo osservantissimo (vada per il resto ma le due ultime due parole costituiscono una ridicola tautologia). E tutto nella speranza che il potente di turno, riconoscente per la dedica, gli concedesse qualche incarico o beneficio. Non si sottrae certamente a questa regola antica (in fondo anche a Roma i letterati dell’entourage di Mecenate erano mossi solo dall’amor patrio o dalla stima per il detentore di turno del potere) il letterato leccese il cui nome ho anticipato nel titolo.
La dedica, infatti, inizia con Al Sig.e Padron mio osservandissimo e termina con Di V. S. M. Illustre Servitore Affettionatissimo.
Sull’autore delle Rime non sono riuscito a reperire alcuna notizia e nemmeno la dedica contiene dati utili, consente solo di rilevare una certa familiarità col dedicatario: … havendo in diverse occasioni composto diversi Sonetti, parte Serii, parte Burleschi trattovi dalla natural mia vena, havendoli più volte letti ad Amici, et a V. S., essendone stato sollecitato da quelli, e comandatomi da lei, che dovesse stamparli, non hò potuto recusare. Si arguisce che si tratta di persona di un certo rilievo, come il dedicatario, del quale riproduce lo stemma e ricorda la provenienza genovese negli ultimi due versi del primo sonetto: MECENATE GENTILE (alta ventura)/venisti a Noi dal Ligure Parnaso). In mancanza di altri riscontri credo di poter avanzare come pura ipotesi di lavoro, in attesa di altri eventuali più proficui riscontri, l’identificazione con Giovanni Domenico Salviati, notaio sulla piazza di Lecce dal 1615 al 1635, il cui nome compare anche tra quelli delle persone designate ad essere aggiunte al collegio di amministrazione dell’Ospedale dello Spirito Santo di Lecce per l’amministrazione dell’eredità di Cesare Prato1.
Se la dedica rientra nella normalità, ciò che mi ha colpito del volume, a parte il sonetto iniziale di cui ho detto ed il successivo dedicato al figlio Giorgio del dedicatario, è la presenza subito dopo, quindi in una posizione ancora sufficientemente privilegiata in rapporto alla lettura, la presenza di quattro sonetti che costituiscono una sorta di simpaticissimo intermezzo tra l’autore e l’editore. Li riporto in formato immagine con, di mio, la trascrizione e le note di commento.
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a Nato a Dôle, in Borgogna, nel 1600, Pietro Micheli, dopo un apprendistato tipografico a Roma e a Trani e una prima società costituita a Bari, nel 1631 fu il primo stampatore a Lecce. morì nel 1689.
b attira, spinge, induce
c Non riesco a capire la funzione delle parentesi.
d rinunziare a stamparle
e raffinato rigore formale
f Plozio Tucca e Lucio Vario Rufo erano due poeti del circolo di Mecenate; a loro Augusto diede l’incarico di pubblicare l’Eneide di Virgilio rimasta priva di revisione per la morte dell’autore. Qui Vario è diventato Varo per esigenze di rima.
g Giovanni Della Casa (1503-1556), autore, fra l’altro, di ll Galateo overo de’ costumi.
h Annibal Caro, (1507-1556), famoso per la traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide di Virgilio.
i Ludovico Castelvetro (1503 circa-1571), famoso per una polemica con Annibal Caro innescata da un giudizio negativo espresso da Castelvetro su una canzone del Caro, intitolata Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro, e motivato dal mancato stile e linguaggio petrarchesco e dai contenuti deludenti. La situazione si complicò quando Alberico Longo di Nardò (su di lui vedi:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/21/alberico-longo-di-nardo-alle-prese-col-petrarca/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/06/nardo-alberico-longo-e-ursula/)
fu assassinato e il Castelvetro venne indicato dall’entourage del Caro come uno deimandanti. Lo stesso Caro nonsi lasciò sfuggire l’occasione per accusare di Eresia il Castelvetro, che nel 1560 fu condannato dall’Inquisizione subendo la confisca dei beni.
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a andate
b non mi rimproverate
c sistemato al suo posto
d la punta dello stilo
e Pseudonimo di Leonardo Salviati (1540-1589), la cui fama è legata alla fondazione dell’Accademia della Crusca, che si costituì ufficialmente nel 1585. Impossibile dire se il leccese ne fosse parente, caso in cui ci sarebbe da ravvisare quasi una sfumatura di autoironia.
f abituata a scrivere testi di protesta (lo stile, perciò è immediato)
g dettaglio difettoso 
  La risposta dell’editore non si fece attendere.
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a punte
b saccente
Ecco la replica del leccese.
L’ultima parola, però, fu dell’editore.
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a bevute smodate nella quantità e nel numero
b ispirazione
c Divinità romane delle acque e e delle sorgenti; in epoca tarda furono identificate con le Muse, protettrici dlle arti.
d Fonte sacra alle Muse fatta sgorgare sul monte Elicona dal cavallo Pegaso con un colpo di zampa. Ma quella era una fonte di acqua, quella cui il salentino, per contrasto, sta per alludere è di vino.
e bevute; il verbo sgozzare è usato al participio passato sostantivato partendo dal significato tutto originale di riempirsi la gola fino a far comparire una specie di gozzo.
f La comprensione di questi quattro versi richiede la lettura del documento 1 riportato in appendice.
g Cavallino, alimentato dalla fonte Ipopocrene (vedi la nota d)
h Poeta greco del VI-V secolo a. C.
i Orazio, poeta latino del I secolo a. C., nativo di Venosa.
l è necessario chwe lo guidi Bacco
m abitudine; il verso è stranamente mancante della prima parte (quattro sillabe).
    APPENDICE
Arcipoeta è il soprannome di Camillo Querno (circa 1470-1530). Riporto integralmente e traduco il paragrafo che alle pp. 51-52 gli dedicò lo storico Paolo Giovio nel suo Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita quae in Musaeo Ioviano Comi spectantur, Tramezino, Venezia, 1546: 
CAMILLUS QUERNUS ARCHIPOETA.
Camillus Quernus e Monopoli , Leonis fama excitus, quum non dubiis unquam praemiis, Poetas in honore esse didicisset in Urbem venit, Lyram secum afferens, ad quam suae Alexhiados supra vigintimillia versuum decantaret. Arrisere ei statim Academiae sodales, quod Appulo praepingui vultu alacer, et prolixe comatus, omnino dignus festa laurea videretur. Itaque solenni exceptum epulo in insula Tyberis Aesculapio dicata,potantemque saepe ingenti patera, et totius ingenii opes, pulsata Lyra proferentem, novo serti genere coronarunt; id erat ex pampino, Brassica, et Lauro eleganmter intextum, sic, ut tam false , quam lepide, eius temulentia, Brassicae remedio cohibenda notaretur; et ipse publico consensu Archipoetae cognomen, manantibus prae gaudio Lacrymis laetus acciperet, salutareturque itidem cum plausu, hoc repetito saepe carmine: 
Salve Brassica virens corona,
et lauro ARCHIPOETA pampinoque
dignus Principis auribus Leonis.
Nec multo post tanto cognomine percelebris productus ad Leonem infinita carmina in torrentis morem, rotundo ore decantavit; fuitque diu inter instrumenta eruditae voluptatis longe gratissimus, quum coenante Leone, porrectis de manu semesis obsoniis, stans in fenestra vesceretur, et de principis lagena perpotando, subitaria carmina factitaret; ea demum lege, ut praescripto argumento bina saltem carmina ad mensam, tributi nomine solverentur, et in poenam sterili vel inepto longe dilutissime foret perbibendum. Ab hac autem opulenta, hylarique sagina, vehementem incidit in podagram; sic, ut bellissime ad risum evenerit, quum de se canere iussu in hunc exametrum erupisset: 
Archipoeta facit versus pro mille poetis 
et demum haesitaret, inexpectatus Princeps hoc pentametro perargute responderit: 
Et pro mille aliis Archipoeta bibit.
Tum vero astantibus obortus est risus: et demum multo maximus, quum Quernus stupens et interritus, hoc tertium non inepte carmen induxisset:
Porrige, quod faciat mihi carmina docta Falernum. 
Idque Leo repente mutuatus a Virgilio subdiderit:
Hoc etiam enervat debilitatque pedes.
Mortuo autem Leone, profligatisque Poetis, Neapolim rediit; ibque demum, quum gallica arma perstreperent,et uti ipse in miseriis perurbane dicebat pro uno benigno Leone, in multos feros Lupos incidisset. Oppressus utraque praedurae egestatis, et insanabilis morbi miseria in publica hospitali domo, vitae finem invenit; quum indignatus fortunae acerbitatem, prae dolore, ventrem sibi, ac intima viscere forfice perfoderit.
CAMILLO QUERNO ARCIPOETA.
Camillo Querno da Monopoli, allettato dalla fama di Leone [papa Leone X], avendo saputo che i poeti con premi mai dubbi erano tenuti in onore, venne a Roma portando con sé la lira per cantare al suo suono gli oltre ventimila versi della sua Alessiade [di questo come si altri suoi poemi nulla è rimasto]. Piacque subito ai soci dell’Accademia, poiché allegro nel suo grassoccio volto apulo e capelluto sembrava assolutamente degno di una festosa laurea. E così, dopo averlo accolto in un solenne banchetto sull’isola tiberina dedicata ad Esculapio e mentre beveva spesso da una grande tazza e al suono della lira esprimeva le risorse di tutto l’ingegno, lo incoronarono di un nuovo tipo di corona. Essa era fatta di pampini, cavolo e alloro elegantemente intrecciata sicché tanto sul serio che spiritosamente si sottolineasse la sua ubriachezza e col pubblico consenso ricevesse lieto tra le lacrime di gioia il soprannome di Arcipoeta e similmente fosse salutato con un applauso, ripetuto più volte questo canto:
Salve, tu che verdeggi di una corona di di cavolo e di alloro e di pampini, degno ARCIPOETA alle orecchie del principe Leone.
Né molto dopo, celebre per tanto soprannome, portato al cospetto di Leone, recitò con la rotonda bocca  infiniti carmi a mo’ di torrente; e fu per lungo tempo graditissimo tra le risorse di erudito piacere quando, mentre Leone pranzava e con la mano gli allungava rimasugli di bocconi, lui li mangiava appoggiato a una finestra e bevendo a lungo  dal fiasco del principe dava vita a canti improvvisati, con la legge che almeno due canti fossero intonati a mensa  su un argomento prescritto, con la pena che per un esito insufficiente  o inadatto avrebbe dovuto bere vino annacquatissimo. A causa di questa ricca ed allegra alimentazione incorse in una severa podagra, sicché amenamente suscitò il riso quando, invitato a cantare di sé, se ne uscì con questo esametro:
L’Arcipoeta fa versi al posto di mille poeti
e mentre esitava il principe senza che nessuno se l’aspettasse gli rispose argutamente con questo pentametro:
E l’Arcipoeta beve al posto di mille altri
Allora sì che il riso sorse tra gli astanti e ancora maggiore quando Querno sbigottito ma intrepido proferì non a casaccio questo terzo verso:
Offrimi del Falerno, perché io componga dotti carmi
e Leone all’istante presolo a prestito da Virgilioa gli servì:
Anche questo snerva e debilita i piedi [qui il papa gioca sul doppio senso che in latino ha il piede, che, oltre al dettagli anatomico, indica anche un elemento fondamentale della metrica].
Morto poi Leone e allontanati i poeti, ritornò a Napoli. Qui infine, quando le armi dei Francesi facevano sentire il loro strepito ed egli, molto civilmente nel disagio diceva, invece di un benigno Leone si era imbattuto in molti feroci lupi. oppresso da ogni lato dal durissimo bisogno e dal tormento di un’insanabile malattia finì i suoi giorni in un pubblico ospizio, quando, indignato con la crudeltà della sorte, per il dolore con una forbice si trafisse il ventre e le viscere.
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a Da un epigramma facente parte delle opere giovanili attribuite a Virgilio (Appendix Vergiliana). Ecco i primi 4 versi: Nec tu Veneris, nec tu Vini capiaris amore,/namque modo Vina, Venusque nocent./Ut Venus enervat vires, sic copia Vini/et tentat gressus, debilitatque pedes (Non farti prendere dall’amore di Venere né da quello del vino; infatti allo steesso modo sono nocivi i vini e Venere. Come Venere snerva le forze, così l’eccesso di vino mette alla prova i passi e indebolisce i piedi). Ad esso si ispira pure la tavola di testa.
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1 Congregazione di Carità di Lecce O. P., Ospedale dello Spirito Santo, Actus aperturae testamenti inscriptis conditi per quondam D. Cesarem Prato, 22/06/1635-III, c. 1, b. 2, fasc. 18.
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bosummers · 4 years
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Siamo in un momento di inerzia opaca. A un punto morto. O a un grado zero. C’è stata l’avanguardia storica, c’è stato il 1963, poi il 1968, poi la reazione a entrambi, e i poeti innamorati, e le letture pubbliche di poesia. Oggi, più nulla: non ci sono spinte né controspinte. Ogni voce suona alternata ad altre di segno diverso (non opposto) e insieme formano un concerto indifferenziato, ove tutto è permesso, niente è proibito, e ogni accento viene eliso da un altro, in una grande, innicua equivalenza. Non si produce movimento, neppure di reazione. Gomito a gomito. Tutti in fila.
Tutti sintomi d un declino? È il tramonto del senso della letteratura? Certo, qualcosa sta morendo, anche il confrontarsi e come territorio contaminato, inaffidabile. E molto altro sta cambiando nel gigantesco riequilibrio di fattori strutturali e sovrastrutturali (mai così intrecciati come ora) prodotto dal capitale informatico. Si dissolvono i tradizionali confini fra il “letterario scritto” e le altre forme di comunicazione. D’altra parte, nella rivoluzione culturale che si sta realizzando, il “letterario” è ridimensionato drasticamente, cero, ma non colpito a morte. Il precedente tessuto sociale e civile oppone resistenza e non si tratta soltanto di un residuo del passato: la resistenza è connessa alle strutture profonde (antropologiche) della civiltà.
Il “letterario” coincide con una parte non indifferente della cultura dei popoli moderni, con la loro stessa identità. Così, paradossalmente, può anche accadere che il processo della sua riduzione contribuisca a illimpidirne la funzione. Se, a questo volevo giungere, per un verso il mio “spazio letterario scritto” appare sempre più minacciato d’inquinamento e comunque ampiamente percorso e pervaso dall’extraletterario, per un altro verso appare come costretto a regredire su una trincea estrema, che tuttavia gli è propria e ne qualifica in profondità la funzione: ributtato indietro, tocca comunque un fondo che è suo.
Quale è il senso della scrittura. Risponderei con un aforisma di Blanchot, in L’écriture du désastre:“Veiller sur le sense absent”. È quasi un imperativo, un’istanza cruciale. Il senso non viene alla presenza. E come a convinzione che “in ogni poesia vi è una contraddizione essenziale. La poesia è molteplicità triturata e restituisce fiamme. E la poesia, che riporta l’ordine, risuscita da prima il disordine, il disordine dagli aspetti infiammati”.
 
https://cultura.gaiaitalia.com/2016/04/bo-summers-essere-frainteso-la-pagina-dello-zio-bo/
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