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#nazionalismi
gregor-samsung · 7 days
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" Un pensiero o idea di trasferimento [del popolo palestinese risale] ai primi tempi del movimento sionista, come mostrerebbe un'annotazione del diario di Theodor Herzl: «Dobbiamo espropriare con delicatezza. […] Cercheremo di indurre la popolazione in miseria ad attraversare il confine procurandole un'occupazione nei paesi di transito; negandogliela, però, nel nostro. […] Il processo di espropriazione e di sgombero dei poveri deve avvenire con discrezione e circospezione.»¹ A distanza di quarant'anni, Ben-Gurion ribadiva il concetto: «Il trasferimento di popolazione è già avvenuto nella valle di Jezreel, nella piana del Sharon e in altri luoghi. Siete a conoscenza del lavoro del Fondo nazionale ebraico in proposito. Ora occorre realizzare un trasferimento di ben altre dimensioni.»² Durante la guerra del 1948, Ben-Gurion mise in pratica le sue raccomandazioni. In una campagna nota come "Operazione Hiram" fu realizzato un trasferimento indiscriminato di popolazione dalla Galilea. Durante questa campagna, ha scritto Morris, le forze armate sioniste eseguirono "un numero insolitamente elevato di esecuzioni di popolazione civile contro muri o nei pressi di un pozzo con notevole metodicità". Molto scrupolosamente, Morris cita ventiquattro episodi di terrorismo o di massacro, di cui i più efferati ebbero luogo a Saliha (78 uccisi), Lod (250), Dawayima (centinaia) e, ovviamente, nel già citato villaggio di Deir Yassin. Alcuni di questi massacri furono probabilmente perpetrati per ragioni tattiche: a Dawayima, nei pressi di Hebron, per esempio, "una colonna entrò nel villaggio sparando all'impazzata e uccise qualsiasi cosa si muovesse". Altri massacri rispondevano, invece, all'intento strategico di terrorizzare la popolazione affinché fuggisse. Questi massacri non furono certo tenuti nascosti dalla popolazione palestinese. Dopotutto, come ebbe a dire una volta Lenin, l'intento del terrorismo è terrorizzare. (Morris, ricordiamo per inciso, ha giustificato i sionisti richiamandosi alla logica del ben noto aforisma di Lenin: "Per fare la frittata occorre rompere le uova").
Secondo un testimone oculare di Deir Yassin: «Deir Yassin era un villaggio che fu attaccato dagli israeliani, o dai sionisti, il 9 aprile 1948. […] Incontrerà delle persone che le diranno: "Questo è quello che successe a Deir Yassin", perché loro erano là. Ho incontrato una donna che mi ha detto che le portarono suo figlio e le dissero di prenderlo in grembo e poi lo uccisero. Usavano coltelli, baionette. Un macello; non un combattimento. Non c'era nessuno da combattere. Erano prevalentemente donne e bambini. Molte, moltissime persone furono massacrate in quel villaggio. Questo massacro terrorizzò l'intera Palestina. Tutti parlavano del massacro di Deir Yassin.» Complessivamente, furono cancellati oltre cinquecento villaggi palestinesi. La maggior parte dei palestinesi che fuggì fini in Cisgiordania, nella striscia di Gaza, nei paesi arabi limitrofi. Quelli con un certo grado di istruzione, con specializzazioni o disponibilità economica cercarono di rifarsi una vita meglio che poterono, talvolta in luoghi lontani come il Golfo persico, l'Europa, le Americhe. Quelli che non furono altrettanto fortunati finirono nei campi profughi, organizzati, inizialmente, dallo United Nations Releif for Palestine (Unrp). "
¹ B. MORRIS, Revisiting the Palestinian Exodus of 1948, in E. L. ROGAN e A. SHLAIM (a cura di), The War of Palestine, Rewriting the History of 1948, Cambridge University Press, Cambridge, 2001, p. 41 [trad. it. La guerra per la Palestina: riscrivere la storia del 1948, Il Ponte, Bologna, 2004]. ² Ibidem, p. 43.
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James L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent'anni di guerra, traduzione di Piero Arlorio, Einaudi (collana Piccola Biblioteca Einaudi n° 357), 2007¹; pp. 179-181.
[Edizione originale: The Israel-Palestine Conflict, Cambridge University Press, 2005]
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sauolasa · 10 months
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Orban contestato in Transilvania, è scontro di nazionalismi
Cortocircuito fra nazionalisti dell'Europa orientale: quelli romeni contestano il premier ungherese Orban in Transilvania
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crazy-so-na-sega · 2 months
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"Una politica impopolare, o peggio ingannevole, non si riconosce dunque dalle sue false soluzioni, ma dai suoi falsi problemi. A me sembra che oggi questo requisito sia soddisfatto oltre ogni dubbio e oltre ogni decenza. Il dibattito politico contemporaneo può definirsi come una produzione a getto continuo di falsi problemi dove non passa giorno senza che si aggiunga nuovo fumo a una cortina di «emergenze» da mettere ogni volta in cima all'agenda: dall'«odio» al razzismo, dal patriarcato al sessismo, dallo ius soli, culturae, itinerandi, natandi degli altri alla «scarsa mobilità» dei nostri, dal sempreverde baubau del fascismo che ritorna a quello - novità dello chef - del comunismo, dal debito pubblico ai soldi pubblici che «non ci sono», dal «nanismo delle imprese» al «troppo Stato», dall'«analfabetismo finanziario» a quello «funzionale», dai mancati scontrini alle mancate nascite (ma, subito dopo, l'apocalisse della «sovrappopolazione»), dalle frontiere «da abbattere» ai dazi «anacronistici», dal troppo contante in circolo ai mancati scontrini alla corruzione «percepita», dalla genitorialità gay ai semafori, ai cessi, alla modulistica «gender equal», dall'educazione erotica degli infanti ai chemioterapici per i preadolescenti sessualmente indecisi, dal deficit di «cultura scientifica» al «ritardo digitale» che va «colmato» forzando ovunque l'uso dei calcolatori, dai «fondamentalismi» ai «nazionalismi», dal «complottismo» alle «fake news», dall'anidride carbonica al diritto di voto che deve essere riservato ai plurilaureati nei giorni pari, esteso anche ai sedicenni in quelli dispari, dalla varicella al morbillo alle altre malattie che dall'oggi al domani diventano emergenze globali e piaghe sterminatrici, ma solo se prevenibili con un vaccino, dalle autoblù alle province agli «enti inutili» al numero dei parlamentari il cui taglio, dicono, era atteso da quarant'anni (cioè da qui).
In questa cacofonia di allarmi, tutti accuratamente lontani dagli allarmi che salgono dalla più ampia base dei cittadini, si confondono fattispecie diverse: i problemi falsamente formulati (che cioè riformulano un problema reale, per nasconderlo), quelli falsamente rappresentati (che trasformano casi minoritari o controversi in questioni universali, per falsa sineddoche), i falsi d'autore (cioè problemi creati e alimentati da chi li denuncia) e i falsi tout court.
È altrettanto diffusa la percezione che questi e altri falsi problemi servano a paralizzare l'azione politica e a deviare l'attenzione del pubblico dalla mancata soluzione dei problemi reali che lo affliggono. Anche questa percezione è condivisibile e invita ad approfondire i modi e i moventi del fenomeno". (segue)
Se non serve, serve a qualcos'altro. (I.P)
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CONFERENZE - POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
OTTOCENTO: LA SVOLTA MODERNA E CONTEMPORANEA
Un'epoca che segna la modernità stagliandosi nel cuore del cosiddetto "secolo lungo" teorizzato da Eric Hobsbawm e collocato tra la Rivoluzione Francese di fine '700 e la Grande Guerra d'inizio '900.
L'arte recepisce il cambiamento, lo assume nelle sue forme espressive, per certi versi lo plasma e lo esalta.
Non solo con il celebrato "Impressionismo".
In Francia con il "Neoclassicismo" e nel nord Europa, in Inghilterra in particolare.
Con Turner e Ruskin, la confraternita dei "Preraffaeliti" ispirati dal movimento "nazareno" costituitosi in Italia ai primi del secolo.
Prende corpo il sentimento romantico, intensi fermenti sociali animano l'Europa che s'avvia a mutare profondamente volto, tra la retorica accesa dei nazionalismi e società sempre più complesse che popolano e dilatano a dismisura lo spazio urbano.
E l'Italia, pur marginale, vive la sua stagione risorgimentale.
Con artisti oggi dimenticati come Hayez e Sartorio, i "Macchiaioli" toscani e la "Scapigliatura" milanese, fino a Giovanni Boldini tra i migliori interpreti della "Belle Époque" che annuncia il suicidio del vecchio continente.
Sfiorando Cézanne e un'arte che avanza oltre la presunta crisi dettata dall'avvento dell'immagine fotografica.
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curiositasmundi · 9 months
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Non c’è un’accezione amabile della patria, e se c’è è forse proprio quella che dovremmo temere di più. La terra dei padri, questo significa patria, è un concetto letterario le cui ambiguità è utile tenere ancora presenti, se non altro perché dimenticarle ci ha dato lezioni amare per tutto il ’900. La prima ambiguità è nelle parole stesse: la patria non è una terra, ma una percezione di appartenenza, un concetto astratto, tutto culturale, che si impara dentro alle relazioni sociali in cui si nasce e dentro alle quali, riconosciuti, ci si riconosce. In un mondo dove i rapporti di confine tra le terre sono cambiati mille volte e le culture si sono altrettanto intrecciate, dire “la mia patria” riferendosi a una terra significa creare di sé un falso logico, oltreché geologico.
La seconda ambiguità è in quel plurale monogenitoriale, quel categorico “padri” che solleva simbolicamente dalle loro tombe un’infinita schiera di vecchi maschi dal cipiglio accusatorio rivolto alla generazione presente. Le madri nella parola patria non ci sono, benché per definizione siano sempre certe, né generano appartenenza, nonostante ce ne sia una sola per ognuno di noi. Non possono esserci perché nell’idea del patriottismo è innestata la convinzione profonda che la donna sia natura e l’uomo cultura, cioè che la madre generi perché è il suo destino e l’uomo riconosca la sua generazione per volontà e autorità, riordinando col suo nome il caso biologico di cui la donna è portatrice.
È in quanto estensione del maschile genitoriale che la patria è divenuta fonte del diritto di identità, perché è il riconoscimento di paternità che per secoli ci ha resi figli legittimi, né è un caso che le rivoluzioni culturali post psicanalisi si definissero anche come “uccisioni dei padri”. Gli apolidi dentro questa cornice si portano inevitabilmente addosso l’aura del figlio bastardo, gli espatriati per volontà sono sempre traditori della patria e gli emigrati economici hanno il dovere morale di coltivare e manifestare a chi è rimasto a casa un desiderio di ritorno, pena il passare per rinnegati.
E se per una volta - solo una, giusto per vedere l’effetto che fa - provassimo a uscire dalla linea di significati creata dal concetto di patria? Averlo caro del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo agenti, ma indiscutibilmente cogenti: per metterle in crisi ci sono volute rivoluzioni di pensiero prima ancora che di piazza, e quelle rivoluzioni ci hanno lasciato in eredità il dovere di fare un atto creativo nei confronti di tutte le categorie che non bastano più a raccontare la complessità in cui siamo. E se proprio non è possibile uscire dalla percezione genitoriale dell’appartenenza collettiva - padre, ma anche l’ossimoro madre patria - potrebbe essere interessante cominciare a parlare di Matria.
[...]
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ninocom5786 · 8 months
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I nazionalismi sono perdenti già dalla nascita.
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ross-nekochan · 1 year
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Una cosa sola la voglio dire:
Se fate dire a persone di colore italiane che "è fiera di essere italiana" e di "indossare la maglia della nazione più bella del mondo", aumentate solo i nazionalismi e non aiutate per un cazzo la lotta contro il razzismo.
Just saying.
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raffaeleitlodeo · 2 years
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Mio nonno, l'esperanto e "Slava Ukraïni"!
Mio nonno, che era un socialista finito pure al confino per le sue idee antifasciste e contrarie alla guerra, quando ero piccolo mi diceva che non c'è inno nazionale che non abbia dentro connotati e parole di superiorità, gloria, onore, guerra, battaglie, armi, vittoria, confini: tutte cose che da socialista internazionalista e pacifista lui aborriva - e che mi ha insegnato ad aborrire.
Non so se è vero che proprio tutti gli inni nazionali sono così. A me quello francese ad esempio non dispiace, anche se si parla anche lì di "gloria" e di "patria", e a me il concetto stesso di patria invece fa sbuffare, sarà colpa del nonno che si definiva "cittadino del mondo" e sognava un pianeta senza confini dove si parlasse esperanto.
Ma nulla è più fuori moda delle idee di mio nonno, e mie, in questa fase della storia carica di sovranismi e patriottismi e mitizzazione dei confini che a volte diventano muri, reazione forse inevitabile a una globalizzazione che ha corso troppo in fretta e non ci ha fatto diventare cittadini del mondo ma solo consumatori globali, con un'élite che tutto o quasi decide, alla democrazia resta più o meno  dove mettere i semafori.
A tutto questo (in cauda venenum, sì) pensavo leggendo i diffusi "Slava Ukraïni!" di persone di sinistra che vorrebbero così salutare la liberazione di Cherson, la sconfitta dell'autocrate invasore. Fatto, quest'ultimo, che è doppiamente benvenuto: primo perché l'autocrate invasore è stato almeno po' ricacciato da dove non lo volevano e - secondo - perché se Dio vuole apre uno spiraglio per sospendere, almeno, la mattanza. Eppure, compagne e compagni, restano i fondamentali - almeno per chi considera le nazioni dei residui ottocenteschi: duole dirvelo, ma anche "Slava Ukraïni" è nazionalismo, confini, onore, gloria e tutta la paccottiglia culturalmente di destra dell'800 e del 900. E, prima che si alzi su un pinocchietto ad accusarmi di putinismo, sia chiaro che  il più acceso e folle nazionalista - "ontologico", "spiritualista" - è proprio Putin e il suo giro di fascistoidi, da Medvedev a Cirillo.
E quindi sì, è ovvio che ora possa esserci sbandamento ideologico e culturale da parte di chi i nazionalismi li avversa, e prende quindi la scorciatoia facile di opporsi al nazionalismo di chi è in torto e aggressore con il nazionalismo di chi ha ragione ed è aggredito - quindi cade con tutti i piedi nella trappola. Anche perché ora c'è l'onda collettiva di simpatia per l'invaso che ha resistito e in parte vinto.
Ma poi l'onda passerà, e sarebbe una sconfitta culturale epocale se, una volta passata, restassimo orfani - noi di sinistra - anche del sogno di un mondo senza confini, se finissimo imbevuti anche noi di patria, gloria, onore, armi, e "nazione": la parola che infatti tanto piace alla nostra - anzi al nostro - presidente del consiglio.
Alessandro Gilioli - Facebook
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vintagebiker43 · 1 year
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"La cultura è un grembo. Ti protegge. Se non ce l'hai sei perso e se ce l'hai da solo sei un paria. Sono tempi barbari."
Nicoletta Vallorani - Noi siamo campo di battaglia.
Vale soprattutto di questi tempi; tempi in cui, un po' dovunque, la destra, con i suoi nazionalismi e le sue chiusure, diffonde il culto dell'odio.
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ma-come-mai · 2 years
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“Il capitalismo è oggi il protagonista di una grande rivoluzione interna: esso sta evolvendosi, rivoluzionariamente, in neocapitalismo.
Davanti a questo neocapitalismo rivoluzionario, progressista e unificatore si prova un inaudito sentimento (senza precedenti) di unità del mondo.
Perché tutto questo? Perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l’applicazione tecnologica della scienza. Tutto ciò è un prodotto della storia umana: di tutti gli uomini, non di questo o quel popolo.
E infatti i nazionalismi tendono, in un prossimo futuro, a essere livellati da questo neocapitalismo naturalmente internazionale.
Sicché l’unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un’unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi.
Io spero naturalmente che, nella competizione che ho detto, non vinca il neocapitalismo: ma vincano i poveri. Perché io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere e il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda orma impressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi.
Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo“
Pier Paolo #Pasolini
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gregor-samsung · 5 days
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" Una democrazia è costituita da un popolo specifico che si organizza, per sé stesso, sul suo territorio. Questo gruppo difende la sua frontiera. Non è un collettivo astratto, che decide per l'umanità in generale. Se accettiamo questa evidenza storica di una componente cupa, etnica, nazionale della democrazia originaria, possiamo accettare di vedere e comprendere, perché la resistenza all'oligarchia, la crescita democratica che tocca una a una le "democrazie" occidentali, disorganizzate dalla nuova stratificazione educativa e dal libero scambio, si colora sempre di xenofobia. La democrazia rinasce, ma contro i messicani in America, contro i polacchi in Inghilterra. La scelta attuale della Francia, "contro i musulmani", è disfunzionale dato che prende di mira un gruppo interno che rappresenta tra i giovani il 10% della popolazione, e non può che condurre ad un'implosione della nazione. Questo primo elenco evoca lo stesso un movimento generale di ritorno dei popoli verso la democrazia, verso il populismo secondo la terminologia attuale delle oligarchie occidentali, un "cammino provvidenziale" avrebbe detto Tocqueville. La nuova stratificazione educativa iniqua esclude tuttavia la possibilità di un semplice ritorno alla democrazia classica della prima metà del XX secolo, radicata nell'omogeneità culturale dell'alfabetizzazione universale, ma senza lo sviluppo di un'università di massa. "
Emmanuel Todd, Breve storia dell'umanità. Dall'homo sapiens all'homo oeconomicus, traduzione di Julie Sciardis, LEG Edizioni, 2019, p. 301.
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sauolasa · 2 years
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I bosniaci impegnati nelle difficili elezioni generali. I nazionalismi dilagano
Si vota per i presidenti delle entità cantonali e per i rappresentanti eletti a tutti i livelli. Le etnie sono le grandi protagonisti
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aitan · 2 years
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“Il capitalismo è oggi il protagonista di una grande rivoluzione interna: esso sta evolvendosi, rivoluzionariamente, in neocapitalismo. […] Davanti a questo neocapitalismo rivoluzionario, progressista e unificatore si prova un inaudito sentimento (senza precedenti) di unità del mondo. Perché tutto questo? Perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l’applicazione tecnologica della scienza. Tutto ciò è un prodotto della storia umana: di tutti gli uomini, non di questo o quel popolo. E infatti i nazionalismi tendono, in un prossimo futuro, a essere livellati da questo neocapitalismo naturalmente internazionale. Sicché l’unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un’unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi.
Io spero naturalmente che, nella competizione che ho detto, non vinca il neocapitalismo: ma vincano i poveri. Perché io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere e il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma impressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo)”.
Pier Paolo Pasolini, La voce di Pasolini. I testi, Matteo Cerami e Mario Sesti. Feltrinelli Real Cinema, 2006.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti 
IL DIPINTO PIU' CRUDELE DEL '500
Il Cinquecento: prologo della modernità che si riflette in un'espressione artistica matura e compiuta, epigone del Rinascimento in un quadro di committenza colta e diffusa? Non è così.  La visione idilliaca di quest'epoca è priva di fondamento.  In quel secolo le stridenti illusioni umaniste giungono a materializzarsi in laceranti conseguenze politiche e religiose che culmineranno con l'avvenimento più significativo del tempo: il "Sacco di Roma" del 1527, decretato dall'Imperatore cattolico per eccellenza, Carlo V, capace di vagheggiare il sogno di un potere pacificato entro l'unità religiosa e universalistica incarnata nella figura del sovrano illuminato. Invece, è un secolo di conflitti cruenti e di proto-nazionalismi favoriti da complessi processi dinastici che dilanieranno l'Europa fino a lasciare in eredità al Seicento il veleno delle lotte di religione, fermento alla devastante Guerra dei Trent'anni. Perché sorprendersi di un testo pittorico come la "Punizione di Marzia" che il vecchio Tiziano Vecellio dipinge negli anni vicini alla sua scomparsa, da artista consapevole della tragicità intrinseca nell'esistenza, della crudeltà della vita nel suo crogiolo infuocato di anime e di mondi. Così, il colore che sulla tela è manifestazione dei corpi, si sfalda, si consuma, perde materialità e compattezza, si deforma e scorre.  E con esso, le immagini mostrano il segno del flusso spietato della carnalità che è piacere sadico, eccitazione spasmodica, inquietudine dei sensi.  Ecco da cosa nasce il dipinto di Tiziano, definito a ben ragione da Augusto Gentili "il dipinto più crudele del Cinquecento".
- Tiziano Vecellio (1488-1576): "Punizione di Marsia", 1570-1576, Kromeriz, Museo Nazionale (Rep. Ceca)
- Sulla copertina del libro: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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schizografia · 2 years
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Manca Rossana Rossanda.
Ucraina, genesi di un conflitto
di Rossana Rossanda, 29 giugno 2014
Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica.
L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata. Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”. Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.
Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin – come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht – nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.
Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain – hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.
L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale. La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo. L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli). Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra. Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov. Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione. Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese. Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale. Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.
È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.
L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.
È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.
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lamilanomagazine · 13 days
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Milano: Palazzo Reale, aperte le prevendite della mostra "Picasso lo straniero"
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Milano: Palazzo Reale, aperte le prevendite della mostra "Picasso lo straniero". Sono disponibili sulla piattaforma marsilioarte.vivaticket.it i biglietti per la mostra "Picasso lo straniero", in programma a Palazzo Reale di Milano dal 20 settembre 2024 al 2 febbraio 2025. È possibile anche prenotare la visita per i singoli e gruppi chiamando al numero +39 02 91446111. Promossa dal Comune di Milano - Cultura e prodotta da Palazzo Reale con Marsilio Arte, "Picasso lo straniero" è realizzata grazie alla collaborazione del Musée national Picasso-Paris (MNPP), principale prestatore, e del Palais de la Porte Dorée con il Musée National de l'Histoire de l'Immigration. L'idea originale del progetto è nata da Annie Cohen-Solal, curatrice scientifica della mostra con la curatela speciale di Cécile Debray, presidente del MNPP, e la collaborazione di Sébastien Delot, direttore delle collezioni del MNPP. "Picasso lo straniero" presenta più di 80 opere dell'artista, oltre a documenti, fotografie, lettere e video, provenienti dal MNPP e dal Musée National de l'Histoire de l'Immigration di Parigi: un progetto che apre a più riflessioni sui temi dell'accoglienza, dell'immigrazione e della relazione con l'altro. Pablo Picasso, nato nel 1881 a Malaga in Spagna, si stabilisce a Parigi nel 1904. Nonostante la Francia diventi la sua casa, e la sua fama cresca oltre i confini nazionali, l'artista non otterrà mai la cittadinanza francese: la mostra segue la traiettoria estetica e politica di Picasso, per capire come abbia plasmato la propria identità vivendo nella difficile condizione di immigrato. Palazzo Reale e Marsilio Arte hanno costruito un percorso di avvicinamento alla mostra #roadtoPicasso che prevede la pubblicazione del volume che ha ispirato il progetto espositivo e la realizzazione di una conferenza a Palazzo Reale per approfondire i legami tra Picasso e Milano. Il volume "Picasso. Una vita da straniero" L'idea della mostra nasce dal libro della curatrice Annie Cohen-Solal "Picasso. Una vita da straniero", successo internazionale pubblicato in Italia da Marsilio. Stimolata dalle molte contraddizioni che vede affiorare, Annie Cohen-Solal si lancia in una inedita quanto coraggiosa esplorazione del mondo insondabile di Picasso per sottrarre alla polvere degli archivi i segreti di una storia ancora tutta da raccontare. Viaggiando nello spazio e nel tempo si ritorna così all'ottobre 1900, quando Picasso giunge per la prima volta a Parigi da Barcellona; si attraversano i vicoli affascinanti di una Montmartre irripetibile e si assiste alla crescita di un talento strategico, sia come artista sia come uomo d'affari, capace di districarsi con naturalezza tra collezionisti e mercanti d'arte. Ed è forse proprio questa disinvoltura a far percepire il cubismo come un pericolo per 'l'integrità morale' del paese: scoppia così la guerra del bene contro il male, della tradizione contro la modernità, della Francia della «gente per bene» contro i pericolosissimi 'stranieri'. A cinquant'anni dalla scomparsa dell'artista, l'autrice ne racconta la vita e l'opera in un'appassionante indagine su censure e persecuzioni, svolte artistiche e passioni. Con documenti inediti e rivelazioni mai emerse prima, si svelano le origini del mito nel cuore dell'Europa dilaniata dai nazionalismi. Informazioni: marsilioeditori.it. Il convegno "Picasso e Guernica" Nel 1953 a Palazzo Reale viene esposta, per la prima volta in Italia, la grande opera di Guernica proveniente dal MoMA di New York, dove era custodita dal 1939. L'operazione ebbe luogo per volontà di Picasso stesso, che trovava nella Sala delle Cariatidi ancora segnata dai bombardamenti la sua cornice naturale. In occasione del finissage della mostra-performance "Memento amare semper" che l'artista Ercole Pignatelli dedicherà a Guernica proprio nella Sala delle Cariatidi, Palazzo Reale e Marsilio Arte promuovono e organizzano un convegno dedicato a "Picasso e Guernica", in programma giovedì 16 maggio, dalle ore 10.30 alle ore 12.30 in Sala Conferenze, piazza Duomo 14. Un momento di approfondimento e di confronto con studiosi nazionali e internazionali per analizzare il lavoro dell'artista e di una delle sue opere più iconiche, indissolubilmente legata a Milano. Intervengono Stefano Baia Curioni, Annie Cohen-Solal, Cécile Godefroy, Domenico Piraina, Francesco Poli, Pablo Rossi, Francesco Tedeschi, Vincenzo Trione e Genoveva Tusell Garcia. Modera la giornalista del Corriere della Sera Roberta Scorranese. Ingresso gratuito su prenotazione al link picassoguernica.eventbrite.it. La mostra, un approfondimento Grazie a un approccio multidisciplinare e alla straordinaria ricerca negli archivi della polizia francese, Annie Cohen-Solal, autrice della prima biografia di Jean Paul Sartre e allieva di Leo Castelli, ha portato alla luce carte che fino a oggi giacevano da decenni negli scaffali. "Ho trovato documenti, impronte e fotografie che dimostrano come la polizia considerasse Picasso un alieno e un reietto - spiega Annie Cohen-Solal, originaria di Algeri e attualmente professoressa all'Università Bocconi di Milano -. Per tutta la vita fu tenuto sotto controllo per tre motivi: non parlava francese e veniva trattato come uno straniero; era sospettato di essere anarchico perché aveva frequentato alcuni catalani e, infine, in quanto artista all'avanguardia, era stato rifiutato dall'Accademia di Belle Arti". Nemmeno quando sarà consacrato come uno dei più grandi artisti viventi dell'epoca, Pablo Picasso verrà ritenuto un vero cittadino francese. L'esposizione approfondisce come la condizione di straniero abbia influito e formato la sua identità e, di riflesso, costringe a una riflessione sulla contemporaneità. "Nel mio lavoro emerge costantemente come Picasso patisse questo stato di vulnerabilità e precarietà perché sapeva che poteva essere espulso in ogni momento - spiega Annie Cohen-Solal -. Tuttavia, proprio per questo, mentre la Francia continuava a malapena a riconoscerlo, lui riuscì a proteggersi creando una rete di amici potenti, collezionisti collaboratori e acquirenti in tutta l'Europa dell'Est che lo aiutarono a esporre nei posti più prestigiosi". Nessuno aveva indagato questo aspetto della vita dell'artista: insieme a Cécile Debray, presidente del MNPP e a Sébastien Delot, direttore delle collezioni e della comunicazione del MNPP, i tre curatori daranno vita a un avvincente percorso nella vita di Pablo Picasso. Dipinti, ceramiche, disegni, collage, stampe, fotografie, video e documenti che permetteranno al visitatore di conoscere il mondo di Picasso, la sua vita, il suo successo e il rapporto con le donne, oggetto di una ricerca critica da parte dei curatori. La collaborazione con Palazzo Te a Mantova Palazzo Reale con il Comune di Milano e Fondazione Palazzo Te, Musei Civici con il Comune di Mantova hanno stretto un accordo di collaborazione culturale per promuovere le due mostre dedicate a Pablo Picasso. A Mantova è in programma "Picasso a Palazzo Te. Poesia e salvezza" allestita a Palazzo Te dal 5 settembre 2024 al 6 gennaio 2025. Le due mostre, entrambe a cura di Annie Cohen-Solal con catalogo Marsilio Arte, nascono dalla collaborazione con il MNNP. Ne emerge un Picasso ancora sconosciuto, in risonanza particolare con il nostro contemporaneo: il poeta e lo straniero. Con il biglietto di ingresso della mostra a Milano i visitatori potranno accedere alla mostra di Mantova con il biglietto ridotto e viceversa.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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