Tumgik
#alla fine era strana ma comprensibile
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autolesionistra · 3 years
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Ciao! Ti volevo chiedere: sai cosa è successo alla storia del reddito di cittadinanza? Mi pare che se ne sia semplicemente smesso di parlare...
Buondì! (un ask, da quanto tempo, sono quasi commosso) In effetti non se ne parla più tanto (ma nello scenario sociopolitico attuale potrebbe quasi essere comprensibile). Non mi sento titolatissimo a parlarne ma proverò a fare un rapido excursus.
Il reddito di cittadinanza, in continuità con l’eterno uso di termini a cazzo della politica italiana in realtà non è un reddito di cittadinanza ma un sussidio (o una versione un poco arbitraria di un reddito minimo garantito, a scelta), wikipedia lo spiega meglio. Poi chiariamoci, non sono ostile ai sussidi, sono ostile a chiamare “ananas” le noci di cocco.
Ad ottobre 2020 sono state accolte un milione e mezzo di richieste (il 69% del totale) (fonte: inps ma il link che dovrebbe portare ai dati è a culo, sono qui)
Giusto ieri (chissà se la domanda era in qualche modo collegata, è una strana coincidenza) Elly Schlein (vicepresidente della Regione Emilia-Romagna) ha risposto all'interrogazione di una consigliera di Forza Italia sui dati regionali:
A fine novembre in Emilia-Romagna i beneficiari del reddito di cittadinanza segnalati sono 44.067 di cui 33.900 sono stati convocati dai centri per l'impiego: 15.728 sono stati interessati alla sottoscrizione del patto per il lavoro, 3.209 sono gli esonerati, 5.093 gli esclusi e 13.000 i decaduti, mentre sono 3.427 le persone trasferite ai servizi sociali per la presa in carico. (*)
Ricapitolando, il reddito di cittadinanza pare ampiamente operativo, da quel che capisco manca ancora all’appello (o almeno, è in corso d’opera) il potenziamento dei Centri per l’Impiego che dovrebbe spostare l’accento (almeno sulla carta) da sussidio continuativo a strumento temporaneo. Cito:
Se sei momentaneamente in difficoltà, il Reddito di cittadinanza ti aiuta a formarti e a trovare lavoro (*)
Personalmente ho un poco di ambivalenza sull’argomento, non tanto sul concetto di sostegno a fasce economicamente più deboli quanto su come sia stata messa in opera. O anche sulla schizofrenia interna ad uno stato che da un lato frattalizza i contratti collettivi e smantella ogni tutela e dall’altro investe miliardi in fondi povertà (sic) per raccogliere i cocci, una versione articolata del solito tema di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
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gloriabourne · 5 years
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The one where Fabrizio meet Silvia
(questa fanfiction è collegata a The one with the jacket, ma credo sia comprensibile anche senza aver letto la parte precedente)
    Quando Silvia si era svegliata quella mattina, le era sembrata una giornata come tante altre.
Aveva coccolato un po' Nike prima di uscire, aveva registrato qualche storia su Instagram andando al lavoro ed era entrata negli studi radiofonici con il sorriso sulle labbra, come tutti gli altri giorni.
Ma appena arrivata in studio, era cambiato tutto.
Attorno al solito tavolo dello studio in cui lei e Katia conducevano il loro programma, c'erano tre sedie e non due come al solito.
Aggrottò la fronte confusa e poi disse: "Abbiamo qualche ospite di cui mi sono dimenticata?"
Katia sbuffò mentre si avvicinava a Silvia e rispose: "Non siamo noi ad averlo dimenticato. Sono quelli ai piani alti che dimenticano di dirci le cose."
Silvia sospirò. Non era la prima volta che si ritrovava a dover gestire un'intervista con un ospite inatteso, ma era pur sempre una scocciatura dover improvvisare delle domande con il rischio di chiedere la cosa sbagliata.
"Chi abbiamo?" chiese togliendosi il giubbotto e appoggiandolo sullo schienale della sedia.
"Fabrizio Moro."
Silvia si immobilizzò, sentendo per un attimo il sangue raggelarsi nelle vene.
Non aveva nulla contro Fabrizio, anzi lo reputava un ottimo artista. Ma, anche se quello doveva essere un incontro di lavoro, Silvia era consapevole che nessuno dei due avrebbe potuto evitare di sentirsi in imbarazzo.
C'erano delle implicazioni personali di mezzo, questioni che in un certo senso li accomunavano e allo stesso tempo li dividevano, e Silvia non aveva idea di come avrebbe potuto affrontare quell'intervista senza sembrare impacciata.
  Come previsto, Silvia non era l'unica a essere imbarazzata per la situazione.
Da quando Fabrizio aveva messo piede nello studio, non aveva detto nulla di più dello stretto necessario, rispondendo alle domande che gli venivano fatte senza dilungarsi troppo.
Per tutta la durata dell'intervista, era stata più che altro Katia a parlare - cosa di cui Silvia le era profondamente grata - togliendo così un po' di imbarazzo a entrambi e alleggerendo la tensione.
Nonostante tutto, però, non era semplicemente per nessuno dei due stare lì, seduti l'uno accanto all'altra.
Silvia non riusciva a fare a meno di pensare che il posto che per nove anni era stato suo, ora apparteneva a Fabrizio. Tutte le cose che Ermal aveva fatto con lei, ora le faceva con Fabrizio.
E Fabrizio, allo stesso modo, non poteva evitare di pensare che quella accanto a lui era la donna che lo aveva preceduto, la persona che Ermal aveva amato per quasi un decennio.
"Silvia, sei silenziosa oggi!" disse Katia a un certo punto, cercando di coinvolgere la collega nella conversazione.
Fabrizio si voltò verso Silvia, aspettandosi una domanda da parte sua, ma lei si limitò a dire: "Stai facendo un ottimo lavoro, non mi sembrava carino interrompere."
Katia le lanciò un'occhiata incerta, consapevole che in realt�� ci fosse molto di più dietro quella risposta, poi disse: "La nostra Silvia evidentemente vuole lasciarmi sola oggi. Allora, Fabrizio, stavamo dicendo..."
Silvia trattenne a stento un sospiro di sollievo mentre Katia riprendeva le redini della trasmissione.
Non era certa di riuscire a mantenere la professionalità necessaria con Fabrizio. Proprio non ce la faceva! Non riusciva a non pensare al fatto che quell'uomo fosse il nuovo fidanzato del suo ex.
Qualche attimo dopo, sentì Katia dire: "Fabrizio, grazie per essere stato con noi. Spero che tornerai a trovarci."
"Grazie a voi per avermi ospitato qui" rispose Fabrizio, rivolgendo lo sguardo però solo verso Katia.
A quel punto Silvia, per mantenere almeno una parvenza di normalità, disse: "Noi ovviamente torniamo domani alla solita ora. Adesso vi lasciamo con l'ultimo singolo di Fabrizio Moro, Ho bisogno di credere."
Le prime note della canzone risuonarono nello studio, mentre Silvia si toglieva le cuffie e le appoggiava al tavolo.
Katia e Fabrizio fecero lo stesso un attimo dopo e, mentre Katia continuava a parlare con il loro ospite, Silvia uscì velocemente dallo studio.
Non poteva restare dentro quella stanza un minuto di più.
Non era gelosa, né tanto meno arrabbiata per la presenza di Fabrizio. Come aveva detto a Ermal qualche giorno prima, era felice per loro. Vedeva dai loro sguardi, dai loro gesti quanto fossero innamorati l'uno dell'altro e lei voleva solo che Ermal fosse felice.
Eppure si sentiva strana, come se una mano invisibile le stesse stritolando lo stomaco.
Rimase per qualche minuto appoggiata al muro del corridoio, con gli occhi chiusi e una mano premuta sul petto, cercando di recuperare fiato e di ignorare quella sensazione sgradevole che si era impossessata di lei.
"Tutto bene?"
Silvia spalancò gli occhi sentendo la voce di Fabrizio terribilmente vicina.
Il cantautore se ne stava davanti a lei e la osservava leggermente confuso e preoccupato.
"Sì, tutto bene, grazie" mormorò Silvia.
Fabrizio annuì e fece per allontanarsi, per poi cambiare idea all'ultimo momento.
Ritornò davanti a lei e, vagamente indeciso, disse: "So che è stato un po' imbarazzante prima. Avrei voluto evitarlo, ma purtroppo questo tipo di decisioni non spettano a me."
"Lo so, non preoccuparti. Ti capisco."
"È per questo che hai 'sta faccia da funerale?"
Silvia si lasciò sfuggire un sorriso. Chissà che espressione aveva se Fabrizio le stava dicendo una cosa del genere.
"Scusa, è che non avevo proprio idea di come comportarmi. Sai, dopo che Ermal mi ha detto di voi, le cose sono diventate un po' strane. Lo sospettavo da un po', ma incontrarti ora che ne ho la certezza è un po' più difficile" spiegò lei.
Fabrizio sospirò e si appoggiò alla parete opposta, rimanendo di fronte a Silvia. "Ermal mi ha detto che avete parlato al matrimonio di Dino. Mi è sembrato strano che tra tutte le persone che conosce, lui avesse deciso di dirlo proprio a te."
"Siamo ancora amici" replicò lei, vagamente infastidita. Le sembrava che Fabrizio stesse insinuando che lei ed Ermal non avessero diritto di raccontarsi cose della loro vita privata.
"Lo so. Ma tu come ti sentiresti se il tuo fidanzato si confidasse con la sua ex? E non una ex qualsiasi, ma una con cui ha condiviso quasi dieci anni della sua vita."
Lei non rispose.
Non poteva immaginare come si sentisse Fabrizio. Lei non aveva mai dovuto fare i conti con un fidanzato che si portava dietro gli strascichi di una relazione importante, come quella che avevano avuto lei ed Ermal.
"Credo che una parte di me sarà sempre un po' gelosa di te e del rapporto che hai con Ermal. So che state cercando di restare amici e io non voglio mettermi in mezzo. Non sono il tipo di persona che vieta al proprio fidanzato di uscire con un'amica. Però non è semplice stare al mio posto" disse Fabrizio, ammettendo una debolezza che non era riuscito ad ammettere nemmeno ad Ermal.
Era sincero. Non avrebbe mai impedito a Ermal di frequentare Silvia, se era quello che voleva.
Ma allo stesso tempo, non poteva negare che la cosa lo turbasse e che più di tutto lo turbasse il non poterne parlare con Ermal. Sapeva che se lo avesse fatto, Ermal avrebbe rinunciato a qualsiasi rapporto potesse ancora avere con Silvia.
Fabrizio ne era certo, sapeva che Ermal avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. E non voleva che lui si privasse di un'amicizia solo per farlo stare più tranquillo.
"Conosco Ermal da tanto tempo e posso assicurarti che, anche se capisco cosa provi, non hai niente di cui preoccuparti" disse Silvia.
Fabrizio sospirò ma non disse nulla.
"Ho visto il suo sguardo mentre parlava con te al telefono, il giorno del matrimonio. Poche volte l'ho visto felice come in quel momento. E, se la cosa può farti stare più tranquillo, io voglio solo che sia felice e non ho intenzione di allontanarlo da te. Tu lo rendi felice come io non ho mai saputo fare" aggiunse, cercando di rassicurare Fabrizio.
Lui sorrise, sentendosi effettivamente più tranquillo.
Non avrebbe mai pensato che proprio la ex fidanzata di Ermal avrebbe potuto rassicurarlo in quel modo.
Però, lo aveva fatto. Stentava a crederci ma era così.
  Aveva impiegato tutto il pomeriggio per decidersi a chiamare Ermal.
Non gli aveva detto che sarebbe stato ospite nel programma di Silvia ed era certo che non gli fosse giunta voce di quell'intervista, preso com'era a fare il turista a Creta.
Però sentiva il bisogno - quasi il dovere - di dirglielo.
Non che ci fosse qualcosa di male o di strano in ciò che era successo quella mattina, nulla che in realtà valesse la pena di essere raccontato, eppure Fabrizio si sentiva nervoso all'idea di tenere nascosta una cosa simile a Ermal. E si sentiva ancora più nervoso all'idea di parlargliene.
Così ci aveva pensato per tutto il pomeriggio, cercando di decidere quali fossero le parole più giuste da utilizzare oppure se fosse il caso di non utilizzare parole per nulla e di non dirgli niente.
Alla fine aveva deciso di dirgli semplicemente ciò che era successo, niente di più e niente di meno. Anche se era consapevole che non sarebbe stato facile, che la sua voce sarebbe stata tremante e che avrebbe faticato a trovare le parole.
Avviò la videochiamata e si sistemò meglio contro la testiera del letto mentre aspettava che Ermal rispondesse.
"Bizio!" rispose Ermal entusiasta.
Sorrideva con gli occhi, oltre che con le labbra, e dietro di lui si vedeva il mare.
"Ti disturbo?" chiese Fabrizio.
"Assolutamente no! Come stai?" chiese Ermal, passandosi una mano tra i capelli e spostandoli all'indietro.
"Bene. Tu? Che hai fatto oggi?"
Ermal iniziò a raccontare la sua giornata, mentre camminava sorridendo per le vie della città e ogni tanto si fermava per far vedere a Fabrizio il panorama dietro di lui.
Fabrizio lo ascoltò attentamente, rapito dall'entusiasmo con cui Ermal raccontava ciò che aveva fatto quel giorno.
Era una delle cose che amava di più di lui, quel suo raccontare con gioia ed entusiasmo anche le cose più banali.
"E tu invece? Hai fatto qualcosa di interessante oggi?" chiese Ermal al termine del suo racconto.
Fabrizio sospirò. Era arrivato il momento di dirglielo, non poteva più rimandare.
"Ho fatto un'intervista in radio, questa mattina. A R101."
Ermal rimase in silenzio per qualche secondo.
Era una radio importante, piena di speaker e di trasmissioni diverse, eppure il tono di Fabrizio gli aveva già detto indirettamente in quale programma era stato ospitato.
"Eri al programma di Silvia?" chiese qualche attimo dopo.
Fabrizio annuì con un cenno, poi disse: "In realtà, lei non ha parlato molto durante il programma. È stato un po' imbarazzante per entrambi."
"Mi dispiace, Bizio" rispose Ermal.
In quel momento avrebbe voluto essere insieme a lui, sdraiato sul suo stesso letto, con le braccia attorno al suo corpo e le labbra premute sulle sue, con la sola intenzione di farlo smettere di pensare a quella giornata. Ma purtroppo non era così.
"Tranquillo, è tutto ok. Abbiamo parlato un po' dopo il programma."
"Ah, sì?" chiese Ermal stupito.
Sapeva benissimo che Fabrizio era sempre stato un po' geloso di Silvia, anche se aveva sempre cercato di nasconderlo.
"Sì, beh, eravamo entrambi un po' tesi e in quel momento nessun altro avrebbe capito come ci sentivamo. Parlarne tra noi è stata la cosa migliore" disse Fabrizio.
Ermal sorrise. "Molto maturo da parte vostra."
"Avevi dubbi?" chiese Fabrizio fingendosi offeso.
"Qualcuno, in effetti" scherzò Ermal, provocando una smorfia sul volto di Fabrizio.
"Quando torni, ti faccio vedere io..."
"Ah, sì? Che mi fai vedere?" chiese Ermal, con il tono improvvisamente più basso e lo sguardo lucido.
Fabrizio scoppiò a ridere. "Sicuramente non quello, visto che non fai altro che prendermi in giro."
Ermal si unì alla sua risata, constando forse per la prima volta quanto fosse contagiosa.
Gli piaceva ridere con Fabrizio, forse più di ogni altra cosa. Lo rendeva felice il solo sentire quel suono uscire dalla sua bocca, anche se a dividerli c'era lo schermo di un telefono.
"Ti amo. Lo sai, vero?" disse Ermal a un certo punto.
Quei momenti, quelli in cui si trovavano lontani, erano quelli in cui aveva la sensazione di non riuscire a dimostrare abbastanza i suoi sentimenti a Fabrizio. Come se la distanza accentuasse ogni cosa e rendesse tutto più difficile.
"Certo che lo so, Ermal. Ti amo anch'io" rispose Fabrizio sorridendo. "Però questo non cambia le cose. Quando torni, sicuramente non ti faccio vedere quello che pensi tu!"
Ermal scoppiò a ridere di nuovo.
Se anche solo un anno prima gli avessero detto che Fabrizio lo avrebbe reso così felice, avrebbe stentato a crederci.
Certo, fin dal loro primo incontro aveva capito che sarebbe stata una persona importante nella sua vita, ma non avrebbe mai creduto fino a quel punto.
Non avrebbe mai pensato che Fabrizio che sarebbe diventato l'unica persona al mondo con cui avrebbe voluto trascorrere il resto della vita, l'unica persona al mondo in grado di risollevargli il morale e di farlo ridere di cuore, in grado di sopportarlo nei momenti difficili e supportarlo nelle cose belle.
E invece era successo.
Fabrizio era diventato quella persona in così poco tempo che Ermal quasi non se n'era accorto e si era appropriato di un posto che Silvia in realtà non aveva mai avuto, perché Ermal ne era certo: per quanto avesse amato Silvia, ciò che provava per Fabrizio era qualcosa di diverso.
Era qualcosa di più, qualcosa che andava oltre l'amore. Qualcosa che nemmeno lui riusciva a spiegare.
Qualcosa di cui, ormai, non poteva più fare a meno.
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dentrounalbicocca · 5 years
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The1975
(Dedico questa pagina di diario a questa band che mi aiuta nell’introspezione, per rileggerla in futuro e ricordare questi anni di qualità)
Ascoltare i the1975 è un percorso ben scandito da fasi definite e illuminanti: hai 14 anni, hai appena cominciato il liceo e senti i tuoi nuovi compagni misteriosi parlare di questa band sconosciuta e dall’accento divertente. Provi, e parte Somebody else, poi Paris, forse un po’ dopo anche A change of heart; diventano facilmente un tormentone: sono rumorosi, vari, non ripetono mai lo stesso giro di note e la batteria di George ti sveglia per forza. Qualche parola la capisci, in superficie, ma quell’accento super British ti confonde e leggi il primo testo, quello di Somebody Else, e ti senti così adolescente e compresa da quattro quasi-adulti mai sentiti in vita tua. E parlano di amore, di corse e persone che se ne vanno, e si tingono di rosa; ascolti tutto I Like It When You Sleep For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It che è così rosa (il rosa dello zucchero filato) ed è l’album con il titolo più lungo che tu abbia mai sentito e pensi Wow Sono Speciali! Scopri Love Me, The Sound, UGH! che per un po’ non ti piace perché boh te la dimentichi e soprattutto Loving Someone e diventi subito un’ally della comunità LGBTQ+, ti tingi di arcobaleno e non capisci mezza parola di quella canzone ma sai che Matty rappa da Dio, velocissimo e senza fiato e che all’inizio parla di pubblicità. Ci passi mesi e mesi, ascolti sempre lo stesso giro di canzoni e inizi ad affacciarti alla loro storia e a quell’album tutto nero e grigio di qualche anno prima, non ti piace perché non è rosa ed è lunghissimo e le canzoni sono difficili e non hai voglia di leggere i testi che sono la parte fondamentale della musica no? che canzone sarebbe senza testo? ed è primavera e li ascolti ancora più rosa, sempre le stesse canzoni + quell’intro omonima della band che diventa il tuo stato whatsapp perché hai 15 anni e ti senti grande, ma in realtà non hai ancora sentito niente.
***
È estate e hai Troye e Melanie e Halsey e tanta gente e alcuni anche italiani! E non sei più commerciale, perché i the1975 li ascolti ancora, ma super raramente solo quando passano Somebodyelse- e-compagnia-bella. Poi te li ricordi misteriosamente perché non hai niente da fare e la riproduzione casuale si sveglia tardi e ci riprovi. Le stesse canzoni di prima, lo stesso giro, le stesse sensazioni: hai ricominciato da capo, hai 15 anni e mezzo e ti dici Ora Sì Che Li Ho Capiti perché effettivamente un po’ di più sì, li hai capiti. Ma non è ancora finita: scopri le canzoni strumentali, Lostmyhead, Please be naked, If I believe you che non è nemmeno strumentale e ti segni “Please be naked sarà la mia prima volta” e ti senti stupida dopo un anno e mezza a sentirtelo dire (anche se quei 7 minuti che in realtà sono 5 ancora vuoi che siano la tua adolescenziale prima volta). La title (più lunga del mondo) track ti piace tanto, 6 minuti e mezzo, li ascolti tutti una volta sola perché puoi fare la figa quanto vuoi ma sai che palle? Esplori anche i brani più vecchi, la intro sempre uguale anche per il loro primo album, che si chiama come loro e come la intro, che non è poi così grigio, ma il rosa è un’altra cosa. Scopri Sex (EP version yup), Chocolate, The city, Robbers, addirittura Antichrist che oramai sei una fan per forza, quella non la conosce nessuno. Fidati che non la conosci nemmeno tu ancora. E So far (It’s Alright)? Bella bella, nemmeno te la ricordi, però è bella bella. E i remix chissene frega, non valgono la pena. Sei un tantino più esperta no? Conosci i nomi dei membri della band, hai Matty sullo sfondo, conosci il 65-70% delle loro canzoni, la restante parte è meno importante, le capisci benissimo no? cogli subito i concetti e gli stati d’animo di Matty quando le scriveva e ti ci connetti vero? Non ancora, piccola. L’estate è passata comunque, da un pezzo, vai per i 16 anni wow ma sei grande grande, adolescente con la A maiuscola. Hai una band preferita adesso e la ascolti una volta ogni morte di papa ma li senti ogni giorno (non banale eh?) e wow ti piace l’indie allora e l’alternative! “Ascolto di tutto” non vale più, e intanto ti avvicini ad altre note di altre persone di altri posti di altri giorni e sei felice.
***
Non ho idea di quando fosse, ma sei ancora un po’ più grande, i 16 sono passati e forse è estate di nuovo. Non è cambiato moltissimo negli ultimi tempi, ti stai vivendo qualche canzone nuova ultimamente che inconsapevolmente ti sta cambiando molto più di quanto abbia fatto quel 65-70% del loro lavoro che a quanto pare è poco e niente. A Natale papà ti ha preso un po’ di dischi, Halsey, Troye, Melanie, albumrosadaltitololungo e albumgrigioomonimoallaband e sei tanto felicina perché anche la musica di accompagna. Gli ultimi due anni sono stati tosti, papà ha da poco trovato un lavoro e ora sorride, inizi a sentire delle cose perché prima eri un sasso freddo e incosciente, la nonna è andata via il primo maggio 2018 e anche Nana ti aiuta a star meglio. È proprio la canzone per te adesso, ti tiene la mano e non ti fa piangere perché non piangi da un po’ (escluso il funerale) (in realtà lo sai che la notte prima di addormentarti è il momento peggiore della giornata) però ti aiuta e ti conforta ricordarti di non essere nè la prima nè l’ultima. I video li hai visti (non tutti) e ti piacciono tantissimo pur non sapendo di non averli capiti. E i mesi passano e passano e passano e questa band c’è ancora, ti coccola e ti regala un sentore di specialità. Sei in terza liceo, ne hai vissute parecchie in questi mesi e cominci il percorso che intesta il tuo blog su tumblr, hai tante sensazioni che succederanno un sacco di cose (good job girl, l’albicocca del futuro è sorpresa) e speri di avere ragione. Hai tanti problemi, vai da una persona speciale che è l’unica che non ti giudica e di cui speravi nessuno conoscesse l’esistenza, migliori il tuo amore per gli amici mentre tu cadi un po’ più giù. La musica è un po’ lontana da te, ma poi inizia il 2019 e vai al tuo primo concerto, un altro in vista, A Brief Inquiry Into Online Relatioships è fuori da qualche mese e lo stai vivendo meglio rispetto ad albumrosa e albumgrigio perché stai al passo con le news e incroci le dita che dopo Troye ed Ed toccherà a loro. La intro robotica non è poi così male, la copertina è un sacco bella e pulita, Give yourself a try era strana quest’estate, quando Matty aveva i capelli arancioni e hey si parla di quasi un anno fa, festa in piscina di fine scuola, non l’hai voluta ballare alla fine eh? Era poi uscita Love it if we made it che per tanto tempo è stata scura e poi si è colorata nel contesto dell’album, TOOTIMETOOTIMETOOTIME non ti fa impazzire ma poi il video coloratissimo la salva, le altre canzoni le ascolti di fretta e ti piace la voce di Siri maschile inglese in The man who married a robot/ Love Theme e tutti quei brani strani ed elettronici che hanno portato il loro canale YouTube a 2 Mln di iscritti, tu compresa da tempo, e una consapevolezza di quanto tu stia crescendo con loro. Non piacciono quasi a nessuno, a tuo padre tanto meno, i tuoi coetanei sono fuori dal mondo (no, sei tu che sei fuori tempo) e arrivi ad oggi.
***
17 marzo 2019, 17 anni anche se ti piace pensare di averne già 18 perché boh ti senti già vecchina, il troca di ieri è stato penoso ma ti ha portato a questo. Stai scrivendo un papiro di fasi dell’unica musica con la quale ti connetti, e ora si diventa seri: i The1975 sono un po’ come fare l’amore (non scopare eh) o come mangiare una crostata da soli, usano metafore, sarcasmo, ironia, dialogo, retorica, introspezione, mistero, divertimento per raccontare un sacco di cose diversissime ma quasi uguali tra loro, parlano di politica, amore, droga, depressione, latte, cioccolato, ladri, sesso, scarpe, teatri, 29 anni, suicidio, ateismo, gay, vino, chitarre, prostitute, nudi, macchine, soldi, tu, io, lui, lei, noi, voi, loro e nessuno. Ora li senti sotto pelle, ora ascolti Matty che parla di come hanno realizzato i video e del loro significato e rimani a bocca aperta per come parla di ciò di cui parla, di come si sente un artista e di quanto cavolo ti siano entrati dentro il sangue in due anni e mezzo. E quindi la intro, The1975, un tantino diversa per ogni album, parla di cose che si fanno con la bocca che non mi piace nominare, Chocolate parla di erba e le sue note tingono questa droga di un sapore diverso, che vorrai sentire quando fumerai la prima, Sex parla puramente di sesso, anche se ci cerchi un significato intrinseco, Antichrist ti spiega l’ateismo di Matty, anche se ancora non ti convince la sua spiegazione e non ti ci colleghi al 101%, in Woman Eileen è una prostitua un po’ più grande e no non è come sembra, Intro/Set3 non fa impazzire ma funziona, Undo l’avevi capita già di più ma capirla ancora è decisamente meglio, You racconta una relazione malata di Matty e il lungo silenzio che la segue ti porta a Milk che racconta la cocaina e anche lei ora ha un suono e un sapore diversi, Anobrain è amore e a-no-brainer, Me è la tua preferita da un sacco ed è Matty al microscopio, anche The Ballad of me and my brain è la tua preferita ed era facilmente comprensibile, ma è bello sentirsela dentro, She lays down ha dei begli accordi, in Give yourself a try Matty aveva i capelli arancioni per un motivo e parlava di presente, TOOTIMETOOTIMETOOTIME ha un sacco di punti di vista, Love if we made it è stata difficile e non dice solo “poison me daddy”, Be my mistake non te la ricordi ma era bella, Sincerity is scary è un capolavoro visivo e uditivo, The man who married a robot/ Love theme è simpatica, Inside your mind è amore, It’s not living (if it’s not with you) è un altro capolavoro in cui Danny è eroina con un altro sapore e suono ancora, anche Mine non scherza, I always wanna die (sometimes) è magica.
***
Dopo una mattinata dietro a parole su parole, qualcosa l’avrai dimenticato, ma sentivi il bisogno di ricordarti certe cose. Genius è un’app-salvezza e YouTube è una piattaforma superiore con quei video, Matty does art e Adam, George e Ross sono fondamentali. Il testo, tanto per la cronaca, non è importante, le parole le trovi tu e devi formulare una teoria anche su questo, ma i the1975 sono il testo, e fanno eccezione solo loro sulla terra. Questo post lo rebloggherai, prima o poi, aggiungerai fasi e ricordi e sorriderai di fronte a quanto sei bimba, e li ringrazierai per conservare la tua mente vecchia e il tuo cuore bambino.
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a---fire---inside · 6 years
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che bello, sei tornata!💖 dopo il post Trento, tutti han cominciato a dire che Fabrizio vedrebbe Ermal solo come un fratello, mentre per Ermal sarebbe amore vero. A me non sembra sia così, Fabrizio con Ermal sorride e si atteggia in modo molto diverso. Voglio dire, il sorriso quando Ermal gli ha pizzicato la pancia era così felice...
Grazie💖💖💖
Sono perfettamente d’accordo con te e infatti sono confusa.Lungi da me voler imporre il mio punto di vista su chi vede le cose diversamente, e anzi prima che iniziassi a ricevere ask ho sempre tenuto le mie opinioni per me, ma siccome ho notato che questa cosa è saltata fuori dopo Trento e la presunta freddezza di Fabrizio e siccome io quella freddezza proprio non la vedo devo dire che non capisco.
Quello che ho visto io è Fabrizio stanco morto che sale sul palco e viene agguantato dal tipo di Emergency e appena Ermal tenerissimo gli tira la maglia si stacca dal tipo e lo abbraccia fortissimo. E mi sembra tutto tranne che freddo. Poi ho visto Fabrizio cantare NMAFN con tantissimo impegno e ok non l’hanno cantata abbracciati come al Battiti Live o al Wind Summer Festival ma subito dopo Fabrizio, per primo, ha afferrato il braccio di Ermal che poi l’ha abbracciato. E alla fine quando Ermal è sceso dal palco si è gettato tra le braccia di Fabrizio che l’ha stretto a sua volta e gli ha accarezzato i capelli e il viso, seguendolo con uno sguardo bellissimo mentre se ne andava. E da solo Fabrizio l’ho visto stanco morto, simpatico e brillante ma stanchissimo, mentre con Ermal aveva ricacciato via la stanchezza. Poi ho visto Fabrizio postare quella foto con quelle parole che tutto mi sembrano ma non fredde, e la foto che ha postato Ermal si è aggiunta a tutto questo…Insomma credo che se questo concerto si fosse svolto in un qualunque altro momento nessuno (o pochi) avrebbe insinuato tutte queste cose.
Mi chiedo, qualcuno si aspettava che Fabrizio salisse sul palco di corsa e baciasse Ermal, dichiarando a tutti il loro amore live e sui social? 
Sicuramente è un effetto della “chiusura del cerchio”, che ha reso tristi i fans, me compresa, che speravo di sentirli dire che avrebbero collaborato ancora. Ma mi sono detta che in quel momento Fabrizio stava parlando della canzone e del loro donarla a Emergency, rendendola non solo portatrice di un messaggio ma di aiuto concreto. Qualunque annuncio personale e artistico sarebbe stato come farsi pubblicità, come fanno praticamente tutti gli altri artisti. Loro stavano suonando per Emergency e per una causa in cui credono, e dato che oltre ad amare la loro musica io li stimo anche come persone, non posso che riconoscere la loro coerenza e stimarli anche di più perchè vanno oltre fanservice e pubblicità varie. 
Però posso capire che alcuni fans non provino interesse per cose che non si sa quando e se ricominceranno, per così dire. E ovviamente c’è la percezione individuale, sulla quale non posso dire niente se non riconoscerla e riconoscere che la mia è diversa. 
Poi ci sono le storie di shipper metamoro impazzite su twitter e tutte le varie follie che non seguo e non voglio seguire. Mi pare comprensibile che tanti abbiano cercato di prendere le distanze da quelle cose, nessuno vuole essere considerato psicopatico esaltato che li tagga in contenuti inappropriati e fa commenti volgari e inopportuni su di loro. Però tumblr è diverso no? Quindi di che stiamo parlando? Sarò io strana ma non capisco. Anche perché sempre riguardo a twitter/IG, mi mettono a disagio non solo i comportamenti del fandom metamoro ma anche quelli dei loro fans in generale, sia per i commenti osceni sia per il commentare foto e momenti personali anche contenenti le loro famiglie. E so che è una fissazione mia, che se loro postano le foto come pubbliche sono appunto pubbliche, comprese di parenti e bimbi, però mi sembra ipocrita giudicare chi ha un’opinione sulla ship e su una presunta relazione o altro, se allo stesso tempo fa commenti di dubbio gusto e utilità sui loro post personali e con famiglia, perchè in fin dei conti entrambi fanno la stessa cosa. Qualcuno in modo molesto e nel canale sbagliato, come taggandoli su IG e twitter (e non solo per robe metamoro), qualcuno in modo discreto, su altri social come Ao3 o tumblr, dove postare opinioni, disegni o fics non va a toccarli direttamente, qualunque sia la tematica, aggiungo, dato che c’è anche questo sotto-psicodramma uscito dal vaso di Pandora del dramma post-Trento (e io che pensavo che avrei trovato la mia dash piena di throwback, edits e altro, che delusional che sono)
Siccome questa cosa mi ha colpito e quello che penso lo dico, ecco qui. Spero di non creare polemiche o altro. Quando le opinioni sono tanto diverse anche discutere mi sembra frustrante per entrambe le parti quindi se questo dovesse creare discussioni e dopo un po’ mi parte il tono scazzato sappiate che è perchè a discutere troppo mi cadono le braccia. (Allora che hai scritto a fare sta cosa? Eh, sarò strana io guarda–questa la anticipo just in case)
Non mi riferisco a qualcuno in particolare, tra l’altro ho una memoria pessima e non ne sarei in grado, ma mi ha fatto un’impressione strana il vedere ovunque specificato che li si shippa per gioco e/o addirittura che non li si shippa se non come amici. Non perchè non possa essere così, ci mancherebbe, ma perchè mi pare ovvio che AU e fics sono appunto finzione, come tanti altri discorsi. Giochi, tutto sommato. Ma ciò non toglie , come in tanti giochi e scherzi, si abbia un’opinione a riguardo. Anche perché ricordo chiaramente di non essere stata la prima a parlare di certe cose lol quindi ora come funziona, non si può più dire? Si può dire ma solo se è uno scherzo? Devo aggiungere non solo un disclaimer ma anche una marca da bollo, una dichiarazione di idoneità e la firma di un notaio? Capite bene che mi farebbe abbastanza ridere postare un’ipotetica analisi delle loro dinamiche come ho fatto finora e finire con un “lol stavo scherzando” perchè allora tanto vale scrivere una fic e ciao…cosa nemmeno brutta. Però se il clima resta così chi mi dice che non si finisca per arrivare anche alle fic, non si sa mai qualcuno dovesse googlarli e finisse per trovare un’AU inappropriata. Allora non sarebbe meglio scrivere di, che ne so, Ermann Meda e Patrizio Moto? LOL Suvvia, non esagerate, e lo dico a quelli che dicono esagerati agli altri.
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levysoft · 3 years
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Quel libro è Bartleby lo scrivano di Herman Melville, un racconto che torno a sfogliare spesso; credevo semplicemente per affetto, ma ora penso che sia perché non l’avevo mai compreso davvero. Perché c’era qualcosa che mi attirava, ma che non riuscivo del tutto a decifrare. E quella cosa era una frase, la frase più iconica del testo, una battuta che pronuncia il protagonista e che riesce a condensare, soltanto in tre parole, la caratterizzazione di un personaggio, una filosofia di vitae una critica sociale: “Preferirei di no“.
Del resto, che non l’avessi capito può essere comprensibile, considerando che i letterati si sono parecchio spesi nel tentativo di analizzare il significato di questo enigmatico racconto, precursore della letteratura dell’assurdo, che vede un copista dall’aria strana e immobile declinare ogni richiesta rivolta dal suo datore di lavoro, un brillante avvocato di Wall Street, con una semplice e flautata dichiarazione: “Preferirei di no“.
La storia si apre con Bartleby che viene assunto in un ufficio per svolgere una mansione che, come dice Alessandro Baricco, è “il grado zero dell’emozione“. L’avvocato (che è anche la voce narrante) sostiene di essere rimasto fin da subito impressionato e incuriosito dal suo modo di essere flemmatico e imperturbabile, così diverso dagli altri suoi collaboratori, Turkey, Nippers e Ginger Nut, che invece si mostrano ambiziosi, insolenti e a tratti irritanti.
Ma l’atteggiamento di Bartleby non è solo una semplice nota caratteriale, bensì una scelta di azione, che si traduce in un rifiuto tenace e costante di fronte a qualsiasi imposizione esterna.
Mentre il narratore descrive l’incredulità e la rabbia di chi lo circonda, il licenziamento, lo sfratto e, in conclusione, la reclusione del protagonista in prigione, sembra che in ogni pagina stia chiedendo ai suoi lettori: cosa ci distingue dalla massa e cosa invece ci rende indipendenti e unici?
Quasi tutti sono stati d’accordo nel considerare il racconto in anticipo sui tempi (è stato pubblicato per la prima volta nel 1853 sulla rivista Putnam’s Magazine), essendo un testo che tratta questioni come l’insoddisfazione, la frustrazione e la depressione sul lavoro. Al tempo stesso molti lo vedono come un’opera dai tratti autobiografici, visto che quando uscì Bartleby Melville si stava riprendendo dal fallimento di Moby Dick (il libro sarebbe diventato un classico dopo quasi mezzo secolo dalla sua pubblicazione), romanzo che non sembrò convincere il pubblico come i suoi precedenti Taipie Omoo.
Secondo questa interpretazione, l’avvocato dovrebbe rappresentare il lettore comune, che desidera che Melville continui a “copiare” i suoi primi lavori, mentre l’autore risponde che “preferirebbe non farlo”, smettendo infine del tutto di scrivere.
Quel che è certo è che la figura di Bartleby risulta ipnotica e mistica, per la sua “signorile nonchalance cadaverica, nello stesso tempo risoluta e controllata”, ma soprattutto per la sua capacità di schierarsi contro l’autorità, di dire di no, che sembra una cosa semplice, ma invece semplice non lo è proprio per niente. E non lo è in nessuna circostanza quotidiana, magari proprio a lavoro, pensiamoci: quante volte ci sentiamo nella posizione di poter rifiutare con serenità? È o non è una possibilità reale quella di potersi sottrarre a una richiesta (non per negligenza, ma per motivi che noi stessi riteniamo validi)?
Almeno per me, sono rarissime, se non quasi inesistenti, le situazioni in cui mi sento libera di dire no. Dalle scelte più futili e apparentemente innocue, come un’uscita o un saluto rapido in tempo di Covid, a quelle più decisive e importanti, quelle che, in fondo, mi rendono la persona che sono. Non solo: Bartleby sa dire di no con un atteggiamento pacifico e distaccato, sa imporsi con autorevolezza senza ricorre alla prepotenza (è forse questa l’età adulta?).
Insomma, Bartleby come Gandhi, come Martin Luther King, come Leymah Gbowee. In alcune letture questo personaggio è stato accostato addirittura alla figura di Cristo, alla filosofia di disobbedienza nonviolenta thoreauviana, all’immagine dell’artista alienato e sfruttato (Bartleby è pagato per compiere un lavoro meccanico e ripetitivo: copiare), ai lavoratori vittime di un sistema oppressivo, al pensiero esistenzialista sull’assoluta mancanza di significato della vita.
Imperscrutabile e irrisolto, anche alla fine del racconto, Bartleby non svela niente di sé, non dà risposte né insegnamenti. Resta fedele a se stesso, non si piega, non asseconda chi lo vuole comandare. Come qualunque persona in grado di resistere o, meglio, di esercitare una leggera ma sostanziale resistenza. Una presa di posizione, un atto di volontà, di autodeterminazione. Un modo per occupare il proprio spazio e dire, di fronte all’insensatezza di tutto il resto, “io ci sono, esisto”.
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christytemperance · 4 years
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♕ ℕ𝕖𝕨 𝕣𝕠𝕝𝕖 𝕨𝕚𝕥𝕙: Christy ♕ 𝔻𝕒𝕥𝕖: 27.06.2034, night ♕ ℙ𝕝𝕒𝕔𝕖: Lago di Roccaluce ♕ #winxrpg
Tornare a Magix dopo un breve soggiorno a Zenith era sempre difficile per uno come Damian, ma i suoi doveri comprendevano anche il dover presenziare a quella ridicola festa di fine anno — a cui, ovviamente, era andato da solo —. Con la medesima espressione di chi era appena stato ad un funerale, dunque, aveva intrattenuto qualche conversazione con i presenti, per poi decidere di fare un bagno nel lago. Sebbene la festa prevedesse anche quell'opzione, pochi erano coloro che stavano approfittando delle fresche acque, ma era più che comprensibile, visti i meravigliosi abiti che alcuni indossavano. Godendosi la meritata pace per qualche decina di minuti, il biondo principe nuotò verso la sponda destra del lago e decise di tornare sulla terra ferma proprio lì, dove teoricamente non doveva esserci nessuno. La fortuna, tuttavia, in quel periodo non era dalla sua parte e, mentre camminava ancora gocciolante, dinanzi a lui si materializzò proprio Christy.
"Sei venuta a /deturpare/ qualche altro tessuto di alta qualità?"
No, non la salutò. Era ancora troppo addolorato per il suo copriletto.
Christy Temperance A. Deepwater
Partecipare o non partecipare? Ecco ciò che continuava a chiedersi la strega mentre si aggirava nel suo dormitorio. Sapeva perfettamente presto o tari avrebbe fatto un altro incontro con colui che stava diventando sempre più innominabile, eppure sentiva di aver ancora qualcosa da dire. Un'altra persona avrebbe chiesto magari scusa per aver scatenato in lui la sua mania ossessiva-compulsiva, eppure vederlo stravolto dalla rabbia era stato divertente, almeno per un minuto. Aveva visto il momento in cui tutto era cambiato, come il suo sguardo si fosse fatto più freddo, ma allo stesso tempo più sofferente, e Christy non aveva fatto altro che desiderare di più. Socchiuse gli occhi mentre tornava nella sua stanza e cercava il costume nero che avrebbe indossato quella sera. L'anno scolastico era andato uno schifo, ma avrebbe partecipato comunque, e per una volta avrebbe fatto le cose per bene. Non avrebbe impiegato più di qualche istante prima di ritrovarsi alla festa, ma prima di poter affrontare sua sorella e tutti gli altri, aveva bisogno di un momento per sé, un momento in cui avrebbe potuto riordinare le idee e perché fare davvero il punto della situazione. Ma avrebbe dovuto saperlo, non sempre i piani andavano a buon fine. Era sola, immersa in quell'oscurità che tanto le piaceva, seduta con le gambe piegate e le mani che giocavano con quel dannato ciondolo di ametista che portava al collo prima di vedere il soggetto dei suoi continui turbamenti uscire dall'acqua. Bello, anzi bellissimo, il fisico che ricordava nei suoi sogni più proibiti ma erano gli occhi ad avere la meglio.    « Ne è bastato uno, credimi. Che ci fai qui? »
Damian Jace Pereden
Minuscole gocce d'acqua sfuggivano dal suo ciuffo biondo, ricadendo sul suo corpo e ridisegnandone il profilo. Damian Pereden era uno degli Specialisti più belli di Fonterossa e ne era consapevole. Amava se stesso più di qualsiasi altra persona e — molto probabilmente — era proprio per quello che non si era fatto scrupoli a distruggere prima Christy e poi Elara. Le aveva ferite entrambe, sebbene la prima avesse sempre ricoperto un posto di spicco nella sua vita. Guardarla negli occhi gli faceva venire brividi, persino dopo mesi e mesi che non si vedevano, persino dopo che lei aveva fatto leva sulla peggiore delle sue insicurezze. "Spero tu sia soddisfatta." Scatenare una compulsione era un gesto viscido, tanto quanto lo era baciare una ragazza durante un gioco. Era una cosa che, forse, aveva meritato, ma che — in ogni caso — lo aveva ferito. "Conto i granelli di sabbia. E tu?"
Christy Temperance A. Deepwater
Gli occhi cerulei di lei non avevano fatto altro che osservare come quel corpo guizzasse in modo fin troppo esplicito, distraendola da ciò che avrebbe voluto dire in realtà. Aveva pensato a lungo durante gli ultimi giorni, e il fatto che avesse perfino parlato con sua madre, la diceva lunga di quanto la mente della strega fosse ingarbugliata. Eppure era lì, nessuno dei due avrebbe usato i propri poteri, e nessuno dei due sarebbe scappato. O almeno così sperava. Christy si ritrovò ad umettare le labbra, un gesto che denotava quando fosse nervosa, emozione che di rado si manifestava in lei ma che ora era inevitabile.    « Sto cercando di fare la cosa giusta, almeno per una volta... » Commentò distogliendo lo sguardo per osservare come le sue dita dei piedi potessero essere così tanto interessanti in quel momento. Bugia, il solo fatto di ritrovarselo davanti, ancora una volta, annientava tutti i pensieri, ma solamente uno spiccava, il perdono. Sfruttare una delle sue debolezze era stato infantile, ma soprattutto aveva lasciato che fosse l'istinto a prendere il sopravvento.    « Mi dispiace... »
Damian Jace Pereden
Per qualche secondo gli occhi suoi scandagliarono la di lei figura. Un tempo avrebbe provato fastidio nel vedere un abito così succinto indosso a Christy, ma non ne aveva il diritto. Aveva sempre provato a soffocarla con la sua gelosia, per poi essere lui stesso a tradire la sua fiducia. Aveva compiuto un gesto meschino, che mai sarebbe riuscito a perdonarsi davvero e che lo faceva sentire in colpa. Ed era proprio quel senso di colpa che l'aveva spinto a respingerla, a rifiutare quel bacio che ella tanto avrebbe desiderato — perché lui la conosceva e l'aveva letto nei suoi occhi —. "Non preoccuparti. Comprerò un copriletto nuovo." Pronunciò quella parole con un filo di ironia, accennando un sorriso e inclinando il capo per cercare il suo sguardo. Gli stava osservando i piedi, perché? Era in imbarazzo? "Spiace anche me. Potevo — evitare di sbattere la porta?" No, non poteva evitare, perché era in pieno delirio, ma quello era solo un dettaglio. "Come va la mano? Posso vedere?"
Christy Temperance A. Deepwater
Due parole che potevano sovvertire la situazione che s'era venuta a creare, e che in quel momento fuoriuscirono dalle labbra carnose che ormai erano solite essere torturate. Gli occhi s'erano posati nuovamente su quella figura asciutta, atletica, quegli stessi muscoli che quante volte aveva graffiato e morso ma che ora sembravano lontani in qualche modo. Alzò un angolo delle labbra a quelle parole, nascondendo un debole sorriso prima di fare un semplice cenno per acconsentire ancora una volta a quel contatto che li aveva portati probabilmente ancor più a fondo.    « Quando litighiamo lo facciamo in grande stile, eh? » Replicò divertita nascondendosi da sotto le lunghe ciglia due occhi che sembravano aver trovato ancora una volta la scintilla che possedevano tanto tempo prima. Più rimaneva in sua compagnia, più sentiva il bisogno di dirgli ciò che da tempo continuava a vorticare in quella mente così enigmatica, dare sfogo ai suoi pensieri ma questa volta senza lasciar correre l'istinto. Tese la mano attendendo che si sedesse accanto a lei prima di vedere come i di lui occhi osservassero con attenzione la ferita. Non le faceva male, era decisamente peggiore ciò che custodiva nel petto, ma la verità era le piaceva essere proprio lì, proprio in quel momento.    « Fa ancora male, ma è sopportabile... Ascolta, io... Dio è decisamente difficile, okay. Respiro... E non guardarmi così, so che sei geloso, e se ho messo questo costume è perché speravo di vederti, ma non è questo il punto. Il punto è che avevi ragione, ho bisogno di perdonarti per me stessa, come ho bisogno di perdonare me stessa per tutto il male che ci siamo fatti... Io non so dove ci porterà tutto questo, ma so che tu sei e rimarrai il mio primo amore, la persona più importante della mia vita... E non ti ho mai odiato, Damian, nemmeno quando ho sporcato il copriletto, giuro. »
Damian Jace Pereden
"Io faccio tutto in grande stile." Replicò con fastidioso tono d'ovvietà, mentre il suo consueto sorriso sghembo si faceva spazio. Oltre che consapevole delle proprie qualità, Damian era una persona totalmente priva di umiltà. Era egocentrico, saccente e presuntuoso ai limiti del pedante. Era la classica persona che non tollerava i difetti altrui, persino quando questi erano simili ai propri — che, comunque, negava di avere —. Eppure, non si sapeva come e non si sapeva perché, decine e decine di ragazze cadevano ed erano cadute ai suoi piedi. Era una cosa che molti non riuscivano a spiegarsi e che — cosa ancora più strana — prescindeva dalla corona che pendeva sul suo capo. Damian era uno che piaceva. Strano, ma vero. "Se ci avessi lasciato l'ungento che ti avevo dato, andrebbe meglio. Ma perché farlo, se potevi rovinare il mio copriletto?" Era più forte di lui, glielo avrebbe rinfacciato a vita. Anche se, forse, poteva — anzi, doveva! — sforzarsi di ascoltare, magari senza replicare che lui aveva /sempre/ ragione. Così, sforzandosi di tacere una volta tanto, si accomodò accanto a lei. In silenzio, pronto ad ascoltare ciò che aveva da dire. "Vieni qui." Quando ella ebbe concluso, Damian riuscì a pronunciare solo quelle due parole. Non era capace di esprimere i proprio sentimenti, se non con dimostrazioni fisiche, talvolta inopportune ed ingiuste. Eppure, anche se sapeva che non avrebbe dovuto, non poté fare a meno di sporgersi verso la ragazza, poggiarle una mano sul fianco, attirarla a sé con l'altra e posarle un leggero bacio sulla guancia. La strinse in un abbraccio forse soffocante, ma sentito. Non era importante che stessero assieme, ma che ci fossero. L'uno per l'altra.
Christy Temperance A. Deepwater
Aveva lasciato che quel sorriso appena accennato, si trasformasse in qualcos'altro, qualcosa di più aperto, ma era questo ciò che intendeva la strega nel pensare che poteva essere se stessa in compagnia dello Specialista. Mai una volta s'era sentita inadeguata, mai una volta aveva fatto sì che il suo carattere fosse un problema, eppure tutto era cambiato e il motivo probabilmente non l'avrebbe mai realmente compreso. Parlò con voce decisa, osservando come i suoi occhi cambiassero perfino colore in quel momento a seguito di quella confessione che non sapeva nemmeno da dove le fosse uscita. Erano parole sincere, e bene o male il fatto di dover andare avanti lo doveva più a se stessa che non a tutto il resto. Spesso Christy era considerata egoista, e di certo lo era il più delle volte, ma con Damian l'accettazione di sé e di ciò che aveva fatto era qualcosa che avrebbe potuto sfinirla con il passare del tempo. Per la prima volta Christy rimase ad osservare trepidante una possibile reazione del ragazzo che, in modo così dannatamente naturale, disse le uniche due parole che la strega aveva bisogno di sentirsi dire. Ella s'avvicinò posizionando il capo nell'incavo della sua spalla, il profumo del ragazzo che invadeva le di lei narici e quella posizione che dannazione era più forte di lei. Un lungo sospiro si elevò dalle proprie labbra prima di sentire il cuore battere con ritrovato vigore. Si sentiva a casa tra le sue braccia, al sicuro e protetta perfino da se stessa. Si accoccolò tra le di lui braccia, in quella forza che lei stessa aveva amato più di ogni altra cosa.    « Era l'unico posto dove volevo essere. » Mormorò contro quella pelle calda del collo su cui erano appoggiate le di lei labbra. Un bacio leggero su quella carne viva prima di accoccolarsi e godersi quel momento che avrebbe voluto far durare un'eternità. Si ritrovò così a strizzare gli occhi per un momento, allontanando qualsiasi pensiero che avrebbe potuto distruggere quel loro momento. Christy doveva accettare se stessa, perdonarsi per poter andare avanti, e solo allora avrebbe potuto perdonare anche Damian. Erano concatenati anche in quella sua menta eccelsa, due metà dello stesso intero. Sospirò sonoramente la strega prima di staccarsi a malincuore da quell'abbraccio e dover affrontare l'interno mondo. Lentamente si staccò si mise in ginocchio per alzarsi e solo allora si tese nella direzione di Damian per stampargli un bacio a fior di labbra.    « Grazie... Per avermi ascoltato e aver capito. Ora andiamo alla festa, ti va di ballare con me?  »  
Damian Jace Pereden
Socchiuse gli occhi, poggiando il capo nei crini color miele della ragazza. Più volte si era perso ad annusare il suo profumo, ad assaporare quelle labbra rosate e ad accarezza la di lei pelle candida. Quando di lei conosceva solo il nome e la fama — tanti anni addietro, in vero —, di Christy aveva pensato che fosse eccessivamente fredda, saccente e dall'animo intriso di cattiveria; ma non era così. Nel tempo trascorso insieme aveva imparato che ella non era altro che una fanciulla spaventata, una specie di principessa di ghiaccio che doveva essere protetta dai mali del mondo. Non gli aveva mai parlato di ciò che aveva passato in famiglia e degli eventi che l'avevano portata a divenire il terrore delle studentesse di Torrenuvola e Damian non aveva mai insistito. Dopotutto, chiunque aveva diritto ad avere dei segreti, no? Mentre un sincero sorriso increspava le sue labbra, dunque, il principe di Zenith reclinò la testa all'indietro, lasciando alla ragazza lo spazio necessario per baciargli il collo. Non era certo che approfittare dell'amore che ella gli aveva dichiarato fosse giusto, ma non voleva nemmeno rischiare di innescare un'altra discussione. Voleva provare a godersi il momento e a soffocare — almeno una serata — la razionalità che lo rendeva la persona complessa che era. "Ovviamente non mi va, ma lo farò lo stesso." Ricambiò il bacio a fior di labbra, prima di commentare in quel modo ed alzarsi, facendo forza sulle gambe. Damian non era esattamente un amante delle feste, ma sapeva che Christy ci teneva a questo genere di cose, quindi avrebbe fatto uno sforzo — una volta tanto! —. "Comunque, non capisco cosa ci trovi in queste cose. Dovrò passare la serata a guardare storto metà dei miei compagni di scuola." Disse, ancora, poggiando una mano dietro la di lei schiena e cominciando a camminare. Sarebbe stata una serata lunghissima. Ne era sicuro.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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ioticielo9109 · 4 years
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Se potessi tornare indietro, io sceglierei te.
Mi capita di ripensare al giorno in cui ti ho conosciuto, non ricordo quale fosse, ricordo solo che era un settembre che stava durando troppo.
Ricordo che i miei pensieri andavano verso un’altra persona, a cui tenevo il posto sul tram, per questo ci siamo incontrati, per caso, alla fermata del tram a Rimini.
Non sarei nemmeno dovuta essere là, se solo non mi fossi interessata alla persona sbagliata ora io e te non ci conosceremmo, o forse si chissà.
Ricordo che hai preso il cellulare alla Giulia per prendere il mio numero, credo che tu mi conoscessi già.
Credo che ti conoscevo già anchio, ma non lo sapevo.
Ricordo che è stata la cosa più arrogante, maleducata e di cattivo gusto, ma è stata anche la cosa più bella e coraggiosa, che tu avessi preso il numero da lei, per scrivere a me.
Da li è iniziato tutto.
Io mi ricordo tutto.
Se solo non fossi stata quella Nastia, quella dal cuore di pietra che ha giocato con te, ma ti volevo bene in un modo che non saprei spiegare a parole.
Sei entrato nella mia vita spingendo e sgomitando e hai preso un pezzo del mio cuore.
Nessuno sa, nemmeno tu, quanto mi facessi bene, quante volte mi nascondevo con te, in te, in quel periodo.
Nessuno sa, nemmeno tu lo potresti immaginare, cosa provavo per te, perché si, provavo dei sentimenti per te, solo non te l’ho mai detto, che cretina, li ho nascosti meglio che potevo.
Cosi bene che ci hai creduto anche tu, e hai provato a dimenticarmi e a lasciarmi andare.
E ci ho provato anchio.
Ci sono riuscita.
Con Luca andava finalmente tutto bene.
Però il pensiero di te non mi ha mai abbandonata, ricordo una sera ero al bikini con la Giulia, era luglio e ti avevo visto vicino all’ingresso del ristorantino, o quello che è.
Ricordo ancora, impresso nella mente, che stavi ridendo con un gruppo di amici.
Mi è presa una voglia incomprensibile di andare li da te, di salutarti, di ridere con te.
Ma non l’ho fatto, ho represso di nuovo quello che stavo provando.
Ma quanto sono cretina a volte?
Ricordo che te lo raccontai tempo dopo e tu dicesti che sarei dovuta venire da te, che ti avrebbe fatto fin troppo piacere rivedermi.
Poi passò del tempo, era fine novembre ed ero in stage a un hotel di riccione, mi annoiavo e ti ho scritto, tu quasi mi hai ignorato, comprensibile.
Poi ci siamo visti da te, cosi a caso, uno stupido pomeriggio di dicembre, senza significato, mi sa che avevamo pure discusso, c’era tensione e me ne sono andata a casa.
Ero quasi davanti ai carabinieri e mi è successa una cosa strana, una sensazione nuova fuori dal comune, che non avevo mai provato per te.
I miei piedi non volevano andare avanti, non volevo tornare a casa, volevo correre indietro da te.
Quella stessa sera ho lasciato Luca.
Passarono giorni, in cui non ci siamo sentiti. Nemmeno visti.
Secondo me eri arrabbiato con me, prendi a cuore tante cose e ti offendi per altrettante.
Poi, un giorno, ero a scuola, era la ricreazione, e ho un ricordo specifico in mente.
Ero al bagno di sopra, quello in cui c’era lo specchio e mi ci sono avvicinata per sistemarmi i capelli e li, proprio in quel momento, ho capito perché lo stessi facendo, perché mi fregava come mi stessero i capelli? E poi la rivelazione, arrivata come un pugno in piena faccia: lo stavo facendo per te.
M’importava se ero carina, per te!
Il mio cuore ha iniziato a galoppare e mi è venuta la nausea, si perché quando provo le cosidette farfalle nello stomaco mi viene da vomitare, non so gestire le mie emozioni.
Mi sono detta che da li in poi non avrei più represso i miei sentimenti, non avrei più fatto finta di niente.
Avrei seguito sempre e solo il mio cuore.
E così ho fatto, ed è stata la scelta migliore e peggiore della mia vita.
Ho scelto te.
E continuo a farlo.
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heresiae · 7 years
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Si sta avvicinando la fine del mese. Se per molti è tempo di rientro dalle vacanze, di cartellini da timbrare, uffici da rivedere, negozi da riaprire, c'è chi si augura di continuare a farlo. Perché non ha fatto altro durante l'estate. per fortuna. Mi piace davvero il mio lavoro. i primi giorni ero convinto fosse una ferrea direttiva aziendale: chi fosse stato sorpreso a incrociare un collega o una persona qualsiasi all'interno dell'azienda, e non avesse salutato sorridendo, sarebbe stato ricoperto di pece e piume. Poi ho visto essere una cosa sentita e normale. Facciamo un lavoro strano, ripetitivo e con un livello di specializzazione di poco superiore allo sbucciatore di banane o ad un tecnico riparatore di Betamax, possiamo abbrutirci o fregarcene e sentirci tutti amici. La seconda che hai detto. È bello arrivare e sentirsi salutare, chiedere come stai e correre il rischio di rispondere, contraddicendo chi canta non sia previsto. Se non ti hanno salutato, tornano e lo fanno. Lo fanno chiamandoti per nome. Con la voce di chi vorrebbe anche bere una cosa insieme. Ho 47 anni. In questa ditta, persone della mia età stanno in magazzino o calzano le Hogan, non stanno ai tavoli della bassa manovalanza. Sono un'eccezione. Grazie a Gundam, ma è una storia ormai vecchia. Questa volta non devo nemmeno essere per forza il giullare, il posto è meravigliosamente occupato da un ragazzo a metà tra Grignani sobrio e Antonacci ubriaco, io posso intervenire coi miei tempi e portare a casa il risultato. Con calma. Come detto prima. L'età media è intorno ai trent'anni. Ricordo i tempi in cui i trentenni tornavano dopo aver girato l'Europa e l'America ed erano stanchi, avevano voglia quindi di fermarsi, posando giacca e cappello. Quando ero piccolo, i trentenni erano la forza trainante del paese, le energie giovani, spesso sfruttate dai vecchi babbioni, ma portatori di idee nuove. Mi guardo intorno ora, in questa giornata strana di fine mese. Antonio, che dice di essere diventato uomo dopo aver visto Malena, pizzetto pigro e capelli corti tagliati da solo, mangia da un portapranzo che ha visto tre guerre mondiali, la prima combattuta con ossa e bastoni. È al secondo rinnovo di un mese, ha lavorato in questa ditta anche otto mesi fa, in questo intervallo ha spaccato legna con un cugino, passato per l'inevitabile call center che non l'ha pagato e provato a vedere Folletto. Vive con i genitori ed è fidanzato da quattro anni con una supplente di cinque anni più grande. "Se ogni tanto me fa da mamma, ce po' stà, no?" Chiara, capelli corti e ciuffo biondastro. Ha un sorriso capace di abbattere missili nordcoreani al volo ma, per qualche motivo comprensibile solo a lei, quando lo fa esplodere lo nasconde con la mano. È magra e mangia spesso frutta, che offre a tutti anche se poca. Anche lei con il contratto in scadenza tra pochi giorni, anche lei ha lavorato per questa ditta da settembre a dicembre dello scorso anno. A gennaio era stata chiamata da Parma per un contratto di sei mesi, arrivata lì, il contratto è stato trasformato in un mese solo. "Ormai ero lì, che dovevo fare?" Armi, bagagli, speranze di aver trovato finalmente almeno sei mesi al sole. Sei mesi. Una felicità insperata. Per sei mesi. Lo raccontava senza emozione apparente, non era nemmeno incazzata. Succede. Succederà. Roberta, i primi giorni mi chiedevo come mai una ragazza così carina si truccasse tanto. Poi l'ho vista arrivare ogni giorno con dei colori diversi, sfumature in più punti, il viso si sfina, mette in risalto gli occhi o li delinea, le guance sembrano diminuire di volume per poi riprendere la pienezza. Ha come salvaschermo del telefonino una sua foto col ragazzo mentre si baciano, si sono conosciuti in questa azienda, tra un turno e l'altro. La chiamano tutti e a tutti risponde. Ha fatto l'estetista, ovviamente, manicure, tolettatrice, ha preso gli immancabili vaffanculo chiedendo al telefono chi fosse il titolare delle utenze, il padre è carburatorista. Purtroppo, di quelli che non hanno saputo prevedere l'avanzata dell'elettronica. Guido è gay. Probabilmente ha saltato qualche lezione di "Coming out per tutti" visto che non fa altro che ripeterlo. Il primo giorno di lavoro si è presentato a un collega. "Ciao, io sono Guido e sono gay" L'altro, senza fare una piega. "Ciao, io mi chiamo Luigi e sono del Milan" "Non mi pare siano due cose posizionabili allo stesso livello" "Hai mai provato a essere milanista a Fiano Romano? Fidati, non hai idea di cosa significhi essere ghettizzato". Lavoriamo con lui da quasi un mese e nessuno indossa ancora boa di struzzo, creato la playlist "Barbra meet Raffaella" nell'Ipod o contagiato con delle onde gay la propria famiglia, trasformandola. Sospetto sia così anche nel resto del mondo, nonostante quanto leggo ogni giorno su facebook. È un novellino, come me, anche lui al primo turno di lavoro qui. Ha fatto l'archivista, lavorato in nero per un geometra, in nero per un magazzino e in nerissimo per un giornale web. È uno dei pochi laureati. Due volte. "Una è in sociologia però, facciamo che non conta" Giuseppe è un vitello con quattro punti di barba in faccia, incapace di parlare con la voce sotto al livello di una sirena antiaerea, sfoggia una calata paesana meravigliosa. Vive a casa della ragazza, stanno insieme da tre anni e aiutano i nonni (casa è la loro) con i campi coltivati. Per due settimane si è trasformato in una assurda versione di un Bubba viterbese, solo con i pomodori al posto dei gamberi. "Ahò, ne sò venuti fòra n'silos, che faccio, l'ho da buttà?" Gratinati, a pezzetti nel sugo, fatti a pappa, con le patate e tagliati in insalata. Tre giorni fa si è presentato con due teglie di pomodori col riso e costretto tutti a finirli. "Fateme riportà a casa le teglie piene e la mi' regazza prima me mena a me e poi ve mena a voi perché nun ve so' piaciuti, e visto che a me nun me piace da famme menà, meno io a voi così poi lei nun mena a me che... cazzo te ridi che me sò 'mpicciato? Oh, e si nun me volevo impiccià studiavo da spicciatore" Stamattina parlavamo di cinema, raccontavo di come Giorgiana avesse confuso Il Signore Degli Anelli con L'Impero Colpisce Ancora. Lui si batte una manona sulla fronte e sentenzia: "Zitto, l'altro giorno nun me veniva er nome de la nonna de Pierino in Pierino Torna a Scuola, cazzo, ce credi che st'ignoranti nun ce ne stava uno che lo sapeva?" Ivan ha quattro dita nella mano sinistra. Segheria. Michela, allergica alla polvere, ha lavorato tre mesi al chiuso di un archivio comunale. Paolo è calabrese. Tre mesi fa ha lavorato in Toscana, prima ancora è stato in Abruzzo a spostare pietre rinunciando a un contratto di meravigliosi quattro mesi a 700 euro al mese. "Forse erano pure netti, ma chissenefrega". In caso di mancato rinnovo, forse in Veneto. Silvia è la bellezza delle lame al mattino. Gli occhi sfidano pericolosi ma le mani tradiscono una dolcezza che forse non sa nemmeno di avere. Parla muovendole in voli incomprensibili, disegna con le dita codici di geometrie esistenziali. Lei, come tutti, tocca le persone. Nessuno ha paura di avvicinarsi tanto da arrivare a toccare. In questo piccolo mondo, finalmente torniamo padroni di tutti i nostri sensi. Ho 47 anni, dicevo. Due figlie, due mutui, due gatte. Mi trovo a fare da padre scemo a una trentina di trentenni che sembrano usciti da una versione off italiana di Saranno Famosi. Li sento non azzardare a fare un discorso che vada oltre un limite temporale di trenta giorni, nessuno ha mai parlato di ferie, di montagna o di mare. Solo di speranze. E tutte giravano intorno al lavoro. Farei. Non farò. Madri e padri che li aspettano all'uscita, quando hai una sola macchina in casa devi per forza organizzarti. Si preparano il pranzo da soli stando attenti a cosa mangiano. Sentire non una, nemmeno due o tre ma quattro volte da quattro persone diverse, dire al telefono "In qualche modo ne veniamo fuori, dai". Quanta energia state mandando sprecata. Sapete quale sarà stata la causa principale, in caso di mancato rinnovo del contratto? Essere stati tanto bravi da aver finito in un mese, il lavoro per cui ne erano stati preventivati di più. E lo sapevano TUTTI. Avrebbero potuto rallentare. Lavorare con meno intensità. Cosa avrebbero perso? Cosa avrebbero rischiato? Nulla. Potevano cullarsi o adagiarsi, lavorare a metà potenza o fermarsi nel momento in cui si fossero resi conto di stare quasi per finire. Nessuno lo ha fatto. "Se lavori, lo fai per bene". Avete cancellato una generazione per avere una statistica. Doveva essere una ribellione, invece avete voluto solo esibirla. Choosy sto cazzo. Possiate voi vivere per sempre.
(via Servitevi da Soli)
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msilvestro · 3 years
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Ode a L’Attacco dei Giganti
Ho finito questa bellissima opera e ho deciso di scrivere un paio di righe sul perché è speciale e cosa è stata per me.
Attenzione: sono presenti piccoli riferimenti alla storia che potrebbero essere visti come spoiler minori, ho fatto comunque attenzione che fossero sempre abbastanza vaghi da essere capibili solo da chi li conosce già (meglio evitare però l'ultimo capitolo, “Il finale”, per ovvie ragioni).
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Se ti piace lo sfondo, lo puoi trovare qui
Perché è così speciale
Niente ecchi
Per quanto ami manga e anime, mi hanno sempre dato molto fastidio alcune abitudini dei disegnatori giapponesi. Donne con i seni enormi (se non sproporzionati), donne mezze nude senza vero motivo, la palpata al seno più o meno inavvertita, protagonisti eccessivamente pervertiti. Probabilmente tutto questo può rientrare grossomodo nella definizione di ecchi ed è completamente assente ne L'Attacco dei Giganti. Ci sono un paio di leggere battute a sfondo sessuale (mi viene in mente Ymir al Castello di Utgard) e alcune storie d'amore piuttosto determinanti (mentre le altre finiscono in modo tragico), ma in generale l'amore e il sesso sono molto marginali. Il che è un bene, perché lascia ampio spazio alla bellissima storia e ai complessi personaggi che la compongono.
Colpi di scena a non finire
Molte storie, seppur molto belle, sono molto lente a partire. Questo non è di per sé un male, in quanto spesso è necessario per creare aspettativa in attesa di un momento cruciale, però rischiano di rendere l'opera meno appetibile per i più impazienti. Eppure il maestro Isayama riesce a mantenere la tensione della storia sempre estremamente alta, regalando colpi di scena notevoli quasi ad ogni capitolo e sin da subito. L'Attacco dei Giganti è una serie che prende subito e le cui rivelazioni si fanno man mano sempre più sorprendenti, nonostante la complessità del mondo e la densità di molti dialoghi.
Attenzione ai dettagli
Magistrale è anche l'attenzione ai dettagli: l'opera è così densa di significati, prefigurazioni e simbolismi che richiede più di una lettura per essere apprezzata appieno. Mi sono trovato molte volte a sfogliare vecchi capitoli per andare a caccia di dettagli che mi erano sfuggiti o parallelismi. Ogni singola scena ha un significato, non c'è spazio per i soliti filler e dà una soddisfazione immensa notare queste piccole cose e capirne, molti capitoli dopo, il loro vero significato.
Direzione precisa
Troppe storie sono eccessivamente lunghe e senza una direzione ben precisa, il che porta inevitabilmente a momenti noiosi o buchi nella trama. La storia de L'Attacco dei Giganti era già ben chiara, almeno per i punti salienti, nella mente dell'autore. Seppur il maestro Isayama abbia ammesso di aver cambiato idea su alcune parti della trama in seguito al successo dell'opera, è innegabile che una direzione ben precisa ci sia stata sin da subito. Tant'è che già il primo capitolo contiene un importantissimo dettaglio che avrà molto più senso solo alla fine, nel capitolo 138.
Mille sfaccettature
L'inizio della serie lascia intuire che l'intera opera sarà uno shōnen, la cui principale attrattiva è la lotta contro i bizzari e terribili giganti. E probabilmente sarebbe stata estremamente interessante già così, il Dispositivo per la Manovra Tridimensionale è spettacolare quanto lo è all'attenzione ai dettagli di questo mondo alternativo. Eppure, andando avanti con la storia tutto cambia. Prima la rivolta, poi la cantina, infine la rivelazione dell'origina del potere dei giganti, sono tutti punti focali della storia che sembrano cambiare completamente persino il genere stesso dell'opera, pur mantenendone intatta l'essenza. Per chi ha letto fino alla fine: provate a chiedervi quanto è veramente adatta la definizione di “dark-fantasy post-apocalittico”.
Considerazioni sulla serie
Io e la serie
Ho scoperto la serie quasi per caso. Stavo cucendo le ali per un cosplay di Cosmo dei Fantagenitori e, annoiato dalla ripetitività di questa azione, decisi di aprire Netflix e guardare qualcosa. Ecco che in prima pagina mi viene consigliato L'Attacco dei Giganti, la tanto famosa serie di cui avevo sentito parlare. Decisi quindi di guardarla, perché mi sembrava abbastanza leggera e stupida da essere seguita mentre facevo altro – cosa che non faccio mai perché la mia abilità nel multitasking è molto limitata. Quanto mi sbagliavo! Poche puntate e rimasi subito meravigliato dall'interessante mondo e dalla coinvolgente storia. Quindi decisi di riguardarmelo dall'inizio con attenzione, insieme alla mia ragazza dell'epoca che avevo contagiato con il mio entusiasmo. In quel momento era solo disponibile la prima stagione, ma di lì a poco sarebbe uscita la seconda. Che guardai di episodio in episodio una volta alla settimana, con un'anticipazione pazzesca che rendeva il giorno dell'uscita speciale. E che emozioni, che colpi di scena e quanti misteri ancora irrisolti! Ragione per cui mi fiondai subito dopo nel manga, volendo sapere ad ogni costo il segreto della cantina.
Rilessi il manga dall'inizio, per potermi godere appieno l'opera originale, anche se l'adattamento anime gli rende onore. Non credo di essermi mai emozionato così tanto, né credo riuscirò mai ad esserlo di nuovo, al momento topico della rivelazione del segreto della cantina. Le implicazioni erano davvero gigantesche e il manga stesso prendeva una piega del tutto diversa, tanto da sembrare un'altra opera, seppur sempre bellissima. Una costante della serie è che non smette mai di stupire. Continuavo poi a leggere le uscite dei capitoli di mese in mese, ma l'attesa così lunga mi faceva apprezzare di meno la storia (perdevo il filo, il che è la fine in un'opera con una storia tanto complessa) e una serie di cambiamenti nella mia vita me lo fecero abbandonare – preferendo aspettare che fosse completato.
E così me ne dimenticai quasi del tutto, finché a metà aprile, nella sala d'attesa di un ospedale dopo una donazione di sangue, un signore di mezza età mi chiese se il simbolo sul mio borsellino era quello delle Ali della Libertà. E sì, quel borsellino a cui sono tanto affezionato è un cimelio del periodo in cui ero presissimo da L'Attacco dei Giganti. Questa breve discussione mi fece venire voglia di riprendere la serie e fui felicemente stupito dallo scoprire che l'ultimo capitolo era stato rilasciato giusto a inizio mese. Riguardai quindi tutto l'anime, leggendo parallelamente il manga, e che avventura! Rileggere l'opera mi ha fatto scoprire tanti dettagli nascosti. Come effetto collaterale, mi ha riacceso la voglia di imparare la strana quanto intrigante lingua giapponese e finalmente mi sono messo a studiarla in modo serio. L'obiettivo sarà poter rileggere l'intera opera in lingua originale, cogliendone possibilmente i più reconditi dettagli anche nei dialoghi.
Come godersela al meglio
Sono rimasto piuttosto deluso, durante la rilettura, dalla scarsa qualità della traduzione italiana del manga. Paragonandola all'anime, in cui invece è curata, mi sono reso conto di un paio di errori e numerose inesattezze. Spesso il dialogo italiano è confusionario o persino fuorviante, cosa terribile per una storia così ricca di discussioni importanti. Alla fine, mi sono trovato a leggere la traduzione ufficiale inglese, che invece è molto comprensibile e ben fatta.
L'anime invece è una piccola gemma. È vero che sono state tagliate alcune scene che aiuterebbero a capire meglio alcuni personaggi, ma in generale il lavoro svolto è stato fantastico. Le animazioni e la musica riescono a dare ancora più vita e forza all'opera; in particolare mi sono innamorato della colonna sonora e di tutte le sigle. Anche nel montaggio sono state fatte alcune scelte molto azzeccate, come la storia di Ymir inserita prima, la scena finale della seconda stagione e l'anticipazione a metà della terza. Sono molto emozionato dall'idea di vedere l'ultimo arco narrativo animato, anche se ho il timore che debbano correre troppo per riuscire a concludere la storia in 12-16 episodi.
Il finale
Il finale non sarà perfetto, ma a me è piaciuto molto e chiude magistralmente (e con quel giusto tocco di ambiguità) una storia piena di emozioni e personaggi indimenticabili. Le lacrime mi solcavano le guance mentre leggevo gli ultimi due capitoli. In particolare, gli Ackermann hanno avuto una chiusura poetica del loro percorso di cui sono estremamente soddisfatto. Armin rimane il mio personaggio preferito, con una crescita davvero notevole dai primi capitoli. La cosa che più apprezzo è che tutti i personaggi sono moralmente grigi e sono impossibili da odiare. Alla fine, tutti hanno commesso peccati e devono pagarne le conseguenze, ma le motivazioni sono sempre molto complesse e umane. Le critiche al finale secondo me derivano perlopiù da una lettura approssimata e una interpretazione troppo affrettata per un'opera complessa come L'Attacco dei Giganti.
L'Attacco dei Giganti racconta della stupidità della guerra e del conflitto, di come in fondo siamo tutti umani e di un mondo crudele in cui bisogna imparare ad apprezzare le piccole gioie della vita, che sono in sé una ragione per continuare a vivere. Con tutto il terrore che pervade l'opera, il finale dolceamaro porta con sé una nota di speranza, seppur fragile. Sono felice di aver intrapreso questo viaggio insieme ad Eren, Mikasa, Armin e tutti gli altri, che purtroppo è terminato ma le cui memorie continueranno a scaldare il mio cuore (come spera lo stesso maestro nel suo messaggio alla fine dell'opera).
Shinzō wo sasageyo!
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empressmoody · 4 years
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Short Story della mia campagna di D&D – Fuga dalla realtà
Ed eccomi di nuovo qui, seduta su questa panchina del giardino, a fissarmi i piedi. È quello che faccio ogni volta che mi arrabbio, che mi sento triste, o semplicemente  fuori luogo, e qui mi capita fin troppo spesso. Questo angolo del giardino del palazzo è il mio rifugio, l'unico posto che in qualche modo mi trasmette quel calore tipico di casa. Alzo la testa ed inizio a guardare il paesaggio intorno a me, cercando di trovare negli alberi, o nel modo in cui la luce si riflette sullo stagno, qualche similitudine con la mia casa a Marenia. Il pensiero della mia terra mi getta ancora più di nello sconforto. Sarei tanto voluta rimanere lì, nel mio paese, ad osservare il mare dalla mia camera del castello, a continuare a vivere con le mie sorelle e i miei fratelli, poter scherzare con loro, ridere, o anche solo litigare, da quando sono qui ogni ricordo di quel tempo sembra così felice e luminoso. So già cosa direbbe mia madre se mi potesse vedermi in questo momento, esprimerebbe tutto il suo disappunto, preoccupandosi di ricordarmi che il mio matrimonio è il più importante di tutti, di non comportarmi da ingrata, e di smettere di essere la delusione quale sono, così come dice puntualmente in ogni sua lettera.
Scuoto il capo cercando di non pensarci, in questo momento mi sento come se dovessi piangere, eppure le lacrime non accennano ad uscire. Sto provando ogni sorta di emozione, ma allo stesso tempo mi sento così vuota, domandandomi come una contraddizione simile sia possibile, chissà se Lúthien si è mai sentita così. Mi scappa un piccolo sorriso sfiorando la copertina del libro, qui poggiato sulla panchina accanto a me. Vorrei tanto provare un amore intenso come quello di Beren e Lúthien, pronti a sfidare il mondo in nome dell'amore che provano l'uno per l'altra. Purtroppo però, non è questo il mio destino. Io sono incatenata qui, in questa vita di doveri, senza alcun tipo di amore. Sola con i miei libri, con il mio angolo di giardino e il mio piccolo cottage, che mi osserva lì, oltre il piccolo specchio d'acqua. Prima che lo ristrutturassi, era quasi completamente abbandonato, adibito a capanno degli attrezzi, ed è l'unica cosa che quello zotico di mio marito mi ha concesso, anche se probabilmente  lo ha fatto per tenermi lontana dal palazzo, mentre porta in camera sua ogni ragazza che mette piede che varca la soglia di ingresso.
I miei pensieri corrono veloci all'ora precedente. Avevamo avuto un altro dei nostri soliti litigi, anche oggi nonostante fosse il giorno dell'apertura, e trovo inammissibile di come non si preoccupi di macchiare il mio onore, lanciandosi in atteggiamenti intimi e adulteri in pubblico. Mossa da amor proprio quindi, ho espresso il mio disdegno per quello spettacolo, ma non l'avrei mai fatto se avessi anche solo immaginato che si sarebbe avventato su di me. «Allora vedi di soddisfarmi tu.» Quelle parole mi risuonano in testa, come un tuono improvviso, facendomi rabbrividire. Mi sembra quasi di avere di nuovo su di me le sue mani, che mi stringono e mi toccano in modo così rude e violento, il solo pensiero mi fa venire voglia di vomitare. L'unica cosa che mi è rimasta è il mio debole orgoglio, e penso che non manca molto al momento in cui mi porterà via anche questo.
D'un tratto mi sembra di non essere più sola, d'istinto mi volto di scatto e mi scappa un gridolino nel rendermi conto che c'è veramente qualcuno ad osservarmi tra gli alberi, non è solo la mia immaginazione.
«Mi dispiace di averla spaventata in questo modo vostra maestà.»
Ho ancora il cuore che batte a mille. Da quanto tempo sarà rimasto lì ad osservarmi? Come ha fatto ad arrivare? Avevo dato ordine a tutta la servitù di non avvicinarsi, come sempre loro rimangono a distanza non facendo avvicinare nessuno. Come ha fatto quindi lui a passare inosservato? «Ero sul punto di annunciarmi» riprende dopo un breve silenzio, probabilmente dopo aver atteso un qualche tipo di risposta da parte mia, «ma sono rimasto incantato ad osservarla e le mie labbra non sono riuscite a pronunciare neanche una singola parola, mi dispiace» e termina la sua frase con un sorriso, così dispiaciuto e sincero, di un fascino disarmante anche lì nella penombra degli alberi.
Lord Alejandro de Perilla, era arrivato a corte da poco più di una settimana, e sembrava che ogni nobildonna volesse smaniosamente un po' della sua attenzione, e non era difficile comprendere il perchè. Un uomo davvero affascinante, alto, capelli scuri e degli occhi neri con dall'immenso potere magnetico, nel momento stesso in cui incroci il suo sguardo, un enorme forza ti spinge a scrutarli più intensamente, cercando di arrivare ad una fine, a qualche verità, eppure è una ricerca vana, perchè sono infiniti come il cielo notturno, e finisci solo per esserne rapita. Come se tutto questo non bastasse era un uomo davvero educato e gentile, sembrava avere sempre una parola buona per tutti, una persona non toccata dal male di questo mondo, con un sorriso così caloroso da spazzare via ogni tristezza. Sembrava il principe di uno dei miei romanzi d'amore. Tuttavia, non avevo mai realmente parlato con quell'uomo, non da sola per lo meno. Scambiai con lui solo qualche parola durante una cena di corte, non riuscendo a comprendere esattamente da quale luogo provenisse.
Mi resi conto solo dopo un lungo istante di silenzio che stava ancora aspettando una risposta da parte mia, e che un sorriso si era impadronito del mio volto.
«Lord de Perilla, perdoni se mi sono spaventata in questo modo, ma credevo di essere sola, visto che avevo dato ordine alla servitù di non far avvicinare nessuno» dico cercando di riprendere il controllo di me stessa e ponendo enfasi sull'ultima parte della frase, sperando di avere una risposta alla mia domanda inespressa.
«Sono sinceramente dispiaciuto, e non le nego di essere anche leggermente imbarazzato sua maestà» risponde con l'aria di chi ha commesso una gaffe. «Volevo solamente fare due passi lontano dalla corte, sa, domani mi aspetta un lungo viaggio e volevo essere il più rilassato possibile.»
Viaggio. Mi ero dimenticata che si sarebbe fermato per così poco, e che l'indomani sarebbe ripartito verso le terre libere di Riventad.
«Più che comprensibile, io stessa mi ritrovo qui per scappare da palazzo» rispondo quasi senza accorgermene, tornando a guardare lo stagno davanti a me «è l'unico posto in cui riesca a sentirmi rilassata e...»
«Libera» aggiunge immediatamente lui.
Mi volto sorpresa per guardarlo, e scopro che si è avvicinato a me in quel secondo che non lo stavo osservando. Ora il suo viso è illuminato dal sole, e mi sembra quasi che il mio cuore abbia avuto un sussulto per un attimo. È davvero di un fascino senza paragoni.
«Perdoni la sfrontatezza vostra maestà, ma posso avere l'onore di sedermi accanto a lei?» dice indicando la panchina sulla quale sono seduta.
«Prego, si accomodi pure.» Senza pensarci troppo mi sposto più a sinistra per fargli spazio. Per un attimo mi sembra sentire la voce di mia madre dirmi che questo non è il comportamento più appropriato, eppure penso che almeno un attimo di compagnia posso meritarlo in tutta questa tristezza.  
«Deve perdonarmi, so che il mio comportamento risulta eccentrico qui a Chaîne des Nuage, ma il mio cuore soffre a vedere una donna afflitta da così tanta tristezza.» mentre parla osserva il cottage davanti a lui, non mi guarda neanche per un attimo, e questo mi dà la possibilità di scrutare liberamente il suo viso mentre parla, senza cader in alcun tipo di imbarazzo.
«Era così lampante che stavo soffrendo?» trovo il coraggio di chiedergli, e la mia voce trema un po'.
«Sì, vostra maestà, lo si notava.» risponde con un tono di voce carico di dolcezza, sempre guardando davanti a sé. Ora mi rendo conto del perchè tutti sembrano volere un po' della sua attenzione. Più dei suoi occhi, ciò che è affascinante è la sua sincerità nei modi di fare. La sue espressioni, i suoi gesti, il tono della voce, sono di una sincerità quasi irreale, e ti sembra di poter leggere le sue emozioni e i suoi pensieri mentre parla. Sembrano racchiudere una personalità davvero forte, che mi trovo ad invidiare un po'.
«Sono desolata, una regina non dovrebbe mostrare debolezze» ribatto frettolosa.
«Vostra maestà» dice girandosi verso di me di scatto. I suoi occhi profondi guardano intensamente i miei, a pochi centimetri di distanza, e mi rendo conto di non avere più scampo. «Non dica queste cose. Non è lei a doversi sentire in difetto, ma chiunque abbia osato arrecarle tanto dolore» le sue parole mi sorprendono, sembrano quasi nascondere della rabbia. «Penso che una delle cose peggiori che si possano fare in questo mondo sia ferire una donna nel suo animo, ancor peggio se ad una dama come lei, che non ha nulla da invidiare alla Dea Sûne, la dea dell'amore.»
Mi sembra di essere in un sogno, o qualcosa di simile, non credo di avere pienamente possesso del mio corpo, o dei miei pensieri in questo momento, sento le guance che vanno a fuoco, come se il sole le stesse bruciando.
Senza attendere alcun tipo di risposta, prende le mie mani e se le avvicina al petto. Penso che in tale situazione dovrei gridare ed allontanarmi, ma né il mio corpo e né il mio cuore ha alcuna intenzione di obbedire.
«Per lei mia signora» riprende a parlare con una strana luce negli occhi, «per lei, io sarei pronto a sfidare chiunque, sarei disposto anche ad andare al di là delle Montagne Millenarie recuperare i tesori che esso nasconde, se questo la rendesse felice.»
Sono una stupida, lo so, devo andare via da qui, mi devo allontanare, sono la regina, lo devo allontanare. Tuttavia, un briciolo di felicità non è concessa anche a me ogni tanto?
Con questi pensieri che mi affollano la mente continuo a guardarlo paralizzata, non sapendo a quale voce dare ascolto, e le voci iniziano a farsi sempre più assordanti nel momento in cui mi rendo conto che il suo viso si sta avvicinando sempre di più al mio. «Non... non dovremmo...» è tutto quello che riesco a dire, con un tono di voce così basso che non sono sicura di esser riuscita ad udire io stessa. Mi sfiora il viso con l'indice della mano destra, in modo davvero dolce e delicato, mentre i suoi occhi continuano a guardare i miei, e mi sembra di non poter guardare altrove «Domani all'alba sarò già lontano da qui, e le prometto di non tornare più» con l'indice sfiora le mie labbra, e un fremito percorre lungo la mia schiena, mentre lui riprende a parlare «Così che questo rimanga solo un sogno.»
Qualsiasi pensiero stesse ancora affollando la mia mente, viene del tutto spazzato via nel momento in cui le sue labbra sfiorano le mie. Mentre con due dita tiene sollevato delicatamente il mio mento, sento la sua bocca premere dolcemente sulla mia, come se stessero aspettando il consenso. Sì Cassandra, anche tu meriti un po' di felicità. Con questo pensiero nella mente, schiudo le labbra permettendo alla sua lingua di entrare in contatto con la mia. Sento il mio cuore che batte sempre più forte e sempre più velocemente, la mia mente si annebbia e allo stesso tempo si risveglia, ed inizio a dubitar di aver mai baciato prima d'ora.
Mi aggrappo alle sue parole avidamente, finendo per convincermene. Non c'è niente di male, mi merito un po' di felicità, lui domani riparte e non lo vedrò mai più. Continuo a ripeterle nella mia mente per giustificare il perchè l'avessi continuato a baciare, perchè gli stavo permettendo di toccarli laddove solo mio marito avrebbe dovuto, e soprattutto sul perchè mi fossi lasciata condurre nel mio cottage senza obiettare.
Il tocco caldo delle sue dita sulla mia pelle, mentre mi slaccia il vestito, mi procura come delle continue scintille dentro di me, e più le provo, più ne voglio ancora. Mi sento coraggiosa e determinata in questo momento, sento una forza dentro di me sconosciuta, e mi è così estranea che mi sembra di averla presa in prestito da qualcun altro. Mentre mi adagia sul divano e spinge il suo corpo nudo contro il mio, mi rendo conto che non mi porta più di nient'altro ora, solo di me stessa e dei miei desideri. Mi sento sicura, e non riesco a trattenere un sorriso. Probabilmente questo gli sarà sembrato un cenno di consenso, perchè risponde al mio sorriso allargando le mie gambe con le sue mani, ed entra dentro di me strappandomi un grido. Se era ancora rimasto un briciolo di razionalità dentro di me, lui l'aveva appena fatto scomparire.
Per la prima volta da tanto, troppo tempo, mi sentii davvero felice. Così tanto da chiedergli di rimanere e non partire, ma a quella richiesta non ricevetti altra risposta che un sorriso.
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romana73 · 4 years
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STAR WARS ARTICLES BY SCREENRANT... 4 ARTICOLI RIGUARDANTI STAR WARS PUBBLICATI SUL SITO SCREENRANT... 4
TITLE: Star Wars 9: Why Trevorrow's Version Could Have Been Worse Than Rise of Skywalker
WRITE by Jim Hunter Jan 30, 2020
LINK TO ARTICLE IN ORIGINAL LANGUAGE HERE
https://screenrant.com/star-wars-9-trevorrow-script-rise-skywalker-comparison-worse-reason/
TRADUZIONE :
Può essere presuntuoso supporre che la sceneggiatura trapelata da Colin Trevorrow per Star Wars 9 sarebbe stata migliore di The Rise of Skywalker. Ecco perché.
Dopo la fuga della sceneggiatura di Colin Trevorrow Star Wars 9, intitolata Duel of the Fates, molti fan sono rimasti delusi da Star Wars: L’Ascesa di Skywalker di J.J. di Abrams hanno suggerito che la versione di Trevorrow sarebbe stata un film migliore, ma non è necessariamente il caso. L'Ascesa di Skywalker è stato criticato per mettere da parte Rose Tico (Kelly Marie Tran), rivedere archi dei personaggi più divisivi Star Wars: Gli Ultimi Jedi e, in generale, presentare  un pasante fanservice, una storia disordinata che non è riuscita a fornire la conclusione soddisfacente per cui il pubblico aveva sperato. Trevorrow era il co-sceneggiatore e regista originale del film, selezionato dalla produttrice Kathleen Kennedy nel 2015, all'inizio del processo di pianificazione della nuova trilogia e nello stesso anno in cui Star Wars: Il Risveglio della Forza di Abrams è uscito nei cinema. Alla fine non ha continuato il progetto, citando differenze creative con i produttori di Lucasfilm, non molto tempo dopo che il suo film del 2017, The Book of Henry, era stato criticato ed è fallito al botteghino. A Trevorrow è stato dato il merito della storia di L’Ascesa di Skywalker, ma i rapporti indicano che lui aveva un'influenza relativamente scarsa sul prodotto finale. L'idea che i fan desiderano una conclusione più coerente di una saga cinematografica così significativa è comprensibile, ed è vero che i dettagli rilasciati sulla sceneggiatura di Trevorrow presentano una narrazione più coerente, aggiungendo, invece di respingere, ciò che è accaduto in Gli Ultimi Jedi. Ma a causa di ciò che è già stato riferito sul processo di sviluppo di L’Ascesa di Skywalker, quanto sia vitale l'esecuzione per far funzionare un film, e il lavoro precedente di Trevorrow, incoronare Duel of Fates un film senza dubbio migliore è presuntuoso. A seguito della deludente risposta critica di L’Ascesa di Skywalker e delle reazione divise dei fan, circolavano voci che indicavano che anche Abrams fosse scontento del taglio finale, portando a una breve campagna #ReleasetheJJCut online. I report dietro le quinte descrivevano un contingente fortemente coinvolto dalla Disney, desideroso di trasformare il film di Abrams in un certo successo dopo la divisione di Gli Ultimi Jedi. Quello che si sa della sceneggiatura di Trevorrow proviene da una bozza molto antica che precede gran parte del discorso successivo alla pubblicazione di Gli Ultimi Jedi. L'idea che la Disney intercederebbe nel film di Abrams, ma non in quello di Trevorrow, non ha senso. Sebbene i fan possano essere delusi da L’Ascesa di Skywalker, se le voci sullo sviluppo del film sono vere, è possibile che il film che è arrivato nei cinema sia esattamente il film che la Disney voleva fare - uno che è più interessato al fanservice di quanto non lo sia a raccontare una storia coerente. Star Wars 9 di Trevorrow ha alcuni ritmi avvincenti, specialmente nella sua rappresentazione di Kylo Ren come Leader Supremo e Rose ha una trama B completa invece di soli 76 secondi sullo schermo. Ma i buoni film pagano in esecuzione. Ad esempio, in teoria Batman scoprire che Superman - un alieno - ha una connessione umana che si riferisce a qualcosa di formativo nel personaggio di Batman è una buona ragione per cui la fine di Batman v. Superman: The Dawn of Justice è una lotta, ma sulla carta l'idea è diventata spesso la derisa "Salva Martha!" Il fatto che Trevorrow avesse buone idee nella sua sceneggiatura non significa necessariamente che si sarebbero tradotti in un grande dramma sullo schermo. Inoltre, c'è la filmografia di Trevorrow. Come regista, il suo primo lungometraggio narrativo è Safety Not Guaranteed, un film drammatico acclamato dalla critica a basso costo con Aubrey Plaza e Mark Duplass. Questo è il suo unico successo universale. Jurassic World ha segnato alti ritorni al botteghino ma ha suscitato una risposta critica, e la sua sceneggiatura per Jurassic World: Fallen Kingdom ha prodotto un sequel casuale con archi di personaggi confusi e un terzo atto troppo limitato. E la trama del Libro di Henry è davvero strana, con un bambino prodigio morto che lascia a sua madre i piani per uccidere il loro vicino violento. Dare a Trevorrow il beneficio del dubbio riguardo a Duels Of The Fates ignora che la sua carriera non è stata priva di imperfezioni. Purtroppo, i fan delusi da Star Wars: L’Ascesa di Skywalker probabilmente non vedranno una conclusione soddisfacente per la saga, ed è naturale esaminare altre possibilità che potrebbero essere state migliori. Ma prima che la sceneggiatura di Trevorrow sia troppo lionizzata, è bene ricordare che il suo Star Wars 9 potrebbe aver ricevuto la stessa risposta, o peggio.
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sempiter-n-al · 5 years
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Nina (2)
La prima canzone “Sacred” parla proprio del perdersi, dimenticarsi le cose importanti, parla di superficialità e intanto è una presa di coscienza, un vagare a lungo in cerca di… sé stessi? “I want something sacred / I want something amazing / And I’m going through changes”, mi piace il modo in cui pronuncia questi versi all’inizio, e man mano li scandisce, li ripete, come fosse un monito per sé stessa.
“The Moment’s I’m Missing” mi piace moltissimo, la conoscevo già, è stato il primo singolo dell’album e Nina ci teneva in particolar modo perché l’ha prodotta lei stessa nella sua stanza, e a suo dire è la canzone più autobiografica dell’album, in merito ha detto: “This song is talking about the moments that are missing from my brain, that I’m recollecting and processing, rather than longing for.”
Sono molto legata a “The Best You Had”, è uscita in un momento in cui mi risultava particolarmente comprensibile, mi sembrava di poterla modellare su di me, e non è difficile intenderne il motivo, in quel periodo non ascoltavo Nina, la sua presenza si riduceva a qualche saltuaria comparsa nei suggerimenti di Spotify, quando ascoltai questa canzone ricordo bene che pensai che forse c’era qualcosa che mi stava indirizzando verso di lei.
Salto un po’ di titoli per arrivare ad uno dei migliori dell’album, “Is It Really Me You’re Missing” è anche la preferita di Nina: adoro come modula la voce nel corso del brano, ci sono momenti dimessi, vuotissimi, e altri in cui mi viene da pensare all’alba, alla luce, e intanto mi sembra che mischi la rabbia e la sofferenza, sussurri ed urla. 
“And that’s how I know that you’re the one for me / Cause I think about you on the train / Love how you say my second name / It seems without you I’m insane / Now you’re asleep but I’m gonna say it anyway / I love you”: Nina aveva pubblicato un video moltissimo tempo fa in cui cantava questi versi, aveva i capelli biondi, e la canzone era ancora più essenziale di questa versione, che comunque apprezzo perché non è stata stravolta più di tanto. Non credevo l’avrebbe inserita nell’album, forse perché io la associo ad un momento ormai lontanissimo, eppure mi ritrovo nuovamente ad ascoltarla, ad intenerirmi, perché suona sempre come una confessione fatta a notte fonda, infatti s’intitola “Things I Say When You Sleep”. “Remember when we’d sit out by the graves / Laughing and talking about life / You took me to heaven when I had no faith / And showed me what love is really like”. 
“Last December” la penultima canzone, per me la vera scoperta di questo album, questa e la precedente insieme sono d’una dolcezza magica e dolorosa, riguardano la stessa relazione, come ha sottolineato Nina e come si evince da una somiglianza di versi: “We sat in the graveyard, talking about life”. Mi piace il fatto che sia in questa posizione, quasi alla fine, ma non del tutto in fondo, mi lascia una strana sensazione, il testo è bello dall’inizio alla fine, ne vale la pena. “We’d drive for hours and play under different lights / Then we'd run off / With enough love to / Keep us here for nights / You were the safety blanket I needed most / But you were always so anxious / Of my ghost that came at night / From my past life.”
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pangeanews · 6 years
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Liliana Heker: la scrittrice che ha parlato della morte con Borges e ha bacchettato Cortázar
Liliana Heker è una delle voci fondamentali della narrativa argentina ed è, inoltre – e soprattutto – un maestro del racconto in un paese di narratori straordinari. Anche se la scrittura si è installata in lei come necessità tra i tredici e i quattordici anni – le era necessario scrivere per dare consistenza a idee debordanti – tuttavia non pensava di diventare scrittore. Dieci anni più tardi pubblicherà il primo libro di racconti, Los que vieron la zara (1966), che ottiene una menzione al Concurso de Casa de las Américas. Così, in estrema sintesi, tutto ha avuto inizio.
Al primo libro, ne seguirono altri. Saggi, racconti, romanzi, come El fin de la historia (1996), un libro che narra le violenze accadute durante l’ultima dittatura militare e le contraddizioni che allignavano dentro una certa parte della gerarchia. Alla sua pubblicazione, il romanzo generò diverse polemiche, ma questo non disarmò la Heker. Al contrario. Per Liliana Heker, la cosa buona delle polemiche è che permettono di discutere a fondo di certe idee e di arricchirsi nel dibatterle. “Nessuno uccide o muore nella polemica”, ha detto una volta a Julio Cortázar, di cui era ed è una ammiratrice, e con cui polemizzò a lungo, appassionatamente.
Lui è Jorge Luis Borges (1899-1986)
Insieme a Sylvia Iparraguirre e ad Alberto Castillo, che la Heker considera come suo maestro, la scrittrice ha fondato in pieno regime militare El ornitorrinco (1977-1986), una delle riviste letterarie di maggior impatto nella letteratura latinoamericana. Nello stesso periodo (1980), l’era in cui la morte era in agguato in Argentina, l’autrice di Las peras del mal (racconti, 1982) cominciò a lavorare a un libro di interviste, Diálogos sobre la vida y la muerte (2003), attraverso il quale si proponeva di indagare il significato della mortalità come fenomeno biologico e psichico, e i diversi modi in cui, nel corso della Storia, l’uomo ha cercato di convivere con questa insopportabile certezza: la sua condizione mortale. Tra gli intervistati, c’è anche Jorge Luis Borges, che all’epoca aveva ottant’anni, a cui, a dire della Heker, l’idea della morte non provocava alcuna inquietudine. “Parla di Mark Twain, specula di teatro, parla di poesia inglese, parla di morte. È felice di parlare di cose che gli interessano”.
I racconti di Liliana Heker sono stati tradotti e pubblicati, tra gli altri paesi, in Germania, Francia, Russia, Turchia, Olanda, Inghilterra e Polonia. Il romanzo El fin de la historia è stato premiato nel 2010 con il Premio Esteban Echeverría (vinto, tra gli altri, da Borges, da Ernesto Sabato, da Adolfo Bioy Casares e da Silvina Ocampo), e nel 2012 è stato pubblicato in lingua inglese.
La necessità di scrivere. Quando è nata? Come?
“Quell’esigenza, in un certo modo, è iniziata quando avevo quattro anni, nel cortile di casa di mia nonna. Il mondo reale mi sembrava molto poco interessante, quindi mi inventavo delle storie girando per il giardino; se qualcosa non funzionava, tornavo indietro e modificavo la storia, che esigeva nuove modifiche, e così via. Mentre la mia storia si avvicinava alla perfezione (senza mai raggiungerla), io giravo sempre più velocemente, sempre di più. In modo più specifico, la scrittura si è installata in me quando avevo tredici o quattordici anni. Ero una adolescente esagerata: avevo bisogno di correre per le strade per sfogare la mia debordante energia, avevo bisogno di scrivere per dare solidità alle idee che esondavano dentro di me. Tuttavia, non avevo idea di diventare una scrittrice. Scrittore, per me, erano gli altri, gli autori dei libri che amavo, che divoravo con passione. Quando ho dovuto scegliere una facoltà universitaria, ho scelto Fisica. A sedici anni, nello stesso periodo in cui facevo ingresso alla facoltà di Scienze, entrai nella rivista letteraria El grillo de papel, e lì ho incontrato scrittori in carne e ossa, ho scritto i miei primi racconti, ho scelto la letteratura. A ventuno anni, già vicedirettrice della rivista El escarabajo de Oro e con un libro di racconti quasi terminato, abbandonai la carriera di fisica”.
Lei è un maestro del racconto breve, in Argentina è ritenuta un ‘classico’. Esiste un segreto (penso al ‘decalogo’ di Horacio Quiroga, ad esempio) per scrivere il racconto perfetto?
“Poe, Quiroga, Cechov, Flannery O’Connor, Cortázar, Abelardo Castillo, hanno scritto decaloghi o testi scintillanti sull’arte del racconto. Da questa profusione di idee si possono trarre due conclusioni: la prima, evidente, è che non esiste un unico segreto per scrivere un ottimo racconto; la seconda, che ogni vero narratore sa quanto rigore e quanta intensità chieda una situazione, per quanto minima, per estrarne tutta la luce immagazzinata, curando il testo dalla prima frase – ah, l’arte della prima frase! – per poi, come minacciati, retrocedendo o precipitando o dimorando in una specie di apatia, avanzare verso il cuore della radiazione, unica e immutabile, che è la fine. È comprensibile dunque l’ansia di spiegare – rapida e brusca, come corrisponde al narratore – questa strana avventura che è scrivere un racconto. ‘Il racconto è una storia senza versi’, dice Quiroga; ‘Se c’è una pistola caricata nella prima frase, deve esplodere alla fine’, dice Cechov; ‘Il romanzo vince ai punti e il racconto per knock out’, dice Cortázar. Tutte frasi brillanti; nessuna, è chiaro, dice tutta la verità, però serve, a ciascuno di loro, per illuminare ciò che è così nitido e difficile da raggiungere: un buon racconto”.
Quali sono stati i suoi maestri, se ci sono stati? Borges, lo scrittore argentino più noto in Italia, è ancora un maestro di scrittura? È stato un maestro per lei?
“In senso stretto, il mio maestro è stato Abelardo Castillo, senza dubbio uno dei massimi narratori in un paese di grandi narratori come l’Argentina, con cui ho lavorato, per 26 anni, in tre riviste letterarie che sono state fondamentali per la letteratura argentina. I classici che considero miei maestri sono Maupassant e Cechov. Quelli che hanno marcato in maniera singolare la mia narrativa, sono i narratori nordamericani: Saroyan, Hemingway, Cheever, Salinger, Flannery O’Connor, Catherine Porter, Carver. Borges è ancora un maestro, senza dubbio. Insieme a Roberto Artl e a Leopoldo Marechal è lo scrittore fondamentale della letteratura argentina”.
Lei ha vissuto in Argentina sotto il regime di Videla. Cosa significa per uno scrittore vivere in un momento storico in cui la libertà è minima, minata?
“Per come la intendo io, uno scrittore non spera che il potere di turno gli conceda la libertà. Uno scrittore si assume la propria libertà, abita la libertà nonostante e contro quel potere. Se parliamo di scrittura, uno scrittore, dentro le quattro mura della sua abitazione, è libero di costruire le proprie storie come desidera. Se parliamo di scrittura come testimonianza o come denuncia, lo scrittore dispone di uno strumento prezioso per valicare la censura: sa come maneggiare il linguaggio. La censura non è infallibile; ciò che annienta un intellettuale è l’autocensura. Durante la dittatura militare in Argentina si è sviluppata una delle più formidabili forme di lotta contro un regime dittatoriale e assassino: le Madri di Plaza de Mayo. Inoltre, proprio durante quel periodo di ferocia, sono sorti progetti come il Teatro Abierto, laboratori creativi, riviste culturali. Nel mio caso in particolare, oltre a scrivere racconti, ho fondato con Abelardo Castillo e Sylvia Iparraguirre la rivista letteraria El ornitorrinco, dove, oltre ai nuovi scrittori argentini, si pubblicava la grande letteratura nazionale e internazionale. Fu pubblicato un intellettuale come Sartre, ad esempio; fu pubblicato e studiato un inquietante racconto di Dino Buzzati, Le montagne sono proibite. Inoltre, negli editoriali e negli articoli di El ornitorrinco si trattavano temi come la repressione, la censura e l’autocensura, le sparizioni, i diritti dell’uomo, la follia dei due dittatori – Pinochet e Videla – che volevano portare il nostro popolo alla guerra. In sintesi, senza voler dare a tutto questo un particolare senso eroico, credo che, nonostante alcuni scrittori abbiano agito con agio durante la dittatura militare, ce ne sono stati molti altri che, come potevano, hanno costruito quella che ritengo essere una forma di resistenza culturale”.
Cortázar è, dopo Borges, il più noto scrittore argentino in Italia. So che lei hai avuto una controversia con Cortázar. Puoi spiegarci meglio?
“Premetto, anzi tutto, che ho sempre ammirato e continuo ad ammirare Cortázar, una persona che mi è stata molto vicina. Ciò non toglie che in una circostanza molto precisa io abbia ritenuto necessario polemizzare con lui. Ritengo, come ho detto a Cortázar, che la cosa buona di una polemica è che nessuno muore o viene ucciso, che nessuno vince o perde; la polemica permette una discussione più profonda, e arricchisce sempre. Durante la dittatura, discutere era un mondo come un altro per lottare contro la morte. Fondamentalmente, ciò che rimproveravo a Cortázar era la sua idea per cui in Argentina la letteratura era stata distrutta e che gli scrittori che avevano ancora qualcosa da dire avrebbero dovuto unirsi a lui fuori dal Paese, in esilio. Oltre a farsi chiamare ‘esiliato politico’, cosa che non era (Cortázar era andato in Francia nel 1951 per motivi che, come ha spiegato nel suo diario, non erano politici), considerava l’esilio una pratica e non una fatalità. Fu una polemica ampia e appassionata. Penso che oggi, quattro decenni dopo, sia solo la testimonianza di quei tempi di dittatura. I racconti di Cortázar restano belli e perturbanti come sempre”.
Ci sono scrittori italiani che legge con particolare intensità?
“Decisamente sì. Ci sono scrittori che ho amato nella mia prima adolescenza: Pratolini, Vittorini, Pavese, Calvino, che ho letto con vera devozione. A questi, negli anni, si sono sommati Pirandello, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg, Moravia, Tabucchi e altri. Una letteratura eccezionale, senza dubbio”.
Ritiene che i nuovi media – Internet, i social – siano dannosi o vantaggiosi per la pratica della scrittura?
“Nessun mezzo, di per sé, è dannoso o vantaggioso. La questione, sempre, è come lo si utilizza. Io amo la carta e penso che il libro abbia una forma così perfetta che difficilmente potrò scomparire. Però, ovviamente, uso Internet quando mi è necessario. Il problema non è Internet ma ciò che offre in modo indiscriminato a lettori che non sono particolarmente addestrati e che non hanno i mezzi per discernere. Per quanto riguarda i social, io non li uso; mi disturba l’eccesso di comunicazione. Confesso che, di tanto in tanto, mi incanta il silenzio. Per ciò che riguarda la scrittura, Internet dà una risonanza eccessiva al mediocre e allo stupido. Sia chiaro: mediocrità e stupidità sono sempre state scritte. Ma erano meno diffuse di oggi”.
Che disciplina adotta quando scrive?
“Nessuna. Non sono disciplinata. Ci sono momenti in cui mi concentro sull’idea di un racconto o di un romanzo, annoto delle cose, tento di cominciare, e non trovo quello che voglio scrivere. A posteriori, posso dire che sono momenti importanti, ma quando accadono, mi inquietano. Ora, quando sospetto ciò che vorrei fare, posso scrivere dalle cinque della mattina fino alla mattina del giorno dopo. Mi è successo con molti racconti e, con più forza, durante la stesura dei miei romanzi. Quando tengo la storia per la coda, quando comincio a trovare una forma, quando trovo il modo di maneggiare tutto il materiale che ho accumulato per tanto tempo, capisco che posso scrivere per tutto il giorno. Nonostante non sia così, nonostante possa interrompere la scrittura più volte e per diversi motivi, la mia sensazione è esattamente questa: che sto scrivendo tutto il tempo, e che, appena risolto il motivo dell’interruzione, tornerò a lavorare con la stessa energia e la stessa lucidità di prima. Sono momenti privilegiati. Non accadono sempre”.
Ora, cosa sta scrivendo? A quale libro sta lavorando?
“Ora lavoro a un libro saggistico, La trascenda de la escritura [La trascendenza della scrittura]. Suppongo che sia un titolo eloquente. Non vado oltre il titolo, perché ho imparato che non è bene parlare di un libro che, nonostante sia abbastanza chiaro nella mia testa, resta ancora in un perfetto stato di indeterminazione”.
  (il servizio è di Maria Soledad Pereira e Davide Brullo)
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Liliana Heker es una de las voces clave de la narrativa argentina y es, además —o sobre todo—, una maestra del cuento en un país de cuentistas fundamentales. Aunque la escritura se le instaló como necesidad entre los trece y los catorce años —necesitaba escribir para darles salida a las ideas y ocurrencias que la desbordaban—, todavía no se le cruzaba la idea de ser escritora. Diez años después, sin embargo, publicaría su primer libro de cuentos, Los que vieron la zarza (1966), y obtendría la Mención Única en el Concurso de Casa de las Américas.
Y así, en resumen, empezaría todo.
A ese primer libro, le siguieron otros. Y también ensayos, nouvelles y novelas como El fin de la historia (1996), un texto que señala los atropellos ocurridos durante la última dictadura militar y las contradicciones existentes entre ciertos militantes de jerarquía. Al publicarse, la novela generó polémica, pero eso a ella no la desanimó. Al contrario. Para Liliana Heker, lo bueno de las polémicas es que permiten discutir a fondo ciertas ideas y enriquecerse a partir del debate. “Nadie mata ni muere en ellas”, le dijo cierta vez a Cortázar, de quien fue y sigue siendo admiradora, y con quien polemizó larga y apasionadamente.
Junto con Sylvia Iparraguirre y Abelardo Castillo, a quien en el sentido más riguroso del término Heker considera su maestro, fundó, en pleno régimen militar, El ornitorrinco (1977-1986), una de las revistas literarias de mayor repercusión en la literatura latinoamericana, en la que se publicaron obras de autores nacionales e internacionales, entre ellos de Dino Buzzati, y se trataron temas como la represión, la censura y la autocensura, los desaparecidos y los Derechos Humanos.
En esa misma época —1980—, época en que la muerte acechaba en Argentina, la autora de Las peras del mal (cuentos, 1982) encaró el proyecto de un libro de entrevistas, Diálogos sobre la vida y la muerte (2003), a través del cual se propuso indagar en el significado de la mortalidad como fenómeno biológico y psíquico, y las distintas formas que, a lo largo de la historia, ha concebido el hombre para convivir con ese casi intolerable saber: el de su condición de mortal. Entre los convocados, estuvo Jorge Luis Borges, quien en ese momento tenía ochenta años y a quien, al decir de Heker, la idea de la muerte no parecía inquietarlo en absoluto. “Habla de Mark Twain, habla de la teoría de los conjuntos, habla de la poesía inglesa, habla de muertes. Se lo ve contento de conversar sobre cuestiones que le interesan”.
Los cuentos de Liliana Heker se tradujeron y publicaron en Alemania, Francia, Rusia, Turquía, Holanda y Polonia, entre otros. Su novela El fin de la historia fue distinguida en 2010 con el Premio Esteban Echeverría, otorgado por la Fundación Gente de Letras, y en 2012 se publicó la traducción inglesa del texto.
¿Cómo nació su necesidad de escribir? ¿Cuándo?
En cierto modo, esa necesidad empezó cuando yo tenía cuatro años, en el patio de la casa de mi abuela. El mundo real me parecía muy poco interesante, entonces me inventaba historias mientras daba vueltas en ese patio; si algo no encajaba debía ir hacia atrás y modificar alguna cosa, lo que me exigía nuevas modificaciones, y así sucesivamente. A medida que mi historia se acercaba a la perfección (hecho que nunca ocurría), yo giraba más y más rápido. De un modo más específico, la escritura se me instaló como necesidad entre los trece y los catorce años. Era una adolescente excesiva: necesitaba correr por las calles para darle rienda suelta a mis desbordes de energía, y escribir para darles salida a las ideas y ocurrencias que me desbordaban. Pero ni se me cruzaba la idea de ser escritora. Escritores, para mí, eran los otros, los autores de mis libros amados, que devoraba con pasión. Cuando tuve que elegir una carrera universitaria, elegí Física. Pero a los dieciséis años, al mismo tiempo que ingresaba a la Facultad de Ciencias Exactas, entré a la revista literaria El grillo de papel, y ahí conocí a escritores de carne y hueso, escribí mis primeros cuentos y elegí la literatura. A los veintiún años, ya subdirectora de la revista El escarabajo de Oro y con un libro de cuentos casi terminado, dejé la carrera de física.
Usted es una maestra del cuento. ¿Cuál es el secreto (pienso en el Decálogo del Perfecto Cuentista, de Quiroga, por ejemplo) para escribir un cuento excelente? ¿Hay realmente un secreto?
Poe, Quiroga, Chejov, Flannery O’Connor, Cortázar, Abelardo Castillo, han escrito decálogos o textos deslumbrantes acerca del cuento. De esta profusión se pueden sacar dos conclusiones: la primera, evidente, que no hay un único secreto para la escritura de un cuento; la segunda, que todo verdadero cuentista sabe cuánto rigor y cuánta intensidad requiere que de una situación, acaso mínima, aflore toda su luz guardada, conseguir que el texto se abra en la primera frase –ah, el arte de la primera frase– y, como amenazado, retrocediendo o precipitándose o en apariencia estancándose, avance hacia ese resplandor, único e incanjeable, que es el final. Es entendible entonces la compulsión de explicar –breve y agudamente, como le corresponde a un cuentista—esa aventura impar que es escribir un cuento. “El cuento es una novela sin ripios”, de Quiroga, “Si hay una pistola cargada en la primera línea, el tiro tiene que sonar al final”, de Chejov, “”La novela gana por puntos y el cuento por knock out”, de Cortázar. Todas frases brillantes; ninguna, claro, dueña de toda la verdad, pero iluminadora, cada una de ellas, de eso tan nítido, y tan difícil de lograr, que es un buen cuento.
¿Cuáles son sus maestros, si los hay? Borges, el escritor más conocido en Italia, ¿sigue siendo un maestro? ¿Fue un maestro para usted?
En el sentido más riguroso del término, mi maestro fue Abelardo Castillo, sin duda uno de los mayores cuentistas de un país de cuentistas notables, como es Argentina, y con quien publiqué, durante 26 años, tres revistas literarias que fueron fundamentales en la literatura argentina. Los que considero mis maestros clásicos son Maupassant y Chejov. Y los que han marcado de una manera singular mi narrativa, son los cuentistas norteamericanos: Saroyan, Hemingway, Cheever, Salinger, Flannery O’Connor, Catherine Porter, Carver. Borges es un maestro, sin duda, Considero que él, Roberto Arlt y Leopoldo Marechal son los escritores fundantes de la literatura argentina.
Usted vivió en Argentina durante el régimen de Videla. ¿Cómo es la vida de un escritor en un país donde no hay libertad?
Según yo lo entiendo, un escritor no espera que el poder de turno le otorgue libertad. Se asume libre y hace uso de su libertad, a pesar y contra ese poder. Si hablamos de escritura a largo plazo, un escritor, dentro de las cuatro paredes de su habitación, es libre de ir construyendo su obra como quiere. En cuanto a la escritura como testimonio y como denuncia, el escritor dispone de una herramienta invalorable para abrirse paso a través de la censura: sabe manejar el lenguaje. La censura no es infalible; lo que silencia a un intelectual es la autocensura. Durante la dictadura militar se desarrolló en Argentina una de las formas más extraordinarias y admirables de lucha contra un régimen dictatorial y asesino: el de las Madres de Plaza de Mayo. Además, hubo durante ese tiempo feroz, acontecimientos como el de Teatro Abierto, solicitadas, talleres de creación y de estudio, revistas culturales. En mi caso particular, además de escribir ficción, fundé, con Abelardo Castillo y Sylvia Iparraguirre, una revista de literatura, El ornitorrinco, en la que no solo se publicó a los nuevos escritores inéditos de Argentina y a una gran literatura nacional e internacional, se reivindicó a intelectuales como Sartre, se publicó, por ejemplo, contextualizándolo, el inquietante cuento de Dino Buzzati “Están prohibidas las montañas”. Además, en los editoriales y los artículos de El ornitorrinco se trataron temas como la represión, la censura y la autocensura, los desaparecidos, los Derechos Humanos, el disparate de dos dictadores –Pinochet y Videla—que querían llevar a nuestros pueblos a una guerra. En síntesis, y sin querer darle a todo esto el menor sentido heroico, creo que, aunque hubo escritores que se sintieron muy cómodos con la dictadura militar, hubo muchos otros que, como pudieron, fueron construyendo lo que considero una resistencia cultural.
Cortázar es, después de Borges, el escritor argentino más conocido en Italia. Yo sé que usted ha tenido una controversia con Cortázar. ¿Puede explicarlo mejor?
Quiero decir, ante todo, que siempre admiré y sigo admirando a Cortázar, y que ha sido para mí una persona entrañable. Lo cual no quiere decir que, ante una circunstancia muy precisa, no haya considerado necesario polemizar con él. Creo, como le dije a Cortázar, que lo bueno de las polémicas es que nadie mata ni muere en ellas, ni siquiera se las ganan o se pierden; permiten una discusión a fondo de ciertas ideas, y eso siempre es enriquecedor. Durante la dictadura, discutir ideas era otro modo de luchar contra la muerte. Básicamente, lo que yo le cuestionaba a Cortázar era que hubiese dicho que, en Argentina, la literatura estaba a aniquilada y que aquellos escritores que teníamos algo que decir debíamos reunirnos con ellos (los escritores exiliados) fuera de la patria. O sea que, además de llamarse a sí mismo “exiliado político”, cosa que no era (se había ido a Francia en 1951 por motivos que, como él mismo explicó en su Diario, no eran políticos), consideraba al exilio, no como una fatalidad sino como una praxis. Fue una polémica extensa y apasionada. Pienso que hoy, luego de casi cuatro décadas, es solo un testimonio de esos tiempos de dictadura. Y que los cuentos de Cortázar siguen tan bellos y perturbadores como siempre.
¿Hay escritores italianos que usted lea con particular intensidad?
Decididamente sí. Hubo escritores que amé desde mi primera adolescencia: Pratolini, Vittorini, Pavese, Calvino, a quienes leí con verdadera devoción. Y a los que, a lo largo de los años, se sumaron Pirandello, Dino Buzzati, Natalia Ginsburg, Moravia, Tabucci, y otros. Una literatura excepcional, sin duda.
¿Piensa que los nuevos medios –pienso en Internet, en las redes sociales—son dañinas o beneficiosas para la práctica de la escritura?
Ningún medio, por sí mismo, es dañino o beneficioso. La cuestión es cómo se los utiliza. Sigo amando el papel, y creo que el libro tiene un formato tan perfecto que difícilmente se podrá superar. Pero claro que recurro a Internet, cuando lo necesito. El problema no reside en Internet sino en lo indiscriminado de lo que ofrece para aquel que no está formado como lector y no está en condiciones de discernir. En cuanto a las redes sociales, no estoy en ninguna; me perturba el exceso de comunicación. Confieso que, de vez en cuando, me encanta estar incomunicada. En cuanto a si afecta la escritura, al menos le da una difusión desmesurada a la mediocridad y a la estupidez. Quiero ser clara: estupideces y mediocridades se han escrito siempre, pero tenían una llegada menos multitudinaria que la actual.
¿Qué disciplina adopta usted cuando escribe?
Ninguna. no soy disciplinada. Hay épocas en las que le doy vueltas a la idea de un cuento o de una novela, anoto cosas, intento comienzos, y no consigo dar con lo que quiero escribir. A posteriori, puedo decir que son períodos necesarios pero, mientras suceden, me resultan inquietantes. Ahora, cuando empiezo a sospechar qué quiero hacer, puedo escribir desde las cinco de la mañana hasta la madrugada del día siguiente. Me ha pasado con muchos cuentos y, más nítidamente, con cada novela. Cuando la tengo agarrada por la cola, cuando empiezo a encontrarle la forma, cuándo vislumbro cómo manejar todo lo disperso que fui acumulando durante largo tiempo, entonces siento que estoy escribiendo todo el día. Aunque en rigor eso no es cierto, aunque puedo interrumpir la escritura varias veces y por diferentes motivos, mi sensación es exactamente esa: que estoy escribiendo todo el tiempo, y que, apenas se resuelva el motivo de la interrupción voy a volver al trabajo con la misma energía y la misma claridad con que lo estaba haciendo. Son épocas privilegiadas. No me suceden siempre.
Ahora, ¿qué está escribiendo?, ¿en qué libro está trabajando?
Ahora estoy trabajando en un libro de no ficción: La trastienda de la escritura. Supongo que el título es elocuente. No voy a ir más allá de ese título porque aprendí que no es bueno hablar de un libro que, aunque en mi cabeza empieza a estar claro, en los hechos sigue en perfecto estado de indeterminación.
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