Tumgik
#lo fa soprattutto quando passi dal non fare un cazzo al fare di tutto
ross-nekochan · 9 months
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01 Settembre 2023
Sveglia alle 06:15
Mi vesto e preparo tutto. Sto per scendere. Do uno sguardo al cellulare aziendale. Tra le email del cazzo del giorno precedente ce n'è una delle 18:30 che fa:
LAVORO CANCELLATO
Cosa?!?! Come?!?! Quando?! Felicissima me ma allo stesso tempo mannaggia a me che non controllo mai quel cazzo di cellulare.
Ore 7:00 - torno a dormire
Ore 9:00 - saluti mattutini (perché non li scampi se non stai a fa ncazzo)
Ore 9:30 - torno a dormire e vado in coma fino alle 12:30
Colazione alle 13:00
(Tutto il resto è noia)
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die66go · 6 months
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It all started with the big bang
Stasera, novembre 2023, ho guardato l'ultima puntata di big bang theory.
E ho pianto, credo.
Perché ho cominciato a vedere big bang theory nel 2007, un po' a sgamo, in inglese sottotitolato in italiano (ma hey ai tempi per vederlo non c'erano altre possibilità).
Ho visto crescere nel tempo i personaggi, li ho visti maturare, e io sono cresciuto con loro. Ci sono stati alti e bassi, per anni ho anche litigato con loro, perché c'erano cose che non sopportavo. Che non volevo vedere. Che non mi interessava vedere.
A grandi linee era la storia di un gruppo di nerd che hanno a che fare con delle avventure quotidiane, ed ai tempi, facendo informatica all'università, me ne innamorai subito. Cazzo, ero io. Erano me. Avrei voluto essere loro, o con loro, non importava.
Ricordo che una delle prime battute era sul fatto di saper distinguere tra un'equazione differenziale ed un integrale: in quel periodo stavo provando a studiare analisi, una delle tante volte. Non sapevo niente di differenziali, ma avevo capito cos'era un integrale e avevo capito la battuta.
Voleva dire che ero come loro. Intelligente. Nerd. Avevo anche capito una battuta finissima. Mi sentivo coinvolto in quella ristretta cerchia.
Poi, alla terza stagione, litigammo. Litigammo, perché le cose erano noiose. Perché molte cose cambiavano. Perché stava somigliando tutto alla vita reale, stava somigliando troppo. Troppo simile al mondo dove le cose brutte accadono, dove le cose non vanno sempre come vorresti, dove c'è tempo e spazio per la noia, l'ansia. La tristezza.
Così smettemmo di vederci: uscì in Italia, la gente ne andava matta, ma io non la volevo vedere. Un altro motivo era che i personaggi stavano crescendo in fretta, troppo in fretta, e io che ero come loro, io che ero loro, no. Sopportavano i fallimenti, andavano avanti e si rialzavano. Io no.
Io ero bloccato. Ed ero invidioso. No. Ero arrabbiato.
Non facemmo pace nemmeno quando le cose andarono meglio, lentamente ma inesorabilmente, nella mia vita.
Poi, un giorno di tanti anni dopo, pensai di dargli un'altra possibilità.
Perché forse ora avrei potuto sopportare, o forse solo perché ero un po' cresciuto anche io e non mi sentivo così indietro.
Così ricominciai a guardarlo, e scoprii che altro ancora sarebbe successo, che intoppi, inconvenienti, passi indietro ed errori sarebbero piovuti dal cielo anche addosso a loro. Ma anche che la parte brutta che devi attraversare prima o poi finisce. Perché è fisiologico. Mi sentii stupido. Come potevo pensare che sarebbe finita lì? Che mi avrebbero lasciato con l'amaro in bocca? Certo, il rischio c'era. E non era affatto detto che non sarebbe stato definitivo. Alla fine un sacco di serie tv non finiscono come vorresti. Da buon nerd/uomo di scienza, non potevo escluderlo.
Ma non potevo mica vivere tutta la vita nell'indecisione e nella paura. Così pian piano, un pezzetto per volta, ricominciai lentamente a rivederlo.
E fu bellissimo.
E adesso, che è finita, ho pianto un po', perché ho capito che sono passati dodici anni, anzi molti di più, e in questi anni loro sono cambiati, e anche io lo sono, ed è successo tutto così gradualmente che se guardo la prima stagione, tutto è radicalmente diverso.
Persino i loro volti: erano dei giovani ventenni ai tempi, l'ultima stagione sono donne e uomini fatti.
Anche nella loro psicologia.
La loro trasformazione è la rivincita dei nerd: è il racconto di come anche delle persone estremamente introverse e "strane" piano piano crescono, si aprono. Si rendono vulnerabili. Diventano grandi. Diventano adulti.
E sono uniti da un'amicizia indistruttibile. Perché hanno vissuto tanto, troppo, insieme.
E guardando indietro, anche a me è successo. Sono "diventato grande" con loro. E adesso, che con un ultimo, fantastico inchino, le tende rosse si sono lentamente chiuse, ho capito che mi mancheranno. Tanto.
E che mi hanno dato tanto.
E soprattutto, che sono diventato grande. E anche se mi fa paura, ho degli alleati intorno a me per batterla: i miei amici e le persone che mi vogliono bene.
E un'altra cosa: che un viaggio di mille miglia incomincia con un singolo passo. E che davvero, ssmbra ogni giorno non cambi nulla, ma se guardi indietro ti accorgi di come le cose cambino.
Quindi niente, per me le tende rosse sono ancora aperte.
Sono pronto.
Si va in scena.
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Tavor svanito e riemergono i ricordi.
Veniamo al vero motivo per cui siamo qui. Il concerto, che per set list doveva essere identico a quello di Ferrara e in effetti, salvo qualche sorpresa, è stato molto simile. Sulla carta appunto. Ma chi vende organi vitali per seguire il proprio vate sa perfettamente che anche a parità di scaletta un concerto non è uguale all'altro.
Bruce fa il suo show ma non manca mai l'interazione col pubblico, sa chi ha di fronte e sa come fare sua quella moltitudine compatta che soprattutto al nord alita di birra.
La band si comporta più o meno come a Ferrara, con Max Weimberg che fa mentalmente il segno della croce alla fine del concerto, come dire anche questa l'ho scampata.
Steve defilato, molto più sobrio da quando è magro. Presente ma in disparte, non è più il co-protagonista del tour The River ma è e rimane il nostro blood brother, ultimo nella presentazione della E Street band e primo per volume di applausi.
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Gary W Tallent deve rimanere là dietro per sempre, lui e i suoi 20 kg di peso, lui e i suoi immancabili occhiali scuri, lui e la certezza che la prima E Street esiste ancora, lui dietro ma sempre avanti.
Nils Lofgren potrebbe rinunciare alla voce su Darlington County, quanta fatica, e suonare di più. Per me il suo tocco morbido e flat rimane il numero uno delle tre chitarre, e non dimenticherò mai l'assolo di Because the Night a Basilea nell'88 in un botta e risposta straordinario con la Fender di Bruce.
E veniamo al figliol prodigo di stocazzo. Jake Clamons deve stare calmo, prendersi la scena alla fine del concerto quando gli altri della band escono composti è urticante. È migliorato ma rimane un personaggio inafferrabile, non si è ancora capito se vuole essere la parodia dello zio o un se stesso senza vita propria... sì, insomma, troppa enfasi per il ragazzotto.
Tutti gli altri ok, cori compresi, ma con l'acustica avversa del Parken stadium s'è capito poco. Purtroppo tante finezze si sono perse nel rimbombo generale, soprattutto nei Kitty's Back e Nightshift.
Nulla a che vedere con Ferrara, dove l'acustica a due passi dal palco era perfetta e davanti a noi c'era un'orchestra, non una rock band.
Distratta dall'appiccicume dei vicini molesti mi sono goduta poco le due nuove in lista, My Hometown e The River.
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Backstreets urlata con tutta la forza che ancora mi rimane per sopravvivere all'ultima strofa, senza più voce né fiato mordo parola per parola, guardo il cielo (che non c'è cazzo, lo stadio è coperto) cerco il palco, cerco appigli, scuoto la testa e getto lo sguardo a terra mentre al mio grido fa eco quello di Bruce che ancora una volta non ci salva e, anzi, ci affossa nelle backstreets per sempre.
Mi limo le unghie durante Mary's place e Wrecking Ball, domandandomi ossessivamente perché?, e in un attimo Badlands conferma il suo potere esplosivo anche qui nella terra dei vichinghi.
La chicca del concerto? Thunder road, sì la cantano tutti, sappiamo come funziona, come cresce, come avvolge, sappiamo che impugnerà la chitarra dopo Well I got this guitar and I learned how to make it talk... e invece parte Steve, 5 secondi di stupore! Il tempo di guardarsi con Teo e scoppiare a ridere. I fratelli di sangue fanno anche questo, si scambiano lo spazzolino.
La band si ritira. Finisce tutto. I'll see you in my dreams è dramma, ma qui non arriva come è arrivata a Ferrara. E forse la più grossa differenza tra questi due concerti è questa. In Italia ho visto un uomo molto più cupo, riflessivo, intimo, che ha parlato di vita e di morte dalla prima all'ultima nota. Che ci ha voluto parlare. Ci ha detto e ripetuto come un mantra che la morte non è la fine, ha aggravato le parole it's not the end, è entrato nelle vite di 80mila persone, ognuna con la propria storia e i propri fantasmi, ha strappato lacrime anche a chi lo vedeva per la prima volta, ha sconvolto i più critici, è passato dalla festa al funerale in pochi secondi e nessuno è pronto per questo! Ci ha sussurrato in un prato smisurato dove non volava una mosca. Il silenzio era spettrale, e le sue parole, aiutate per la prima volta da sottotitoli, entravano come una flebo a rilascio lento. Non c'era scampo a quella bomba di empatia. La connessione era totale anche se eravamo in un campo di fango e merda. Quando è indietreggiato e si sono riaccese le luci siamo rimasti immobili, con gli occhi ancora carichi di lacrime e terrore. Poi pian piano abbiamo trovato il coraggio di cercarci, tutti i nostri sguardi raccontavano la stessa emozione. Nessuno riusciva a parlare. Solo occhi che si cercavano e infine un abbraccio incredulo. Nessuno di noi si aspettava tanto
Ecco, questo è stato Ferrara.
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A Copenaghen, ho visto un Bruce molto sciolto, più allegro, divertito, con sipari di introspezione ma quella connessione e quell'intimità non c'è stata. Almeno non per me e non dove eravamo noi, a metà prato.
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muoio dalla voglia di non esserci, sprofondare nelle sabbie mobili, sparire, volare via.
e invece, per una volta, seguo alla lettera ciò che dice Marta.
"quando la giornata parte storta, cerca la bellezza di qualcosa, non è sempre tutto brutto come immagini"
metto una tuta, scendo, faccio due passi fumando più di qualche sigaretta; perdo facilmente il conto delle cose, è sempre così.
ormai è tutto in discesa, mi ripeto, eppure più di una discesa, sembra tutto un dirupo.
i vuoti sono pesanti da portare, da sopportare; ti scavano dentro, rompono argini, fanno un casino inimmaginabile.
il cuore batte forte, lo sento anche se non vorrei, è al centro del petto come se fosse il centro di tutti i bersagli.
il desiderio, questa mattina, è brutale. soprattutto il tuo. il desiderio di te stamattina è forte come la nausea e qui gira tutto, voglio scendere da tutti i pensieri in cui ci sei tu. e tu sei ovunque.
e ho anche paura di non riuscire ad accorgermi, di non riuscire a vedere, di non riuscire a sentire più nulla di ciò che sentivo con te. ed è crudele, tanto, troppo.
quanti giri dovremo fare per incontrarci, di nuovo, per caso?
oggi dal letto sono scesa di testa, mi fa male tutto. l'anima, il cuore, lo stomaco, i pensieri. stringo i pugni per non piangere in pubblico e mi fanno male le mani.
tutti mi dicono che basta lasciarsi attraversare dalle emozioni per trovare un senso, ma io ci provo da mesi e non ho capito davvero nulla della direzione, non ho ben capito a che gioco io stia giocando, cosa si perde e soprattutto cosa cazzo si vince.
il moto perpetuo di un pensiero fisso è la cosa più dolorosa che si può provare; sei come un pendolo nel mio cervello ed ogni volta che un pensiero mi tocca un punto più delicato di un altro, il mio cuore perde un battito -rallenta, ma poi ricomincia a correre, veloce, inesorabilmente, come se si stesse andando a schiantare.
perché sì, è vero, si sopravvive a tutto, ma come si vive dopo?
nelle più rosee delle previsioni ci sono tante, troppe spine da sfilare, e no, questa volta, non so perché, non ho pazienza, forza, costanza. le spine fanno male, alcuni giorni -quelli come questi, più male di altri giorni.
mi viene tanta voglia di urlare da svuotare i polmoni e invece c'è talmente tanto caos che non so nemmeno cosa gridare.
fotografo il cielo, spesso, e mi piace, mi piace tanto perché non nasconde mai ciò che prova; io faccio una fatica cane ad essere trasparente, faccio fatica a rimettere in ordine i pensieri, mi ingrigisco perché le nuvole coprono tutto, ho talmente tanto di quel fumo nel cervello che non so proprio cosa fare per far tornare il sereno.
va peggio a noi che teniamo sempre tutto dentro e che tra un po' non avremo più spazio. quando passano a ritirare i rifiuti di chi pensa troppo e cammina in giro per la città per disperdere pezzi che non vuole più?
abbraccio batoste serie, mi scompongo e mi ricompongo con una facilità disarmante. un giorno sto benissimo, il giorno seguente mi sento l'acqua alla gola e voglio scappare per la paura. ascolto musica tutto il giorno, gusti discutibili, ma serve andare altrove per capirci qualcosa e allora rollo una sigaretta, la fumo d'un fiato per sentirmi in debito d'ossigeno, provo a spostare i miei pensieri su altre cose.
non funziona. e non funziono nemmeno io.
alcuni giorni sono cemento armato, altri, rovinosamente, solo della stupidissima polvere.
ci sono giorni che sono difficili come se parlassi la lingua dei segni, ma con le mani in tasca. e mi chiedo perché. perché a me. perché così. perché ora. perché. milioni di perché senza risposta.
e stavo pensando che io non me ne vado mai, in quanti posti sono rimasta sola e tu nemmeno lo sai, nemmeno te ne sei accorto. ed è vero, il momento della malinconia colpisce a tradimento, quando meno te lo aspetti.
speriamo che a tradimento, se ne vada, lontano, per un po'.
alzo il volume in cuffia, con la nostra playlist. cerco l'uscita.
domani andrà meglio, ne sono sicura.
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tananangel · 1 year
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.        ♡  ᴛʜɪꜱ ɪꜱ ʙʀᴀɴᴅᴏɴ'ꜱ ᴘᴇɴꜱɪᴇᴠᴇ           ㅤ14.02.2026       ⌵ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀           ㅤ⚠️: accenni a disturbi alimentari ( arfid ) ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀   [ ... ] ℬ I contorni dell'altra diventano sfocati, guardati da dietro la coltre di lucciconi che ormai intacca gli occhi: è il pianto di un cervello che vorrebbe trovare le parole giuste da dire per farle capire che senza lei accanto non ce la può proprio fare, neppur volendo. E lui nemmeno vuole, quindi anche peggio. Di un cuore che trova soltanto giusto starle vicino in questi momenti così difficili, che vorrebbe avere il potere di riavvolgere il tempo e tornare alla notte precedente, loro due e il deserto nella tenda. 𝘕𝘶𝘭𝘭𝘢 𝘱𝘪𝘶̀. Soprattutto, non il fastidio che prova nel sentire le ultime parole – le libera il viso, fa un solo passo indietro. « Non mi comporto da psichiatra, non saprei neppure come si fa » tenta d'asciugare le occhiaie con i propri pollici, gesto quasi inutile, considerato quanto presto torni il bagnato. « Non ti importa di quello che provo io in merito a questa storia? Di quello che 𝘣𝘢𝘴𝘵𝘢 a me? » ℋ 𝐴 𝑡𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑣𝑎, prima risposta che balena alla mente della più piccola. 𝐴 𝑡𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑣𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑒𝑟𝑜 𝑖𝑜 𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑚𝑎𝑙𝑒, 𝑎𝑑 𝑎𝑣𝑒𝑟 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑'𝑎𝑖𝑢𝑡𝑜, 𝑎𝑑 𝑎𝑣𝑒𝑟 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑒. Risposta che però non prende corpo, ché il fastidio nel tono di Brandon ha il potere di farla stare zitta, a testa bassa. Il cuore s’attorciglia nei sensi di colpa, ora scaturiti persino per la stilla di risentimento che le fa stringere un po’ di più i pugni. 𝑀𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑓𝑎𝑟𝑙𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑔𝑔𝑖𝑜. « Mi importa solo di ciò che è meglio per te » balbetta, nel tremolio di una voce che pare quasi avere freddo, ma è solo piegata alle volontà di sentimenti forti e contrastanti tra loro, che tenta ancora di non vomitare addosso a lui. 𝑀𝑎 𝑠𝑒 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑙𝑢𝑖 𝑙𝑎 𝑜𝑑𝑖𝑎𝑠𝑠𝑒, pensa, potrebbe liberarsi le spalle dal peso che è diventata.  Potrebbe andare avanti senza il timore di dover essere perfetto, di dover essere migliore – quante volte gliel’ha detto, pure questo? "𝑆𝑎𝑟𝑜̀ 𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜𝑟𝑒"... « Mi sento così stupida » Tira su col naso, si asciuga gli occhi in fretta con la manica della felpa, « Ero così impegnata a farti capire che sei quello giusto per me, da non vedere che sono 𝑖𝑜 quella che non va bene per te – Ma non te ne rendi conto, davvero? » e ora lo guarda, gli occhi lucidi, le braccia che si aprono appena, « Quanto eri felice prima che 𝑡𝑖 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑠𝑠𝑖 𝑖𝑜. Non lo vedi? Che tutto era più semplice, senza me – magari – magari potevi trovare qualcuna con cui parlare, qualcuna con cui – con cui non avresti avuto paura di sfogarti sui tuoi problemi. Qualcuna con cui non avresti paura di litigare – perché alla fine è diventato questo, no? È questo che intendevi, quando a tua madre hai detto che devi riflettere, per essere migliore, per andare bene, per cos’altro? E poi io invece, che faccio? 𝑀𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑧𝑧𝑜, pensando che la nostra relazione sia una relazione normale – quando invece non lo è. Non lo è se passi le notti insonni a domandarti cosa fare e cosa non fare perché la tua stupida ragazza sta morendo! » ha fallito, ecco: il tentativo di non vomitargli addosso quello che sente. Ha fallito alzando il tono di voce, fino ad urlare quasi quelle ultime parole. ℬ Uno schiaffo in faccia: ecco che cosa sono quelle ultime parole, l'urlo con cui le ha espresse. 𝘓𝘢 𝘵𝘶𝘢 𝘴𝘵𝘶𝘱𝘪𝘥𝘢 𝘳𝘢𝘨𝘢𝘻𝘻𝘢 𝘴𝘵𝘢 𝘮𝘰𝘳𝘦𝘯𝘥𝘰. Sentirlo dire a lei è troppo per lui, che ha bisogno di arretrare fino alla parete e scivolare, fino a sedersi sul pavimento. Le ginocchia vengono piegate al petto, i gomiti poggiano su di loro e le mani tirano i capelli – non la guarda più, adesso non ce la fa. Per le lacrime, gli occhi rossi, per il panico nutrito dal timore che non gli abbia detto tutto. Sta peggiorando e non se n'è accorto? Che cazzo di stupido. Il silenzio che lascia aleggiare tra di loro gli pare tanto eterno quanto inesistente, con tutto il casino che ha nella testa, che è sicuro pure lei abbia. « Pensavo stesse andando meglio, » mormora, ché non ce la fa a continuare ad affrontare tutto il resto se prima non s'assicura di questo. Che sia soltanto uno sfogo, magari, che non sia così grave come dice. « Non è così? » ℋ Silenzio. È così, che Brandon le risponde: silenzio, passi indietro, il modo in cui si accascia a terra. Per un attimo, Gaia teme di aver perso 𝑡𝑟𝑜𝑝𝑝𝑜 il controllo, che la voce abbia raggiunto un tono tale da infastidirlo, da fargli male. Porta istintivamente una mano alla gola, il cuore che pare quasi ghiacciarsi di fronte a quell’ipotesi. Non se lo perdonerebbe mai, un errore di quel calibro – d’altronde non urla mai, Gaia. 𝑃𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ ℎ𝑎 𝑑𝑜𝑣𝑢𝑡𝑜 𝑓𝑎𝑟𝑙𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑜𝑟𝑎? Le parole successive di Brandon, però, hanno il potere di dissolvere almeno quella paura – accendendone un’altra, che brucia dolorosamente al centro del petto. Deglutisce, e neppure lei risponde subito. Occupa il silenzio camminando verso di lui, sedendoglisi accanto sulla pietra fredda del pavimento. Sta ancora piangendo, sta ancora tremando, eppure sente tutt’attorno una calma innaturale, un silenzio innaturale. Scuote la testa, lasciando che i capelli ricadano a coprirle il volto. Li sposta lentamente dietro l’orecchio, prendendo tempo: « È quello che sto cercando di dirti – non sono peggiorata, ma neppure migliorata. 𝑁𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑎 » piano, Gaia. Altre lacrime s’affollano agli occhi, e il viso si nasconde tra le mani. Strozza un altro singhiozzo in gola. Neppure lei ce l’ha, quel coraggio che serve ad ammettere che forse la guarigione non arriverà mai, che forse, per lei, potrà finire soltanto in un modo. « E io non -- » pausa, necessaria per riemergere dalle mani, per raccogliere altre lacrime dalle guance, « non voglio che mi stai vicino ora, non ti fa bene – e non me lo perdonerei mai, Brandon, se ti capitasse qualcosa per colpa mia – c’è già stato, c’è già stato un attacco e io non c’ero, perché stavo male – e poi sei svenuto, e io non c’ero, ed è successo perché per colpa di tutto questo non riesci a riposare – 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑓𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜, 𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑡𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜, 𝑛𝑜𝑛 𝑙𝑜 𝑠𝑜𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜. » ℬ 𝘕𝘰𝘯 𝘦̀ 𝘱𝘦𝘨𝘨𝘪𝘰𝘳𝘢𝘵𝘢: è soltanto questo il dettaglio che gli interessa, ché, pure se non è migliorata stavolta, piccoli passi in avanti possono sempre essere raggiunti nelle prossime settimane – è così che funziona, no? L'importante è che non ne faccia indietro. Si concede un respiro di sollievo, la coda dell'occhio che la osserva sedersi accanto a lui, piangere ancora. 𝘛𝘰𝘴𝘤𝘢, 𝘲𝘶𝘢𝘯𝘵𝘰 𝘷𝘰𝘳𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘴𝘵𝘳𝘪𝘯𝘨𝘦𝘳𝘭𝘢 𝘧𝘰𝘳𝘵𝘦 𝘢 𝘴𝘦́, eppure se ne resta lì, fermo in quella specie di auto-abbraccio, con le parole di lei che gli entrano nella testa e che tornano a infastidirlo. Ancora. Il punto è che sa che potrebbe dire qualsiasi cosa e lei con buona probabilità resterebbe nella sua convinzione 𝘴𝘣𝘢𝘨𝘭𝘪𝘢𝘵𝘢, e questo è per lui elemento di non poca frustrazione. « Se mia madre ti ha riportato per bene la cosa, dovresti sapere che c'entra 𝘢𝘯𝘤𝘩𝘦 Sanremo, 𝘢𝘯𝘤𝘩𝘦 il fatto che abbia problemi a dormire da quando ero piccolo » le mani attorcigliano, frenetiche, i capelli già devastati dal vento. « Ma comunque, mi spieghi che senso ha per te stare insieme, se mi dici che non mi vuoi vicino? » gira la testa, finalmente, lo sguardo adesso del tutto puntato su di lei. « Ogni relazione che sia degna d'esser definita tale ha momenti di felicità e momenti in cui bisogna affrontare determinate cose – hai idea di quanto mi sentirei una merda, di quanto odierei starti lontano non perché boh, non mi ami più e devo farmene una ragione - e comunque vorrei esserci in quanto tuo amico -, ma perché pensi che sia troppo debole? » ℋ « Io non dovrei essere tra quei motivi, Brandon… » Parole che pronuncia con estrema lentezza e fatica, ché non sa definire quanto male le facciano. È un dolore che non possono esprimere neppure tutte le lacrime che piange, neppure tutte le parole che potrebbe trovare per farglielo capire. È così insidiata dentro di lei, quella sensazione di non sapergli stare accanto nel modo giusto, che non può, 𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑒𝑠𝑐𝑒 a scrollarsela di dosso. « Se io ti dicessi che tu sei uno dei motivi della mia ricaduta » accenna, spostando il volto nella sua direzione, l’espressione affranta, distrutta dal pianto incessante, « riusciresti a stare con me? » e attende. Lascia che l’informazione si posi su di loro, che lui, almeno un poco, si metta dalla sua parte della storia. Ha già ferito tante persone, solo perché non riesce a mangiare quanto le viene richiesto – l’idea di trascinare anche lui, giù con sé, non può accettarla. Non ce la fa. « Non lo sei, comunque – è una cosa ipotetica » aggiunge allora, che ci mancherebbe solo fargli credere di essere in quel pasticcio a causa sua. Abbassa la testa, si stropiccia gli occhi gonfi. « E non penso che tu sia debole, non è così – sto solo cercando di farti capire che forse tua madre non ha tutti i torti, a chiederti di tutelarti. Perché te l’ha già chiesto, no? Prima di quel giorno, a Sanremo » torna a guardarlo. Ora che non urla, che parla con appena più raziocinio, subentra anche la nostalgia del suo tocco – il desiderio di abbracciarlo, di rimettere a posto i pezzi per non farlo stare così male. Vorrebbe solo le cose belle, per lui: le stelle che hanno visto la sera prima, le promesse che si sono fatti ogni notte, quelle che si sono mormorati spaventati al telefono. Appoggia la fronte sulla sua spalla, altre lacrime che tornano a rigarle le guance. « Ti amo più di ogni altra cosa al mondo, e più di ogni altra cosa al mondo non voglio – non voglio tirarti giù con me, 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒, non voglio rovinare questa cosa bella che sei » ℬ Non lo riempie, il silenzio che l'altra lascia tra di loro con quella domanda. Non lo riempie con parole, almeno, ma con altre lacrime, ché soltanto l'ipotesi di poter davvero essere in qualche modo elemento di ricaduta per Gaia gli dilania il cuore – non è nemmeno sicuro di credere più di tanto al fatto che sia soltanto una cosa ipotetica, a questo punto. Le passa comunque il braccio attorno ai fianchi, quando poggia la fronte alla sua spalla, e s'abbassa a toccarle i capelli con la guancia. Povera chioma, vittima d'uno shampoo molto salato. « Permettimi di restare, 𝘱𝘦𝘳 𝘧𝘢𝘷𝘰𝘳𝘦 » sussurra, la mano libera che cerca la sua senza che neppure se ne accorga. « Andrò in terapia come mi hanno consigliato e prenderò gli integratori all'orario giusto, te lo giuro, riuscirò a dormire: se ci – se ci impegniamo possiamo stare meglio entrambi e restare comunque insieme » boccheggia. « Io non sono niente di bello, guarda che cosa ti – » 𝘨𝘶𝘢𝘳𝘥𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘵𝘪 𝘴𝘵𝘰 𝘧𝘢𝘤𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘧𝘢𝘳𝘦, 𝘢𝘮𝘰𝘳𝘦. 𝘛𝘪 𝘴𝘵𝘰 𝘧𝘢𝘤𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘪𝘳𝘦 𝘶𝘯 𝘱𝘦𝘴𝘰, 𝘵𝘪 𝘴𝘵𝘰 𝘧𝘢𝘤𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘤𝘳𝘦𝘥𝘦𝘳𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘵𝘶 𝘮𝘪 𝘧𝘢𝘤𝘤𝘪𝘢 𝘥𝘦𝘭 𝘮𝘢𝘭𝘦. Forse ha ragione, per Tosca. Forse non averlo intorno potrebbe fare davvero bene a qualcuno: sì, a lei. ℋ Serra gli occhi, ormai le lacrime sono così tante che le pare l’unico modo per rallentarne la discesa. Il corpo però si avvicina, alla ricerca di una stretta che non si limiti soltanto al braccio attorno ai fianchi. Intreccia le dita alle sue, ma tiene la sua mano con entrambe le proprie: la custodisce, quasi, come qualcosa di preziosissimo. Il volto si sposta, si nasconde nell’incavo del collo dell’altro, lasciando – ingenuamente – che tutte quelle lacrime gli bagnino la pelle, il tessuto della felpa. Recupera tutto il contatto che prima ha evitato, che prima non riusciva a ricevere. Ogni centimetro di sé che lo sfiora, che viene sfiorato, recupera energia. 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑟𝑐𝑒𝑙𝑎, 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑙𝑢𝑖? Lo sa, lo sa che non ci riuscirebbe mai – e questo, se possibile, la rende ancora più egoista. Ancora più distruttiva, più tossica per lui. 𝑃𝑒𝑟𝑚𝑒𝑡𝑡𝑖𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒, le chiede, e non fa altro che accentuare il pianto. Vorrebbe essere abbastanza forte da allontanarlo davvero. Vedi, Brandon, alla fine il debole non sei tu. « Non lo dire » mormora, riferendosi a quella frase lasciata a metà. Riemerge dal suo nascondiglio per poterlo guardare, stavolta persino accarezzare, portando una delle mani sulla sua guancia. « Non devi nemmeno pensarlo, capito? Quello che mi succede – non è colpa tua, tu hai sempre fatto tutto, persino troppo, per me » Si concede di guardarlo ancora per qualche istante, in silenzio. Annuire è così difficile, così difficile che lo fa con una lentezza disarmante. « Ma – promettimi che ti metterai al primo posto… 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑣𝑜𝑟𝑒. » ℬ A volte è proprio surreale, la vita: ha tanto insistito perché Gaia si convincesse che stare insieme fosse la cosa giusta e adesso che ha ottenuto quantomeno che lo accettasse, seppur con un compromesso, è lui a credere il contrario. Perlomeno, si può dire che abbia compreso a pieno il suo punto di vista: pensare d'essere veleno per la persona amata è logorante, forse non esiste sentimento peggiore. E allora, mentre lei annuisce, lui scuote la testa – lentamente, allo stesso ritmo, quasi fossero due facce d'un riflesso che mostra il concettualmente opposto di ciò che in esso vi si specchia. Le bacia il naso, quel naso che tanto ama. Si prende ogni istante che può, cerca di registrarlo per bene nella mente. 𝘌̀ 𝘱𝘦𝘳 𝘭𝘦𝘪, 𝘉𝘳𝘢𝘯𝘥𝘰𝘯. 𝘋𝘦𝘷𝘪 𝘧𝘢𝘳𝘭𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘭𝘦𝘪. « Se avessi davvero fatto tutto, e se lo avessi fatto bene, adesso tu non ti sentiresti così in relazione a me » poggia la fronte alla sua, deglutisce. La voce trema, ma non può permettersi di interrompere il discorso. « Non crederesti di trascinarmi giù, amore mio, non piangeresti così tanto, non - » eccola là, una nuova ondata di lacrime che non sarebbe in grado di fermare neppur volendo. Questa in corso è in assoluto l'impresa più difficile che abbia mai affrontato – ad ora, persino superare il lutto del padre gli pare più semplice. Insomma, lì non ha potuto fare molto se non accettare la tragedia, mentre qui... 𝘍𝘰𝘳𝘻𝘢 𝘦 𝘤𝘰𝘳𝘢𝘨𝘨𝘪𝘰, 𝘉𝘳𝘢𝘯𝘥𝘰𝘯. « Un amore che ti fa sentire sbagliata non è l'amore giusto. In qualche modo, ho capito che hai ragione: devo allontanarmi, ma per non fare altro male a te », 𝘵𝘳𝘢𝘵𝘵𝘪𝘦𝘯𝘪 𝘪 𝘴𝘪𝘯𝘨𝘩𝘪𝘰𝘻𝘻𝘪. 𝐓𝐫𝐚𝐭𝐭𝐢𝐞𝐧𝐢 𝐢 𝐬𝐢𝐧𝐠𝐡𝐢𝐨𝐳𝐳𝐢. ℋ Il tempo è immobile, cristallizzato nel silenzio che segue alla scelta di Brandon. 𝐸̀ 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑜𝑙𝑒𝑣𝑖. 𝐸̀ 𝑞𝑢𝑒𝑙 𝑐ℎ𝑒 𝑔𝑙𝑖 ℎ𝑎𝑖 𝑐ℎ𝑖𝑒𝑠𝑡𝑜. 𝐸̀ 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑐𝑜𝑠𝑖̀. Nessuna spiegazione valida, però, riesce a renderlo meno doloroso. Scava una fossa, al centro esatto del suo corpo, raggiunge punti in cui non credeva possibile provare dolore, provare assenza. Nell'istante esatto in cui è lui che pone il punto, qualcuno spegne la luce: non ha più senso niente. Se non c'è lui, non ha senso niente. Una lacrima soltanto le riga la guancia, così in contrapposizione col forte e rumoroso pianto di prima — eppure, sembra non essere in grado di uscire nient'altro da lei. Prende un respiro, che suona forte, disperato quasi, come avesse passato i secondi precedenti in apnea — e forse, in effetti, è così. « Mi hai fatto solo del bene » parla piano, la voce rauca, il resto delle lacrime che inseguono la prima ad essere scappata, « E io — » 𝑣𝑜𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑡𝑜𝑟𝑛𝑎𝑟𝑒, 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑓𝑎𝑟𝑜̀ 𝑑𝑒𝑙 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑎 𝑡𝑒. Eccolo, allora: lo scoppio di quel pianto che è rimasto sull'orlo troppo a lungo. Un singhiozzo dietro l'altro, un fiume senza fine di gocce che scivolano e bagnano la faccia, il mento, il collo. Torna vicina a lui, a cercare un abbraccio, a darglielo lei stessa, intrecciando le mani sulle sue spalle. 𝐴𝑟𝑟𝑖𝑣𝑒𝑟𝑎̀ 𝑖𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑙𝑢𝑛𝑒𝑑𝑖̀, 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒. 𝑻𝒆 𝒍𝒐 𝒈𝒊𝒖𝒓𝒐. ℬ « Va tutto bene, amore mio. Va tutto bene » in realtà non va bene proprio nulla, ché teme gli verrà un infarto per quanto il cuore è in sofferenza, ma deve essere forte, deve trovare un modo per consolarla almeno un po' da quel pianto in cui è scoppiata di nuovo. « Andrà tutto bene » sussurra, mentre la tiene stretta tra le proprie braccia. Chissà quando capiterà di nuovo – chissà 𝘴𝘦 capiterà di nuovo. « Sono sicuro che presto ti accorgerai che sono io ad aver ragione, devi solo – solo promettermi che questa cosa non sarà vana, che – » abbandona il rifugio che aveva trovato nell'incavo del collo soltanto per poterla guardare, per poter sfiorare le labbra con le sue. Un'ultima volta almeno, si dice. ℋ « Devi prometterlo anche tu » un mugolio, quasi, che non potrebbe mai accettare l'idea di lasciarlo da solo nella sofferenza — mai. Se deve accettare quella separazione, è solo nella speranza che lui stia meglio, che lei stia meglio, abbastanza da poterlo amare come dovrebbe essere amato. In modo giusto. Dolce. Gentile. Le mani gli raccolgono il viso, « Promettimi che ti prenderai cura di te, per favore, 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑣𝑜𝑟𝑒 » e le labbra non si allontanano, ma neppure si avvicinano, che vuole aspettare di sentire quella promessa, prima di baciarlo – spera non per l'ultima volta. ℬ « Sarà il giuramento più solenne che faremo mai » un giuramento che richiederebbe d'esser sancito dai mignolini, quindi. Unirli, però, significherebbe tutta una serie di cose che non è ancora pronto a fare – smettere di cullarla tra le proprie braccia, ad esempio, oppure costringerla a lasciare la presa sul viso. Ha bisogno di quel calore almeno per qualche altro minuto, il tempo di trovare la forza, scovarla dal punto più remoto in cui è stipata. Azzarda una nuova metodologia, allora: le punte dei nasi strofinate, un po' come fosse un bacio eschimese. « Te lo prometto, adesso tocca a te dirlo ad alta voce. » ℋ Ci crede così tanto, a quella promessa, che al posto dei mignoli incrocia gli sguardi. Cerca quello di lui, le iridi scure che ama così tanto, che non può pensare di non vederle più appena sveglia, prima di dormire. Non può pensare di non essere più cullata in quel modo, di non potersi più riempire del suo profumo, tornare in camera con i vestiti che sanno ancora di lui. Non può pensarci, di non doversi più schiacciare in due nel letto singolo,  di non avere più diritto di scompigliargli i ricci, di non poterli più nemmeno sistemare dopo averlo fatto. E non può pensarci, ché quelle labbra non potrà più baciarle quando vuole, che quella voce non le racconterà più segreti e cose sceme sotto le lenzuola. « Te lo prometto, amore » Chiamarlo così è davvero un dolore aggiuntivo, come lo è azzardare nel ridurre la distanza per far collidere le labbra, per ballarci assieme un'ultima volta. « Vorrei — » sussurra, senza allontanarsi se non per lo spazio necessario a parlare, « solo un'ultima cosa, però » ℬ 𝘊𝘩𝘪𝘢𝘮𝘢𝘮𝘪 𝘢𝘯𝘤𝘰𝘳𝘢 𝘢𝘮𝘰𝘳𝘦, 𝘤𝘩𝘪𝘢𝘮𝘢𝘮𝘪 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘳𝘦 𝘢𝘮𝘰𝘳𝘦, 𝘤𝘩𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘮𝘢𝘭𝘦𝘥𝘦𝘵𝘵𝘢 𝘯𝘰𝘵𝘵𝘦 𝘥𝘰𝘷𝘳à 𝘱𝘶𝘳 𝘧𝘪𝘯𝘪𝘳𝘦 – è nelle parole del maestro Vecchioni che gli risuonano in testa che trova la forza di non affondare quando sente quel nomignolo tanto caro, di cui sentirà fortemente la mancanza. Che poi, a dire il vero, ci sarà qualcosa che non gli mancherà? È sicuro nel pensare che sarà difficile persino sopportare l'assenza di battibecchi, ché con lei pure quelli sono belli – persino le lacrime, le tante che hanno versato, se condivise con lei sono tanto devastanti quanto appaganti. È uno strano concetto che non saprebbe spiegare meglio, e a dire il vero nemmeno gli importa di farlo, adesso: vuole pensare soltanto al presente, poi si vedrà. « Tutto quelli che vuoi, dimmi » è pronto nel risponderle, ché farebbe letteralmente qualsiasi cosa pur di renderla felice. Qualsiasi. ℋ « 𝑅𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑚𝑒, 𝑠𝑡𝑎𝑠𝑒𝑟𝑎 » un'implorazione, quasi, che per l'occorrenza si è persino inginocchiata. Va bene, va bene, accetterà di allontanarlo, di allontanarsi – ma 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑖. Non può sopravvivere all'idea di rientrare in camera da sola, di affrontare la sua assenza così bruscamente. Il cuore si accartoccia solo al pensiero: è un foglietto stropicciato, nel suo petto, che cerca un po' di forza per tenerla su. « Lo so che è un controsenso, ma... non voglio che le ultime cose siano tutte queste lacrime e le mie urla e — lo capisco, però... se non vuoi » ℬ « Voglio » è l'immediata risposta che pizzica le corde vocali, addirittura ancora prima che se ne renda conto. Forse avrebbe dovuto pensarci un po' di più, ché come dice lei è un bel controsenso, ma è anche convinto che entrambi i loro cuori possano trovare ristoro all'idea di avere ancora del tempo per loro, per poter metabolizzare quanto successo, per poter (magari, sebbene non ne sia troppo convinto) affrontare con più energia la solitudine che ne verrà. « Andiamo da te? » 𝘳𝘰𝘮𝘱𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘪 𝘨𝘭𝘪 𝘰𝘳𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪, 𝘤𝘰𝘴ì 𝘪𝘭 𝘯𝘰𝘴𝘵𝘳𝘰 𝘵𝘦𝘮𝘱𝘰 𝘪𝘯𝘴𝘪𝘦𝘮𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘧𝘪𝘯𝘪𝘳à 𝘮𝘢𝘪. ℋ Puoi respirare, Gaia. 𝑉𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑎𝑠𝑒𝑟𝑎. 𝑽𝒐𝒓𝒓𝒆𝒔𝒕𝒊 𝒔𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒎𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆? 𝑭𝒂𝒏𝒄𝒖𝒍𝒐 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒊 𝒅𝒖𝒃𝒃𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝒄𝒂𝒛𝒛𝒐, 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒊𝒏𝒐 𝒊 𝑻𝒉𝒆 𝑺𝒎𝒊𝒕𝒉𝒔 𝒍𝒐 𝒅𝒊𝒄𝒆𝒗𝒂𝒏𝒐: 𝒕𝒐 𝒅𝒊𝒆 𝒃𝒚 𝒚𝒐𝒖𝒓 𝒔𝒊𝒅𝒆, 𝒊𝒔 𝒔𝒖𝒄𝒉 𝒂 𝒉𝒆𝒂𝒗𝒆𝒏𝒍𝒚 𝒘𝒂𝒚 𝒕𝒐 𝒅𝒊𝒆. 𝑳𝒂𝒔𝒄𝒊𝒂𝒎𝒊 𝒎𝒐𝒓𝒊𝒓𝒆 𝒂𝒄𝒄𝒂𝒏𝒕𝒐 𝒂 𝒕𝒆. 𝑳𝒐 𝒑𝒓𝒆𝒇𝒆𝒓𝒊𝒔𝒄𝒐, 𝒂𝒍 𝒗𝒊𝒗𝒆𝒓𝒆 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒅𝒊 𝒕𝒆. Pensieri che non espone neppure, che rinchiude in un altro bacio rubato senza permesso. Si stringe forte a lui, percepisce le lacrime dannate intromettersi di nuovo tra le loro labbra. Maledette, come osate sfiorarlo lì, in un posto soltanto suo. « Sì » risponde con la voce rotta, con la mano che cerca la sua. Non vuole dire altro, non vuole più parlare — ora ha solo bisogno di sentirlo. Per non dirgli addio, non ancora. ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀           ㅤ𝘚𝘦 𝘢𝘮𝘢𝘳𝘴𝘪 𝘥𝘶𝘳𝘢 𝘱𝘪𝘶̀ 𝘥𝘪 𝘶𝘯 𝘨𝘪𝘰𝘳𝘯𝘰           ㅤ𝘌̀ 𝘮𝘦𝘨𝘭𝘪𝘰, 𝘦̀ 𝘮𝘦𝘨𝘭𝘪𝘰           ㅤ𝘌̀ 𝘮𝘦𝘨𝘭𝘪𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘳𝘪𝘮𝘢𝘯𝘪 𝘲𝘶𝘪.
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chiamatemefla · 3 years
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wip 2021 pt. 2
C’è una strada in discesa di fronte alla scuola elementare, un lungo nastro di asfalto che si srotola giù per un fianco della collina, costeggiato da palazzi anni Settanta, squadracciati e non particolarmente alti, tra le quali si incastrano viuzze che salgono verso questo o quel cancello.
Gli hanno una volta rivelato che una larga parte di quei cancelli è solo decorativa, che la maggior parte delle persone che abitano in quella zona la usa come vezzo più che come deterrente dall’altrui compagnia: un cancello fa status, denota qualcosa da proteggere e delimitare, anche se questo qualcosa è un appartamente piuttosto stretto in un vecchio condominio dai muri dipinti di un arancione scuro ora cotto dal sole.
C’è una curva in quella strada, ed un palazzo che sembra un po’ più alto degli altri perché affonda le sue radici nella strada sottostante e guarda, con interesse, verso la parete scoscesa su cui il centro storico poggia, impassibile, come un gatto perennemente in bilico sul bordo di una credenza.
Proprio ai piedi di quel palazzo stranamente alto c’è un’officina, e ci sono due ragazzi, un motorino, una macchina parcheggiata in attesa del suo turno che osserva un’altra venir smontata e rimontata con cura, e il sole che bacia solo metà del piazzale oblungo. È bello quel posto, non è buio eppure la luce non lo bagna mai del tutto, c’è sempre una piccola pozza d’ombra in cui nascondersi quando l’estate si fa bollente ed anche lavorare dentro al garage diventa un’esperienza piuttosto asfittica.
Antonio non ha ancora vissuto un’intera estate lassù, e dubita fortemente che possa essere calda quanto gli altri dicono, eppure in quel pomeriggio di fine febbraio può forse capire cosa i più intendono, perché si lamentano: il sole è strano quando si è lontani dal mare, colpisce in modo diverso perché non te l’aspetti.
Ciò non toglie che stia tentando di prenderselo tutto in faccia, respirarlo quanto più possibile, lavarsi via dalla testa tutta la pioggia delle settimane precedenti.
Poi d’improvviso il rumore di qualcosa che cade a terra, probabilmente una chiave inglese lanciata, ed un’imprecazione piuttosto colorita, forse sono davvero fortunati che non ci sia nessun altro lì davanti a parte loro due.
«’Sto motorino ha fatto l’Unità d’Italia.»
Giacomo si passa le mani sui jeans con veemenza, li sporca di grasso e qualsiasi altra cosa ci sia dietro alla scocca del suo bolide, continuando a guardarlo con la stessa aria di sfida con cui lo fissa da quando, circa un’ora prima, è arrivato in officina trascinandoselo dietro come una bicicletta particolarmente pesante su per i sali e scendi del paese.
«Dottore, mi dica, si riprenderà?»
Giacomo storce il naso, non scolla gli occhi dalla scocca blu abbandonata a terra; a volte vorrebbe sapere cosa vede in quell’ammasso di ferraglia che a lui sfugge, cosa sta leggendo tra i tubi a vista di un motorino che ha avuto giorni migliori. Giacomo concentrato è qualcosa di nuovo a cui un po’ tutti faticano ad abituarsi, una sfumatura diversa di quel ragazzo sempre un po’ assente che è stato fino a qualche mese prima.
«A riprendere si riprende, per carità, ma secondo me è meglio se ti fai un asino: va sicuramente meglio di questo coso e consuma meno. Quanto ci spendi per st’accrocco? Tra manutenzione e benzina già t’eri fatto una macchina, arrivato a questo punto.»
«Certo, poi parcheggio me lo cerchi tu.»
«Tanto il motoschifo sta sempre parcheggiato qua da me, non è che cambierebbe un granché e te potresti muoverti.»
Glielo ha già ripetuto almeno tre volte, l’ha quasi pregato di buttare quel motorino che non ha certo visto l’unità d’Italia ma sicuramente ha vissuto il diploma di sua madre, e Antonio sa perfettamente che potrebbe farlo ma, al contempo, la sola idea di rottamare quel cimelio che sta già cercando di rottamarsi da solo, gli crea un senso di disagio, una paura strisciante che lo fa desistere ogni volta.
Paura di cosa non lo sa, sa solo che non vuole lasciar andare il macinino anche se dovrebbe.
«Capirai, le traversate oceaniche mi ci faccio: da casa mia alla stazione, da casa mia a casa di Flavio, da casa di Flavio alla stazione...potrei pure comprarmi una bicicletta.»
«Ah, ma Flavio è ancora vivo?»
«Dipende da cosa intendi per vivo: respira ancora? Sì. Fa qualcos'altro? Non saprei.»
«L’altro giorno ho visto suo nonno, m’ha detto che non esce di casa da tipo Capodanno, che poi è l'ultima volta che l'ho visto, e che non lo sopportano più.»  
«Due gennaio», si ritrova a rispondere di getto, lo corregge come ha corretto anche i nonni di Flavio, come si ripete ora che non ha più la pioggia e il cielo tetro come scusa per quel comportamento.
Tutto è solo quel che sembra, però se lo chiedi a chiunque giri loro intorno la risposta sarà sempre la stessa: no, non è vero, non funziona così, è solo un po’ di stanchezza.
Risultato: ora sono stanchi in due, in modi diversi, per motivi diversi, e comunque nessuno li ascolta.
Giacomo fischia e tira fuori una chiave inglese troppo lunga per essere davvero entrata nella tasca sinistra dei suoi jeans. Antonio però non si fa domande, lo osserva passarsela tra le dita come fosse una matita durante una lezione particolarmente noiosa mentre ammira una chiazza una a tre passi da lui. Si ritrova stranamente in apprensione per l’espressione impensierita che è sempre meno da Giacomo e sempre più da qualsiasi cosa questi diventerà in futuro, un mistero avvolto in quelle rughette che si formano sulla fronte quando corruccia le sopracciglia.      
«Eh, cazzo, è il ventisette di febbraio magari il naso fuori dovrebbe metterlo. Neanche risponde ai messaggi, Gabriele quasi chiama Chi L’Ha Visto, poi fortuna gli hai scritto tu e l’hai tranquillizzato.»
«Gabriele sta tutto ansiato, s’ha da calmà arrivati a sto punto.»
Prova a pulire la macchia che Giacomo sta guardando, grattarla via col piede, e alla fine si sporca solo la gomma bianca delle scarpe e il grasso rimane lì, viscido e scuro.
«E comunque Flavio aveva detto che oggi mi avrebbe accompagnato, poi si è ricordato di non so che cosa che doveva rivedere e l’ho lasciato sui libri. Che poi fosse quello…è che probabilmente lo ritroverò sui libri ora che torno, ancor più probabilmente sulla stessa pagina.»
Un’altra generosa manata unta si aggiunge accanto alle altre sulla gamba destra dei pantaloni di Giacomo che ora guarda lui, alza il braccio per grattarsi il naso con il polso, e sembra tentennare.
«Vabbè, se non altro avete fatto pace.»
«Non è una questione di fare pace.» *
Gli piaceva di più quando al piano di sotto abitava ancora Lucrezia, che era sorridente e simpatica e metteva sempre la musica la domenica mattina, e soprattutto gli piaceva di più quando c’erano ancora i suoi panni stesi sulla via e lei lo salutava sempre affacciandosi alla finestra quando lo vedeva passare.
Ora, se guarda in basso dal minuscolo balconcino della cucina, vede solo delle persiane ostinatamente chiuse e il cartello verde fosforescente con su scritto “AFFITTASI”.
Lucrezia è trasferita perché la casa era piccola, un tempo intesa solo per il vecchio portiere di quel minuscolo palazzo, e la strada era scomoda, e trascinarsi una carrozzina con due gemelli dentro su per le infinite scalinate che dal parcheggio più vicino portano al palazzo sarebbe stato troppo difficile.
Quand’era piccolo lui era più comodo, sosteneva sua nonna, soprattutto perché non avevano ancora chiuso la stradina appena duecento metri più in là, una delle poche vie che non contemplavano il salire o scendere dei gradini per raggiungere la propria destinazione.
O forse no, non è vero che gli piaceva di più quando c’era Lucrezia, ché quando lo salutava dalle finestre credeva sempre di doverle delle spiegazioni, ché salutava sempre Francesca con un sorriso troppo largo quando li vedeva salire sapendo che in casa sarebbero stati soli e, si dice, forse oggi quel peso non l’avrebbe sopportato.
Dare spiegazioni non gli piace particolarmente, mal sopporta il doversi giustificare, e vivendo lui per primo nella beata convinzione che chi si fa i cazzi propri campa cent’anni non riesce a comprendere come, e soprattutto perché, sia possibile che il mondo intero non sia addivenuto alla stessa conclusione.
Lucrezia non era, ed è convinto che ancora non lo sia, una cattiva persona ma questo non significa che, per quanto possa mancargli ascoltare l’intera compilation di Battisti rigorosamente in vinile ogni domenica che Dio manda su questa terra, una parte di lui non stia gioendo nel sapere che una persona in meno ha visto il ragazzo davanti alla porta salire le scale con uno zaino particolarmente pieno sulle spalle.
Lo stesso ragazzo che lo aspetta sul pianerottolo con le mani in tasca e lo sguardo di chi non si aspetta davvero di vedere quella tavola di legno spostarsi quel tanto che basta da permettergli di entrare — e gli dispiace davvero, quell’espressione è colpa sua e non sa proprio come riuscire a non vederla mai più, a cancellarla, a togliergli ogni dubbio.
La meccanica del corpo umano, si ritrova a pensare, è una cosa bizzarra, così perfetta da non permetterti dubitare neanche per un attimo che la corazza di pelle ed ossa che abiti continuerà a funzionare perfettamente per tutta la tua vita, senza mai perdere un colpo, in un silenzioso insieme di ingranaggi fino alla fine dei tempi.
Ed è proprio questa illusione di perfezione che ti inchioda a letto in una mattina qualsiasi, quando tutto sembra funzionare nel modo giusto a parte il fatto che, no, non funziona affatto e il ronzio nelle orecchie lo senti solo tu, e le fusa del tuo gatto ti sembrano ingestibili perché quasi ti perforano il cervello.
A casa non c’è nessuno, i suoi sono partiti presto direzione Veroli per il funerale di un cugino del nonno, un tipo smilzo e storto che Flavio ha visto forse due volte in tutta la sua vita e che si era trasferito laggiù per nessun motivo, spinto da un irrefrenabile bisogno di spostarsi dalla Capitale alla ricerca di chissà cosa. C’erano voluti vent’anni di vita solitaria prima che incontrasse quella che poi sarebbe diventata sua moglie, una signora alta ed imponente che non amava particolarmente fare le scale e che, un paio di sere prima, aveva chiamato per annunciare che il cugino del nonno s’era incamminato sull’unica scalinata in cui non avrebbe potuto seguirlo.
Una pentola con le arance cotte riposa sul piano cottura della cucina, piena di qualcosa che non è ancora marmellata ma non è più frutta, le serrande sono alzate solo a metà e tutto sembra rallentato ed imbevuto dell’odore stucchevole degli agrumi cotti che si stanno pian piano caramellando.
Sua nonna non è una persona molto affettuosa, non nel senso stretto del termine, e il suo amore lo dimostra con gesti rari e parole fraintendibili però gli prepara sempre la marmellata e tenta di farla bollire quando non è in casa perché sa che odia gli odori troppo dolci, proprio come suo nonno.
E soprattutto sa che, proprio come suo nonno, ha bisogno di sentirsi in qualche modo rassicurato circa il proprio status affettivo all'interno della famiglia.
La marmellata è uno di questi rari gesti e Flavio sa che, se non fosse dovuta partire, avrebbe finito la sua opera facendolo uscire con una scusa qualsiasi come mettere la benzina alla macchina col serbatoio ancora mezzo pieno, o andare a fare la spesa nel supermercato più lontano solo per prendere quella specifica cosa che esiste proprio lì.
E invece la marmellata non è marmellata, è solo una pentola contenente una poltiglia gelatinosa di un arancione scuro che assomiglia un po’ a come sente ora il suo cervello: sciolto e pronto ad uscire dalle orecchie.
E Antonio aspetta sulla porta, ancora con le mani ben affondate nelle tasche del giaccone, ancora con la stessa espressione mentre butta un’occhiata verso l’interno.
«I tuoi si sono portati via la belva?» chiede, mentre Flavio si fa da parte quel che serve per farlo entrare e chiudersi la porta alle spalle con un sospiro che gli scioglie la tensione all'altezza del collo ma non il nodo doloroso che gli stringe lo stomaco in una morsa da ormai tre settimane.
Lo zaino dell'altro viene appoggiato con cura, ed un sospetto rumore di vetri, a terra proprio sotto all'attaccapanni, può sentire quel paio d'occhi azzurri fargli domande che la bocca non pronuncia e che vanno ben oltre la presunta assenza del padrone di casa, ovvero Cicerone, tra quelle quattro mura.
«La belva dorme sul mio letto.»
«Aspetto il giorno in cui mi dirai che tu sei andato a dormire sul divano per non svegliarlo.»    
Flavio sorride e si sporge quel che basta per poterlo salutare per bene, lascia che si avvicini per poterlo baciare e sentire le labbra dell’altro rilassarsi contro le sue. Gli piace che quello sia ormai un gesto automatico, gli piace il fatto che la reazione di Antonio sia sempre la stessa e, soprattutto, gli piace che anche oggi il suo ragazzo abbia voglia baciarlo.
Non era scontato, così come non era assolutamente sicuro che l'altro si sarebbe presentato a casa sua, eppure eccoli lì, con la tuta per stare comodo, con un gran sorriso stampato in faccia perché ama quando i suoi piani vanno a buon fine, soprattutto quando danno come risultato il riuscire a stare insieme un po’ più del solito.
Vorrebbe evitare di sorprendersi ancora, dopo due anni sarebbe forse ora di acquisire un po' più di sicurezza in quel frangente, eppure si scopre totalmente incapace di farlo.
«Dici che ricominci a respirare o devo far valere il mio corso da bagnino?» domanda Antonio, accarezzandogli piano uno zigomo con la punta delle dita, proprio lì dove ieri ha sbattuto contro lo spigolo della finestra, nel disperato tentativo di separare Cicerone da un povero pettirosso che si era avventurato sul balcone, e dove si sta formando un alone violaceo.
Così sembra ancora più pesto, eppure Antonio lo guarda come se fosse qualcosa che vale la pena osservare.
«Sto respirando» replica, con poca forza, e le labbra di Antonio si stirano in un sorriso pallido, cauto, mentre sbottona il cappotto e sfila la sciarpa.
Improvvisamente è come se ogni tensione fosse sparita, ci sono solo loro due e la prospettiva di una serata ed una notte insieme, un risveglio che non implichi Giacomo o Gabriele che entrano in camera loro con una scusa qualsiasi e li trascinano fuori non appena aperti gli occhi. Chissà dov’è il problema, chissà se hanno davvero paura che il loro stare insieme possa in qualche modo minare la loro amicizia, lasciarli soli possa in qualche modo minare l’unità di un gruppo che già inizia a smembrarsi per le vicissitudini della vita.
«Peccato, niente respirazione bocca a bocca allora. Potevi anche fare finta.»
Scuote la testa, Antonio, e si allontana per appendere cappotto e sciarpa, aprire lo zaino per frugarci dentro probabilmente alla ricerca degli occhiali che ultimamente ha iniziato ad indossare quando ha mal di testa.      
Dopotutto devono studiare, non tutto il pomeriggio perché ha promesso che non sarebbe stato così, però devono se non altro provarci.
«Perché, mi serve una scusa?»
«Magari serve a me, che ne sai?» *
«Dopodomani sono esattamente due anni che devo smettere di fumare.»
La risata di Flavio è calda contro il suo orecchio, un’inaspettata ondata di tepore in quella serata altrimenti gelida in cui l’aria di febbraio rende la luce dei lampioni sulla via un po’ più aranciata e brillante, luminosa nel gelo che gli intirizzisce la punta del naso ed il dorso delle mani.
Della casa di Flavio gli piace particolarmente quell’apertura nel muro della cucina, piccola e quadrata e proprio all’altezza giusta per appoggiarci i gomiti, che si affaccia sul balconcino: c’è la porta finestra, lunga e sottile e con delle tendine arancioni, e poi subito accanto c’è quella finestrella da cui l’altro si affaccia per fargli compagnia quando Antonio viene spedito fuori a fumare.
Si appoggia con la schiena contro la persiana, facendo bene attenzione che il fumo non entri in casa, costringendo l’altro a sporgersi un po’ di più sul davanzale di marmo che, al momento, deve essere la seconda cosa più fredda e rigida dopo le sue dita.
Se resta fuori più di cinque minuti ha paura di vederle cadere.
Le osserva nella luce calda, le nocche un po’ arrossate, la sigaretta girata un po’ storta che, incastrata tra indice e medio, si sta consumando mentre lo ascolta pensare ad alta voce.
«Ah sì?»
Si decide a prendere una boccata, mandando al diavolo tutta l’opera di convincimento fatta fino ad allora, chiedendosi se vale davvero la pena buttare via una sigaretta ormai fumata a metà. Il danno è fatto, dopotutto, potrebbe smettere con la prossima o potrebbe essere l’ennesimo Zeno Cosini ma senza la grazia di un qualche tipo di supporto psicoterapeutico.
«Eh, sì.»
Un altro tiro, il fumo soffiato via che si alza e si confonde con la condensa del respiro contro il freddo della sera.
Può vedere con la coda dell’occhio Flavio fissarlo in attesa di una spiegazione più articolata, sul viso l’espressione appena divertita di chi non aspetta altro che avere una nuova verità da assaporare.
«Sto cercando di trovare un modo poco imbarazzante per dirlo, datti pace.»
«La fase dell’imbarazzante l’abbiamo già passata da un bel po’. Insomma, il pigiama del Napoli...»
«Non quel tipo di...Senti, non eri te quello che “parlare dei sentimenti è imbarazzante”?»
«Eh, appunto, sono io mica te.»        
Stavolta tocca a lui ridere piano, mentre fa precipitare un po’ di cenere giù dalla ringhiera.
«Quando t’ho baciato davanti al portone del comune tornando dal compleanno di Stefania, no? Avevo detto “se ci sta smetto di fumare”, anche perché so che ti dà fastidio.»
Si decide a rinunciare a quella sigaretta, la schiaccia dentro ad un posacenere di fortuna, uno di quelli che Flavio ripesca solo per lui dal fondo di una credenza in cui sua nonna stipa le chincaglierie figlie di viaggi vari ed eventuali.
Il souvenir dimenticato di oggi è gentilmente offerto da un viaggio che il fantomatico zio di Flavio ha fatto a Berlino durante l’ultimo anno del liceo, una roba di plastica trasparente un po’ sbeccata sul cui fondo si stagliano le silhouettes nere su fondo bianco di alcune attrazioni turistiche.
«Non avevi fumato tutta la sera.»
«Sì, vabbuò, è che magari...così non ti scansavi, no?»
«Tre mesi che aspettavo e secondo te me scansavo pure?»
Due anni prima era convinto che lo avrebbe fatto, che si sarebbe scansato, perché in quel periodo era tutto strano e leggere male i messaggi dell’altro era solo la degna conclusione di un nuovo capitolo della sua vita che sembrava non andare da nessuna parte da dodici lunghi mesi.
Era sicuro che l’avrebbe piantato in mezzo alla via, nascosto da quella curva che i palazzi fanno prima di aprirsi in un’altra piccola piazza abitata solo da una fontanella di pietra, con le labbra ancora calde di un bacio corrisposto ma non desiderato - perché succede quando si viene baciati, no? Il primo istinto è contraccambiare, poi si può decidere.
C’aveva pensato per una serata intera, giocando con il pacchetto di sigarette, cercando di resistere all’urgenza di accendersene una e continuando a ripetere come un mantra quella promessa a chissà chi: se la serata fosse andata bene lui avrebbe smesso di fumare.
Il giorno dopo, un Flavio piuttosto nervoso ed assonnato lo aveva chiamato per chiedergli se avesse voglia di farsi un giro, una chiacchierata, e ad Antonio era servito tutto l'autocontrollo di cui disponeva per rispondere un solo "A che ora?" a cui non aveva ricevuto una vera risposta.
Flavio era passato sotto casa sua appena dopo pranzo, insieme avevano comprato i biglietti dal tabaccaio ed avevano aspettato sotto alla pensilina rovinata l'arrivo del Cotral.
Avevano passato l'intero viaggio in autobus a far finta di pensare ad altro e si erano ritrovati a camminare lungo l'argine del fiume, l'acqua torbida, la stradina sterrata appiccicosa d'umidità sotto alle suole delle scarpe.
«Alle elementari ci portavano qui almeno una volta all'anno per fare birdwatching. Dicono che ci sono gli aironi ma io non li ho mai visti», aveva detto Flavio, riponendo il suo immancabile, quanto in quel momento inutile, paio di occhiali da sole nella tasca della giacca.
Poi non avevano più parlato, non davvero, c'erano state chiacchiere vuote e aneddoti idioti per riempire l'aria e il silenzio.
Si erano seduti sulle assi bagnaticce di uno dei moletti disseminati lungo l’argine, in quel nulla palustre solo loro, due barche tirate a secco e qualche uccello che sguazzava ignaro tra le acque del Tevere.
Flavio aveva sospirato, storcendo il naso come se fosse pensieroso e scontento della direzione che le sue riflessioni stavano prendendo. Una frazione di secondo dopo, lo stesso Flavio lo stava baciando con un trasporto che non avrebbe saputo cucirgli addosso, con le mani che si aggrappavano alle sue braccia e il viso bollente.
Non avevano fatto molto altro per l'ora seguente, ed avevano dovuto correre per prendere l'autobus prima che facesse buio, infreddoliti e con le guance accese, con gli occhi quasi febbricitanti.
Del viaggio di ritorno ricorda solo le risate sommesse, il modo in cui la mano dell'altro cercava la sua nella penombra di quel Cotral semivuoto mentre tentavano di toccarsi con ogni parte del corpo.
Flavio che si sporge e gli dice, come se fosse una sciocchezza, che spera di poter un giorno baciarlo su al Belvedere, davanti a tutti, sotto al sole o durante le feste, senza doversi nascondere.
Ché non ha senso nascondersi, ripeteva, ché non capisce dove sia il problema eppure deve far finta che sia così.
C'era voluto quasi un anno per fare avverare quella promessa, altri sei mesi perché diventassero uno parte della famiglia dell'altro in quel modo sottile e traballante e chiaro solo a loro che dà la stessa sensazione che precede un temporale.
E così la famiglia di Flavio lo tratta come hanno sempre trattato Gabriele, e così la sua famiglia tratta Flavio come tutt’ora farebbero con Vito se solo non abitasse a qualche centinaio di chilometri da lì - se qualcuno di loro ha capito qualcosa non è dato saperlo, quel che sanno è che per ora non piove e va bene così, anche se a volte pesa.
Anche se Antonio è costretto a dire una bugia, convincendo sua madre e sua sorella che in questo momento è a casa di Giacomo insieme a Flavio stesso, certo, ma anche a qualche altro amico per passare un sabato notte come tanti altri, qualche birra, una maratona di film.
Una mano tiepida si sporge dalla finestra per spostare una ciocca di capelli, un movimento leggero e delicato, e si volta quel che basta per poter guardare negli occhi il suo ragazzo e la cucina dietro di lui appena illuminata dalla luce sopra al lavello, il resto della casa avvolto nella stessa penombra che riveste la via silenziosa.
Che strana sensazione.
Che bella sensazione.
«Rientri?»
«Non lo so, forse voglio fare Capitan America.»
«Emblema di un paese capitalista e guerrafondaio?»
«Pensavo più figo e intirizzito. Calma il comizio, Lenin.»   *
La prima volta che hanno dormito insieme non erano quasi neanche amici, ché per diventare amici c’hanno messo un bel po’ e la colpa è di entrambi.
Si sono ritrovati a condividere un letto dopo una trasferta romana, quando Antonio era solo il ragazzo nuovo che andava in classe con Giacomo ed era bravo a calcetto, e lui era uno che era stato appena mollato dalla ragazza e  voleva solo una scusa per schifare chiunque. Ospiti a casa del cugino di Gabriele, un appartamento per studenti piuttosto stretto ma con un numero di letti improvvisati da far invidia ad un ospedale da campo, si era ritrovato a condividere un sottile materassino da campeggio con Antonio.
Schiena contro schiena, come consuetudine ed etichetta vuole quando due maschi sopra ai dieci anni condividono un giaciglio, e tentando di non toccarsi anche se lo spazio era quello che era e la coperta non permetteva loro di allontanarsi troppo, avevano trascorso le ultime ore della notte prima dell’arrivo di un’alba che li aveva colti quasi tutti svegli e veramente poco preparati.
Il telefono di Antonio non aveva fatto altro che vibrare, da qualche parte per terra, un ronzio profondo che era presto diventato un rumore bianco come quello delle macchine sotto alle finestre o del russare di Gabriele in corridoio. Lo aveva chiaramente sentito muoversi per prenderlo almeno un paio di volte, la luce fredda del display che per qualche istante illuminava la stanza prima di essere riposto di nuovo in compagnia di profondi sospiri e tentativi di trovare una posizione comoda per dormire.
E succede molte altre volte di dormire insieme, sempre per un motivo diverso, ed ogni volta rispondono entrambi con una scrollata di spalle perché ci sta, perché è plausibile, perché nessuno di loro è particolarmente infastidito dalla presenza dell’altro nello stesso letto. Flavio, inoltre, si è quasi abituato al fatto che spesso e volentieri Antonio si alza nel cuore della notte per andare a parlottare con qualcuno, con un tono di voce appena percettibile, prima di tornare a coricarsi e far finta di dormire per il tempo che resta.
A volte ripensa al coraggio che gli ci era voluto per sussurrargli, in uno di quei viaggi in solitaria verso l’angolo più recondito di qualsiasi spazio si trovassero a condividere, che il suo sonno valeva tanto quanto il bisogno dell’altra persona di sentirsi in diritto di chiamare a qualsiasi ora. E ricorda il modo in cui Antonio aveva risposto solo che c’era abituato, che comunque dorme poco di suo e alla fine ormai gli sembra quella la normalità.
C’erano voluti mesi per scoprire che, no, non è vero che Antonio dorme poco e, anzi, ama particolarmente poter evitare di mettere la sveglia quando possibile e che era Edoardo, che spesso e volentieri lavorava di notte, quello per cui il sonno arrivava con difficoltà e solo quando ormai era giorno.
Ma ormai quel capitolo è chiuso e Antonio ha imparato a mettere il telefono in modalità silenziosa quando finalmente si infila sotto alle coperte.
E va bene così.
Lo sente sbadigliare e stiracchiarsi al suo fianco, poi un braccio gli cinge il petto e può sentire il viso dell’altro appoggiarsi contro la sua clavicola, caldo e morbido come solo il sonno riesce a rendere i corpi delle persone.
Quella è la prima mattina in cui si svegliano completamente soli, nella luce soffusa che penetra dalle persiane serrate della sua camera, stretti nel letto in cui da vent’anni si sveglia ogni mattina e, si ritrova a pensare, sarà veramente difficile domani aprire gli occhi e doversi alzare completamente da solo.
Non che sia sicuro di volersi alzare in generale, ora come ora, deve ammettere.
«Flavio...»
«Mh?»
«Sei sveglio?»
«Insomma.»
Antonio posa un bacio sul suo petto, in un punto a caso da sopra alla maglietta, si stringe un po' di più a lui e, ancora una volta, Flavio si ritrova a pensare all'assurdità di quella situazione.
Un'assurdità bella, eh, solo piuttosto lontana da qualsiasi idea abbia mai avuto circa il suo futuro – e di idee balzane a proposito ne ha avute parecchie, tutte ovviamente mai rivelate ad anima viva, eppure nessuna prevedeva anche solo un momento di così pura e totale tranquillità.
«Volevo fare la colazione ma non so dove tieni la roba. Poi cominciavo ad aprire tutto e facevo casino.»
Nello strascinare delle parole ancora assonnate, inframmezzate da uno sbadiglio lungo e sonoro, Flavio può sentire una punta di quell'accento che Antonio cerca sempre, se non proprio di camuffare, almeno di tenere a bada.
Spesso esce fuori quando litigano, quando non pensa a quel che dice e vuole solo svuotarsi il cuore e lo stomaco, e spesso si chiede quanto gli costi tentare di essere un'altra faccia di se stesso ogni dì per tante, troppe ore al giorno.
E invece ora è solo Antonio che tenta di scoprirsi il meno possibile perché di mattina ha sempre freddo, non si stanno urlando contro come avevano fatto solo dieci giorni prima, e sente un fortissimo bisogno di iniziare a baciarlo in quel preciso istante per smettere forse tra due giorni.
Ma per baciarlo dovrebbe alzarsi e lavarsi i denti e non ne ha voglia, vuole restare in quella bolla di penombra e calore almeno un altro po'.
«Dammi cinque minuti per svegliarmi.»
«Ma pure di più, io non voglio alzarmi.»
«I termosifoni sono accesi.»
«So' contento per loro, fa comunque freddo.»
Con la coda dell'occhio può vedere Cicerone entrare in camera sua con non poca fatica, cercando di fare entrare il suo corpicino grassoccio nella stretta fessura lasciata aperta durante la notte.  Segue con gli occhi quella macchia arancione che si muove per la stanza con circospezione, bene attento a non avvicinarsi al letto, prima di salire con un tonfo sonoro sulla sua scrivania, spostando fogli e facendo cadere penne, per poi fermarsi, immobile come una statua, a fissarli.
Antonio sospira, lui ride, Cicerone per tutta risposta fa cadere un'altra penna.
Sarà un piacere riordinare la stanza più tardi, chissà se ritroverà metà della sua cancelleria o se dovrà, come al solito, comprarne di nuova.
Si sposta per lasciare un bacio appena sotto l'orecchio dell'altro, spostando i capelli con la punta del naso, mormorando un «Credo Cicerone ci stia osservando».
«Vorrà la colazione pure lui. Quel gatto pesa come un bambino.»
«O forse vuole noi per colazione.»
«Facesse di me quel che vuole, basta che fa da sé.»
«Mi mancherai quando diventerai trippa per gatti.»
«Il mio fantasma farà in modo di infestare i tuoi sogni.»
«Sei così premuroso.»
«Oh, pensavo si sapesse già! Ti porto pure i sassolini belli come fanno non mi ricordo quali uccelli. Sono un ragazzo da sposare, altro che premuroso.»
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prettymonkey · 3 years
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Mi domando cos'abbia fatto di male per meritarmi tutto questo. Com'é possibile che sia successo a me, com'é successo che da un certo punto in poi la mia vita sia diventata così buia e piena di dolore. Mi domando perché. Ma chiedersi il perché è un po' contrario a tutto quello che io ho sempre pensato sul significato della vita, ovvero che sia un po' casuale. Non penso di aver scelto di vederla in questo modo, penso sia una questione di fede. E allora forse é solo sfortuna, sempre che esista davvero anche quella. Forse é solo una questione di relatività, e la sfida è saper rivolgere le proprie energie in qualcosa che crei del bene, per gli altri e per sé. Quanto é difficile? Davvero molto, soprattutto quando passo dopo passo si viene schiacciati dall'odio degli altri. È giusto ancorarsi alla meritocrazia? Sarebbe bello, ma l'ho sempre trovato irrealistico.
Ho conosciuto un ragazzo che mi piace molto. Sembra una bella persona, sembra che ci tenga a me. O forse é solo un altro pazzo, che ha trovato fin da subito il modo per farmi del male. Devo smetterla di vedere tutto come un affronto alla mia persona, come un tentativo di inganno, forse é questo che mi inquina: l'ego. Forse la gente è semplicemente cattiva e carente, e chi li accetta e accoglie nella propria vita é solo uno stupido sprovveduto, cosa che io non saró mai. Questo non mi previene da niente, da assolutamente niente, é una di quelle qualità che non servono ad un cazzo, perché si soffre comunque, anzi forse si sta pure peggio, perché sei pienamente consapevole della quantità di merda che ti sta arrivando addosso e delle bieche intenzioni della gente comune. Da quando gli altri sono diventati così bravi a manipolare? Io non ne so niente del mondo, vorrei tanto continuare a restare ignorante, invece quel povero bastardo, che io ho amato più della mia stessa vita, mi ha lasciata qua, in questo mare di merda che sarebbe il mondo in cui viviamo, ad affrontare tutto questo senza nemmeno riconoscermi rispetto e affetto.
Che male mi fa. Non riesco a trovar pace.
Ennesima beffa, ho perso un bel po' di quanto avevo scritto qui questa sera. Era roba dannatamente ispirata. Questa notte sono di nuovo nell'oblio, e proprio oggi pensavo al fatto che, tutto sommato, ho fatto passi da gigante negli ultimi mesi. Mi sono sentita un'illusa questa sera, forse sono saltata a conclusioni troppo presto, ma é veramente facile inciampare, soprattutto quando qualcuno ti tende una mano. Forse é solo l'ennesimo colpo di coda, perché negare tutti i passi avanti che ho fatto? Li ho fatti per davvero, ho davvero smesso di autocommiserarmi e idealizzare una persona che ha cercato di annientarmi completamente, per cercare di salvaguardare un ricordo, di me ma anche di lui. Non c'é piú nessun Noi, é finito quel giorno là in cui lui ha scelto. E per quanto faccia male, quando il Noi non c'é piú, la civiltà dipende dalla coscienza e dalla maturità, che evidentemente la persona in questione non ha. Non potevo fare nient'altro per sopperire a questa sua scelta, non dipendeva da me. Fa comunque male, ma si riesce a star più leggeri. E io purtroppo non ci riesco a raccontare cazzate a me stessa, perché le mie bugie chissà come riaffiorano galleggiando come gli stronzi nell'acqua. E mi piacerebbe pure esser meno scurrile, avrei potuto usare la metafora degli gnocchi, ma questa mi pareva decisamente piú calzante data la materia in questione.
E per quanto riguarda il resto: non lo so. Sono confusa, e completamente NUMB. Come faccio ad imparare senza sbagliare? Come trovare il coraggio di sbagliare quando si é già completamente a pezzi? Lo scopriró solo proseguendo. Cosa ne posso sapere se ho incontrato un pazzo manipolatore, chi può dirlo? Per un attimo, breve brevissimo durato meno di una settimana, mi sono illusa che poteva essere valido per me, ma il sesso rovina ogni cosa, storpia tutto, forse é davvero sporco come dicono, è peccato, è inquinante, come tutte le cose fatte all'infuori dell'Amore.
In ognuno di noi ci sono due grandi forze: l'Amore e l'Ego, ognuno poi sceglie la sua direzione, anche se la soluzione migliore sarebbe quella di stare perfettamente al centro, ma si sa, l'equilibrio é un privilegio per pochi. Mi chiedo dove mi trovo io in questo bivio, da quale parte sto davvero. Sicuramente sono stata nell'Amore per molto tempo, ma poi sono stata anche nell'Ego, e ho sbagliato tanto, non mi piacevo piú. È ora di fare dei passi indietro, ma ogni passo che faccio inciampo e cado e mi faccio malissimo, ma io credo sia la strada giusta. La via dell'Amore è quella strada dove i tuoi istinti sono orientati a stare bene in relazione agli altri, facendo del bene agli altri, sacrificandosi quando si riesce e quanto é giusto, per fare del bene al mondo e alle persone. Vivere comportandosi bene, senza fare male a nessuno, rispettando gli altri. È cosí che voglio vivere io, e non mi aspetto nessuna ricompensa per questo, dal momento che non credo in niente. L'Amore è una forza soprannaturale ma è una cosa in cui credo fortemente, è un sentimento palpabile tutto intorno a noi in tante piccole cose di ogni giorno su cui raramente ci si sofferma. Mi fa sorridere che ho cominciato a vederla così dopo aver sofferto così tanto, e mi fa sorridere perché mi fa stare bene esser giunta a questa conclusione e crederci fortemente, perché vuol dire che mi sono lasciata tanto sporco alle spalle. Io credo nell'Amore più di prima, ora che l'ho perso.
E riflettevo anche su tutte quelle volte in vita mia in cui mi sono sentita amata davvero, e lo riconduco a due persone soprattutto, Stefano e mio padre. E mi fa male l'aver pensato anche solo per un attimo che l'amore di Stefano fosse in grado di mangiarsi tutto il resto, quando per natura non poteva essere incondizionato. L'amore di mio padre é l'unica cosa di cui dovrei esser grata nella vita, l'unica cosa che conta per me, sento di non avere nient'altro di valevole allo stesso modo. Incondizionato, immenso, che mi genera solo sentimenti di infinita gratitudine. Essere amati come mi ama mio padre é una delle cose che augurerei davvero ad ogni persona esistente, perché mi fa sentire davvero fortunata di essere viva e di essere Me. Mi dà un altro motivo per non mollare, uno stimolo a fare bene nella vita, ad essere migliore. E credo che per l'amore di mio padre potrei fare qualunque cosa davvero, spero di poterlo ripagare un giorno di tutto quello che ha fatto per me, a qualsiasi costo.
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intotheclash · 3 years
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Un coro di emozioni mi stava cantando negli orecchi. Tante voci confuse insieme, con il risultato di confondermi ancora di più. Ero deluso da me stesso, ero triste, arrabbiato, confuso, affamato. Si, tra le tante cose, mi era arrivata anche la fame. Ma soprattutto sentivo il bisogno di parlare con Pietro. Volevo scusarmi, spiegare le mie ragioni, volevo che capisse, doveva capire! Con fare incerto, mi avvicinai, eravamo rimasti soli. Antonio era uscito, non so per dove, ma non era più lì e la madre era salita al piano superiore, forse per preparare i letti.
Avevo un groppo in gola, ma non mi avrebbe fermato. "Io non volevo...Scusami, Pietro, avrei dovuto tacere, non dire nulla, ma mio padre mi ha costretto. mi avrebbe ammazzato di botte!" Che figura di merda! Lui aveva preso una sventola paurosa senza fare un fiato ed io mi ero cagato addosso solo per la promessa di prenderle. Proprio una gran bella figura di merda. Poi mi ricordai che non era solo per quello, che avevo parlato anche perché, al mio vecchio, avevano raccontato delle falsità. "Poi Alberto Maria aveva raccontato un mucchio di stronzate, per non dire al padre che le aveva buscate da uno più piccolo, così ho dovuto dire la verità! Io..."
"Chi è Alberto Maria?" Mi chiese, come se fosse appena arrivato. Come se in tutto il casino che era scoppiato lui non c'entrasse affatto.
"Come chi è? Quello che se ne è tornato a casa con il naso spappolato!" Risposi tutto d'un fiato. Poi feci una cosa di cui mi vergognai immediatamente. E di cui mi vergogno ancora. Scoppiai a piangere come un poppante cui hanno rubato il ciuccio. Saranno state le troppe emozioni accumulate, non saprei, il fatto è che un fiume di lacrime mi sgorgò dagli occhi e non riuscii a trattenerne neanche una.
Pietro rimase immobile e immobile la sua espressione distante, poi si voltò, mi guardò serio, mi cinse le spalle in un abbraccio e disse: " Non stare lì a preoccuparti, amico mio. Hai fatto la cosa giusta. Tanto, prima o poi, i miei lo avrebbero saputo lo stesso. Al tuo posto, avrei fatto la stessa cosa."
Non era vero, lo sapevo. lui era un duro, un duro vero, non gli avrebbero cavato una parola, neanche con le pinze. Però gli credetti lo stesso. Avevo bisogno di crederci e lo feci. Mi sentii subito meglio. Eravamo ancora amici. Era proprio forte il Maremmano, sapeva sempre cosa dire e fare. Era un grande. Più grande degli adulti.
"Chissà cosa si staranno dicendo lì fuori, è già un bel pezzo che sono usciti." Dissi, rinfrancato nel corpo e nello spirito.
"Mio padre starà raccontando al tuo di mio fratello."
"Tuo fratello? Che cazzo c'entra tuo fratello con noi?"
"Quando abitavamo a Tuscania, vivevamo in paese, come te, un pomeriggio di un paio di anni fa, stavo giocando al pallone con i miei amici, in una piazzetta del centro. Non ci crederai, ma quel giorno mi avevano messo in porta. Non avevo voglia di correre ed ero il più piccolo della banda. Successe che uno degli avversari tira in porta una cannonata spaventosa ed io in porta sono una pippa. Naturalmente segna, neanche lo vidi il tiro, ma, purtroppo, centra in pieno lo specchietto retrovisore di un'auto parcheggiata lì vicino. Era una centododici abarth, così c'era scritto su quella macchina, non me lo dimenticherò mai. E quando dice male, dice male, esattamente in quel momento, stava arrivando il proprietario in compagnia di un amico. E vuoi sapere un'altra cosa?"
"E me lo chiedi? Certo che la voglio sapere!"
"Erano tutti e due vestiti da carabinieri!"
"Una jella nera!"
"E già, proprio una jella nera. tutti i miei amici se la filano gambe in spalla, lasciandomi lì da solo, come un coglione."
"Ma che cazzo! Perché non te la sei squagliata anche tu?" Era la cosa più logica da fare.
"Perché il pallone finito sotto quell'auto era il mio pallone. Non volevo perderlo. Uno dei carabinieri, quando vide lo specchietto rotto, si incazzò come un picchio, mi chiamò, mi fece avvicinare e quando gli fui a tiro, mi mollò una sberla in faccia. Non piansi, non ho mai pianto per le botte ricevute. Questo lo fece incazzare ancora di più, aprì lo sportello della macchina, ricordo che pensai: ora mette in moto e se ne va, così recupero il pallone. Ma non lo fece, non subito, prese un cacciavite e con quello bucò il mio pallone."
"Brutto figlio di puttana!" Dissi accalorato dal racconto, poi mi guardai subito intorno, preoccupandomi che nessuno mi avesse ascoltato, "Solo, non capisco: cosa c'entra tuo fratello?"
"Dammi tempo, ci sono quasi. I due carabinieri salirono in macchina e partirono, io raccolsi il pallone sperando che, in qualche modo, si potesse riaggiustare, mi avviai verso casa, quando, da un vicolo, sbucò fuori Marchetto, il mio migliore amico di allora. Era scappato, ma si era pentito ed era tornato ad aspettarmi, e decise di accompagnarmi a casa. Sotto le scale di casa mia, incrociammo mio fratello che stava tornando dal lavoro. Hai visto come è fatto, no? Ci si fece incontro sorridendo, ma quando mi fu vicino, si accorse che qualcosa non andava. Poi notò il pallone sventrato e il segno rosso delle cinque dita che quel verme mi aveva stampato sulla faccia. Mi chiese spiegazioni, io non volevo dire nulla, ma la rabbia mi fece scoppiare in lacrime. Fu Marchetto a spifferare tutto. Ho pure pensato che fosse stata colpa sua di quello che successe dopo; ma so che non è vero."
"Cosa è successo dopo?" non volevo sembrare troppo curioso, ma era più forte di me. Il Maremmano era un narratore favoloso e quella storia sembrava un film.
"E' successo che Antonio, invece di rientrare a casa, è andato a cercare quei due, portandosi dietro me e Marchetto, visto che, da solo, non avrebbe potuto riconoscerli."
"E l'avete trovati?"
"Eccome se l'abbiamo trovati! Anche se, a conti fatti, sarebbe stato meglio di no. Erano seduti ad un tavolo, fuori da uno dei bar del centro, che ridevano e scherzavano beati. Mio fratello ha detto a Marchetto di aspettarci sul marciapiede, mi ha preso per la mano e si è avvicinato a loro. Era calmo. Almeno lo sembrava. "Quale di voi due coglioni ha messo le mani addosso a mio fratello?" Ha detto quando stavamo ad un passo da loro.
"Ha dato del coglione ad un carabiniere? Un carabiniere in divisa?" Domandai stupito. Era da pazzi. Almeno secondo il mio modo di vedere. Era come scavarsi la fossa con le proprie mani.
"Magari si fosse limitato a quello. I due, che non si erano resi conto del nostro arrivo, si voltarono di scatto con le facce truci, credo non fosse loro capitato spesso di essere stati insultati sotto al muso, e davanti ad altre persone, scattarono in piedi come molle, le loro facce da ebeti dimostrarono tutta la loro sorpresa. Poi quello che mi aveva picchiato mi notò e riuscì a collegare i fili. Sorrise cattivo e disse:" Ora capisco, lui è lo stronzetto che mi ha rotto lo specchietto, ha avuto quello che si meritava. Tu invece chi sei? Attento che..." non si seppe mai a cosa doveva stare attento. Non riuscì a terminare la frase. Antonio lo colpì a mano aperta, uno schiaffo, non un pugno, me lo ricordo come se fosse adesso. Uno schiaffo, ma lo fece volare in aria come un fantoccio. Come se non pesasse un cazzo di niente. Andò a schiantarsi su un altro tavolo, fracassandolo. Non si alzò più. Dormiva che era un piacere guardarlo. L'altro sbirro, vista la mal parata, cercò di mettere mano alla pistola, anche se, negli occhi, si leggeva la paura. Mio fratello fu, ancora una volta, più lesto dell'avversario. Lo piegò in due con un pugno allo stomaco, lo sollevò in aria come un fuscello e lo scaraventò in strada; lui e la sua cazzo di pistola."
Mi ero sbagliato, non sembrava un film, era un film! Meglio di un film! Antonio aveva due mani come due prosciutti e pensai che quelli avevano avuto un bel culo a non finire dritti al creatore. Che scena doveva essere stata! Avrei anche pagato non so cosa per poter dire: c'ero anch'io. Ecco il Maremmano da chi aveva preso!
"E non finì lì. Nessuno dei due era in grado di rialzarsi. Pensai: ora ce ne andiamo, ora è meglio se ce ne andiamo, Antonio sembrò leggermi nel pensiero, mi prese nuovamente per mano e scendemmo in strada. Fatti pochi passi, si accorse della loro macchina parcheggiata. Era facile da riconoscere, gliela avevo descritta ed era l'unica cui mancava lo specchietto. Mio fratello lasciò la mia mano, si appoggiò all'auto da una fiancata e la ribaltò completamente. Uno spettacolo da non credere. Nessuno dei presenti osò emettere un solo fiato. E' stata la cosa più incredibile che abbia mai visto."
"Poi? Poi come è andata finire?" Pendevo dalle sue labbra.
"Poi niente. Stavolta era finita davvero. Mi mise un braccio intorno alle spalle e disse: Chissà forse la prossima volta ci penserà due volte prima di picchiare un bambino." Concluse fissandomi. Io me ne accorsi che era triste.
"Cazzo, aveva ragione! E anche tu avevi ragione!"
"Anch'io la penso così, ma, forse ci sbagliamo. Forse non è così. Perché Antonio lo arrestarono la sera stessa e lo rinchiusero nel carcere di Viterbo. Hai capito ora perché mio padre me le ha suonate così forte?"
"Brutti figli di puttana!" Fu l'unica cosa che fui capace di dire.
"E già. Siamo venuti via da Tuscania per questo motivo. Mio padre dice che lo abbiamo fatto per lavoro. Perché comprare questa casa e questa terra è stato un ottimo affare, ma io lo so che non è vero. Era stato per via di mio fratello. Si vergognava che fosse finito in carcere. Ecco il vero motivo. Ora ha paura che la stessa cosa possa succedere a me."
"Ma a te non succederà mai! Io, Bomba, Tonino, Sergetto, Schizzo, il Tasso, i nostri genitori, stiamo tutti con te! Ti difenderemo! Gliela facciamo vedere noi a quella testa di cazzo dell'avvocato Terenzi!" Urlai. Ero diventato tutto rosso per la rabbia. Ero pronto a dar battaglia.
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nicolemanara · 3 years
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24.03.2021 ore 02:24
E’ strano come possano cambiare le cose negli anni, è strano vedere persone andar via e altre comparire dal nulla. Sembra impossibile, come tutto quello che viviamo muti così velocemente da non farcene quasi accorgere. Passiamo ore, giorni, mesi con persone a noi care e molto spesso diamo per scontato il tempo che trascorriamo in loro compagnia. Ma nell’ultimo anno le cose sono variate parecchio. Gli amici, i nostri cari e persino quelle persone che hanno deciso di andarsene ci mancano. Personalmente ho davvero paura ogni giorno di non dare abbastanza tempo a chi ho intorno, ho paura di non fare abbastanza, sarà stupido per qualcuno, ma non per me. Ho paura che chiudendo gli occhi per dormire al mio risveglio, qualcuno non ci sarà più; ho paura che un ciao in meno possa essere l’ultimo che scambierò con quella persona. Ho un nodo alla gola e quasi non mi lascia respirare il pensare di non avere abbastanza tempo per vivere, fa paura, mi fa paura. Ho pensato più del solito a quelle due o tre persone che col tempo hanno preso strade diverse e mi fa stare male anche solo l'ipotizzare che l’ultimo ricordo di loro stia sbiadendo e sia effettivamente l’ultimo. Vorrei poter vivere con tutte le persone che ho amato e a cui ho voluto bene...tante quasi come una seconda famiglia. Non sono una persona perfetta, il mio carattere molto spesso mi precede e non me ne vanto, alcune sfaccettature non vanno bene neppure alla sottoscritta, ma so anche di non essere una cattiva ragazza. Affermare che mi manca qualcuno che ho amato, non è “esserci rimasti sotto” ma molto spesso aver provato qualcosa di vero, o ancora, l’essere stata “la migliore amica” di qualcuno, non vuol dire che quella persona dall'oggi al domani non è più importante. Vorrei poter parlare con tutte le persone a cui ho voluto bene e poterci bere una di birra o uno spriz insieme (dipende da dove sono, come al solito una battuta per alleggerire, tipico del mio carattere). Vorrei davvero riallacciare le cose perché il tempo non è molto e il non vedere una persona con cui sono stata bene credo sia la peggiore delle cattiverie. Molto spesso ripenso a qualcuno in particolare e sul bello che dico ora la/lo chiamo, mi rendo conto di non potere. Ma perché no? Come posso andare oltre a questo, che molto spesso non dipende nemmeno da me, capiamoci. Perché non posso semplicemente prendere e mandare un messaggio cretino ad una ex senza che questo sia visto come un secondo fine; perché non posso scrivere a quella che era la mia migliore amica, senza che qualcuno o lei stessa pensi “ok ora mi cerca perché nessuno la caga”; perché non posso semplicemente vivere. Per quale motivo, dietro ogni azione che compiamo ci deve sempre essere un secondo fine? Vorrei davvero poter prendere e mandare un semplice “ehi, come vanno le cose?” o un “ che dici ci troviamo per una birra una sera?” (Si, è ovvio che al momento non si può , ma pensate che lo stia scrivendo per una futura zona gialla o bianca o quel che sarà). Perché non può essere semplicemente cosi facile. Vorrei che si capisse che molto spesso dietro alle mie parole c’è solo voglia di voler bene e non per forza il voler apparire o far del male (cosa che tra l’altro non mi appartiene per natura). Questa cazzo di pandemia mi ha reso ancor più consapevole che voglio semplicemente essere tranquilla e non dover correre dietro al tempo. Quando mi chiedono che cosa per me sia la felicità mi possano davanti un infinità di visi, momenti. Manca da togliermi il respiro il prendere e salire in macchina con meta sconosciuta, finestrini abbassati, musica a palla con le urla di tutti in macchina a cantare a squarciagola sulle note di canzoni estive e non. Mi manca il prendere e dire dobbiamo portare a casa tizio caio e sempronio. Il fare l’arbitro per decidere chi stava nel sedile davanti accanto al mio. Mi manca il restare a guardare le stelle e chiacchierare di tutto fino al mattino sul campetto da basket. Mi manca il rimanere a casa di qualcuno a "dormire" per modo di dire. Il camminare e cantare in gruppo per le strade sbattendosene delle opinioni
altrui sul quanto fossimo fuori di testa. Il correre per i marciapiedi con un asciugamano in testa alle quattro del mattino o semplicemente senza calze e senza scarpe, convincendo gli altri a fare lo stesso. Mi manca anche la paglia prima di tonare a casa, quel saluto silenzioso che stava per "ci vediamo domani" o il semplice rimanere al bar. Mi manca stare insieme. Mi manca stare a guidare con attorno la confusione più totale, che non era confusione ma semplicemente uno stato di felicità immateriale. Una carica di adrenalina, cretinaggine, spensieratezza, felicità pura. Quella bolla di tempo fermo al passato era e rimarrà il mio salvagente. Sono i ricordi che mi mantengono vigile, quelli che mi spingono a reagire, quelli che dopo ogni caduta mi ricordano che anche io sono stata importante per qualcuno. Parliamoci chiaro non mi mancano gli amici, ne ho, non troppi, ma neanche pochi e soprattutto non scontati, perché chi c’è lo dimostra anche senza il doversi sentire ogni giorno. Mi manca semplicemente l’armonia, il disagio trash, la compagnia delle persone felici intorno a me che a loro volta trasmettevano positività. Ho bisogno di tornare a quel mood, di ricaricare le forze. Quel modo di vivere a 100 all’ora, costantemente in balia dell’incognita del momento; quel toccare il cielo non più con un dito, ma con l’intera mano. Quell’essere sempre a mille senza mai aver bisogno di respirare, perché non ce nè mai stato bisogno. E’ questo che si vede attraverso i miei occhi quando mi blocco a fissare un punto nel vuoto, immersa in quei ricordi che sembrano lontani, ma che in realtà sono aggrovigliati stretti nel profondo più vicini di quanto spesso credo. Ho smesso di respirare nel momento in cui queste cose hanno cominciato a venire meno, in pratica la stessa cosa che succede ad un albero nel momento in cui viene privato della luce solare, muore. Non dico di non essere felice, ma non lo sono come lo ero prima. Vorrei fosse possibile mettere tutti i pezzi a posto, non per forza dover andare d’accordo, ma almeno convivere in armonia. Tutto questo solo se il tempo non fosse così bastardo da venire meno, quando in realtà dovrebbe fermarsi e lasciarci liberi di vivere a pieno le nostre vite. Vorrei solo poter essere serena con tutti quelli a cui ho dato l’anima. Sembra quasi una supplica a volte, in realtà mi sono resa conto che è semplice paura di perdere qualcuno senza fargli sapere che è importante per me nonostante tutto. Personalmente se qualcuno ha conosciuto l’amore che ho potuto dare in amicizia e non solo, beh vorrei sapesse sempre che al di la delle litigate, dei sorrisi, degli abbracci, delle prese in giro, dei cuori spezzati e chi più ne ha più ne metta, rimarrà indelebile. Vorrei poter spiegare a ogni singola persona, cosa mi ha lasciato. Col tempo ho voluto soffermarmi sulle parti positive di ognuno e dare meno valore a quelle negative, come ho detto non c'è abbastanza tempo. Insomma ho cercato di capire il perché nel frangente in cui qualcosa è iniziato, ho deciso che quella specifica persona potesse essere importante per me. Tante volte farei mille passi avanti o indietro, malgrado l’orgoglio che chi mi conosce sa essere un mio punto debole. Se tengo a qualcosa, cerco di capire come migliorare, anche se questo vuol dire che tutto debba partire da me. Non importa se devo chiedere scusa una volta in più anche se non è colpa mia, se questo può migliorare le cose. Spero un giorno, magari più vicino di quanto credo, le faccende possano cambiare, spero che qualcosa di buono torni, infondo non ho seminato solo tempesta, qualcosa di decente l’ho fatta pure io.
Nicki
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lacrime-di-gioia · 4 years
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Quando fai rumore, e qualcuno se ne accorge
Parole: 1429
Beta: server di Discord (credo)
Fandom: Sanremo RPF (Cenone di Natale AU/Sanremo Family AU)
Ship: background (neanche tanto) Levodie, Jdato (è inutile negare ancora)
Avvertimenti: misgendering (inconsapevole) e cugini troppo impiccioni. E le pippe mentali di Cally.
Note autore: devo tutto a @giulia-liddell, che ha creato questi personaggi. Avviene tutto la sera stessa dell’uscita IN AMICIZIA di Cally e Anita
(X). Sembra passata una vita, da quando l'ho scritta
La serata era iniziata in maniera relativamente tranquilla, se non si considerava la discesa rocambolesca dalla sua stanza, per evitare sguardi indiscreti e il fatto i tacchi nuovi erano decisamente scivolosi.
Le dispiaceva dover sgattaiolare fuori casa come una tredicenne in punizione, ma non voleva neanche dover rispondere alle domande di tutti i cugini.
Insomma, è normale cercare un po’ di privacy, in questo bordello pensò, mentre chiamava un taxi.
Il locale che avevano scelto era davvero carino, anche se a quell’ora era già decisamente pieno.
Era anche abbastanza fuori zona, così non avrebbero dovuto avere nessuno tra i piedi.
Amava i suoi cugini, e tutta la famiglia allargata, ma le era anche mancato passare del tempo con la sua fidanzata, senza uscite di gruppo.
A questo proposito, la vide avvicinarsi, fasciata nel suo abito di tulle rosso svolazzante.
Sussultò, quando se la ritrovò davanti con due bicchieri in mano. Era una dea.
La ragazza, però, sembrava concentrata a fissare un punto dall’altra parte della pista da ballo.
“Tesoro, cosa guardi?” le urlò , appoggiandole una mano sul braccio per attirare la sua attenzione.
“Niente, mi era sembrato di vedere…” sospirò l’altra: “Non importa, siamo qui per divertirci, no?”
La fidanzata annuì, trascinandola verso la pista da ballo.
Ma Claudia non riusciva non pensare a che cosa ci facesse Antonio in quel locale, soprattutto vestito e truccato in quel modo.
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Cally è distrutto: durante il viaggio di ritorno ha addirittura fatto fatica a mantenere lo sguardo sulla strada. Ed anche in quel momento, buttato sul letto ancora vestito, non riesce a togliersela dalla mente. Cazzo, mi ha dato un bacino da scuola materna, ed io sto già fottuto, bene..
Era stato un normalissimo bacio sulla guancia, da amica, prima di rientrare in camera sua. Anche lui ne aveva dati di simili a decine di ragazze, quindi perché quello gli brucia sulla pelle come un marchio infernale?
Dannata Anita.
Ma il pensiero più assurdo lo colpisce mentre sta facendo la doccia: e se andasse davvero a trovarla?
Cally si accorge di aver fatto la scelta più cretina della sua vita, quando a metà della scala di legno appoggiata contro alla sua finestra (o, almeno, spera che sia la sua finestra, perché non vuole di certo ritrovarsi nel mezzo di una hotline tra Riccardo ed Eugenio, dato che il primo si trova nella stanza di fianco) si sporge per guardare giù. Che modo stupido di morire, cadendo da una scala. Fa un respiro profondo, prima di riprendere a salire. Ormai sono qui, devo farcela.
E meno male che la finestra è aperta, perché dubita che Anita abbia voglia di spiegarne l’eventuale distruzione.
È quasi alla fine della scala, quando la vede: è in mezzo alla stanza, struccata e vestita con un semplice abitino di cotone azzurro, che immagina essere il suo pigiama, mentre piega diligentemente la gonna e la camicetta che aveva indossato quella sera.
Cally realizza che non lo stava aspettando, quando lei sposta lo sguardo verso la finestra e sussulta, accorgendosi di non essere più sola.
Arrossisce subito, dandogli le spalle e cercando di coprirsi il viso con le mani.
Con una mossa degna della pubblicità dell’olio Cuore, Cally scavalca il davanzale, fino a raggiungerla in pochi passi. Anita è ormai di uno strano colorito a metà tra le orecchie di zia Ama, e un peperone maturo:“Non dicevo veramente, sul venirmi a trovare,” mormora la ragazza, senza accennare a togliere le mani dal volto: “volevo lasciarti una buona idea di me, così sono orribile, ti farò sicuramente schifo”.
Cally non sa cosa fare, ma rimanere imbambolato dopo ad una confessione del genere sembra bruttissimo anche per i suoi standard, quindi le si avvicina e la cinge da dietro in un abbraccio, appoggiando la testa sulla sua spalla: “Ti dà fastidio?” sussurra, per essere sicuro di non forzarla. Anita sembra trattenere un singhiozzo, mentre gli risponde: “No, anzi, va bene”. Non sa quanto stiano così, ma lei sembra essere quasi a proprio agio, quando Cally si stacca, e le propone di tirare davvero fuori caramelle e computer.
Si accoccolano sotto alle coperte, nelle lenzuola a fiorellini di Anita, e fanno partire una commedia romantica. E nella penombra rischiarata solo dallo schermo del PC, tutto diventa lecito: anche quando le loro mani si sfiorano, per poi stringersi, anche quando Cally le sposta un ciuffo di capelli dal viso con la mano libera, anche quando, poco prima di cadere tra le braccia di Morfeo, lei lo sente sussurrare un “Ani, sei bellissima”.
Pensa che potrebbe benissimo rimanere lì per sempre, con Anita addormentata sul petto e gli orsetti gommosi. Non che al momento scappare sia una possibilità concreta, dato che non può fare movimenti improvvisi senza rischiare di svegliare la sua bella addormentata, ma non si lamenta.
Un po’ la invidia, perché ora, per colpa della sua insonnia si ritrova a guardare le travi a vista del soffitto della sua camera, e non capisce come possa essere successo tutto così in fretta: fino a qualche mese prima non sopportava neanche l’idea di starci di fronte ai pranzi di famiglia, ed ora era nel suo letto. Si sente anche un po’ imbecille, in realtà: insomma, Anita aveva accettato di uscire insieme “in amicizia”, di certo non sente quelle dannate farfalle che attanagliano invece il suo stomaco.
Okay, gli aveva tenuto la mano, ma è un comportamento normale tra amiche, no?
Era stato un normale pigiama party tra ragazze, con il film romantico e le caramelle gommose. Accidenti, non sono come Tarek o Marco, che neanche si accorgono di essere ad un appuntamento, senza che qualcuno glielo faccia notare.
Non era un appuntamento. E gli ci vuole davvero tanta forza di volontà (e di negazione) per non ammettere che, sì, vorrebbe che lo fosse stato.
D’altro canto, però, sa bene come ci si senta a trovarsi a fare i conti con la propria identità di genere, e non vuole assolutamente forzarla a dover affrontare altri casini, in quel periodo già delicato. Soprattutto, non davanti a tutta la famiglia.
E, in fin dei conti, neanche Cally muore dalla voglia di esporsi così.
Esporre cosa? Neanche l’hai baciata.
Anzi, neanche sai quale sia il suo tipo, in fondo. Certo, ha avuto una storia con Claudia,che  è decisamente diversa da te. Ma magari faceva parte della recita, in cui interpretava un ruolo:“Antonio, il cugino perfetto, cis ed eterosessuale, con una fidanzata perfetta”.
È strano, constata, in fondo non la conosco neanche così tanto.
Ecco, a questo punto potrebbe anche avere un fetish strano, tipo i piedi.
Sorride, scuotendo la testa. Beh, magari questo no.
Non si riesce ad impedirsi di lasciarle un bacio sulla fronte, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi sopraffare dalla stanchezza.
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Elodie è un po’ preoccupata. Non è sicuramente gelosa, ma non ha ancora metabolizzato a fondo quello che Claudia le ha detto in taxi, al ritorno.
Non è possibile che fosse davvero Diodato, nel locale, vero?
Ha bisogno di schiarirsi le idee, tutto qui. Una passeggiata nel giardino dietro alla casa sembra una prospettiva davvero allettante. Si districa lentamente da Claudia, che nella notte si era mossa fino ad intrecciare le gambe con le sue, e l’aveva stretta in un dolce abbraccio.  
La bionda si alza pigramente, per poi afferrare al volo qualcosa da mettersi (probabilmente, quella felpa è anche della fidanzata, ma ormai non ci fa neanche più caso). Lancia un’ultima occhiata a Claudia, che dorme ancora beatamente, prima di uscire dalla stanza, cercando di non fare troppo rumore con la porta.
È così immersa nei suoi pensieri, che non la nota subito. E anche quando la vede, rimane un attimo perplessa. Cosa ci fa quella scala, lì?
Sicuramente, il giorno prima non c’era. Si massaggia le tempie, cercando di ricordare di chi sia quella finestra.
Riccardo dovrebbe avere la stanza in quella parte del corridoio, si ricorda, è possibile che Eugenio sia venuto a trovarlo, e gli abbia fatto una sorpresa?
Oh, no. Realizza, paralizzata dall’orrore. La camera di Riccardo è quella di fianco.
Lì c’è Diodato. Cazzo, perché questa sera porta tutto a lui?
Elodie non si considera un’impicciona, ma ormai ci è dentro fino al collo, quindi tanto vale arrivare alla fine del tunnel. Quello che vede una volta arrivata in cima, però, la lascia ancora più confusa e con più domande di prima: Perché diamine Cally è nel letto di Diodato, e lo sta abbracciando?
È stato lui a mettere lì quella scala?
Oh, Cally, spero che tu abbia una buon spiegazione, pensa, scendendo dalla scala per ritornare nella sua stanza, perché non ne uscirai facilmente .
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Sono un professore d'arte, di circa 44 anni, e sto scrivendo questa lettera per coloro che hanno un amico, quindi per tutti.
Oggi è il 19 dicembre, ed il 19 dicembre di vent'anni fa, a quest'ora, ero in auto, parcheggiato fuori dai cancelli di casa della mia ragazza.
Stavo contando le gocce di pioggia sul finestrino in attesa che arrivasse.
Ricordo che la temperatura segnava due gradi, e la cosa che più mi scaldava non era l'aria condizionata della mia macchina, ma il pensiero che presto, molto presto, avrei visto la mia meravigliosa fidanzata correre sotto la pioggia, salire in macchina coi capelli bagnati ed il giubbotto congelato, con la punta del naso rosso e le guance fredde, ed io l'avrei stretta forte, tra le mie braccia, l'avrei coccolata con le mie carezze, coi miei baci.
E avrei spento la radio per poi farle il solletico; non esisteva canzone più bella della sua risata.
Ed in vece, ragazzi, le cose andarono diversamente.
Perché lei si avvicinò lentamente alla mia auto, senza correre, protetta da un ombrello.
Non portava mai un ombrello.
E si rifiutò di salire, obbligandomi ad abbassare il finestrino.
«tra noi è finita», «Io non t'amo più», «la colpa é mia, non tua».
Ricordo ancora il suo sguardo vuoto, privo d'amore, privo di interesse mentre mi guardava.
Ricordo che scesi dall'auto e aspettai sotto al temporale per molto tempo, nella speranza che tornasse da me, ricordo le mie lacrime bollenti mischiate al nevischio, ricordo che piansi tanto, fino a non avere più la voce, e quando mi rimisi in macchina avevo i capelli bagnati, il giubbotto congelato, la punta del naso rosso e le guance fredde.
E lei non ci sarebbe stata a scaldarmi coi suoi baci, con le sue carezze.
La nostra relazione durava da più di sei anni, e lei le pose un punto in meno di sei secondi.
All'epoca avevo poco più di 24 anni, e mi ero appena laureato all'accademia di belle arti.
Ma una laurea non poteva aggiustare il mio cuore rotto.
Da quel giorno smisi di uscire, spensi il cellulare, mi chiusi in camera e mi nascosi tra le coperte del mio letto.
Mi sembrava che il mondo avesse perso colore; ogni cosa era diventata un guscio duro e pesante ed io non ce la facevo più.
Era diventato difficile fare ogni cosa, soprattutto le più semplici, come alzarsi, fare colazione, guardare un po' di TV, fare due passi ... perché era proprio quando entravo nel quotidiano che la sua l'assenza si faceva sentire maggiormente.
Persino bere il caffè divenne impossibile, perché il suo colore scuro mi ricordava i suoi occhioni.
Dopo due intere settimane passate a letto, qualcuno bussò alla mia porta, e nonostante io non risposi, con un cigolio, qualcuno entro nella stanza.
Era Thomas, il mio migliore amico, il mio fratello mancato.
Io e lui ci conoscevamo dalla prima media.
Thomas, coi suoi riccioli color sabbia e la sua spruzzata di lentiggini sul naso, era l'unico in grado di capirmi.
Buttò sul pavimento una pila di vestiti che occupavano la sedia della scrivania, e ci si sedette sopra.
I suoi occhi verdi mi fissarono a lungo, finché, all'improvviso, disse:«Bello, é ora di alzare il culo da questa merda e riperdere in mano la tua vita».
E così, Thomas passò tutto l'inverno con me; mi faceva visita quattro volte a settimana, mi ascoltava, mi lasciava sfogarmi senza giudicarmi, criticarmi o sbuffare.
E quando dico "sfogarmi" intendo che ascoltava tutte le mie lamentele, tutti i miei frigni, tutta la mia collera e tutta la mia rabbia.
Un giorno mi disse «Bello, inizia a fare ordine. Incomincia dalla tua libreria, dal tuo armadio, e per finire riordina tutta la stanza. Poi inizierai a fare ordine anche fra i casini della tua vita. Ma da qualche parte dovrai pure iniziare, no?»
Ecco, Thomas era così.
Era superiore a me, di un'intelligenza fuori dalla norma, laureato con lode nello stesso periodo in cui mi laureai anche io.
È da quando avevamo 12 anni, dalla prima volta che lo vidi, che capii che non sarei mai stato come lui. Lo ammiravo, era il mio eroe, il mio mito.
Dopo circa due mesi tornai ad uscire il pomeriggio, e qualche volta persino il sabato sera, tornai ad ascoltare la mia musica senza pensare costantemente a lei, tornai a ridere senza avere l'amaro in bocca dopo.
Certo, continuavo a pensare che il mondo facesse schifo, che l'amore facesse schifo e che io facessi schifo, ma non mi sentivo più solo.
Era come se le cose avessero smesso di precipitare e schiantarsi al suolo.
Anche gli amici della compagnia mia e di Thomas vennero a trovarmi, consolandomi a modo loro; c'era chi mi prestava un videogioco e chi invece mi consigliava un film perché "mi avrebbe fatto sentire meglio".
In primavera, le ferite che facevano bruciare il mio cuore stavano cicatrizzando lentamente.
Thomas continuava a venirmi a trovare quattro volte a settimana, mi faceva parlare di tutto e di niente; condividevamo spesso il silenzio.
Quell'estate, fu l'estate più bella della mia vita.
Io ed i ragazzi facemmo talmente tante cose da tappezzare un'intera parete di camera mia con foto, da pensarci e sentirmi ubriaco.
L'ultima sera d'agosto, andammo alla festa più grande dell'anno, che si teneva ad un'ora di distanza dalla nostra città.
Ballammo tutta la notte, cantammo a squarciagola ogni canzone, respirammo a pieni polmoni quell'aria ancora impregnata di sale, di mare, di caldo.
Risi fino ai crampi allo stomaco. Per la prima volta mi sentii nuovamente vivo, pieno di sogni, speranze, con una gran grinta che mi scorreva nelle vene.
Mi portò a casa Thomas, nonostante avessi bevuto solo due bicchieri di vodka in quanto volevo ricordarmi perfettamente ogni colore, ogni profumo, ogni parola, ogni emozione.
Arrivammo a casa mia sulle sei del mattino. Mentre mi slacciavo la cintura Thomas mi diede una pacca sulla spalla «Sono felice che ti sia ripreso, bello!». Ricambiai la pacca «Merito tuo, fratello. Grazie» gli dissi, mentre scendevo dall'auto.
Quando mi stesi sul letto, non riuscivo a prendere sonno.
Non avevo mai ringraziato Thomas per tutto l'appoggio che mi aveva dato.
Cazzo, mi aveva letteralmente salvato dal mio dolore, la sua presenza scacciò i demoni dalla mia testa, la sua disponibilità nell'ascoltarmi mi aveva dato il coraggio di tornare a lottare per vivere la mia vita al meglio.
Chiusi gli occhi, promettendomi che l'indomani l'avrei ringraziato di tutto.
Vedete ragazzi, io e Thomas vivevamo a sei minuti di distanza.
E ancora una volta Thomas mi ha insegnato qualcosa; anche aspettare più di sei minuti, può essere troppo tardi.
Quel giorno m'alzai alle due di pomeriggio, con mia madre s accasciata al muro, seduta sulle piastrelle del pavimento in cucina, col corpo scosso da fremiti, con una mano sulla bocca singhiozzante e l'altra che stringeva forte il cellulare.
Era la mamma di Thomas. Stava dicendo «Mio figlio é morto», stava gridando «L'ho trovato due minuti fa in garage.»
Thomas si impiccò nel garage di casa sua, dopo avermi portato a casa quella mattina.
Thomas. Il mio Thomas.
Ragazzi, solo allora mi resi conto che non solo non avevo mai ringraziato abbastanza Thomas per tutto ciò che aveva fatto per me, ma non gli avevo nemmeno chiesto come stava.
Quell'inverno non gli domandai mai come andavano le cose con la sua Denise, convinto che la sua relazione stesse procedendo a gonfie vele, ignaro del fatto che lei aveva tradito lui.
Non gli domandai come mai avesse così tanto tempo libero da dedicarmi, non gli domandai mai cosa pensasse mentre i suoi occhi verdi si facevano freddi quando fissava impassibile fuori dalla mia finestra.
Non gli domandai mai della sua famiglia, se sua madre aveva trovato lavoro e se continuava a litigare con suo padre.
Scoprii solo dopo la sua morte che si erano divorziati quell'inverno.
Fui troppo preso dal mio dolore, per preoccuparmi anche del suo.
Eppure, Thomas riusciva perfettamente a mettere da parte il suo dolore per me.
Fui così egoista a pensare solo a me stesso, alla mia relazione, fui così preso dalle mie ferite che divenni cieco per le sue.
Perciò, ragazzi, se avete un amico, diteglielo adesso.
Diteglielo adesso quanto sono importanti per voi.
Diteglielo adesso quanto significano per voi.
Non lasciate che il vostro dolore vi renda ciechi, sordi e muti per quello altrui.
Prendetevi cura delle persone a cui volete bene, siate presenti nelle loro vite.
Sono passati quasi vent'anni dall'ultima canzone che io e Thomas cantammo assieme, dall'ultimo viaggio in macchina coi finestrini abbassati e l'aria bollente d'agosto che ci schiaffeggiava la faccia, dall'ultima corsa sulla sabbia bollente per tuffarci in mare, dall'ultima nostro selfie, per di più mosso, perché non riuscivamo a smettere di ridere.
Sono passati quasi vent'anni dal suo suicidio, e mai, mai, mi perdonerò per non avergli detto «grazie», per non avergli detto «Fratello, e tu come stai? A cosa pensi prima di addormentarti? Per quale sogno stai combattendo? Come ti senti ? Ho voglia di ascoltarti, parlami di qualcosa, qualcosa di tuo».
Amate i vostri amici, amateli ora, non lasciateli andare a casa senza avergli detto quanto bene gli volete, perché potrebbe essere troppo tardi.
-Alessia Alpi, scritta da me.
(-Volevoimparareavolare on Tumblr.)
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whatisthereality · 4 years
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two donuts [HS]
summary: dove ad una festa Harry ci prova con un’altra ragazza, facendo ingelosire la sua fidanzata, che decide di ripagarlo con la stessa moneta
written by: me
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enjoy
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Y/N non riusciva a crederci. Il suo ragazzo, Harry, era praticamente spalmato sul corpo di una ragazza a malapena vestita. Si era allontanato da lei con la scusa di andare a prendere da bere, ma erano passati già quindici minuti, e il drink che aveva preso per Y/N, ora era stretto nella mano dalle unghie laccate di rosso di un’altra.Erano così presi l’uno dall’altro, che non si erano accorti degli occhi infuocati che li avevano fissati per tutto il tempo.
Bene,
pensò Y/N
se vuole giocare, giochiamo
e si buttò in pista, ondeggiando i fianchi a ritmo di musica. In realtà, la vista di Harry che ci provava con un’altra l’aveva spezzata dentro, ma questo era il suo modo di affrontare il dolore, e nessuno era più bravo di lei in questo. Quello era il suo gioco, e non si sarebbe preoccupata di spingersi troppo oltre, finché non avesse vinto, trascinando l’avversario nell’abisso del dolore, finché questo non si sarebbe trovato ancora più in basso di lei.
Non ci volle molto prima che un ragazzo la raggiungesse, prendendole i fianchi da dietro. Y/N non disse niente, si girò e allacciò le sue mani dietro al suo collo, riprendendo a guardare Harry, che come se avesse sentito l’intensità del suo sguardo, alzò gli occhi per incontrare quelli della sua ragazza, e un lampo di realizzazione lo colpì. Si rese conto di quello che stava facendo nemmeno un minuto fa, e soprattutto, si rese conto che Y/N stava giocando. Non voleva iniziare una piccola guerra tra loro due, ma era stato lui ad averla creata, e ora ci era dentro. Inoltre, sapeva che Y/N non lo avrebbe lasciato ritirarsi, quindi, prese la mano di Stacy - che non aveva fatto altro che parlare di cose che Harry nemmeno ascoltava-, e la trascinò in pista, iniziando a strusciarsi su di lei. Y/N ghignò, aveva appena vinto il primo round. Avvicinò la sua bocca al collo del ragazzo che ancora la teneva per la vita, e iniziò a leccarlo, e lasciarci dei baci. Poi si allontanò, mandano un’occhiata di sfida ad Harry, che si abbassò verso la ragazza che gli era attaccata come una cozza, e invece di mirare al collo, puntò alla sue labbra, iniziando una danza fra le loro lingue che non gli era famigliare, e non gli piaceva come quella che faceva con Y/N. Una volta staccatosi dalle labbra dipinte di rosso, tornò a guardare la sua ragazza, vide nei suoi occhi l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto vedere in quel momento. Perché era caduto nella sua trappola, e Y/N aveva appena vinto. Lei si staccò appena dal ragazzo con cui aveva ballato fino a quel momento, e lo trascinò verso il bagno. Harry li seguì, perché sapeva che a quel punto Y/N non si sarebbe fermata. Infatti, quando arrivò ai bagni, la vide in braccio al ragazzo, che aveva una mano sotto al suo vestito mentre le loro lingue giocavano insieme. Harry ci vide rosso. Stacco con forza il ragazzo da Y/N, gli tirò un pugno sul naso per poi, prenderle la mano e portarla via. Y/N non si oppose e lo seguì in macchina. Il silenzio regnava su di loro finché non entrarono nella casa che condividevano.
“che cazzo era quello?”
sbraitò Harry, non appena chiuse la porta violentemente
“non so di cosa tu stia parlando”
“non iniziare, Y/N. Stavi fottutamente per farci sesso!”
Y/N era calma, ma dentro la sua tristezza e delusione, in quel momento si erano traformate in rabbia
“hai iniziato tu, Harry. Non parlare come se fossi il santo della situazione”
“oh quindi questo ti autorizza ad andare a letto con un altro?”
“ e a te cosa ha autorizzato a provarci con un’altra?”
e Harry non sapeva più cosa dire, sapeva che era stato il primo a sbagliare, ma non avrebbe mai fatto sesso con Stacy
“scommetto che le sue tette erano fantastiche a giudicare da quanto le fissavi. Sicuramente migliori di quelle della tua noiosa ragazza. E hai visto il suo sedere? mi dispiace che io non sono riusciva a vederlo, ma la tua mano lo copriva del tutto”
e solo in quel momento Harry capì quanto le sue azioni l’avessero veramente ferita.
“Y/N, ascolta...”
“no, niente. non dire niente. sono stanca, vado a dormire” ma prima che potesse fare più passi, Harry le afferrò il polso, girandola verso di lui
“ ti prego, piccola.. non scappare da me. Parlami, dimmi cosa provi”
 e qualcosa negli occhi di Harry, la convinse ad aprirsi
“ è solo che... avevi detto che ci andavi a prendere da bere, e invece che tornare da me hai preferito passare il tempo con una puttana. Ho iniziato a chiedermi se ci tieni davvero a me quanto dici, se non sono nemmeno di buona compagnia..” 
non finì la frase perché odiava ammettere quanto insicura si fosse sentita, quando Harry non faceva altro che fissare un’altra
“oh piccola... mi dispiace, mi dispiace così tanto. Cazzo, non è così che la serata sarebbe dovuta andare. avevo programmato di andare a vedere l’alba insieme, ma ho rovinato tutto. Ti prego, ho bisogno che tu mi perdoni, non ti farò mai più una cosa del genere, lo giuro sulla tomba di mia sorella”
“ va bene.. ti perdono, Haz, ma ora andiamo dormire, dobbiamo svegliarci presto per vedere l’alba. insieme a due ciambelle”
“insieme a due ciambelle”
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I’m back
Ehi, ciao, è da un sacco di tempo che non pubblico qualcosa e penso di dover dare delle spiegazioni.. più che ad un ipotetico lettore, penso di doverle dare a me stesso. Inizio da capo, quindi: Ciao Matteo, è un po’ che non ci sentiamo, vero? Immagino tu ti stia chiedendo il perché di questa assenza prolungata, il perché di quei pensieri e di quelle risate strozzate in gola, il perché dei “vaffanculo!” sussurrati, il perché dei sorrisi e delle lacrime. Non ci sono dei “perché”.. o forse ci sono, ma sono davvero così tanti che ti annoieresti a sentirne parlare. Come dici? Non lo faresti? Nah.. diciamo così ma poi ci si ricade sempre. Si pensa di avere un sacco di tempo da buttare, ma la verità è che non abbiamo neanche un secondo da perdere: senza un coinvolgimento personale, emotivo, non si è in grado di ascoltare per più di 10 minuti. Eppure stai ancora leggendo.. wow.. cosa pensi di aver vinto, una medaglia? 2 minuti sono passati, in bocca al lupo. Sono stato fuori da questo posto perché esso ha una capacità disarmante nel mettermi in contatto con la parte più debole di me, la parte più fragile e sensibile: quella in grado di scrivere per ore e poi cancellare tutto, e quella in grado di commuoversi per ogni piccolo gesto. Ho cercato di vivere più come una persona normale e meno come una palla informe di emotività e lunaticità. Inutile che mi guardi con quella faccia.. che tu mi chieda come è andata.. se sono qui c’è un motivo, no? Testa di cazzo.. ah si, impara a fare meno domande idiote, Matteo, perché davvero ogni tanto dai sui nervi. Pensi di voler fare il carino, la persona dolce, ma rompi solo il cazzo dopo un po’. Uno pensa di essere pronto a mollare tutto questo schifo e prendersi il mondo che c’è fuori, ma poi scopre che quello a cui va in contro è soltanto un oceano di ipocrisia, e torna sui suoi passi. Si.. ma quando torni a casa dopo una battaglia, sconfitto, niente è come prima. Il tuo rapporto con gli altri non è come prima, ma soprattutto il rapporto con te stesso non è come prima: continuavi a darti la colpa di ogni cosa, sempre, fingendo di non sapere quanto in realtà quelle situazioni non dipendessero da te, ma da “altri”. Quante volte ti sei fatto del male, fisicamente e non, pensando di essere tu quello sbagliato? Quante? Esatto.. troppe. Beh, eccomi qui a dirti che devi iniziare a fottertene un po’ degli altri, perché tanto tutti se ne fottono di te, non ci guadagni niente. Pensa a te stesso e a fare ciò che fa star bene TE, non le persone a te vicine. Loro se ne andranno, o magari te ne andrai tu: non sarebbe la prima volta, no? Tu, autoproclamatoti paladino dell’ascolto e del restare, che te ne vai? Matteo mi stupisci... sono commosso.. stai finalmente capendo come comportarti, bravo! Cosa? Pensi non sia bello? Hai ragione, non è bello ma: a mali estremi, estremi rimedi. Alcune situazioni richiedono un passo indietro, cosa che non esclude comunque di fare, poi, tre passi avanti. La vita è come un grande gioco dell’oca: tu sei la pedina, le caselle sono vari momenti, contesti, situazioni, persone: non esiste un arrivo prestabilito, non esiste un senso in cui muoversi; puoi andare avanti ed indietro, più o meno a tuo piacimento, e vinci solo quando stai bene. Puoi anche, però, perdere quella vittoria: è strano perché la casella rimane quella, ma piano piano te la senti molto meno “vittoria”, molto meno “casa”. Così pensi di volerla cambiare, cambiare la situazione generale per cercare di stare bene di nuovo.. In ogni casella in cui ti fermi, il tuo passaggio lascerà un segno, a prescindere dal fatto che tu ci ritorni o meno, le posizioni che eviterai risentiranno in maniera pressoché nulla della tua esistenza. Hai un solo grande nemico, si chiama “tempo”, funziona come la musica nel “gioco delle sedie”, quello che si fa quando si è piccoli!: finché c’è musica, c’è tempo, puoi muoverti e fare quel che ti pare; quando la musica finisce (a volte in maniera improvvisa, repentina, altre con un fare più sfumato), il tempo è da considerarsi esaurito, ed il gioco finisce. Sei sulla casella “vittoria”? Grande!, hai vinto la partita, cioè la vita. Sei su una qualsiasi altra casella? Mi dispiace, game over. Ti direi “ritenta”, ma non c’è modo di farlo. :) Morale? Giocati bene la tua musica, balla dove c’è da ballare e corri quando vedi la vittoria lontana da te. Ancora leggi? 10 minuti son passati!, muoviti!
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svevascoulture · 4 years
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estasi senza aesthesis?
Ed eccoci qua, questa volta posso osare il plurale e simulare un caloroso senso di appartenenza ad una categoria, tribe o subcultura (azzardo), quella di tutti coloro che vivono in Italia (ma or ora forse possiamo tranquillamente dire nel mondo), inseriti anagraficamente tra i 20equalcosa e i 40equalcosa, la macrocategoria sociale che oggi unisce quasi tre generazioni sempre vissute e sempre in vivendi per differenza, e che ora (insieme a tanti altri soggetti avulsi dalla specifica classe anagrafica) condividono l’isolamento imposto dal governo, dal buon senso o dalla paura. A voi la “scelta”. 
Come molto spesso accade, di fronte a fenomeni nuovi, di fronte ad avvenimenti straordinari, eccezionali, ex-regola, i primi a muoversi per abbracciare o navigare l’attuale tsunami sanitario/economico/sociale/culturale -mi si permetta di non soffermarmi troppo sul protagonista in questione, insomma, direi che non ci sia bisogno di sottolineare il riferimento più che esplicito e iper-contemporaneo, tecnicamente definito come SARS-CoV-2 -ecco insomma, i primi ad agire nella stessa direzione che gli eventi scatenano, sono stati tutti quegli enti e istituzioni che ingloberò massivamente sotto la macro categoria di Cultura.
Finalmente liberalizzazione di informazioni, aperture digitali dei più importanti musei del mondo, streaming legale su infiniti cataloghi cinematografici, concerti virtuali, pornografia gratuita-concessa-e-consigliata (in questo caso è stata più una legalizzazione mentale e di costume ma vabbè)... 
Infinite informazioni, infinite possibilità, infinite libertà, infinita scelta all’interno dei più finiti spazi condominiali, dei più finiti blocchi psicologici, dei più finiti dubbi sul prossimo futuro, dei più finiti sensi di controllo di fronte alla realtà.
E noi? Che si fa? E tu? Che fai? E io? Che faccio?
Personalmente questa situazione (che mi sforzerò di vedere in senso critico e avulsa dalle mie personalissime condizioni vitae) non sta esattamente tirando fuori l’essere umano e anzi, l’essere civico, che fino ad oggi pensavo di essere e/o poter essere. 
Uscire di casa, camminare, correre, calpestare terra non domestica, osservare il cielo, gli alberi, ascoltare la città, le voci, i passi, i pavoni e le rondini che iniziano ad approcciarsi alla nuova stagione...sono solo alcune delle cose che negli ultimi anni mi hanno concesso di desistere dalla demenza e di abbracciare, o almeno, sopportare, la banalità della mia attuale esistenza, o forse dell’esistenza in generale. Non c’è nichilismo né volontà polemica né vittimismo in quanto sto elencando, solo semplice, schietta, viscerale e del tutto consapevole, verità personale.
Quando perciò affermo e ammetto di non essere fiera di me stessa, in questo preciso momento storico, lo faccio proprio perché, seppur con incredibili riduzioni e ridimensionamenti, queste attività le sto comunque svolgendo, si veda paragrafo “die” relativo al permesso di uscire per andare a fare la spesa, i.e. uscire con la scusa di dover fare la spesa e dover comprare ciò che viene politicamente considerato come bene di prima necessità, ma in una modalità volta a sfruttare ogni singolo minuto, ogni singolo passo, ogni singolo scorcio che mi è in qualche modo politicamente concesso, allungando e dilatando i tempi, cosa che, fino ad oggi, non avrei mai pensato di dovere/riuscire a fare. Il succo è che bisogna starsene in casa cazzo, è sacrosanto, è corretto, è un’obbligazione finalizzata a un bene più generale, più importante, più giusto e necessario di tutte le nostre piccole scuse, di tutti i nostri vili e piccoli individualismi, di tutte le nostre mediocri necessità, di tutte le nostre becere giustificazioni.
Per riallacciarmi a quanto scritto sopra, alle istituzioni culturali e a tutte le incredibili possiblitià che esse (e molte altre) ci stanno offrendo, partirò con il confessare che oggi ho limitato il mio desiderio di stare fuori con un’unica uscita, breve, diretta; durante questa uscita ho provato, come da innumerevoli giorni a questa parte, a stilare una lista di tuuuuuuutte le cose che potrei fare, di tuuuuuuuuutte le attività che tendo a incastrare all’interno delle mie calcolatissime giornate, per intenderci sia di quello che per mesi ho procrastinato perché non-avevo-tempo, sia di quello che ora mi viene concesso e regalato per poter rendere e affievolire il disagio che la clausura innesca. Nel elencazione mentale ho provato un senso di conforto e stima verso le piccole e insieme grandi trasformazioni che il mio paese sta mettendo in atto per cercare di gestire una situazione di natura anarchica, incontrollabile e difficilmente gestibile all’interno della nostra società e, soprattutto, all’interno del nostro modo di vivere. 
In onore di questo, la mia inutile persona e la mia più ancora inutile e silenziosissima voce ringraziano e ringraziano, ringraziano ancora per quel poco e insieme grande che ci viene comunque concesso, liberalizzato e consigliato. 
In onore invece del mio personalissimo sentire, della mia personalissima opinione, mi soffermo su quanto, ahimè, non si possano sostituire talune forme di esperienza diretta con la digitalizzazione e/o resa virtuale delle stesse. Lo so bene: questa è proprio una di quelle asserzioni retrograde, passatiste e simil romantiche di cui il passato critico e culturale straripa...Lo so bene, ciononostante continuo a domandarmi come sia possibile, anzi come sia percepibile, una qualsiasi forma di esperienza estetica laddove manchi la sua trasposizione sensibile. E sì, è sempre il solito concetto di perdita dell’aura benjaminiana trito e ritrito -e comunque sempre e per sempre attuale- ma qui non si tratta di riproducibilità di un’opera, qui si tratta di doppia forma di riproducibilità, poiché a riprodursi ora non è solo l’oggetto/opera ma la sua fruizione e tutto ciò che ne consegue. Avere la possibilità di poter consultare un’istituzione museale dal proprio salotto, avere la possibilità di sfogliare il catalogo virtuale di una fondazione mentre si è in seduti comodamente nella propria toilette, avere la possibilità di farsi una vasca calda di pixel tra i corridori del Louvre..sono sicuramente alcune tra le cose più interessanti e, a parer mio, quasi scontate che la tecnologia e la cultura di oggi dovrebbero offrire e incentivare, si tratta di pratiche e consumi che, per quanto meritevoli di lode, altro non farebbero che accorparsi e accumularsi insieme ad altre lodevoli e interessanti pratiche e libertà che la nostra cultura e società connessa e Internet-vivente già abitualmente pratica e consuma.
Ma l’esperienza artistica -e per artistica intendo qui anche musicale, cinematografica, teatrale...- quella vera, non è fatta di occhi sconnessi dal corpo, nè di aipods, nè di protuberanze simil-arti modellate in 3D. L’esperienza artistica, quella vera, necessita di tutte quelle funzioni sensibili che, almeno per ora, noi essere umani disponiamo in quanto specie. 
Che allora questo momento di isolamento amplifichi ancora di più le nostre volontà di sentire, provare, vedere, ascoltare, toccare, odorare e percepire con tutti i nostri sensi e, insieme, con tutta la nostra sensibilità e, insieme, con la mente aperta e affamata... così da recarci e così da essere pronti a vedere la prossima mostra, retrospettiva, ma anche opera teatrale, film al cinema -insomma quel che si vuole- e poter ricordarci e risentire quell’estasi che l’esperienza estetica ci regala, ogni volta in maniera differente.
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gloriabourne · 5 years
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The one where Fabrizio gets mad and Ermal needs his forgiveness
Fabrizio era infastidito, quasi arrabbiato.
Non aveva altri modi per descrivere il suo stato d'animo in quel momento.
Forse anche il termine frustrato lo descriveva abbastanza bene, ma più che altro era infastidito.
"Bizio, dai..."
Fabrizio non si preoccupò nemmeno di rispondere ad Ermal, limitandosi a lanciargli un'occhiata scocciata mentre le porte dell'ascensore si aprivano e lui si infilava al suo interno.
Ermal lo seguì sbuffando e si appoggiò alla parete, accanto a Fabrizio.
"Vuoi evitare di parlarmi ancora per molto?" chiese appena l'ascensore iniziò a muoversi.
"Purtroppo non credo servirebbe a qualcosa" borbottò Fabrizio ed Ermal sorrise per essere quanto meno riuscito ad ottenere una risposta.
Fabrizio aveva il broncio da almeno venti minuti e Ermal continuava a non capire quale fosse il motivo.
"Allora mi dici che ti prende?"
Fabrizio rimase in silenzio, mentre aspettava che l'ascensore raggiungesse il loro piano.
Cosa avrebbe dovuto dirgli?
Che era arrabbiato semplicemente perché Ermal gli aveva accidentalmente sfiorato il collo durante un'intervista? Che ce l'aveva a morte con lui perché sapeva benissimo che effetto gli faceva essere toccato in quel punto - sicuramente Fabrizio glielo aveva fatto capire la notte precedente - e soprattutto sapeva quanto odiasse essere provocato in quel modo in un momento in cui non poteva rispondere alle provocazioni?
Appena le porte dell'ascensore si aprirono, Fabrizio sgusciò fuori e iniziò a percorrere il lungo corridoio che portava alle loro stanze.
Ermal lo seguì in silenzio fino a quando lo vide fermarsi di fronte alla sua camera ed estrarre la tessera magnetica dalla tasca.
Senza pensarci troppo - e dopo una brevissima occhiata per assicurarsi che nessuno stesse assistendo alla scena - lo prese per un braccio e lo trascinò di fronte alla porta successiva, quella della sua camera.
Fabrizio - capendo che Ermal lo avrebbe comunque costretto ad entrare in camera con lui e probabilmente lo avrebbe sottoposto a un interrogatorio per capire che problemi avesse - non oppose resistenza ed entrò nella stanza.
Chiuse gli occhi per un attimo, ricordando come si era sentito quando era entrato nella stessa stanza appena ventiquattro ore prima, quando le cose con Ermal erano ancora confuse e nessuno dei due aveva avuto il coraggio di dire all'altro cosa provasse.
Si era sentito ansioso, come se tutti i baci che si erano scambiati da Sanremo fino a quel momento non avessero importanza e fossero stati solo momenti di debolezza, come se ogni volta in cui erano stati nello stesso letto a fare l'amore non avesse nessuna importanza.
E invece poi in quella stanza era cambiato tutto. Ermal lo aveva baciato, aveva trovato il coraggio di dirgli che avrebbe voluto continuare a farlo per sempre e Fabrizio aveva risposto che per lui era lo stesso. E poi avevano fatto l'amore fino a togliersi il fiato, promettendosi che quando sarebbero tornati in Italia, quando avrebbero accantonato l'esperienza dell'Eurovision, tra loro non sarebbe cambiato niente.
Sembrava passata una vita da quel momento.
L'unica cosa che teneva Fabrizio con i piedi ancorati a terra, con la certezza che erano passate solo poche ore dal momento in cui avevano deciso di fare sul serio, era il fatto che fino al giorno precedente non si sarebbe mai permesso di fare una scenata perché credeva che Ermal lo avesse volutamente provocato. Quello era un limite che fino a quel momento non si era mai permesso di oltrepassare.
"Sei arrabbiato e non riesco a capire perché" disse Ermal, mentre si sfilava la giacca e la abbandonava sullo schienale di una sedia.
Fabrizio sospirò.
Non era nemmeno più arrabbiato, in realtà.
Il fatto era che in quel momento - in quel breve istante appena dopo l'intervista, in cui avevano fatto un paio di foto ed Ermal aveva accarezzato il suo collo con le dita - gli erano tornati in mente tutti i momenti in cui avevano fatto l'amore e si era sentito morire all'idea di non poterlo baciare all'istante. E un po' si era arrabbiato perché era quasi certo che Ermal lo avesse fatto volutamente, con il solo scopo di provocarlo in un momento in cui lui non poteva fare niente se non cercare di rimanere impassibile.
Ma poi la rabbia era sparita - come ogni volta in cui Ermal era vicino a lui - ed era rimasta solo quella tremenda frustrazione e quella voglia di baciarlo fino a fargli mancare il respiro.
"Non sono arrabbiato" disse Fabrizio ancora in piedi in mezzo alla stanza, mentre Ermal si sedeva sul letto.
"Ok, allora dimmi che ti prende" rispose Ermal continuando a fissarlo.
Fabrizio sbuffò e si passò una mano tra i capelli con fare nervoso.
Le cose tra lui ed Ermal si erano appena chiarite e stabilizzate, non sapeva ancora quale fosse il modo più giusto di comportarsi e se fosse il caso di confessargli ciò che gli passava per la testa oppure no.
"Sei uno stronzo" disse qualche attimo dopo, decidendosi a dire semplicemente ciò che pensava.
"Come, scusa?" chiese Ermal perplesso.
"Sei uno stronzo. Perché sai benissimo che effetto mi fa anche solo starti vicino, sai benissimo cosa provo quando mi tocchi. E prima, mentre facevamo quelle foto... Cazzo, Ermal, avrei voluto baciarti lì, davanti a tutti."
Ermal lo guardò mentre un sorriso gli incurvava leggermente le labbra. Sapere di fare quell'effetto a Fabrizio, lo faceva sentire bene come poche altre cose nella vita.
"Puoi baciarmi ora" disse Ermal alzandosi e camminando verso di lui.
"No."
Ermal si bloccò a pochi passi da lui, senza capire il motivo del suo rifiuto. "Cosa?"
Fabrizio cercò di restare serio, mentre quell'idea assurda continuava a ronzargli nella testa.
Non voleva davvero mostrarsi arrabbiato con Ermal, ma continuava a pensare a come sarebbe stato fingere di essere così arrabbiato da spingere Ermal a farsi perdonare.
Perdonare per cosa poi? Per averlo accidentalmente toccato più del normale durante un'intervista?
L'idea era assurda anche solo a pensarci, eppure Fabrizio non riusciva a fare a meno di pensare a tutti i risvolti che avrebbe potuto avere quella situazione, mentre sentiva i suoi jeans farsi sempre più stretti.
"Tu non hai idea di come mi sono sentito. I brividi lungo la schiena mentre sfregavi la mano sul mio collo, l'esigenza di baciarti e toccarti ma non poterlo fare..." disse Fabrizio con voce più roca del solito.
"Quindi vuoi vendicarti? Tu non hai potuto baciarmi quando volevi e io ora devo subire la stessa cosa?" disse Ermal divertito.
Ormai aveva capito che Fabrizio non era veramente arrabbiato e che lo stava solo prendendo un po' in giro.
"No, però credo di avere il diritto di togliermi qualche soddisfazione, quindi ora si fa a modo mio. Devi farti perdonare" disse Fabrizio con tono fermo, anche se in realtà non era mai stato così insicuro.
Sapeva quanto Ermal amasse avere il controllo della situazione in quei momenti, e non era certo che avrebbe accettato di lasciargli fare ciò che voleva.
Ma Ermal sembrava più che d'accordo a lasciare che, per una volta, fosse Fabrizio a gestire quella situazione.
Camminò lentamente all'indietro, tornando a sedersi sul letto con un sorrisetto malizioso stampato in faccia, e disse: "Va bene, Bizio. Cosa vuoi che faccia?"
Fabrizio sorrise per un attimo, felice che Ermal lo avesse assecondato in quella folle idea che gli era passata per la mente, e poi si avvicinò a lui sbottonandosi i jeans e abbassandoli abbastanza da lasciar vedere l'enorme rigonfiamento nei suoi boxer.
Ermal seguì ogni suo movimento, aspettando che Fabrizio gli dicesse chiaramente cosa desiderava.
Aveva voluto iniziare quel gioco e ora Ermal non vedeva l'ora che lo portasse a termine.
Ogni volta che erano stati a letto insieme, era sempre stato lui ad avere il controllo della situazione.
Inizialmente perché era una situazione nuova e lui si sentiva insicuro, quindi Fabrizio gli aveva lasciato prendere il controllo in modo da sentirsi a suo agio. E poi semplicemente le cose erano continuate in quel modo.
Quella era una svolta nel loro rapporto e, nonostante una piccola parte di Ermal temesse ancora di fare certe cose nel modo sbagliato e volesse avere il controllo della situazione, non gli dispiaceva poi così tanto che per una volta fosse Fabrizio a guidarlo.
Osservò Fabrizio toccarsi distrattamente attraverso il tessuto dei boxer e, il solo vedere la sua mano tatuata stretta sulla sua erezione ancora coperta, gli provocò un familiare brivido di aspettativa lungo la schiena.
Iniziava a sentire il tessuto dei suoi pantaloni tirare dolorosamente e non riusciva a pensare ad altro se non al sollievo che avrebbe provato quando finalmente la sua erezione sarebbe stata libera da ogni costrizione, ma in quel momento non era lui a decidere cosa fare.
Era Fabrizio ad avere il comando ed Ermal voleva che fosse lui a dirgli se e quando avrebbe potuto finalmente spogliarsi.
In un attimo, si rese conto di quanto quella situazione - seppure nuova e completamente sconosciuta per Ermal - lo stesse eccitando più di ogni altra cosa.
Fabrizio infilò i pollici oltre il bordo dei boxer e li spinse verso il basso insieme ai jeans, sfilandoseli un attimo dopo.
Ermal deglutì a vuoto mentre Fabrizio, ormai nudo dalla vita in giù, si sfilava lentamente la giacca e la maglia e le abbandonava sul pavimento.
Ogni volta che Ermal si trovava di fronte al corpo nudo di Fabrizio, non poteva evitare di fissarlo e imprimere nella sua memoria ogni suo particolare.
Gli sembrava ancora strano che un uomo così bello - bello davvero, e non solo esteticamente - avesse deciso di stare proprio con lui.
Fabrizio intanto si stava toccando svogliatamente, ormai senza strati di stoffa a coprire la sua erezione, tenendo lo sguardo fisso su Ermal.
"Lo sai cosa vorrei. Ormai mi conosci" disse Fabrizio avvicinandosi ulteriormente.
Ermal sollevò lo sguardo, abbastanza da poterlo guardare negli occhi, e rispose: "Lo so, ma voglio sentirtelo dire. Se vuoi che io faccia qualcosa per farmi perdonare, devi chiedermelo."
"Che stronzo che sei" mormorò Fabrizio trattenendo un sorriso.
Ermal si strinse nelle spalle, come a confermare che era effettivamente uno stronzo ma che non gli importava.
"D'accordo, se proprio vuoi sentirtelo dire... Voglio che mi tocchi. E poi voglio sentire la tua bocca su di me, tanto lo sappiamo entrambi che la storia che non ti piacciono i lecca-lecca è una cazzata" disse Fabrizio.
"Pessima battuta" constatò Ermal, senza però farsi ripetere da Fabrizio ciò che desiderava.
Gli spostò delicatamente la mano, sostituendola con la sua, e iniziò a masturbarlo lentamente, sentendo l'erezione del compagno pulsare tra le mani.
Quando lo sentì iniziare a gemere - mentre teneva gli occhi chiusi e la testa reclinata - Ermal fece un ghigno soddisfatto. Sapere che Fabrizio gemeva così per lui, a causa di ciò che lui gli stava facendo, lo faceva sentire potente. E anche se in quel momento era Fabrizio a decidere cosa fare, ad avere il controllo della situazione, Ermal in realtà sapeva bene che era lui ad avere tutto sotto controllo, che se solo avesse smesso di fare ciò che stava facendo Fabrizio lo avrebbe letteralmente supplicato di continuare.
Continuando a tenere lo sguardo fisso su di lui, prese in bocca la sua erezione, facendola scivolare fino in gola.
Dalla bocca di Fabrizio uscì un gemito più forte degli altri, mentre abbassava lo sguardo e puntava gli occhi in quelli di Ermal.
"Cazzo, potrei venire solo guardandoti" mormorò facendo scivolare una mano tra i suoi capelli e accompagnando i suoi movimenti.
Ermal accelerò il ritmo, stuzzicando la punta con la lingua e massaggiandogli i testicoli pieni con la mano, fino a quando Fabrizio - ormai vicino all'orgasmo - lo costrinse a fermarsi.
"Sei già al limite? Peccato, iniziavo a divertirmi" disse Ermal, pulendosi gli angoli della bocca con il dorso della mano.
"Al tuo posto, non farei troppo lo spavaldo" rispose Fabrizio.
La sua erezione pulsava così tanto da fargli male e sentiva il bisogno di raggiungere l'orgasmo il prima possibile, ma non voleva dare ad Ermal quella soddisfazione.
"Potrei abituarmi a questa versione di te. Non sono abituato a vederti fare il prepotente in queste situazioni, però mi piace" disse Ermal, iniziando a toccarsi distrattamente attraverso la stoffa dei pantaloni che ancora indossava.
"Smettila di toccarti" ordinò Fabrizio. Se a Ermal piaceva che lui facesse un po' il prepotente in camera da letto, di certo lui non glielo avrebbe negato.
Ermal sollevò le mani all'istante, mentre sulle sue labbra continuava a esserci l'ombra di un sorriso malizioso.
"Spogliati" ordinò nuovamente Fabrizio, facendo un passo indietro per permettere ad Ermal di alzarsi dal letto e spogliarsi di fronte a lui.
Lo osservò mentre si toglieva i vestiti lentamente - troppo lentamente per essere un movimento casuale - e cercò di resistere all'impulso di masturbarsi di fronte a lui, conscio che se lo avesse fatto sarebbe venuto in un attimo.
"E adesso?" chiese Ermal provocandolo.
Fabrizio non rispose. Si limitò a far tacere anche Ermal avvicinandolo a sé e baciandolo.
Affondò la lingua nella sua bocca, lasciandosi scappare un gemito nel momento esatto in cui il suo bacino si scontrò con quello del compagno.
Ermal posò le mani sui fianchi di Fabrizio, facendole poi scivolare sulle sue natiche e stringendole, obbligando il compagno a emettere una serie di altri gemiti osceni.
"Voglio essere io a prenderti, questa volta" sussurrò Fabrizio, mentre si allontanava dalle labbra di Ermal solo per iniziare a torturargli il collo.
Ermal annuì con un cenno, mentre inclinava la testa per lasciare a Fabrizio più spazio.
Qualche attimo dopo, si ritrovò con la schiena premuta sul materasso e Fabrizio inginocchiato tra le sue gambe che lo fissava eccitato.
Fabrizio si chinò su di lui, appoggiandogli due dita sulle labbra e invitandolo a leccarle, e Ermal non poté fare a meno di assecondarlo, tenendogli il polso fermo e facendo scivolare le dita del compagno nella sua bocca.
Fabrizio rimase incantato a fissare le labbra di Ermal chiuse attorno alle sue dita, mentre sentiva la lingua del compagno scivolare sulla sua pelle cospargendola di saliva. Al solo pensiero, sentì la sua erezione pulsare dolorosamente.
Voleva fare l'amore con Ermal, lo voleva disperatamente, e quell'attesa - per quanto lo avesse stuzzicato all'inizio - lo stava innervosendo.
Ormai stanco di aspettare, ritrasse le dita dalla bocca di Ermal e le indirizzò verso la sua apertura.
Ermal cercò di trattenere una smorfia di leggero fastidio sentendo le dita del compagno farsi lentamente spazio dentro di lui, ma pochi attimi dopo - non appena Fabrizio sfiorò la sua prostata - si ritrovò a gemere e ad andare incontro alle sue dita.
Fabrizio lo preparò con calma, consapevole che Ermal non fosse abituato a trovarsi in quella situazione e, solo quando fu convinto che Ermal non stesse più provando alcun fastidio, decise di sostituire alle sue dita la sua erezione.
Appena iniziò a spingersi lentamente in lui, Ermal chiuse gli occhi cercando di mostrarsi impassibile a quel dolore iniziale che sapeva benissimo avrebbe sentito, e Fabrizio - nonostante fino a quel momento avesse cercato di impartirgli degli ordini e di mostrarsi più autoritario del solito - non riuscì a evitare di sporgersi verso di lui lasciandogli un bacio su una guancia e sussurrando: "Ora passa, amore mio."
Ermal annuì mentre sentiva i suoi muscoli abituarsi lentamente all'intrusione e dopo qualche attimo sentì finalmente il dolore svanire.
"Muoviti" mormorò qualche secondo dopo.
Fabrizio - che fino a quel momento aveva tenuto le labbra premute sulla sua pelle, come a volerlo rassicurare - lo guardò e disse: "Sicuro?"
Ermal annuì con un cenno, desideroso di sentire Fabrizio muoversi dentro di sé.
"Chiedimelo" disse Fabrizio, usando di nuovo il tono autoritario di qualche minuto prima.
"Ti prego, Bizio..."
Fabrizio sorrise, soddisfatto di aver costretto Ermal a supplicarlo per ottenere qualcosa, e iniziò a muoversi lentamente.
Avrebbe voluto affondare in lui più velocemente, far raggiungere a entrambi l'orgasmo che desideravano, ma allo stesso tempo voleva che fosse Ermal a chiederglielo. Voleva che arrivasse al punto di supplicarlo ancora.
"Bizio, più forte..." sussurrò Ermal dopo qualche attimo. Aveva i capelli scompigliati, alcuni ricci erano appiccicati alla fronte sudata e aveva la faccia stanca.
Eppure Fabrizio non riuscì a evitare di divertirsi ancora per un attimo. Finse di non averlo nemmeno sentito, rallentando ancora di più di movimenti e obbligando Ermal a pregarlo di avere di più.
Solo dopo l'ennesima supplica, Fabrizio si decise ad accontentarlo accelerando il ritmo delle spinte e portando una mano tra loro, muovendola rapidamente sull'erezione di Ermal.
Pochi minuti dopo, Ermal venne nella mano di Fabrizio e sul suo stesso stomaco. Per Fabrizio fu necessario semplicemente guardare Ermal venire sotto di lui e gemere il suo nome, affinché lo seguisse a ruota riversandosi dentro di lui.
Quell'orgasmo era stato più intenso di qualsiasi cosa avessero provato prima di quel momento e per entrambi furono necessari parecchi minuti prima di riuscire a recuperare il fiato necessario ad emettere anche solo un sospiro.
Il primo a ritrovare la forza di parlare - e la capacità di articolare una frase di senso compiuto - fu Ermal.
Si voltò verso Fabrizio - steso accanto a lui, con gli occhi chiusi e il cuore che ancora non aveva ripreso a battere normalmente - e disse: "Eri davvero arrabbiato prima?"
Fabrizio scosse la testa, poi aprì gli occhi e si voltò verso di lui. "No, figurati. Cioè, ero un po' arrabbiato perché ero convinto che tu mi avessi provocato volutamente e perché di fronte a tutte quelle persone non potevo fare ciò che avrei voluto. Però, insomma, non è che fossi arrabbiato davvero. Infastidito, frustrato... ma arrabbiato, no. Non veramente, almeno."
Ermal rimase un attimo in silenzio, come se in quel momento il suo cervello avesse bisogno di qualche secondo in più per elaborare quel discorso, poi sorrise.
Fabrizio aggrottò la fronte. "Che hai da sorridere?"
"Niente, solo che un po' mi spiace che tu non fossi davvero arrabbiato."
"Perché?" chiese Fabrizio sempre più confuso.
Ermal si morse il labbro inferiore e arrossì, quasi vergognandosi di ciò che stava pensando. Poi disse: "Perché mi è piaciuto questo metodo per cercare di farmi perdonare."
E in quel momento Fabrizio ebbe la certezza che forse da lì in poi avrebbe finto di essere arrabbiato molto più spesso.
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Capitolo VI
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Mentre raccolgo da terra lo zaino e saluto i miei, intenti a godersi un film sul divano, mi rendo conto che il quadro generale della situazione in casa è abbastanza ordinato e tranquillo, il che mi sorprende. Sia chiaro, mia madre è arrabbiata con papà, ma non vuole cedere a una crisi isterica o a conseguenze legali che potrebbero rendere ancora più difficile la situazione in cui siamo stanziati ora.
Se da una parte penso che avrei potuto evitare tutto questo stress standomene in disparte, dall’altra so che non devo sentirmi in colpa perché era giusto che mia madre scoprisse della storia tra suo marito e niente di meno che la mamma di Stefano, fidanzato di Giuditta.
Trovo raccapricciante e ironico come ci sia sempre lei di mezzo, in un modo o nell’altro. E’ l’imperatrice di Cordello, non può non essere tirata in ballo ovunque ci siano degli scandali cittadini.
Se Stefano dovesse scoprire del bacio tra me e Giuditta, ora sarebbe davvero la fine.
Non so neanche se stanno ancora insieme, a dire il vero. Lei non risponde molto spesso al telefono, e la mia ansia sociale mi blocca dal tartassarla di messaggi da mattina a sera.
Mi ritrovo spesso imbarazzato nel fare ragionamenti simili. La vita sociale di Giuditta non dovrebbe interessarmi, almeno non quanto la mia. Ho una relazione a due passi dall’essere decapitata da un boia, in fondo.
Sami mi aspetta da dieci minuti nel parchetto dietro casa mia, e anche se non sono mai in ritardo, quando si tratta di chiarire con lui sono sempre un po’ intimidito perché è in grado di rigirare la frittata meglio di uno chef stellato. Mi trovo a riflettere sul se dargli buca o meno, anche perché ogni volta che stiamo per litigare ho quella piccola voce dentro la mia testa che mi consiglia di non presentarmi, o anche di non rispondergli al telefono. Allo stesso tempo, però, sono convinto che ci siano sempre molteplici versioni della stessa storia e chiuderla senza farlo parlare sarebbe dittatoriale.
Sami però mi ha mentito, e non solo, lo ha fatto davanti ad altri. Non posso neanche evitare di ignorare o addirittura negare i vari problemi che ho con lui. Sono bugiardo pure io, ma per una questione grave, non per parare il culo a un gruppo di presuntuosetti del cazzo.
Mi avvio verso il giardinetto. C’è un freddo quasi glaciale, così potente da penetrarti le dita, e sta piovigginando da stamattina.
Mentre supero gli enormi cancelli arrugginiti, mi accorgo quasi immediatamente che Sami è nervoso.
E’ seduto su una panchina verde prato, e da dietro posso solo vedere l’ombrello arcobaleno che si muove su e giù a causa della sua gamba, incapace di stare ferma. Quando picchietta il piede in quel modo, è perché è agitato.
Non lo saluto nemmeno, ma mi siedo di fianco a lui.
Non ci scrutiamo, perché probabilmente è più facile così.
Sposta l’ombrello in centro, per coprirci entrambi, sempre non degnandomi di uno sguardo.
Rimaniamo in silenzio ad ascoltare la pioggia che aumenta di intensità col lento passare dei minuti, come se ci potesse dare il tempo di organizzare i nostri pensieri. O di ritrovarli. O almeno di riuscire a vomitare frasi sensate per scappare da questa quiete scomoda.
“Com’è andato il test?” gli chiedo, dato che a questo punto saprà di già se è ammesso o meno nella sua ultima possibilità di evasione da Cordello.
Lui annuisce.
Non ricordo neanche come si chiama l’università a cui ha fatto domanda e, detto con franchezza, neanche lui ne ha mai parlato come se fosse qualcosa di eccezionale.
“Sono in waitlist. Se otto persone rifiutano il loro posto, posso entrare. Lo saprò settimana prossima.”
Annuisco, molto contento.
“Non me l’aspettavo” mi dice, bypassando il tono distaccato in un’esplosione di euforia: “cazzo, ma ci pensi? Ho superato qualcuno in cultura generale, chi l’avrebbe mai detto?”
Se esiste una cosa che tutto il mondo potrebbe urlare all’unisono riguardo Sami è che è solito per lui atteggiarsi da finto modesto.
Il suo curriculum accademico non rispecchia assolutamente la brillantezza della sua mente. Può intrattenere un discorso esistenzialista o politico per ore, spargendoci in mezzo citazioni di professoroni stranieri come se avesse sempre in tasca una manciata di coriandoli conservati apposta per impressionare il suo interlocutore.
Non è stupido e, soprattutto, lui stesso non si considera tale. E’ un intrattenitore nato, e il suo rischio maggiore è diventare un giullare di corte.
“So che non vuoi abbattere questo mio primo passo verso la conquista del mondo” mi dice, sorridendo abbastanza da far spuntare le sue adorabili fossette ai lati della bocca: “ma penso sia il momento di decidere cosa fare, anche riguardo al fatto che molto probabilmente partirò.”
Annuisco, abbassando il capo a mia volta per non perdere il suo contatto visivo.
“Non ci piacciamo più come un tempo, Sami. Questo è palese.”
Lui sbuffa, sbarrando gli occhi e rizzando la schiena. L’ombrello si muove abbastanza da non coprirmi più le spalle, che in poco tempo si bagnano come se fossi sotto alla doccia.
La faccia di Giuditta mi compare in testa con la stessa potenza e repentinità di uno schianto automobilistico frontale.
“A me piaci allo stesso modo, ma ho notato che ci infastidiamo a vicenda più del solito” mi confessa.
La pioggia si sta infittendo, ormai è simile a un’orda di gavettoni semi-ghiacciati.
“Ti sei comportato male con me, ieri” gli rispondo, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
“Per Vincenzo e gli altri?”
“Mi hai mentito e hai manipolato a tuo piacimento una delle poche giornate nelle quali mi è permesso uscire da ‘sto paesino del cazzo.”
“Se vado a Zaricci non posso non salutarli. Per coincidenza c’era tutto il gruppetto e ci hanno invitato da loro, ma neanche io mi aspettavo che monopolizzassero la nostra gitarella.”
Faccio spallucce. Mi sembra sincero.
“Non è una novità che ti metti prima di me, Sami, e mi va bene così. Questa volta però avrei voluto vedere un po’ di polso. Hai sempre questa voglia di dimostrare che non te ne fotte niente di cosa pensa la gente, ma ieri hai solo confermato che ci tieni troppo a farti piacere da tutti.”
“Che ti devo dire, io mi ci vedo troppo con loro. Sono il mio tipo di gente.”
Lo guardo con fare dubbioso, dato che sembra andarne fiero. Se ne accorge, tant’è che si sente in dovere di rettificare la sua affermazione: “non sono persone perfette, lo so. Però lo capisci, stare nelle loro grazie è come essere una celebrità. E non ti mento, Christian, a Cordello è stato troppo facile raggiungere la vetta.”
“Perché ti interessa così tanto la popolarità?” gli chiedo, schiettamente.
Lui rimane di nuovo a bocca aperta, facendo mente locale.
Sa la risposta. Nessuno conosce Sami come Sami perché Sami si considera ‘oh-così-interessante’ per non aver analizzato a fondo ogni singola sfaccettatura della sua ‘oh-così-interessante-psicologia’.
“Mi piace sentirmi apprezzato, dai. Se qualcosa va male, mi conforta sapere che la gente mi riconosce e mi apprezza.”
“Pensi che loro ti apprezzino?”
“Tu pensi di no?”
Sbuffo: “non era quello il punto.”
“Quale era? Schernirmi?”
“Farti capire che hai priorità fragili.”
Lui mormora qualcosa sottovoce, prima di estrarre il suo pacchetto di Marlboro dalla tasca.
“Cosa?”
“Io almeno ho delle priorità. Tu ti deprimi e basta” ripete, con un tono così forte che potrebbe spaccare un vetro.
“Beh, facile a dirsi per Sami Cucchi, cazzo. Io non ho niente.”
“Vedi? Lo stai facendo perfino ora!” mi risponde, scaldandosi e cominciando a gesticolare. Estrae due stizze dal pacchetto, e me ne passa una: “come se tu fossi l’unico sfigato del pianeta.”
“Non ho le opportunità che molti di voi hanno, c’è poco da negare.”
“Siamo tutti bloccati in questo buco di merda, Christian. Smettila di usare la facciata dell’essere povero per non affrontare i tuoi problemi!”
“Parli come se tu li affrontassi. Li ignori e basta” dico, alzando la voce a mia volta.
“Ma cosa cazzo stai dicendo?”
Le sue sopracciglia sono così inclinate da farlo sembrare un personaggio personalizzato della Wii.
“Dai, Sami, la tua casa potrebbe andare in fiamme e saresti comunque lì che sborri sul letto perché la tua foto ha raggiunto trecento likes su Instagram. Sei così preso dall’apparire che non senti più un cazzo.”
“Sei tu quello che non sta vivendo, non provare neanche a ribaltare i tuoi problemi su di me” mi urla addosso, puntandomi il dito sul petto con una violenza gestuale senza precedenti: “se sei uno sfigato che non fa assolutamente niente per cambiare la sua situazione è solo e soltanto colpa tua. Non di tua mamma, non di Cordello, non mia. Tua.”
“Non posso fare niente, è quello il punto. E l’unica volta che potevo fare qualcosa e mandare curriculum in giro hai deciso di fare da cagnolino a quel branco di sfigati del cazzo che ti tengono lì solo perché li diverti.”
“Se non te lo avessi proposto, tu manco avresti considerato andare a Zaricci.” Sta usando un tono di sufficienza molto fastidioso, ma ci stiamo aggredendo come due bambini che vogliono usare lo stesso gioco all’asilo, quindi penso sia lecito.
“Beh, non è la prima meta che mi viene in mente quando chiedere soldi ai miei è già un’impresa di per sé.”
“Non dire boiate, Christian. Li hai chiesti, te li hanno dati. Fatto sta che non è possibile che tu sia sempre così passivo, che siano sempre gli altri a spingerti da una parte all’altra. Dov’è l’iniziativa?” mi chiede, esasperato.
Rimango in silenzio, col collo un po’ spezzato. Mi osservo un buco nei pantaloni, in mezzo alla coscia destra.
“Se davvero la tua priorità fosse andartene da qui, staresti lavorando da mesi. Faresti il cameriere mega depresso o il fattorino delle pizze super scorbutico, ma ti metteresti una bella cifra da parte. Il fatto che tre quarti di Cordello ha i soldi del papi e può sborrare per il proprio privilegio non ti giustifica dal fare l’italiano medio che si lamenta e basta. E venire qui, ad attaccare me dicendo che non affronto i miei problemi, permettimi, è ridicolo” continua, abbattendomi ancora di più.
Mi sento come se fossi nelle sabbie mobili.
“Io so perché lo fai” conclude.
Inclino il capo, trattenendo le lacrime. Lo guardo, e vorrei incenerirlo, ma l’acqua che circonda i miei occhi come per trasformarli in un arcipelago non mi permette di farlo.
Inspira profondamente dalla sua sigaretta, chiudendo gli occhi.
“E’ anche il motivo per cui ti trovo interessante” aggiunge, come per incuriosirmi ancora di più.
Butto via il mozzicone di sigaretta, che si annacqua ancor prima di toccare il fango attorno a noi.
“E’ che conservi sempre gli scontrini” confessa, in un modo così semplice e naturale che sento un tumulto sprigionarsi tra i miei polmoni: “pensavi non me ne fossi accorto, vero?”
Nego, passandomi il polso sugli occhi per asciugarmeli.
“Li tieni in quell’agendina nera in camera tua, come se così facendo potessero essere belli come i fiori appassiti che si schiacciano tra le pagine di un diario.”
Non pensavo si accorgesse di come gelosamente rubassi dalle sue mani ogni pezzettino di carta che compariva durante le nostre uscite; lo trovavo sempre troppo impegnato a parlare di qualcosa che gli era successo o a osservarsi allo specchio per sistemarsi i capelli.
“Amo questo di te, Christian. Riesci a scovare il mondo all’interno di ogni minuscolo dettaglio. Ma lo odio allo stesso tempo, cazzo, perché prendi tutto troppo sul serio. Ti struggi su qualsiasi cosa, e sta diventando pesante. Mi innervosisce, rimani bloccato nella tua testa a osservare il tempo che passa invece di rimboccarti le maniche e smetterla di dare la colpa ad ogni cosa che ti circonda per i tuoi fallimenti.”
Non so cosa dire, quindi mi chiudo. Appoggio il busto sullo schienale della panchina, e inclino la testa all’indietro per bagnarmi la faccia.
“Vuoi venire da me?” gli chiedo.
Io e Sami potremmo essere opposti, non andare per niente d’accordo e avere pareri diversissimi su tutto, ma quel sorrisetto complice mi fa capire che non è un problema.
 Ondeggio la testa, con i timpani ipnotizzati dalla musica e gli occhi impegnati a rimanere chiusi.
Il buio lascia sfogo all’immaginazione; riesco a sentire i colori, letteralmente. E’ come se riuscissi ad assegnare a ogni tonalità un suono specifico.
Forse mi sto trasformando. Voglio solo rimanere in questo chiaroscuro mentale, nel fresco della mia carovana di pensieri rumorosi, che si inseguono così velocemente da rendermi faticoso tenere il ritmo.
La catapecchia nella quale mi trovo diventa più graziosa, calda, accogliente, così come il temporale fuori dalla finestra sembra mutare in qualcosa di più piacevole e silenzioso.
Percepisco il contatto delle dita di Sami sul mio petto nudo: i miei peli si rizzano, ritorna la pelle d’oca.
Lo guardo in faccia, stralunato. Appena incrocia il mio sguardo, ride. Ride in modo stanco, pacato, ma comunque naturale.
“Sei fatto” decreta, con due occhi così rossi che, prendendo in considerazione le pupille, sembrano due coccinelle. Nego scuotendo il capo, pensando alla possibile faccia dei miei se entrassero d’improvviso nella mia mansarda: loro figlio con una canna tra le mani, nudo, a farsi un ragazzo più fuori di lui.
Sembra quel momento magico della festa di Giuditta, quando la gente se n’è andata, o sta collassando nei luoghi più disparati, e tu rimani sveglio con la persona che ti interessa, completamente preso dal momento, consapevole di essere uno scheletro tra altri scheletri, tanto inutile quanto potenzialmente fallibile. Sai che manca poco a quel secondo in cui gli occhi li chiuderai per almeno tre o quattro ore, ma pur pensandoci costantemente riesci a fare lo sprint finale per goderti quel che rimane di una giornata che ti ha insegnato tanto e, potenzialmente, cambiato tutto.
Concentrandomi soltanto sulla pressione dell’indice di Sami sulla mia guancia, chiudo gli occhi, e decido di cancellare il mondo là fuori.
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