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#il razzismo nel cinema
bones39 · 8 months
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Alcuni degli artisti contemporanei più riconosciuti che sollevano quesiti e stimolano dibattiti:
1. Ai Weiwei: Artista cinese e attivista politico, il suo lavoro affronta temi come la censura, i diritti umani, la critica al governo cinese e l'immigrazione.
2. Banksy: L'identità di Banksy è ancora sconosciuta, ma il suo lavoro di street art politica e provocatoria ha attirato l'attenzione a livello internazionale. I suoi murales spesso affrontano questioni sociali, politiche e ambientali.
3. Kara Walker: L'arte di Kara Walker indaga il razzismo, l'identità e la storia dell'oppressione degli afroamericani negli Stati Uniti con raffigurazioni provocatorie e spesso violente.
4. Marina Abramović: Conosciuta per le sue performance estreme, Abramović esplora i confini del corpo, del tempo e dell'interazione umana. Le sue performance sono spesso cariche di simbolismo e suscitano reazioni emotive intense.
5. Yayoi Kusama: Kusama è famosa per le sue installazioni immersive e ad alto impatto visivo che spesso utilizzano il concetto dell'infinito e della sovrapercezione. L'artista giapponese ha affrontato temi come la salute mentale, il consumismo e la sessualità.
6. Jenny Holzer: Holzer utilizza la parola scritta come mezzo d'espressione principale, proiettando messaggi provocatori e contestanti su facciate di edifici, installazioni lumino- testuali e scritte su supporti vari. I suoi lavori si concentrano sul potere delle parole e affrontano temi come l'oppressione delle donne, la guerra e la politica.
7. Olafur Eliasson: Eliasson creane installazioni interattive che coinvolgono il pubblico attraverso l'utilizzo di luce, specchi e elementi naturali. Le sue opere esplorano temi come il cambiamento climatico, la percezione umana e l'interazione con l'ambiente.
8. Shirin Neshat: L'arte di Neshat esplora le dinamiche culturali, le divisioni di genere e la politica nel contesto del Medio Oriente. Attraverso fotografie, video e film, l'artista iraniana-america affronta temi come l'identità, l'oppressione e il conflitto.
9. Damien Hirst: Hirst è noto per i suoi lavori che coinvolgono animali morti o parti di animali. Le sue opere sollevano questioni etiche sulla vita e la morte, il consumo e la bellezza.
10. Cindy Sherman: Sherman è famosa per le sue fotografie in cui lei stessa si trasforma in personaggi diversi, spesso stereotipi femminili. Il suo lavoro affronta la cultura dei media, l'identità e il concetto di autorappresentazione.
Questi artisti spingono i limiti dell'arte e affrontano questioni cruciali che suscitano discussioni e riflessioni sulla società, la politica, l'identità e molto altro ancora.
Ci sono diverse splendide installazioni e mostre permanenti di arte contemporanea in Italia. Ecco alcuni esempi:
1. Museo MAXXI a Roma: Il Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo comprende una vasta collezione di arte contemporanea italiana e internazionale. Il museo ospita anche mostre temporanee che presentano artisti contemporanei di spicco.
2. Fondazione Prada a Milano: La Fondazione Prada offre una combinazione di mostre temporanee e una collezione permanente che include opere di artisti internazionali emergenti e di grande calibro. Il complesso museale, progettato dall'architetto Rem Koolhaas, promuove l'arte, l'architettura e il cinema contemporanei.
3. Museo MADRE a Napoli: Il Museo d'Arte Contemporanea Donnaregina presenta una collezione permanente con opere di artisti come Francesco Clemente, Anish Kapoor e Jeff Koons. Oltre alla collezione, il museo organizza mostre temporanee e progetti artistici.
4. Museo MACRO a Roma: Il Museo di Arte Contemporanea di Roma ospita mostre e installazioni permanenti di arte contemporanea italiana e internazionale. Il suo edificio principale, l'ex stabilimento industriale Peroni, è una cornice suggestiva per l'arte moderna.
5. Museo MAD di Bassano del Grappa: Il Museo d'Arte moderna e contemporanea Mario Rimoldi è situato in una storica villa vicino a Bassano del Grappa, in Veneto. La collezione permanente comprende opere di artisti come Giorgio Morandi, Lucio Fontana e Mario Sironi.
6. Museo Castello di Rivoli a Torino: Il Museo d'Arte Contemporanea di Castello di Rivoli è uno dei principali musei di arte contemporanea in Italia. Situato in un castello storico, il museo presenta mostre e installazioni permanenti che coprono diversi periodi e movimenti artistici.
7. Museo MADeC a Cosenza: Il Museo MADeC (Museo Arte contemporanea e del '900) di Cosenza espone una vasta collezione di opere d'arte moderna e contemporanea di artisti italiani e internazionali. Il museo è ospitato in un ex convento e offre un'esperienza artistica unica nel panorama calabrese.
Questi sono solo alcuni esempi di installazioni e mostre permanenti di arte contemporanea in Italia. Ci sono molti altri musei e spazi espositivi in tutto il paese che offrono al pubblico l'opportunità di immergersi nell'arte contemporanea italiana e internazionale.
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Alcuni fotografi sullo stile di soggetto di Dohroty Bahwi:
1. Jan Saudek: Jan Saudek è un famoso fotografo ceco noto per le sue immagini poetiche e surreali. Le sue fotografie spesso raffigurano soggetti nudi o seminudi in pose suggestive, creando immagini che evocano emozioni profonde e complesse.
2. Sally Mann: Sally Mann è una rinomata fotografa statunitense con uno stile molto intimo e personale. Le sue fotografie spesso raffigurano la sua famiglia e la vita nella Virginia rurale, esplorando concetti di memoria, tempo e degrado.
3. Duane Michals: Duane Michals è un fotografo americano noto per il suo approccio narrativo e sperimentale. Le sue fotografie sono spesso una sequenza di immagini che raccontano una storia o esplorano temi come l'amore, la morte e l'identità.
4. Sarah Moon: Sarah Moon è una fotografa francese con uno stile onirico e poetico. Le sue immagini spesso sfocano i confini tra realtà e fantasia, creando atmosfere surreali e misteriose.
5. Joel-Peter Witkin: Joel-Peter Witkin è un fotografo americano noto per le sue fotografie provocatorie e inquietanti. Le sue immagini spesso includono soggetti "diversi" come deformità, corpi mutilati o oggetti macabri, creando immagini che sfidano le norme sociali e provocano riflessioni sulle nostre paure e perversioni.
6. Nan Goldin: Nan Goldin è una fotografa americana con uno stile documentaristico e intimo. Le sue fotografie spesso raffigurano la sua cerchia di amici e conoscenti, documentando la vita notturna, l'amore, la dipendenza e le relazioni umane con un occhio sincero e senza filtri.
7. Arno Rafael Minkkinen: Arno Rafael Minkkinen è un fotografo finlandese-americano noto per i suoi autoritratti in natura. Le sue immagini spesso esplorano la connessione e l'interazione tra il corpo umano e l'ambiente, creando composizioni suggestive e poetiche.
Ricorda che ognuno di questi fotografi ha uno stile unico e distintivo, quindi ti consiglio di esplorare il loro lavoro per trovare quello che più ti ispira.
9. Roger Ballen: Roger Ballen è un fotografo sudafricano noto per le sue immagini disturbanti e surreali, spesso ambientate in ambienti claustrofobici e con protagonisti animali o persone marginalizzate.
10. Jock Sturges: Jock Sturges è un fotografo americano famoso per i suoi ritratti di adolescenti nudi in ambientazioni naturali, creando immagini intime e sensuali che esplorano la transizione dalla giovinezza all'età adulta.
11. Elinor Carucci: Elinor Carucci è una fotografa israeliana-americana che si concentra sulla sua famiglia e sulla sua vita quotidiana, creando immagini intime e personali che rivelano emozioni complesse e universali.
12. David LaChapelle: David LaChapelle è un fotografo e regista americano noto per le sue immagini audaci ed eccentriche, spesso con icone pop, celebrità e riferimenti culturali, creando immagini che catturano l'attenzione estraendo la bellezza e l'assurdità del mondo moderno.
13. Antoine D'Agata: Antoine D'Agata è un fotografo francese noto per il suo lavoro provocatorio e crudo, spesso mostrando la vita nei margini della società, con immagini sessuali esplicite, droga e violenza.
14. Daido Moriyama: Daido Moriyama è un famoso fotografo giapponese noto per le sue immagini in bianco e nero che catturano la vita urbana di Tokyo, con un occhio brutale e decisamente moderno.
15. Francesca Woodman: Francesca Woodman è stata una fotografa statunitense che ha creato immagini intime e poetiche di sé stessa e del suo corpo, spesso intrecciati con l'architettura delle case e degli ambienti in cui si trovava.
16. Vivian Maier: Vivian Maier è stata una fotografa statunitense-americana scoperta in modo postumo, nota per le sue immagini di strada catturate principalmente a Chicago, offrendo uno sguardo unico sulla vita urbana degli anni '50 e '60.
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Ecco altri 45 artisti che potrebbero raffigurare soggetti simili a quelli di L'ora Zombie, Chiara Bautista, Zoe Lacchei, Robin Eisenberg e Phazed:
1. Audrey Kawasaki
2. Marion Peck
3. Mark Ryden
4. James Jean
5. Tara McPherson
6. Jenny Frison
7. Brandi Milne
8. Kukula
9. Amy Sol
10. Peter Gric
11. Femke Hiemstra
12. Josh Keyes
13. Brian Despain
14. Kris Kuksi
15. Nicoletta Stamatelatos
16. Gary Baseman
17. Scott Musgrove
18. Sarah Joncas
19. Natalie Shau
20. Shag (Josh Agle)
21. Greg "Craola" Simkins
22. Luke Chueh
23. Caitlin Hackett
24. Soey Milk
25. Audrey Pongracz
26. Alex Pardee
27. Travis Louie
28. Natalia Fabia
29. Chris Mars
30. Casey Weldon
31. Brandi Read
32. Jeanie Tomanek
33. Jessica Joslin
34. Scott Radke
35. Camilla d'Errico
36. Lori Earley
37. Michael Hussar
38. Benjamin Lacombe
39. Miho Hirano
40. Kindra Nikole
41. James Gurney
42. Kris Lewis
43. Martin Wittfooth
44. Timothy Robert Smith
45. Colin Christian
46. Ray Troll
47. Daniel Merriam
48. Jasmine Worth
49. Sonya Fu
50. Michael Page
51. Chie Yoshii
52. Yoko D'Holbachie
53. Sarah Louise Davey
54. Kit King
55. Femmepop
56. Travis Lampe
57. Sheri DeBow
58. Mab Graves
59. Popovy Sisters
60. Amy Brown
61. Laurie Lipton
62. Mark Bryan
63. Ray Caesar
64. Joel Rea
65. Simona Candini
66. Tom Bagshaw
67. Marion Bolognesi
68. Lora Zombie
69. Heather Watts
70. Paul Rumsey
71. Brian M. Viveros
72. Nom Kinnear King
73. Brendan Monroe
74. Jeremy Geddes
75. Lesley Oldaker
76. Kim Simonsson
77. Jana Brike
78. Jeff Soto
79. Hikari Shimoda
80. Yoskay Yamamoto
81. Olek
82. Yayoi Kusama
83. Atsushi Suwa
84. Fem Jasper-King
85. Tina Lugo
86. Zoe Keller
87. Erik Jones
88. Moki
89. Justin Mortimer
90. Gustavo Rimada
91. Michael Shapcott
92. Sachin Teng
93. Laura Colors
94. Erwin Olaf
95. Fairy Teller
96. Michelle Mia Araujo
97. Martin Eder
98. Lin Fengmian
99. Marissa Oosterlee
100. Andrew Hem
1. Jasmine Becket-Griffith: Jasmine Becket-Griffith è un'artista statunitense con uno stile unico e distintivo. Le sue opere spesso raffigurano figure eteree e mistiche, con dettagli intricati e colori vivaci.
2. Chet Zar: Chet Zar è un artista americano noto per le sue opere che fondono horror e fantastico. Le sue raffigurazioni spesso presentano figure bizzarre, mostruose e oscure, in una miscela unica di dettagli realistici e immaginazione distorta.
3. Nicoletta Ceccoli: Nicoletta Ceccoli è un'artista italiana con uno stile fiabesco, ma al tempo stesso inquietante. Le sue opere spesso raffigurano bambine dalle espressioni malinconiche e sognanti, immerse in scenari surreali e simbolici.
4. Camille Rose Garcia: Camille Rose Garcia è un'artista americana le cui opere sono ispirate dal mondo delle fiabe, ma con un tocco oscuro. Le sue raffigurazioni sono caratterizzate da colori vibranti, figure distorte e dettagli intricati.
5. Ray Caesar: Ray Caesar è un artista canadese noto per le sue rappresentazioni di un mondo fantastico e sognante. Le sue opere spesso presentano figure femminili sofisticate e misteriose, ambientate in scenari intricati e dettagliati.
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Questi sono ulteriori artisti che potrebbero interessarti se ami gli stili e i soggetti di L'ora Zombie, Chiara Bautista, Zoe Lacchei, Robin Eisenberg e Phazed. Ognuno di questi artisti ha una prospettiva unica e un modo particolare di rappresentare concetti e emozioni nella loro arte. Potresti scoprire nuove ispirazioni e dimensioni artistiche esplorando il loro lavoro.
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gcorvetti · 9 months
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Domenica.
Ieri l'head chef mi dice "Ma domani vieni, vero?", "Eh no, ho da fare", "Cosa devi fare?", "Devo andare alla fattoria che ci sono dei lavori da fare", "Ahhhh, ma domani c'è l'ultima giornata del festival del cinema e del festival del vino", "Ma due settimane fa sono venuto che c'era il rally e domani devo andare per forza", muta. Merike, l'ex lavapiatti di un posto dove lavoravo che ora fa le pizze, per modo di dire, in questo posto dove lavoro per ora, a voce alta dice "Beh, le persone hanno una vita, una famiglia e altro da fare", poi quando va via mi dice "Tubli pois" che sarebbe bravo ragazzo, ora non so se l'ha detto perché ho avuto il coraggio di dire di no oppure perché nonostante i continui attacchi di quella troglodita della sua collega ho saputo mantenere la calma anche in alto mare, cioè quando c'era un sacco di lavoro, senza farmi prendere dal panico come l'head chef, che poi dico io sono vent'anni che lavori là dentro e vai in merda con 3 comande? Non sanno minimamente cosa vuol dire lavorare in cucina, assemblano ingredienti ad cazzum e a modo loro fanno dei piatti "belli", si dice così la chef capa, "mettilo bene che deve essere bello", la decorazione, anche perché il piatto fa schifo di per se :D hahhhaha. Venerdì ho anche declinato il passaggio a fare le pizze, non perché non sia capace con quel sistema anche un bambino saprebbe farle, neanche per il motivo che le ho detto, cioè che non è proprio il mio ramo e poi ci sono troppe pizze da ricordare (22 per l'esattezza), la verità è che non mi accollo di lavorare al fianco di una che non ha neanche la forma di una donna, non è per fare body shaming, ma proprio sta qua ha la faccia da maiale e il corpo di un gorilla di montagna ed è ignorante come la merda, anche perché una che ti dice "Se non fai come dico io ti do un pugno prima in un occhio poi nell'altro e poi nelle palle" (le avrei dato volentieri una testata in quel momento) non è proprio il tipo di persona con cui lavorare, anzi è proprio da evitare, infatti la sto ignorando, il suo razzismo nei confronti di chi non è estone se lo può infilare nel culo, mi punzecchia continuamente come se lei sapesse cosa è una pizza. Va bè scampato pericolo, anche Dr Spock mi ha detto che se è così allora meglio perderli sti soldi che perdere la sanità mentale dietro l'ignoranza totale di sta gente.
Cambiando discorso oggi c'è un'umidità da paura, ho suonato un pò e mi si appiccicavano le dita al manico, ho messo il borotalco ma dopo due minuti scompariva, sudavo e mi è venuto male, anche se ho fatto il mio. Ieri infatti si avvertiva già che con quella pioggerellina si sarebbe creata una cappa umida e pesante, eccola. Adesso mi sa che mi lancio in sauna e poi mi mangio la pizza, ordinata che non c'ho voglia di farle, oggi riposo e relax. Quindi sauna.
Vi metto anche qualcosa da ascoltare, sempre se riusciate ad arrivare alla fine :D
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lamilanomagazine · 3 months
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Verona, l'Altro Teatro al Camploy la travolgente comicità di Paola Minaccioni nel monologo "Stupida show"
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Verona, l'Altro Teatro al Camploy la travolgente comicità di Paola Minaccioni nel monologo "Stupida show" Giovedì 18 gennaio alle 20.45 appuntamento da non perdere al teatro Camploy. In scena "Stupida Show", un monologo di stand up comedy per cuori coraggiosi con la travolgente comicità di Paola Minaccioni scritto da Gabriele Di Luca di Carrozzeria Orfeo. Paola Minaccioni, una delle artiste più amate del teatro, del cinema e della televisione italiana, col suo impetuoso umorismo trascinerà il pubblico nell'inconfessabile e nell'indicibile, nei piccoli inferni personali di ciascuno per dare voce a tutta quella follia e a quelle frustrazioni che ci abitano ma non abbiamo mai avuto il coraggio di confessare a nessuno. Il tutto raccontato attraverso lo sguardo di una donna in grado di trasformare le sue ferite personali e i fallimenti in una comicità travolgente, dove il destinatario del suo dialettico atto terroristico sarà il suo primo avversario naturale: l'amore. In Stupida Show Paola Minaccioni non sarà la tenera eroina vittima di un mondo crudele, non sarà la donna da compatire, ma da temere. Si trasformerà in una donna sola e in guerra con la vita, alle prese con un corpo in declino, un'affettività traballante e songi irrealizzabili, antieroe per eccellenza che svela vizi, lati oscuri e follia di chi nella vita sa bene cosa significa inciampare, è stufa di sopportare la retorica qualunquista della contemporaneità e ha voglia di dirne quattro. È 'stupida' perché racconta il viaggio di una donna da sempre irrisolta, buffa nelle sue grottesche contraddizioni, apparentemente condannata ad inciampare sempre negli stessi errori nelle stesse trappole della vita. In fondo però parla un po' di tutti, presi nella limitatezza e finitezza. Presentato da Carrozzeria Orfeo, Infinito Produzioni e Argot Produzioni, Stupida Show!, per la regia di Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti, è uno spettacolo per cuori coraggiosi: politica, potere, differenze di genere, violenza, maternità, sessualità, razzismo, egoismo, pornografia, famiglia, individualismo, tensioni sociali... sono alcuni dei temi che intende indagare la comicità di oggi nei loro aspetti più scomodi per il nostro presente, con una nuova e diversa chiave di lettura della realtà. "In un periodo di generale smarrimento e incertezza come quello in cui viviamo - spiega il drammaturgo e regista Di Luca - in un tempo pieno di retorica, slogan, proclami populisti, ipocrisia, divisioni sociali, disonestà intellettuale e finzione, dove l'indagine di alcune tematiche e l'uso di un linguaggio senza filtri vengono condannati da una certa opinione pubblica perbenista, sembra davvero di vivere in un Truman Show. Proprio in questo contesto una comicità dissacrante, che voglia gettare luce sulla realtà e abbattere il muro della retorica, può dare il suo contributo nell'indagare l'uomo e la società contemporanea, offrendo la possibilità di metterci in discussione senza preconcetti e finti perbenismi". Il perbenismo, il politicamente corretto e la facile morale, nella stand up comedy sono banditi, perché nelle premesse fondamentali di questo genere non c'è la volontà di rassicurare o intrattenere, ma il desiderio di aiutarci a distruggere a suon di risate il finto set di cartone nel quale siamo imprigionati per svelare la realtà dietro ad esso. Spettacolo non adatto ad un pubblico di età inferiore ai 14 anni. Stupida Show: Drammaturgia Gabriele Di Luca, con Paola Minaccioni. Regia di Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti. Musiche di Massimiliano Setti, spettacolo di Carrozzeria Orfeo. Produzione di Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini per Infinito Produzioni, Argot Produzioni e Carrozzeria Orfeo. Coproduzione La Corte Ospitale, Accademia Perduta – Romagna Teatri, Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival. Programma completo sul sito, sulla pagina facebook L'Altro Teatro Verona, sul profilo Instagram L'Altro Teatro Verona.Camploy. Biglietti disponibili da Box Office Verona - via Pallone 16 - tel. 045 80 11 154, e online sui circuiti ai seguenti link: - 1 boxol.it - 2 boxofficelive.it - 3 myarteven.it Il botteghino del Teatro Camploy sarà aperto la sera dello spettacolo a partire dalle 20 per l'acquisto dei biglietti. Carrozzeria Orfeo. In 15 anni di attività, con 11 spettacoli all'attivo – che hanno maturato oltre 1000 repliche – e il film Thanks! (programmato su Netflix nel 2020/2021), la Compagnia, diretta da Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti, prosegue nel suo teatro pop, fatto di drammaturgie originali che trovano ispirazione nell'osservazione del nostro tempo, in cui l'ironia si fonde alla tragicità, il divertimento al dramma. Il risultato è un'escursione continua fra realtà e assurdo, fra sublime e banale, attraverso storie che possono essere lette a più livelli e che hanno riscosso negli anni un grande successo di pubblico e critica.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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carmenvicinanza · 3 months
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Debbie Allen
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Debbie Allen è l’attrice, ballerina, coreografa, regista e produttrice televisiva, conosciuta in tutto il mondo per la sua interpretazione dell’insegnante di danza Lydia Grant nella serie culto degli anni Ottanta Saranno famosi.
Ha lavorato a più di 50 film e produzioni televisive collezionando una bella sfilza di premi tra cui un Golden Globe, cinque Emmy Awards su venti nomination, due Tony Awards e dieci Image Award. Nel 1991 le è stata dedicata una stella sulla Hollywood Walk of Fame.
Come coreografa detiene il record per il maggior numero di vittorie e nomination agli Emmy.
Ha fatto parte della Commissione Presidenziale della Casa Bianca per le Arti e gli Studi Umanistici.
Un altro suo personaggio passato alla storia delle serie tv è stato la dottoressa Catherine Avery in Grey’s Anatomy.
Il suo nome completo è Deborah Kaye Allen ed è nata a Houston, il 16 gennaio 1950, sua madre è Vivian Ayers Allen, poeta e attivista culturale autrice di Spice of Dawns raccolta poetica nominata al Pulitzer e sua sorella è l’attrice e regista Phylicia Rashad, che è stata la famosa Clair Robinson nella sitcom The Cosby Show (in italiano I Robinson).
Debbie Allen, che danza da quando era una bambina, è laureata in letteratura greca alla Howard University e ha studiato recitazione alla HB Studio di New York.
Dopo anni, la sua università l’ha insignita col dottorato honoris causa così come la University of North Carolina School of the Arts.
Ha debuttato a Broadway nel 1970 e, dopo diversi musical e serie tv, è stata nel cast in un altro film televisivo che ha fatto epoca: Radici.
Nel 1980 ha ottenuto la prima candidatura ai Tony Awards come protagonista di West Side Story vincendo il Drama Desk Award. La sua prima volta al cinema è stata nel 1979, ma il ruolo che l’ha resa famosa è stato sicuramente quello di Miss Grant in  Saranno famosi. Oltre a recitare era anche la coreografa. È stata l’unica protagonista a lavorare nel film del 1980, diretto da Alan Parker, nella serie tv, girata tra il 1982 e il 1987, che le è valso due Emmy Awards e un Golden Globe (prima donna nera a vincere come miglior attrice per una serie tv) e anche nel remake del 2009 in cui era la preside della scuola d’arte.
Dopo diversi film e spettacoli a Broadway, ha diretto e prodotto 83 episodi della fortunata A different World serie spin-off del Cosby Show.
Ha anche inciso due dischi da solista Sweet Charity (1986) e Special Look (1989) e continuato a recitare, dirigere e creare coreografie per film, musical e numerose serie tv. Ha anche prestato la sua voce per diversi film d’animazione.
Come coreografa ha ricevuto 10 nomination agli Oscar, delle quali consecutivamente dal 1991 al 1994 e per Motown 30: What’s Goin’ on!  dedicato ai 30 anni della Motown che le è valso un altro Emmy per il segmento African American Odyssey.
Nel 1997 ha co-prodotto il film di Steven Spielberg Amistad, che le è valso il premio Producers Guild of America.
Nel 2001, a Los Angeles, ha fondato la Debbie Allen Dance Academy organizzazione no profit per incoraggiare giovani talenti.
Non ha mai smesso di dirigere musical e serie di successo come Scandal, Le regole del delitto perfetto, Empire e altre ancora, quasi tutte hanno come protagonista una donna nera.
Nel 2020 ha diretto, prodotto e curato le coreografie di Natale in città con Dolly Parton, che le è valso la quinta statuetta per le coreografie oltre al Governors Award 2021. Premio per meriti artistici accumulati o straordinari al di là delle candidature degli Emmy. Tre mesi prima era stata festeggiata ai Kennedy Center Honors.
Debbie Allen non ha mai mancato di dare il suo contributo in cause contro razzismo e violenza sulle donne, ha composto la coreografia del famoso flash mob mondiale One Billion Rising e marciato contro le politiche misogine di Trump.
Una carriera lunga cinquant’anni la sua, accompagnata dalla partecipazione sociale come artista e come singola cittadina per rivendicare diritti non ancora raggiunti o in continuo pericolo. Una vera forza della natura.
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lostinaflashforward · 10 months
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LIAFF SPECIAL #7: Jordan Peele - Il cinema terrificante e spettacolare
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Carissimi lettori, ben ritrovati con un nuovo appuntamento con LIAFF SPECIAL,  la rubrica dedicata all’approfondimento di personaggi e temi nel mondo dell’intrattenimento. L’argomento per questo mese riguarda uno dei registi più insoliti e particolari dell’attuale panorama cinematografico, trattasi di Jordan Peele. In questo articolo impareremo a conoscere il cineasta statunitense, partendo dalle sue origini come attore comico, fino all’analisi approfondita dei suoi noti lungometraggi, i quali rappresentano perfettamente e in maniera diversificata la visione portata avanti dal regista.
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The comedian: chi è Jordan Peele?
Jordan Haworth Peele nasce a New York il 21 Febbraio 1979 da padre afro-americano, Hayward Peele jr., morto nel 1999, e da madre bianca, Lucinda Williams. Cresciuto con sua madre nell'Upper West Side di Manhattan, Peele ha studiato fino al 1997, per poi formare un duo comico assieme a Rebecca Drysdale, ex-compagna di scuola e futura sceneggiatrice di Key & Peele. Fino al 2002 Peele si esibisce a Chicago ed altre città in performance comiche e musicali, per poi entrare nel mondo della televisione l'anno successivo, con il suo ingresso nella nona stagione di Mad TV, un programma di sketch comici, dove farà coppia con Keegan-Michael Key. Nel 2008 Peele lascia Mad TV e si mette in proprio, creando musica e contenuto a sfondo parodistico e satirico, appare in alcune serie televisive e film, fra cui l’adattamento televisivo di Fargo, la già menzionata Key & Peele, serie co-creata con Keegan-Michael Key e andata in onda dal 2012 al 2015, e l'action-comedy Keanu, sempre in coppia con Key. Nel 2017 Jordan Peele si da’ ufficialmente alla regia, coronando un sogno che ha sin dall’età di dodici anni, e produce negli anni anche altre opere, fra cui si ricordano la nuova versione di The Twilight Zone, Hunters e Lovecraft Country.
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Get Out: fuga dal delirio
“Man, I told you not to go in that house.”
Nel 2017 Jordan Peele esordisce come regista cinematografico, optando per un horror con elementi di commedia, affermando come i due generi siano incredibilmente simili tanto per il ritmo, quanto per l'affidarsi alle rivelazioni nel corso della storia. Per scrivere il film, Peele afferma di essersi ispirato a The Stepford Wives (1975), uno dei primi esempi di film horror con sfumature satiriche, e che per lui il film è molto personale, soprattutto per quanto riguarda la tematica del razzismo. Con l’aiuto di Keegan-Michael Key, Peele presentò l’idea al produttore Sean McKittrick, il quale rimase parecchio entusiasta del progetto. Peele scrisse la sceneggiatura in circa due mesi e il casting iniziò qualche tempo dopo, con Daniel Kaluuya e Allison Williams ad essere scritturati per primi. Peele racconta di aver scelto Kaluuya per il ruolo del protagonista dopo averlo visto nell’episodio di Black Mirror “Fifteen Million Merits”, mentre per Williams il regista ammette che la scelta dell’attrice è frutto di una manovra per disorientare il pubblico, dato che il suo personaggio appare all’inizio del film come una persona di fiducia, per poi rivelarsi l’opposto nella seconda metà della pellicola, con la scena dove sceglie la prossima vittima e sorseggia del latte sulle note di “(I’ve Had) The Time of My Life” scritta proprio per rafforzare il lato oscuro del personaggio. Tutto viene studiato a tavolino da Peele, dalla scelta della location in uno stato americano dove non predominavano atteggiamenti razzisti, alla presentazione del “sunken place” come metafora del cadere in un luogo oscuro e pericoloso per poi risalirvi, interpretato da alcuni critici anche come chiave di lettura per raccontare la paura vissuta dalla popolazione afro-americana sin dall’inizio della loro storia. Tale componente aveva portato Peele a temere che il film non potesse avere successo, a causa di un eccessiva identificazione da parte dei bianchi e degli afro-americani che lo avrebbero visto, e ha influenzato anche la colonna sonora, curata da Michael Abels, le cui tracce hanno voci di cantanti afro-americani ed elementi della musica black. Il finale originale del film prevedeva che Chris venisse arrestato dalla polizia dopo aver strangolato Rose e che Rod, invece di salvarlo, lo andasse a trovare in prigione, offrendogli aiuto per smascherare la famiglia Armitage, cosa che Chris non avrebbe ritenuto necessario. Secondo Peele, tale epilogo rifletteva la realtà legata al razzismo, ma durante la produzione del film, Peele optò per un “lieto fine”, anche alla luce degli episodi di violenza contro gli afro-americani da parte della polizia accaduti in quel periodo (in realtà il regista aveva considerato diversi finali, alcuni dei quali sono inclusi anche nei contenuti speciali del DVD/Blu-Ray del film). A dispetto delle previsioni il film incassò moltissimo al botteghino e fu acclamato dalla critica per la storia, l’interpretazione, la regia e soprattutto il sottotesto sociale, arrivando infine ad ottenere quattro nomination agli Oscar 2018, vincendo solo come miglior sceneggiatura originale. Riguardo all’interpretazione del suo significato, la visione più condivisa è quella dove il film è visto come una rappresentazione critica dell’America post-razziale, dove gli antagonisti non sono gli estremisti bianchi, ma i cosiddetti liberali, i quali, per quanto bene possano comportarsi nei confronti degli afro-americani, in realtà rendono loro la vita disagiante, riducendo le loro figure a un modello estetico e nient’altro.
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Us: il lato oscuro prende vita
“Once upon a time there was a girl, and the girl had a shadow.”
Essendo rimasto turbato dalla confusione di generi usata in Get Out, Peele affermò che il suo secondo lungometraggio dovesse essere un horror a tutto tondo. Per scriverne la storia, Peele racconta di essersi ispirato all’episodio di The Twilight Zone “Mirror Image”, che parlava di una giovane donna e del suo oscuro doppelgänger, e che l’idea degli esseri incatenati nel sottosuolo deriva dalla sua esperienza ogni volta che prendeva il treno per tornare a casa, affermando che ogni volta che passava sotto una galleria, vedeva un riflesso di se stesso. Nel 2018 ebbe luogo il processo di casting, con Lupita Nyong’o, Winston Duke e Elisabeth Moss a venire scritturati per primi, seguiti dal resto del cast. Peele afferma di aver sempre visto la famiglia Wilson come un episodio di archetipico quartetto, dove Adelaide (Nyong’o) è il leader, Zora (Shahadi Wright Joseph) è il guerriero, Gabe (Duke) è il giullare e Jason (Evan Alex) è il mago. Per interpretare il suo doppelgänger, Nyong’o ha usato una voce differente, affermando di essersi ispirata alla condizione nota come disfonia spasmodica, in cui la voce di chi ne è affetto è soggetta a regolari spasmi, aggiungendo anche di essersi preparata in maniera sicura con l’aiuto di terapisti e medici specializzati. Le riprese durarono per tre mesi e all’uscita nelle sale il film ebbe un grande successo, con la critica che ne apprezzò la regia, la sceneggiatura, l’interpretazione della Nyong’o e la colonna sonora di Michael Abels, difficile da dimenticare. Come per Get Out, anche in Us c’è stato un dibattito riguardo al significato del film. Alcuni ritengono che vi sia un collegamento fra gli esseri del sottosuolo, le leggende urbane e la paura per il diverso, altri affermano che il film rappresenti il classismo e il dualismo degli Stati Uniti, arrivando a pensare che il titolo del film potrebbe significare U.S., l’acronimo per United States (Peele avvalorerà questa ipotesi, affermando in seguito che uno dei temi principali della pellicola è il concetto di privilegio). Il film è ricco di riferimenti cinematografici, letterari e della cultura pop, dalle inquadrature alla Stanley Kubrick, all’effetto horror ereditato da film come Jaws e A Nightmare on Elm Street, al riferimento alla figura di Michael Jackson, specialmente nelle tute rosse indossate dai doppelgänger, fino alle citazioni della Bibbia, in particolare al libro di Geremia, dove si parla della caduta della civiltà causata dai falsi idoli.
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Nope: un terrore spettacolare
“We are being surveilled by an alien species I call << the Viewers >>. And though they have yet to emerge from their ship, I believe they trust me. If they didn’t, I don’t think any of us would be here right now.”
Nel 2019, la Universal Pictures annunciò di aver stipulato un accordo quinquennale con la Monkeypaw Productions, casa di produzione di Jordan Peele, e l’anno seguente il regista si mise al lavoro sul suo terzo lungometraggio, raccontando di averlo scritto in un momento in cui vi era preoccupazione riguardo al futuro del cinema, a causa della pandemia di Covid-19, e che pertanto intendeva scrivere un film spettacolare, il quale avrebbe riportato il pubblico nelle sale cinematografiche. Peele aggiunge anche di aver scritto la sceneggiatura rinchiuso in casa e che questo lo ha portato a scegliere il cielo come il soggetto del film, sapendo che il mondo da un lato intendeva tornare all’esterno ma dall’altro aveva vissuto un trauma profondo, che lo spingeva a chiudersi in se stesso. Nel Febbraio 2021 Keke Palmer e Daniel Kaluuya si uniscono al cast, assieme a Steven Yeun, Michael Wincott, Brandon Perea e Keith David, con le riprese che si tennero da Luglio a Novembre di quell’anno. Il film uscì nelle sale nel Luglio 2022, essendo il primo film di genere horror ad essere girato con la tecnologia IMAX, ed ebbe un grande successo, con la critica che ne esaltò la visione ambiziosa, la regia e l’interpretazione, finendo nella top 10 dei film del 2022 redatta dall’American Film Institute e venendo definito uno dei migliori film fantascientifici del ventunesimo secolo. Naturalmente anche Nope è stato soggetto a un approfondita analisi, e la critica evidenziò che i temi più rilevanti dellla pellicola erano il concetto di spettacolo e di sfruttamento del dramma e del trauma, menzionando il riferimento alla cancellazione della presenza afro-americana nell’industria cinematografica, fattispecie nel genere western, motivo per cui all’interno della pellicola viene citato Buck and the Preacher (1972), il primo film ad avere dei cowboys afro-americani, o anche la figura di Ricky Jupe (Yeun), il quale sfruttava l’incidente avvenuto nella sitcom a cui aveva preso parte da bambino e anche la presenza della creatura per crearsi la propria fama. La creatura aliena è chiaramente una metafora, a detta di Peele, di una minaccia d’altro mondo, nonchè un qualcosa che ci accomuna, vale a dire il rapporto con lo spettacolo, citando come riferimento per la sua rappresentazione il famoso anime Neon Genesis Evangelion, il quale contiene notevoli riferimenti biblici.
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What’s next: il futuro del regista
Jordan Peele non si ferma di certo qui. Infatti la Universal Pictures ha confermato che il quarto lungometraggio del regista uscirà nelle sale a Natale 2024 (data soggetta a variazioni a causa dell’attuale sciopero della WGA). Come per i precedenti progetti, Peele non ha ancora svelato nè la trama, nè il genere del film, nè tantomeno il cast, ma siamo fiduciosi che il regista saprà regalarci nuove e terrificanti emozioni. Intanto, se non avete avuto ancora modo di vedere i suoi film, vi consigliamo di recuperarli, ne vale davvero la pena!
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jh1nlemon · 1 year
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The Fabelmans
Gennaio 13
Voto 3,3
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Introduzione
Premetto che sono idee senza pretese, al netto di aver guardato i film di Spielberg, non conosco la sua vita, e quindi non andrò ad inventarmi associazioni fantasiose. Non ho nemmeno studiato cinema, quindi quelle di seguito sono delle semplici impressioni di una persona qualsiasi.
Il film inizia con un brevissimo ringraziamento del regista, inusuale, e potenzialmente precursore nel aggiungere contenuti esclusivi per incentivare la presenza al cinema, rispetto allo streaming.
Trama
Il film tratterà le vicissitudini di una classica famiglia borghese americana tra gli anni '50/'60.
Si, famiglia numerosa, si case enormi, si padre ingegnere brillante, si madre con animo artistico ma infelice; sovente insoddisfatta per aver lasciato morire le sue ambizioni in virtù della famiglia. E si c’è anche l'amico di famiglia, molto amico del padre, ma ancor di più della madre.
La pellicola quindi si chiuderà con il presagio di ciò che accadrà. L'alter ego del regista, abbandonata l'università, si ritrova in prova presso uno degli studi televisivi californiani.
Trama - Approfondimento
Il film inizia, con Sam (Samuel) Fabelman che al cinema rimane incantato da una scena dove un treno si scontra con una macchina.
A casa, utilizzando un modellino di un treno del padre, cerca di ricreare la scena, rischiando però di danneggiare il prezioso ciuff ciuff.
Per aiutarlo la madre decide di acquistare una piccola 8MM, che gli permetterà di "registrare lo scontro una sola volta, e poi poterlo rivedere per sempre".
Questa è la chiave per il via alla passione, o come dice freddamente il padre hobby del figlio.
Nel New Jersey ancora piccolino, Sam si dedica alle riprese casalinghe con le 2 sorelle in veste di attrici, ma sarà poi a Phoenix che questa passione sboccerà con l'inclusione di giovani attori - amici scout.
è chiaro come il regista (Spielberg) incanali in Sam l'unione dei due mondi dei genitori, vena artistica dalla madre, ma i buchi nella pellicola per simulare gli spari, e altri aspetti ingegneristici per una maggior realtà vengono dal padre.
Prima del nuovo trasloco verso Los Angeles, per un'opportunità di IBM per il padre, Sam in seguito alla morte della nonna (materna) nel creare un filmato famigliare per tirare su di morale la madre, scopre che l'amico del padre, in realtà era più di un amico per la madre.
Questo è il preludio per le burrasche familiari seguenti, in California, Sam nella nuova scuola ha grossi problemi di razzismo, legati alla religione, la madre invece finalmente ammette con il marito, e con i figli che lei non può vivere quella vita, e che vuole tornare a Phoenix da Benny, l'amico di famiglia con il quale Sam aveva scoperto avesse una storia.
Durante questo periodo comunque Sam, grazie anche ad una fidanzatina di scuola filma la festa di fine anno,e riaccende la passione appassita in seguito all’ultimo trasloco.
In seguito al ritorno della madre a Phoenix, vediamo ancora Sam, ansime al padre in California, decidere di abbandonare l'università, e grazie ad un'offerta per progetti televisivi si reca agli studi, dove incontrerà il leggendario regista John Ford (interpretato da David Lynch).
Giudizio
Film pregevole, scorrevole sopratutto nella seconda parte, equilibrato, e molto delicato.
Personalmente avrei voluto di più, più emozioni, più approfondimenti, più concetti espressi con immagini.
La sequenza migliore infatti, al di là delle chicche della proiezioni nelle mani del Sam bambino, o della danza davanti le luci dell’auto della madre, è stata quella del pro - zio di Sam (fratello della nonna deceduta) che in una serata nella sua camera gli spiega che da quel ramo di famiglia, l'arte li spingerà a fare di tutto, anche al costo dei sentimenti dei propri cari.
Emblematico sarà infatti come nel consumarsi della tragedia, quando i genitori annunciano il divorzio ai figli, Sam pensa a come sarebbe filmare quella scena, quanto sarebbe toccante imprimerla su pellicola.
Come detto dall'inizio, non so quanto corrisponda al vero, è anche lecito che il regista per pudore non abbia voluto mettere alla berlina di tutti i propri momenti intimi, ma è innegabile la delicatezza, e l'amore sia per il cinema che per le persone che questi attori rappresentano.
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chez-mimich · 2 years
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ELVIS
Per ragioni anagrafiche, lo ricordo imbolsito, Elvis Aaron Presley, se non proprio gonfio, sempre sudato, rinchiuso in quella gabbia dorata che fu per lui l’Intercontinental Hotel di Las Vegas. Lo ricordo sulle fotografie sgranate che comparivano sui quotidiani e da qualche filmato del telegiornale. Ricordo bene anche quando morì a Memphis, il 16 agosto del 1977; avevo sostenuto da poco gli esami di maturità e ho ancora davanti agli occhi il paginone centrale del quotidiano “La Repubblica” che lo ricordava. Il magnifico film di Baz Luhrmann in corsa per l’Oscar e, in questi giorni nelle sale cinematografiche, mette anche in luce una storia parallela, spesso ignorata, quella del procuratore di Elvis, lo spietato “colonnello” Tom Parker. Una storia senza la quale sarebbe difficile spiegarsi tante cose dell’inventore del rock’n roll. La vita di Elvis, in fondo, è stata molto lineare, anche se ha seguito la prevedibile parabola comune a molte star della musica o del cinema (adesso anche del calcio), parabole fatte di esordi in sordina, fulminanti successi, finali disperati. Il film di Baz Luhrmann è analitico e poetico, circostanziato e simbolico. Gli esordi del giovane Elvis (interpretato da uno straordinario Austin Butler), dalla incisione (a pagamento) del suo primo disco presso la “Sun Records” e l’incontro col primo vero manager, Sam Philipps, fino ai guai giudiziari a causa del suo ancheggiare, divenuto quasi un marchio di fabbrica, episodio che rivela un’America bigotta e puritana, oltre ogni ragionevole motivazione, ma anche un’America in cui vigeva ancora il segregazionismo e il razzismo più odioso. Elvis è la voce più nera tra le voci bianche, e il film mette in giusta evidenza tutte queste relazioni intime tra lui, il blues, il rhythm and blues, il country, radici che sembrano curiosamente ritornare in tanti grandi figure del rock, come Dylan o Springsteen. Magnifico il viaggio sonoro nel Sud che Luhrmann ci fa vivere, attraverso la vita di Elvis. La seconda parte (il film dura più di due ore e mezza), alla figura di Presley si avvinghia, come una sanguisuga, quella di Tom Parker, uomo dal passato losco, giocatore d’azzardo e manager avido. Anche qui una interpretazione, quella di un quasi irriconoscibile Tom Hanks, senza sbavature, che ci restituisce a tutto tondo la figura cinica e spietata di Parker, che fu probabilmente il mandante morale della morte di Presley: una vita fatta di concerti a ritmo sempre più serrato che costrinsero l’artista a fare abbondante uso di farmaci dopanti. Ma il film non è manicheo e il regista sembra suggerire anche un’altra lettura. Elvis muore a causa del troppo amore che il pubblico gli ha sempre elargito e da cui è stato travolto, tanto da non poter più vivere senza questo continuo “flusso veneratorio” che era ormai andato a riempire tutta la sua vita, e da preferirlo all’amore della moglie Priscilla e della figlioletta Lisa Marie. Questo rapporto assolutamente sensuale col pubblico e con il vibrare della musica nel suo corpo come nella sua mente, è molto ben evidenziato nel film. Baz Luhmann ha saputo costruire una biografia filologicamente ineccepibile, senza trasformare il film in un documentario, una prova di regia molto superiore a quello sperimentalismo un po’ confusionario e posticcio di “Moulin Rouge”, di circa vent’ anni fa. Una struggente e simbolica “Unchained Melody”, cantata per l’ultima volta, chiude il film, importante, possente e degno dell’artista indimenticabile a cui è dedicato.
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corallorosso · 3 years
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Ci hanno ridotti ‘zitti e buoni’ nella maniera più furba È finita da un pezzo l’epoca in cui si facevano stare “zitti e buoni” i cittadini grazie all’uso della costrizione e della censura o, al limite, della violenza. Almeno all’interno delle democrazie occidentali il nuovo paradigma del potere, affermatosi a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, prevede quello che McLuhan chiamava “brain washing” (lavaggio del cervello) come sistema principale di controllo e manipolazione degli individui. Il sociologo canadese si occupava di questi argomenti negli anni Sessanta del secolo scorso, analizzando principalmente i vecchi media (libri, giornali, radio, cinema, televisione analogica) e potendo disporre di studi in materia relativamente limitati. Oggigiorno siamo ad almeno un’era glaciale dal fenomeno studiato da McLuhan, se non altro perché la galassia delle tecnologie digitali e dei nuovi mezzi di comunicazione ha stravolto tutto. Però, sempre all’interno del nuovo paradigma di esercizio del potere riassumibile in questi termini: dal divide et impera (dividi e comanda con la forza) al “conforma e dirigi”. Sembra un paradosso: la nostra epoca della “rivoluzione dell’informazione” è anche quella in cui il lavoro di omologazione e manipolazione delle menti si rivela come il più agevole. Perché? Rispondo in maniera sintetica e riduttiva. Perché le modalità con cui i nuovi media veicolano il flusso enorme di notizie seguono tre stelle comete: velocità, superficialità, commercialità. Vediamo comparire in continuazione, sugli schermi dei nostri smartphone, notizie spesso false (perché l’accuratezza della fonte è un optional), aggiornamenti costanti che si contraddicono nel giro di pochi minuti, lanci di agenzia con titoli più o meno sensazionalistici, opinioni volutamente discordanti degli esperti di turno per alimentare il “dibattito” (ricordiamoci le dichiarazioni continue di virologi spesso in disaccordo anche con se stessi durante la pandemia). Tutto questo meccanismo da me malamente riassunto, deve per giunta rispondere a un’unica logica e un solo obiettivo, che non è certamente la corretta informazione verso il cittadino: la vendibilità della notizia, la sua visibilità, il successo misurato con la moneta virtuale ma potentissima dei “click” e dei “like”. Risultato: la maggior parte delle persone, anche per comprensibili ragioni di tempo e di impossibilità nel seguire l’enorme flusso di informazioni, bene che vada si limita a leggere i titoli e il sommario di un articolo, o meglio ancora le tre righe con cui quell’articolo viene presentato sul social network di turno. Tradotto: la nostra è l’epoca in cui siamo informati su tutto, ma non conosciamo quasi nulla. Esempio pratico: tutti siamo stati informati sullo “scandalo” del presidente turco che negò la sedia alla signora von der Leyen (Presidente della Commissione europea), più o meno tutti partecipammo alla giostra dell’”indignazione a comando” per l’ennesimo caso di misoginia, ma quasi nessuno sapeva di che cosa dovevano parlare quel giorno la massima carica europea e il “dittatore” turco (perché sì, l’Europa tratta coi dittatori…). È fin troppo facile comprendere che, se il meccanismo mediatico funziona così, risulta oltremodo agevole dirigere il dibattito pubblico e imporre l’agenda dei “fatti importanti”. In tempi recenti la filosofa Nancy Fraser ha parlato di un blocco egemonico che dirige il suddetto meccanismo, una sorta di “neoliberismo progressista” frutto dell’”alleanza di correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, comunità Lgbtq) da una parte, e grandi comparti della produzione artistica e dei servizi di fascia alta dall’altra (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood)”. Ciò con il benestare di una Sinistra mondiale che, dopo il tracollo subìto e per nulla elaborato del 1989, ha in larga maggioranza benedetto questo tipo di alleanza, volendo così mascherare il suo aderire mani e piedi alle politiche neoliberistiche e, quindi, la sua rinuncia alla difesa dei diritti sociali. Che effettivamente vengono smantellati. Non è un caso che il teatrino mediatico proponga in continuazione argomenti “culturali” su cui far montare l’indignazione e il dibattito pubblico (discriminazione delle donne, razzismo, battaglie per il “gender”, eccetera), salvo oscurare la montante disuguaglianza sociale e la distruzione dei diritti dei lavoratori, oppure far dimenticare le denunce gravissime di Assange, Manning e Snowden su quanto i governanti abbiano strumenti efficacissimi per controllare i governati (e non viceversa, come dovrebbe avvenire in democrazie sane). È lo stesso teatrino che ha riguardato il gruppo dei Måneskin in questi giorni. Tanto fumo e polemiche montate ad arte sulla presunta questione della droga, a cui aggiungere i soliti progressisti che hanno discettato sulla carica sessualmente emancipativa e inclusiva del mondo di vestirsi di Damiano (sic). Ma nessuno che abbia sottolineato come per diventare un gruppo rock di successo, oggigiorno devi consegnarti mani e piedi alle grandi major dell’industria musicale, abilissime nel costruirti anzitutto l’immagine secondo le dinamiche di cui sopra. Gli ultimi italiani a vincere l’Eurovision furono Nilla Pizzi e Toto Cutugno. Se anche il rock ha dovuto arrendersi alla logica dominante, economica e politica al tempo stesso, allora dovrebbe esserci chiaro che ci hanno ridotti “zitti e buoni” nella maniera più furba. Cioè facendoci sbraitare a comando e solo su questioni stabilite da chi detiene il potere. Paolo Ercolani Filosofo, Università di Urbino "Carlo Bo"
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kon-igi · 4 years
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DODICI UOMINI ARRABBIATI
Questo post - chiamarla recensione sarebbe ingeneroso verso chi lo fa in modo serio - lo dedico a @lamagabaol​, che apprezzo tantissimo per tantissimi motivi e che mi ha fatto tornare la voglia del cinema di un certo tipo, quello in cui il regista ti dà una sberla e poi ti urla ‘Hai capito ora cosa intendo?!’
Il film in questione è quello del titolo - Twelve Angry Men - che qua in Italia noi conosciamo con il nome di La parola ai Giurati.
Premetto con stolida candidezza che io sono un critico cinefilo che s’è svegliato l’altro ieri e si sta lavando la faccia da due giorni, per cui accettate questo mio lungo delirio scritto come semplice preambolo alla considerazione finale, benché ci stia mettendo un po’ di orgoglio e di presunzione a scriverne il meglio possibile.
Twelve Angry Men è una pellicola del 1957 (tenetelo a mente!) ed è la prima prova come regista di Sidney Lumet. Il soggetto è abbastanza semplice: in un processo per omicidio perpetrato da un figlio ai danni del padre, i classici dodici giurati devono decidere se considerarlo colpevole e farlo condannare a morte oppure innocente, con un verdetto in ogni caso unanime pena il rifacimento del processo.
(piccola parentesi di colore che scatenerà le ire di tutti i giurisprudenti per l’imprecisione: in Italia e in tutti i paesi in cui vige il Diritto Romano non esiste la Giuria che decide la tua colpevolezza o la tua innocenza, come peraltro non puoi difenderti da solo come avvocato di te stesso o pagare la cauzione per non finire in galera. Dico così per dire, visto che io l’ho scoperto il mese scorso)
Tranne i primi minuti e la scena finale, la storia si svolge interamente nella famosa One-Room Location tanto cara a Hitchcock (Nodo alla Gola, la Finestra sul Cortile) cioè un unico luogo, in questo caso la stanza dove si riuniscono i giurati per discutere il verdetto.
(io ho un kink furioso per le Locked in a Room Situation e come master di giochi di ruolo credo di aver ammorbato i miei giocatori con perlomeno diciassette versioni differenti di Dieci Piccoli Indiani e Assassinio sull’Orient Express)
Dicevo - e giuro che non aprirò più parentesi - le prime scene sono un antitetico preludio alla claustrofobicità crescente del resto della pellicola, con piani lunghi sulle colonne del tribunale che sovrastano lo spettatore e una hall troppo spaziosa e sconfinata, dove le persone che si muovono veloci sembrano marionette intrappolate dalle sbarre di una ringhiera che improvvisamente chiudono in modo minaccioso la visuale del primo piano. 
Il giudice conclude la presentazione dei fatti processuali, invita i giurati a ritirarsi per decidere e poi dissolvenza su pochi secondi del volto del giovane imputato.
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Credo dal mio profondo del cuore che Lombroso fosse un testa di cazzo ma è indubbio che in questi pochi secondi il regista voglia presentarci quello che negli anni ‘50 fosse lo stereotipo dello scugnizzo malavitoso. Non ho trovato traccia del nome dell’attore ma gli avrei dato l’Oscar per la migliore attonita disperazione.
Il resto del film - e rimarrò sul vago perché ESIGO che voi lo guardiate - diventa un iconico scontro di ragione e cuore tra gli undici giurati colpevolisti e un Henry Fonda non apertamente innocentista ma sicuramente colto dal giuridico ragionevole dubbio, che con lacerante incertezza lentamente insinua questo suo sentimento in ciascuno dei giurati.
Molti citano questo film come didascalico esempio del potere sociale del convincimento e della manipolazione (di certo, alla fine del film qualcuno di voi potrebbe rimanere col dubbio sul verdetto di non colpevolezza) ma io trovo stupefacente ed emozionante come ognuna delle undici persone in quella stanza chiusa rappresenti - e alla fine essa stessa comprenda e abbandoni - un tipo di rabbia che viene declinata in una gamma di sentimenti variabilissimo tra loro: la rabbia della fragilità senile, la rabbia della ghettizzazione, la rabbia del razzismo, la rabbia dell’inconsistenza caratteriale, la rabbia della semplicità esistenziale, la rabbia del sarcastico disamore verso il mondo, la rabbia del mancato controllo, la rabbia dell’inutilità, la rabbia della gretta bigotteria e infine l’ultima furiosa rabbia, quella la cui comprensione mi ha fatto versare non poche lacrime, la rabbia del padre abbandonato che voleva punire l’imputato per punire il proprio figlio scappato di casa.
Ed Henry Fonda, il dodicesimo giurato, con il suo guardare continuamente fuori dalla finestra in silenzio non è un personaggio reale... è l’impersonificazione del seme del dubbio che ognuno di noi troppo spesso scorda di avere piantato in fondo a quel vivaio di rabbia quotidiana coltivata a insoddisfazione che ci portiamo dentro al cuore.
Perché ognuno di noi avrebbe potuto far condannare quel ragazzo per punire qualcosa o qualcuno che ci aveva ferito, senza capire che alla fine stavamo giudicando colpevoli solo noi stessi. 
Un film di 63 anni fa ci racconta in maniera lancinante e spietata COME OGNI GIORNO SIAMO SOLITI SCAGLIARCI RABBIOSI CONTRO CHI NON RISPETTA IL NOSTRO IDEALE DI RAGIONE così perdendo ogni capacità di coniugare sentimento e ragionamento nei confronti di tutti quelli che non rientrano nel nostro rigido e comodo paradigma di vita.
Io mi sono sentito accusato e condannato ma forse parte della pena l’ho già scontata.
Vi invito nuovamente, perciò, a procurarvi questo piccolo capolavoro e a (ri?)guardarvelo con sensibile calma, così magari in seguito ne potremo riparlare assieme.
Buona visione.  
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abatebusoni34 · 3 years
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Mal di Facebook
La mia storia con Facebook inizia nel 2008, o lì attorno, all'epoca andavo al liceo e usavo MSN (poi Windows Live Messanger), che tra i miei coetanei andava alla grande - e per un primo periodo avrebbe perfino fatto concorrenza alla chat di Facebook, alla quale, dileggiata pubblicamente, si preferiva il concorrente di casa Microsoft.
Entrai su Facebook perché... beh, perché lo facevano tutti ovviamente. E nessuno mancava di fartelo sapere via posta. Qualcosa tipo: "Hey, mi sono unito a Facebook, guarda che lo dovresti fare anche te." Alla millesima mail, un pochino scocciato perché che-cazzo-è-questo-Feisbuc, mi sono ritrovato un po' con le spalle contro il muro e non ho resistito alla gentile ma opprimente pressione sociale, quindi in pochi passi mi consegnai a Zuckerberg. E vabbè.
Quel che facevo ai tempi su Facebook è giusto non venga divulgato - e poi nemmeno ci tengo a fare lo sforzo di ricordare, giacché gli sforzi dovrebbero essere ricompensati con sensazioni perlomeno un poco piacevoli, di certo non con una vergogna infinitamente dolorosa. Basti dire che se sono un poco capace di frenare la mia arroganza, oggi, lo devo al ricordo di quella cosa là che ero online.
A un certo punto comunque il profilo l'ho fatto saltare in aria. Mi piace l'idea di averlo fatto saltare in aria, perché era un coacervo di insulsaggini. E le insulsaggini non dovrebbero semplicemente limitarsi a sparire, non sarebbe molto gratificante; bisognerebbe imprimere loro sufficiente energia cinetica per perderle di vista un attimo prima che esplodano - e questa esplosione sì che dovrebbe essere visibile, abbastanza da abbracciare tutto il tuo campo visivo, e magari, se proprio non è chiedere troppo, scaldarti appena la pelle. Ecco. 
Ma divago.
Mi ricordo che non mi riusciva di essere popolare quanto altri (che comunque ci sono sempre, a prescindere, questi altri; ora lo so, ora) quindi giustamente me ne rammaricavo: cosa mai ci sarà di sbagliato in me, che sulla foto del profilo non ho 10, 20, 100 Mi piace o like che dir si voglia? 
Eh, evidentemente tanto da starci male.
Sì, starci male. Non esagero. È che bisogna chiarire cosa vuol dire stare male.
Non dico che mi saliva la febbre alta o che, piegato in due, petto sulle cosce, vomitavo sulle mie lacrime. No. Si sta male in tanti modi diversi, e spesso senza nemmeno accorgersi di stare male. Anzi, magari pensando di stare alla grande. Che casino.
Quindi il Facebook-uno non mi fece stare bene, ma il Facebook-due invece? 
Eeeh…
Innanzitutto sì, c'è stato un secondo profilo. Ovviamente. E qualche passo avanti lo feci. Tipo selezionare le amicizie. O meglio, gli amici, in corsivo. Però (sono molto banale in questo) meglio non chiamarli amici ora, meglio contatti, ché se no ci si confonde. Anche ai fini del mio discorso s'intende.
Infatti, mentre nel Facebook-uno avevo un profilo a porte aperte e lasciavo entrare - e speravo entrasse - chiunque, questo era senza dubbio più selettivo, anche se ancora mi presentavo con nome e cognome ed ero perfettamente rintracciabile. Però il numero dei contatti aveva smesso di essere uno status symbol; mi sforzavo anzi, di mantenerlo contenuto e riservato a "quelli con cui avrei avuto piacere di andare a cena" - agli Amici insomma.
Poi che uno si sappia scegliere gli amici è un altro paio di maniche.
Avanti veloce: Facebook-due non salta in aria, ma conosce uno sfoltimento importante, drammatico: mantengo pochissimi contatti, che però trovo occasione di nascondere e in seguito eliminare, per poi poterli contare su due mani… una mano… 
Zero contatti. A un certo punto il mio Facebook va oltre i contatti, e si focalizza sulle pagine. Sì, perché nell'ultimo periodo con contatti ormai non ne seguivo più nemmeno uno, di contatto: figuravano ancora tra i miei amici, potevano ancora interagire con me, ma io avevo deciso che non mi interessava nulla delle vite degli altri, e che quindi gli altri potevano andare al diavolo, anche se ci avrei mangiato volentieri una pizza. Quindi poi fu una transizione facile, quella da contatti a senza contatti: di fatto per me non cambiava nulla. La mia concezione di Facebook ora ruotava su contenuti che mi potessero far star bene e che mi dessero qualcosa. Entrambe le cose però, perché se si fosse trattato di stare bene e basta, avrei potuto guardare per ore video di salvataggi di animali; se si fosse trattato soltanto di avere qualcosa in cambio della fruizione, avrei potuto guardare giorno e notte video divulgativi che mi avrebbero via via reso sempre più cosciente di sapere sempre meno dell'argomento in cui mi cimentavo, frustrandomi.
In teoria era così, in teoria.
Avanti veloce: il Facebook-due salta in aria.
《Ma come, e la sua rivoluzione post-contatti?!》
Quella no. Quella era stata una mossa saggia e ammirevole della quale non mi pentii.
È che il Facebook-due era ancora troppo riconducibile alla mia persona. Cambiai le generalità e blindai tutto, sì, ma ancora riuscivano a rintracciarmi, specialmente persone che non volevo ci riuscissero: vecchi tag, vecchie conversazioni… andava fatto esplodere tutto. Quindi Facebook-ter. Nuova vita, daccapo, nel totale anonimato, io e le pagine più opportune, che via via andai selezionando in base ai criteri di cui sopra: dovevano darmi appagandomi. Quello che ne uscì fu una miscela di pagine di letteratura, cinema, divulgazione scientifica, satira politica… la fetta più grossa erano loro. Andava molto bene. Ma qualcosa ancora non mi convinceva.
《Che palle, non gli va mai bene niente a questo...》
Vado a votare regolarmente, quindi qualcosa me lo faccio andar bene. Non sono così schizzinoso. È che, come il protagonista del Fu Mattia Pascal di Pirandello, mi sentivo appagato dal e al contempo intrappolato nel mio anonimato. Interagivo con le persone, sì, ma cosa rimaneva dei miei interventi? Centinaia di like, cuori, ahah e qualche grr, a chi andavano? Io non ricordo nemmeno una persona alla quale abbia messo like o risposto. Non è facile nemmeno risalire alle conversazioni, su Facebook diventa tutto un minestrone.
E poi c'erano loro, i boomer. O, più in generale, gli analfabeti funzionali. Uscivano da tutte le parti, cagavano dappertutto sul loro cammino come un gregge di pecore. Poche volte mi sono sentito deluso, avvilito, depresso come dopo aver letto i commenti a un qualsivoglia articolo di un qualsivoglia quotidiano. Roba da farti arrabbiare con un'intera generazione di italiani, da renderti odioso l'intero corpo elettorale. Volendo sorvolare sul caps lock invadente, la punteggiatura inesistente, la grammatica stuprata… populismo, qualunquismo, gentismo, fascismo, xenofobia, omofobia, razzismo, odio, violenza… tutte belle cose figlie dell'analfabetismo (funzionale però).
Ogni tuffo in sezione commenti era un bagno di amarezza. Inevitabilmente provavo a rispondere per le rime, ma - vi assicuro - è dannatamente frustrante: non puoi vincere, solo pareggiare; nessuno ti darà ragione, al limite cancellerà il commento. Nemmeno Facebook gioca più di tanto questa partita, ma fa finta o lo fa comunque secondo criteri che non afferro bene: le bestie che segnalavo non venivano nemmeno rimproverate; io d'altro canto mi son preso ben più di un'ammonizione e anche un paio di espulsioni per aver risposto come si deve a qualche fascista. Una volta proprio per aver dato del fascista a uno che si definiva tale già da solo. Boh. L'attività poi è inutilmente onerosa, in termini di tempo. Virtualmente potrei fare solo quello h 24, anche se avrebbe lo stesso senso di mettersi al sole senza crema per dimagrire - nonché lo stesso risultato, il cancro.
《Non leggerli, no?》
Sì, vabbè, la si fa semplice così. Resta pochino del social network se non posso nemmeno leggere i commenti. Mi resta un flusso di notizie che architettando un pochino può darmi Google News.
Poi anche su questo aspetto credo d'aver fatto passi avanti. Le notizie può darmele un quotidiano, che - udite udite - sono disposto a pagare. Magari ci guadagno pure, dal punto di vista informativo: invece di un collage disarticolato ho una visione d'insieme e più coerente, e non mi faccio scegliere gli articoli da un maledetto algoritmo. Così ho fatto.
Per la divulgazione sorprendentemente vale lo stesso discorso: non si può sapere tutto di tutto; di sicuro la cultura non la costruisci con la divulgazione spiccia: disposto a pagarlo (pensa te), un benedetto libro sul tema, qualsiasi tema, è infinitamente meglio. Così ho fatto.
Facebook-ter è esploso. E così anche gli effimeri profili creati successivamente in qualche fugace momento di debolezza in cui dimenticavo il trade-off del reiscrivermi su quel social network.
Al momento non ho l'app di Facebook sul telefono, non ho alcun collegamento a Facebook su Chrome e Mentana lo seguirò su LA7. Va molto meglio.
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rebelontheroad · 4 years
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Joaquin Phoenix's #Oscars speech in full 🇬🇧 / 🇮🇹
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🇬🇧 I’m full of so much gratitude now. I do not feel elevated above any of my fellow nominees or anyone in this room, because we share the same love – that’s the love of film. And this form of expression has given me the most extraordinary life. I don’t know where I’d be without it. 
 But I think the greatest gift that it’s given me, and many people in this industry is the opportunity to use our voice for the voiceless. I’ve been thinking about some of the distressing issues that we’ve been facing collectively.
I think at times we feel or are made to feel that we champion different causes. But for me, I see commonality. I think, whether we’re talking about gender inequality or racism or queer rights or indigenous rights or animal rights, we’re talking about the fight against injustice.
We’re talking about the fight against the belief that one nation, one people, one race, one gender, one species, has the right to dominate, use and control another with impunity.
I think we’ve become very disconnected from the natural world. Many of us are guilty of an egocentric world view, and we believe that we’re the centre of the universe. We go into the natural world and we plunder it for its resources. We feel entitled to artificially inseminate a cow and steal her baby, even though her cries of anguish are unmistakeable. Then we take her milk that’s intended for her calf and we put it in our coffee and our cereal.
We fear the idea of personal change, because we think we need to sacrifice something; to give something up. But human beings at our best are so creative and inventive, and we can create, develop and implement systems of change that are beneficial to all sentient beings and the environment.
I have been a scoundrel all my life, I’ve been selfish. I’ve been cruel at times, hard to work with, and I’m grateful that so many of you in this room have given me a second chance. I think that’s when we’re at our best: when we support each other. Not when we cancel each other out for our past mistakes, but when we help each other to grow. When we educate each other; when we guide each other to redemption.
When he was 17, my brother [River] wrote this lyric. He said: “run to the rescue with love and peace will follow.”
🇮🇹 Mi sento così pieno di gratitudine adesso. Non mi sento migliore di nessuno degli altri colleghi candidati o di nessuno in questa sala, perché condividiamo lo stesso amore per il cinema. E proprio questa forma di espressione mi ha dato una vita straordinaria. Non so cosa sarei senza.
Ma penso che il dono più grande che il cinema ha regalato a me, come a molte persone come me, è l’opportunità di usare la nostra voce per chi non ha voce. Ho pensato molto ad alcune delle questioni dolorose che stiamo affrontando come collettività.
Penso che a volte pensiamo o ci viene fatto credere che sosteniamo cause diverse. Ma io invece vedo molte cose in comune. Penso che, sia che si parli di disuguaglianza di genere o di razzismo o di diritti Lgbtq o dei diritti degli indios o dei diritti degli animali, stiamo sempre parlando di una lotta contro l’ingiustizia.
Stiamo parlando di lottare contro la convinzione che una nazione, un popolo, una razza, un genere, una specie, abbia il diritto di dominare, controllare, usare e sfruttare qualcun altro impunemente.
Penso che stiamo sempre più diventando disconnessi dalla natura. Molti di noi hanno, colpevolmente, una visione egocentrica del mondo, e tutti crediamo di essere il centro dell’universo. Saccheggiamo la natura e le sue risorse. Ci sentiamo in diritto di inseminare artificialmente una mucca e rubarle il suo cucciolo, anche se il suo pianto angosciante è inequivocabile. Poi le prendiamo il latte, destinato al suo vitellino, e lo mettiamo nel nostro caffè e nei nostri cereali.
Temiamo l’idea di un cambiamento personale, perché pensiamo di dover sacrificare qualcosa, di dover rinunciare a qualcosa. Ma noi esseri umani, al nostro meglio, siamo così creativi, ingegnosi, che possiamo creare e sviluppare dei sistemi di cambiamento vantaggiosi per tutti gli esseri senzienti e per l’ambiente.
Sono stato un farabutto e un egoista. A volte sono stato anche crudele, una persona con la quale era difficile lavorare, ma sono grato che molti di voi in questa stessa sala mi abbiano concesso una seconda possibilità. Credo che diamo il meglio di noi quando ci sosteniamo l’uno con l’altro. Non quando ci annulliamo a vicenda per i nostri errori del passato, ma quando ci aiutiamo a crescere, quando ci insegniamo a vicenda e quando ci andiamo insieme verso il riscatto.
Quando aveva 17 anni, mio fratello [River] scrisse questo verso: «Corri in soccorso di qualcuno con amore e seguirà la pace». 
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lamilanomagazine · 7 months
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Milano: Fair Play Festival 2023, prosegue a Cernusco sul Naviglio la manifestazione che celebra l’essenza del comportamento sportivo.
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Milano: Fair Play Festival 2023, prosegue a Cernusco sul Naviglio la manifestazione che celebra l’essenza del comportamento sportivo. Domenica 15 ottobre alle ore 21.00 il programma si conclude al Cinema Teatro Agorà di Cernusco sul Naviglio con un evento speciale: la prima nazionale dello spettacolo teatrale “Sei Figurine”, vero e proprio omaggio alla passione per lo sport, scritto e diretto da Edoardo Erba e interpretato da Stefano Borghi con musiche di Massimiliano Gagliardi e David Barittoni. Nel corso della performance il protagonista rivive suoi primi passi di giovane tifoso, che coincidono con il suo amore per le figurine. Dopo il successo delle scorse edizioni, prosegue a Cernusco sul Naviglio il Fair Play Festival – promosso da ASO Cernusco, realizzato in collaborazione con il Comune di Cernusco sul Naviglio e con il sostegno della Banca di Credito Cooperativo di Milano, main sponsor della manifestazione – con un programma ricco di eventi pensati per celebrare l’importanza del rispetto per gli avversari, degli atteggiamenti leali e della sana competizione. Sabato 14 ottobre alle ore 17.00 presso l’Auditorium BCC Milano a Carugate si terrà l’evento dedicato alle più belle storie di fair play premiate con il nuovo riconoscimento “BCC Milano Fair Play Awards”, che ha l’obiettivo di celebrare gli episodi di fair play più rappresentativi avvenuti sul territorio in cui opera BCC Milano, raccontati attraverso video, interviste e testimonianze. I tre episodi migliori, scelti attraverso una call aperta a tutte le società sportive Nato nel 2020, Fair Play Festival è organizzato da Aso Cernusco, associazione tra le più numerose d’Italia affiliate al CSI, nata dall’unione dei gruppi sportivi degli oratori presenti in città con l’obiettivo di valorizzare la tradizione, giocando però in attacco per proporre la passione educativa attraverso lo sport, con il sostegno di BCC Milano in qualità di main sponsor e con la collaborazione del Comune di Cernusco sul Naviglio rappresentato dal Sindaco Ermanno Zacchetti, che commenta: “Dopo quattro edizioni dalla sua ideazione, il Festival del Fair Play si sta confermando una bella intuizione per fare dello sport uno strumento di crescita condivisa, elemento qualificante della volontà di essere una capitale dello sport inclusivo e del volontariato. Quest’anno la formula di una programmazione diffusa e in “due tempi”, in primavera e in autunno, con una serie di eventi di avvicinamento, ha rappresentato una ulteriore evoluzione, nel tentativo di rendere la partecipazione più ampia possibile. La capacità di mettere a disposizione esperienze concrete e le contaminazioni con altri ambiti come la letteratura e il teatro, fanno del Festival del Fair Play, della nostra città e del suo movimento sportivo il cuore da cui questo messaggio positivo si diffonde, sul territorio e in tutta Italia.” Il secondo tempo della quarta edizione si è aperto martedì 26 settembre con la presentazione-mostra “Pugni Chiusi” a Cernusco Sul Naviglio (MI) con la partecipazione dell’attrice Rita Pelusio e del drammaturgo Domenico Ferrari: l’appuntamento è stato pensato per raccontare e concludere un progetto più lungo che ha unito i ragazzi dai 13 ai 15 anni del Centro di Aggregazione Giovanile del CD Giambellino in un doppio percorso, teatrale e sportivo. Obiettivo del progetto era far esprimere i giovani su alcuni temi particolarmente delicati, con i quali si confrontano quotidianamente, attraverso la boxe e il teatro, due esperienze apparentemente distanti ma estremamente efficaci per le loro caratteristiche di aggregatori sociali. Attraverso il confronto con la storia del pugile Leone Jacovacci, figura iconica del pugilato italiano degli anni 20 del ‘900, i ragazzi si sono potuti confrontare su temi come il razzismo, la ricerca di una identità e, infine, lo sport come riscatto sociale. Il percorso è stato raccontato attraverso le fotografie realizzate dai ragazzi partecipanti guidati dal fotografo professionista Massimiliano Gatti. PROGRAMMA FAIR PLAY FESTIVAL 2023 - SECONDO TEMPO Sabato 14 ottobre, ore 17.00 BCC MILANO FAIR PLAY AWARDS Evento di premiazione delle migliori storie di Fair Play. Auditorium BCC Milano, Via S. Giovanni Bosco, 12 - Carugate (MI) Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, a seguire aperitivo Domenica 15 ottobre, ore 21.00 SEI FIGURINE Spettacolo teatrale scritto e diretto da Edoardo Erba. Con Stefano Borghi. Cinema Teatro Agorà, Via Marcelline, 37 - Cernusco sul Naviglio Ingresso gratuito previa prenotazione INFORMAZIONI Fair Play Festival– quarta edizione settembre - ottobre 2023 Cernusco sul Naviglio www.fairplayfestival.it Informazioni e prenotazioni: [email protected] Ufficio stampa Fair Play Festival ddlArts | T +39 02 8905.2365 Alessandra de Antonellis | [email protected] | + 39 339 3637388 Ilaria Bolognesi | [email protected] | + 39 339 1287840 Anne Sophie Vefling | [email protected] | + 39 328 1175740 GLI EVENTI NEL DETTAGLIO BCC Milano Fair Play Awards Le migliori storie di Fair Play. BCC Milano Fair Play Awards è la nuova manifestazione, promossa da BCC Milano, la più grande banca cooperativa della Lombardia, in collaborazione con ASO Cernusco e nell’ambito del Fair Play Festival. La manifestazione ha l’obiettivo di contribuire alla promozione dei valori e dei principi enunciati nella Carta del Fair Play con il coinvolgimento attivo delle associazioni sportive, degli atleti, delle loro famiglie, dei dirigenti, dei volontari e degli appassionati. Attraverso una call aperta a tutte le società sportive attive nell’ambito dell’area di competenza di BCC Milano, questo nuovo riconoscimento intende premiare le migliori storie di fair play. Una giuria composta da un rappresentante di BCC Milano, un rappresentante di ASO Cernusco, un dirigente del settore sportivo, un giornalista sportivo e un atleta selezionerà le tre storie ritenute maggiormente rappresentative dello spirito di fair play, che saranno premiate con un voucher da spendere per l’acquisto di materiale sportivo. Verranno attribuiti i seguenti premi: 1° premio: buono acquisto dal valore di 3.000 euro; 2° premio: buono acquisto dal valore di 2.000 euro; 3° premio: buono acquisto dal valore di 1.000 euro. Sei Figurine Drammaturgia e regia di Edoardo Erba. Con Stefano Borghi. Sei Figurine è la storia di un giovane che, per dispetto al padre, ha cambiato fede calcistica rinnegando la sua squadra del cuore. Per spiegare come sia successo, il protagonista deve ritornare all’infanzia e raccontare i suoi primi passi da tifoso, che coincidono con la sua passione per le figurine. In Italia non si può parlare di figurine senza parlare dei fratelli Panini, ed è proprio estraendo una ad una le figurine di una bustina Panini che il ragazzo racconta sei storie: storie di fair play in un mondo, quello del calcio, che troppo spesso sembra sinonimo di passioni violente e ingenerose. Soffermandosi sull’ultima figurina il giovane ripensa al rapporto col padre e ne ricorda con emozione l’affetto e il carisma di uomo mite. Edoardo Erba - Drammaturgo, regista, sceneggiatore e autore teatrale nato a Pavia nel 1954, è considerato tra i talenti più brillanti della sua generazione. Nelle sue trame si intrecciano tutte le sfumature, dal giallo alla vena comica della commedia. Quella di Erba è una scrittura che usa le più diverse sintassi, dal noir psicologico al grottesco, dal dramma Metafisico alla commedia di costume, ma declina questa varietà in una straordinaria coerenza stilistica, capace di rendere le sue scritture sceniche subito riconoscibili. Autore di un romanzo, per la radio e la televisione ha scritto fiction, sit come e varietà. È inoltre docente di Scrittura per la Scena all’Università di Pavia. Stefano Borghi - Pavese classe ’82 è giornalista sportivo e telecronista per vocazione. Ha all’attivo quasi 2.000 telecronache ed è considerato un esperto soprattutto sul panorama internazionale, con particolare specializzazione sul calcio spagnolo, sudamericano e inglese. La telecronaca è il suo pane quotidiano, ma partecipa anche a delle trasmissioni televisive e collabora con numerose testate cartacee e online. Pugni Chiusi Un incontro tra teatro e pugilato. Il progetto Pugni Chiusi è un laboratorio che ha unito in un percorso teatrale e sportivo 12 ragazzi del Centro di Aggregazione Giovanile del CD Giambellino, di età compresa tra i 14 e i 16 anni. Dopo una fase di attenta progettazione e di presentazione ai ragazzi del Centro, il progetto si è sviluppato a partire da gennaio 2023, per concludersi alla fine aprile con la realizzazione di una performance teatrale legata alle commemorazioni per la Festa della Liberazione. Pugni Chiusi ha coinvolto ragazzi del Giambellino, storico quartiere della periferia sud di Milano, immigrati o figli di immigrati che vivono in un contesto caratterizzato da povertà, tensione sociale, diffuso razzismo e segregazione scolastica. Obiettivo del programma è stato far dialogare, in un modo sperimentale e innovativo, due esperienze apparentemente distanti tra loro ma estremamente efficaci nello stimolare l’espressione del sé nei giovani: la boxe e il teatro. Tra tutti gli sport la boxe è stata scelta per la sua caratteristica di aggregatore sociale, specie nelle palestre dei quartieri più popolari; il teatro rappresenta invece l’arte della comunità per eccellenza, è strumento di socializzazione e nel contempo di cambiamento personale per chi vi si avvicina. Grazie al progetto i ragazzi si sono potuti esprimere su temi come il razzismo, la ricerca di una identità e, infine, lo sport come riscatto sociale, attraverso il confronto con la storia del pugile Leone Jacovacci, figura iconica del pugilato italiano degli anni 20 del ‘900. Il teatro si è innestato in maniera organica nel percorso sportivo, facendo raccontare ai ragazzi non solo la storia di questa icona, ma anche le loro storie e i loro vissuti. Il progetto si è concluso sabato 26 settembre con la mostra-spettacolo “Pugni Chiusi”, pensata per raccontare il percorso dei ragazzi partecipanti attraverso le fotografie realizzate proprio da loro sotto la guida del fotografo professionista Massimiliano Gatti. Nel corso della serata sono intervenuti Rita Pelusio e Domenico Ferrari in qualità di conduttori del laboratorio, il Direttore del CAG e alcuni dei ragazzi protagonisti.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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carmenvicinanza · 6 months
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Ruby Hamad
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Ruby Hamad femminista, accademica e giornalista, racconta forme insidiose di discriminazione e altre manifestazioni quotidiane di razzismo interiorizzato.
È l’autrice di How White Women use Strategic Tears to Silence Women of Colour, nato dall’omonimo articolo del 2018, pubblicato per The Guardian Australia, che in italiano è stato tradotto col titolo Lacrime bianche / ferite scure. Femminismo e supremazia bianca. Un punto di riferimento globale per le discussioni su femminismo bianco e razzismo.
Nata in Libano e cresciuta a Sidney, in Australia, ha studiato sceneggiatura e regia cinematografica al Victorian College of the Arts, si è laureata in economia politica presso l’Università di Sydney e conseguito un master in giornalismo e pratica dei media presso l’Università di Sydney. Insegna storia e scienze sociali presso l’Università di Western Sydney.
Ha scritto articoli su diverse importanti riviste internazionali e tenuto il discorso di apertura della Giornata internazionale della donna 2017 e Feminist Intersection – In Conversation (con Celeste Liddle) per il Queen Victoria Women’s Centre, e l’hosting di panel al Melbourne Writers Festival e al Newcastle Writers Festival.
Redattrice per la pubblicazione femminista progressista The Scavenger, ha prodotto una serie di saggi sul significato culturale e politico del cibo e creato una serie su persone affette da disturbi mentali che indaga il mito che ha contribuito a plasmare l’opinione pubblica sullo stigma della malattia mentale.
Il suo primo libro, How White Women use Strategic Tears to Silence Women of Colour,  definito “Miglior libro del 2020” da Cosmopolitan, Harper’s Bazaar, Kirkus Reviews e Publishers Weekly, è una condanna bruciante e ad ampio raggio della ‘femminilità bianca strategica’ e della ‘svalutazione storica delle donne di colore’ nella cultura occidentale. 
Attraverso testimonianze, un’accurata ricostruzione storica, la sua esperienza personale e il ricorso alla cultura pop del cinema e delle serie TV, ha scritto un aperto atto di accusa al femminismo bianco liberale incolpato di non voler fare i conti con il proprio passato coloniale in cui le donne hanno esercitato – seppur da subalterne rispetto agli uomini – un potere e un ruolo fondamentale nel fissare gli standard dell’umanità nel suo complesso, incarnati nell’uomo bianco, ma anche nelle donne bianche. Non guardare alla storia, significa continuare a esercitare e perpetuare quel potere e pensare al razzismo solo come a un comportamento individuale e non come a un elemento fondamentale della costruzione binaria della identità femminile in cui alle donne bianche è stata riservata la parte di “damigella in pericolo” mentre alle nere la parte selvaggia e in definitiva subumana.
Dalla schiavitù al linciaggio e all’allontanamento forzato di bambini indigeni, le donne bianche sono state complici degli uomini bianchi nel razzismo e nella violenza, con il pretesto di proteggere la femminilità bianca. L’autrice esamina come questa eredità di secoli di violenza razziale e colonialismo da parte dei bianchi si manifesti ancora oggi nella vita di donne nere, asiatiche, latine, indiane, musulmane, arabe e indigene di tutto il mondo.
C’è da specificare che quando parla di “donne bianche” e di “donne nere” i termini non sono descrittivi ma politici. Non differenzia per colore della pelle ma si riferisce a coloro che beneficiano della bianchezza intesa come privilegio razziale. Quando parla di nero o marrone intende coloro che ne sono escluse in vari gradi secondo un confine in continuo movimento e di volta in volta rideterminato dalla colonialità globale in cui la razza (intesa come imposizione sociale) è il criterio fondamentale per la distribuzione della popolazione mondiale secondo ranghi, luoghi e ruoli nella struttura sociale e del potere.
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jennydontbehasty · 4 years
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In questi giorni ho pensato parecchio se scrivere qualcosa sulla situazione attuale negli USA.
Nel mio caso il velo di Maya è caduto durante i miei 10 mesi vissuti in California in quarta liceo; ero lì da un paio di giorni quando andai al cinema a vedere il film "Fruitvale Station", film che parla dell'omicidio di Oscar Grant per mano della polizia ferroviaria, avvenuto a pochi km da dove vivevo io. Il sogno americano, avvalorato da film e serie TV, é una farsa.
L'anno dopo il mio ritorno c'è stato l'omicidio per mano della polizia di Micheal Brown, con le successive rivolte a Ferguson, evento che è accaduto durante l'amministrazione di Obama. Quello che succede in questi giorni accade ciclicamente negli Stati Uniti, per questo mi ha stupito che all'improvviso tante persone italiane se ne interessassero. Qui c'è un thread importante e illuminante sulla storia della repressione dei neri a partire dalla fine della schiavitù. Quello che voglio dire è che quello che sta succedendo non è una cosa nuova, e non è legato solamente alla presidenza di Trump, che in ogni caso non aiuta, e che non è un'esclusiva della polizia americana. È un problema molto più grande, il sistema non va aggiustato, deve essere distrutto e ricostruito da zero.
Parlando dell'Italia non bisogna nemmeno sforzarsi per ricordare la brutalità della polizia con Cucchi, Aldrovandi, Uva, i fatti del G8 di Genova, il pestaggio di Emmanuel Bonsu. Per lo più noi Europei non siamo esenti dal razzismo, sono i nostri antenati che lo hanno inventato. La storia coloniale italiana, per quanto breve rispetto ad altri paesi, è spesso sorvolata nello studiare la storia. Quando si parla di immigrazione, dei CPR, della condizione dei braccianti al sud, del profilamento razziale che fa la polizia nostrana, dello ius soli per cui gli afroitaliani si battono da anni inascoltati, ci si gira dall'altra parte. Vorrei che l'indignazione e la rabbia che stiamo tutti provando in questi giorni guardando oltreoceano sia pari se non maggiore quando si tratta delle situazioni esistenti in Italia. Io in primis non ne sono esente, ho tanto ancora da imparare e da migliorare.
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jaysreviews · 4 years
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Premessa introduttiva: con Checco Zalone ho un rapporto conflittuale. Da un lato lo trovo becero, sciocco, persino fastidioso. Eppure film come "Sole a Catinelle" o "Quo Vado" mi hanno fatto ridere ed avevano persino una morale giusta. Fine della premessa introduttiva.
Qualche giorno fa sono andato a vedere "Tolo Tolo", l'ultimo film di Checco Zalone che prima ancora di uscire aveva creato un bel po' di controversie grazie al video musicale/trailer "Immigrato". Che come ogni buon trailer moderno dice e non dice, spingendoti ad andare al cinema con la domanda “di cosa parla?”. Lasciate che vi spieghi brevemente: Checco è un uomo che, dopo un progetto naufragato rovinosamente, fugge in Africa per rifarsi una vita. Peccato che la situazione politica della nazione (e l'amore) lo costringano a dover intraprendere il viaggio della speranza che tanti immigrati si trovano a dover affrontare, fra mille insidie e pericoli.
Dal trailer immagino pensaste che fosse un altro il tema, vero? Beh, diciamo che il film se la prende e punta il dito verso il malcelato razzismo che alberga in alcune persone attraverso un trailer che porta le persone giuste al cinema per dargli una lezione. Per questo do credito a Zalone che vuole comunicare qualcosa, dietro le risate, situazioni politicamente scorrette, il sarcasmo. Molti lo hanno criticato per l'immagine retrò che da dell'Africa, tutta guerre e povertà, ma si può pensare che sia voluto per aiutare il pubblico a cui è mirato a capire meglio il messaggio. In alcuni casi, soprattutto nella seconda parte del film, la cosa prende una piega stranissima che sembra snaturare il messaggio iniziale di accettazione e contro il razzismo, buttando un po' tutto in caciara.
Inoltre il film ha una struttura semplice fatta di viaggio, storia d'amore, un bambino come spalla. Non che i film di Checco fossero roba alla Christopher Nolan (e nessuno si aspetta questo)! Nel caso  di Tolo Tolo, però, ho il sentore che fosse molto voluto, presupponendo che le persone a cui vuole insegnare qualcosa, i suddetti razzisti, siano persone poco brillanti.
Quindi, tirando le somme? In sostanza è un film con un buon messaggio, appropriato per i tempi moderni, forse non divertente come i precedenti ma ha i suoi momenti, con un finale un pochino bizzarro e stridente a mio parere. Non è una visione imprescindibile, a meno che non abbiate un amico che posta Salvini e il Duce su Facebook. In quel caso, fategli vedere il film per vederlo perdere le staffe.
P.S.: questo film ha consolidato in me l'idea che Checco Zalone sia l'Adam Sandler italico. Ne sono completamente convinto.
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Il Diritto di Opporsi è un film di genere drammatico del 2020, diretto da Destin Daniel Cretton, con Brie Larson e Michael B. Jordan.
TRAMA: Il Diritto di Opporsi, il film diretto da Destin Daniel Cretton, segue il giovane avvocato Bryan Stevenson (Michael B. Jordan) e la sua storica battaglia per la giustizia.Dopo essersi laureato ad Harvard, Bryan avrebbe potuto scegliere di svolgere fin da subito dei lavori redditizi. Al contrario, si dirige in Alabama con l'intento di difendere persone condannate ingiustamente, con il sostegno dell'avvocatessa locale Eva Ansley (Brie Larson).Uno dei suoi primi casi, nonché il più controverso, è quello di Walter McMillian (Jamie Foxx), che nel 1987 viene condannato a morte per il famoso omicidio di una ragazza di 18 anni, nonostante la preponderanza di prove che dimostrano la sua innocenza, e il fatto che l'unica testimonianza contro di lui sia quella di un criminale con un movente per mentire.Negli anni che seguono, Bryan si ritroverà in un labirinto di manovre legali e politiche, di razzismo palese e sfacciato, mentre combatte per Walter, e altri come lui, con le probabilità - e il sistema - contro.
Il film Just Mercy, che racconta una storia vera, è tratto dal pluripremiato romanzo best-seller autobiografico di Bryan Stevenson.
Uscita al cinema il Marzo 2020.
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