Il mio cuore è un luogo abbandonato, dove si respira l'aria di un tempo antico e si vive l'atmosfera incantata di una fiaba, ci vuole coraggio per entrarci, bisogna fare attenzione ai rovi di spine, ai precipizi, agli angoli buio dove dimora il gelo dell'inverno, ma nei punti in cui filtra la luce si possono vivere esplosioni prepotenti di primavera.
L’estate, si sa, è considerata una delle stagioni più belle e più attese dell’anno, poiché con essa tutto si colora: il mare, le campagne, le montagne; tutto diviene più limpido, più fresco, e tutti i boccioli, che in primavera avevano appena insinuato la loro timida bellezza, finalmente sprigionano tutto il loro ardore e colore, pronti ad abbellire quel mondo grigio e freddo che ci accompagna stancamente ogni inverno. Tra le beltà di questa meravigliosa stagione, però, una dolce menzione merita il girasole, che deve la sua nascita proprio alla meravigliosa estate. Un’antica leggenda narra che in un grande giardino ogni estate sbocciavano fiori stupendi dai colori sgargianti e ricchi di profumo, tanto che tutte le persone che vi si imbattevano restavano ammirate al punto di fermarsi per attenzionare ogni varietà floreale. I fiori, lusingati da cotanta ammirazione, divennero però alteri e superbi, tanto che un giorno, quando tra di loro nacque per la prima volta uno strano fiore dallo stelo debole e sottile per la sua corolla invece così grande e pesante somigliante a un disco di bronzo, essi incominciarono a schernirlo. “Com’è brutto! Senza armonia, senza petali! Perché sei cresciuto qui? Non potevi nascere altrove?”, così umiliavano il piccolo fiore, che in poco tempo infatti divenne lo zimbello del giardino; egli però, nonostante le ingiurie e le offese, cresceva umilmente, tenendo la corolla rivolta a terra. Il Sole, che da tempo osservava ormai quanto accadeva nel giardino, un giorno rivolse i suoi raggi sul caro fiore, facendolo crescere alto alto, tanto da superare tutti gli altri, e gli disse: “Tu mi hai amato in silenzio e in umiltà: alza ora la tua corolla, e guardami. Io ti dono oggi, da qui all’eternità, un mio raggio di sole”. Il piccolo fiore, pieno di felicità, alzò allora lo sguardo e, vedendo per la prima volta il Sole, se ne innamorò perdutamente. Da quel giorno quel dolce fiore abbandonò l’anonimato e le umiliazioni, e fu conosciuto in tutto il mondo come “Girasole”, sempre dedito a quella luce grande e quel grande cielo che inducono ognuno di noi a sognare e sperare.
Questa fiaba meravigliosa, che per noi è solo una leggenda, ci insegna tuttavia ancora oggi quanto grande sia il dono dell’umiltà e della bontà, che viene sempre ripagato dall’amore e dalla felicità.
Nella fiaba questa mancanza di corrispondenza tra l’aspetto esteriore e l’essenza si estende anche al mondo inanimato, che non è come viene raffigurato. Gli oggetti possono avere una forza straordinaria occulta. Abbiamo già detto che nella fiaba ogni oggetto può essere magico. Anche il fiorellino scarlatto non è affatto un semplice fiorellino. Esso incarna la bellezza del mondo e la bellezza dell’essere umano in quanto tale. Tutte le difficoltà per raggiungere il fiorellino stanno nel fatto che deve essere il più bello, «che più belli non ce n’è in tutto il mondo». È il fiore chiesto dalla fanciulla, è il fiore cercato da suo padre, è il fiore che la fanciulla, quando lo riceve, stringe al cuore e bacia. Ma questo fiore non è solo un fiore. È segretamente legato a quella belva, che in realtà è un principe, che le è predestinato. Esso rappresenta l’anima della belva. Abbiamo già detto che in questo si riflettono le concezioni animistiche, secondo cui l’anima può prendere la forma di una pianta o di un animale. Si sono conservate tracce di tale concezione anche in altri motivi: può avere l’anima non solo l’antagonista dell’eroe, ma anche l’eroe stesso. È quanto riguarda anche l’immagine di Finist, dietro a cui si nasconde un principe. Può essere incarnato non solo da un uccello, ma anche da una penna. Possedendo il fiorellino o la penna di Finist, la fanciulla possiede già ciò che il fiorellino o la penna rappresentano. Ecco come appare testualmente: «E quella penna era magica, era il figlio del re» (Chud. 1, 5).
Queste tracce di totemismo non si sarebbero potute conservare se non avessero avuto corrispondenza con la concezione o percezione del mondo del narratore, in base alla quale il mondo quotidiano è l’involucro esterno di qualcosa di meraviglioso che si può svelare d’improvviso, per esempio con le fiabe.
Favole che ascoltavo da bambino, quando i mesi erano indefinite praterie di colori, e il tempo ancora un fanciullo compagno di giochi. Passato, presente e futuro erano tre giorni consecutivi, tre pagine di un diario scolastico, tre palline che rotolavano nel tubo cavo di una settimana, e già un intero anno assumeva le dimensioni del mito, di una distanza lontana, lontana tanto da non riuscire a vedere dalla sponda di un Natale a quella del successivo, mentre troppo distratti si era per voltarsi indietro e scoprire quanto vicina fosse l’immagine del precedente. Lontana, lontana era la distanza di un anno, e lontane erano le favole, e lontana l’età altissima degli adulti, lontana e irraggiungibile. Che misura hanno oggi per me i giorni. Manca la scuola a rimarcare con il gesso bianco i bordi delle stagioni, e i colori dell’estate che è evaporata su una camicia chiazzata di sudore, nella penombra di una casa desolata nel silenzio e nella solitudine di una strada deserta, e il crepitio dell’autunno che procede su un manto di foglie secche e rami spezzati stenta a far sentire la sua presenza oltre i vetri chiusi, appannati da mille pensieri e mille rimpianti che vi si infrangono contro. Favole. Favole era la scappatoia privilegiata della fantasia, la strada maestra per recuperare il sonno, mai invocato e troppo spesso giunto improvviso a troncare ogni seduzione della sera, a spegnere le luci misteriose della notte, mentre un’altra pallina scivolava nel suo tubo cavo. Favole vorrei raccontare a me stesso, al gatto quando rinuncia alla sua postazione di guardia per seguire i miei irrazionali spostamenti da una camera all’altra, favole dove tutto ha un lieto fine, dove ogni principe vivrà felice e contento con la sua amata e non dovrà più preoccuparsi di nulla, né di invecchiare, né di morire, poiché resterà al riparo dorato di un “sempre”. Invece io, ancorato alla trascrizione delle mie memorie, affondo lentamente nella palude di un malessere senza rimedio, nelle sabbie mobili di un futuro che appare improbabile, oscuro e terrificante adesso che le immagini multiformi e incorporee della fantasia prendono la forma stabile dei ricordi, adesso che sono convinto di non aver patito incubi o allucinazioni frutto di una mente adulterata dal dolore o dal rimorso, non aver assistito impotente ai conati di vomito di un cervello sovraccarico, ma aver vissuto, certo vissuto, così come vissuti erano stati tutti i giorni precedenti l’incidente, e avrebbero dovuto essere i successivi se un taglio e una ricucitura fosse stato possibile apporre alla mia vita, ed è inutile tornare a vagabondare tra le memorie, frugare in ogni tasca le frasi, i volti, i momenti diversi che hanno sopraffatto il mio silenzio, le ossessioni rampicanti che intrecciavano i viticci alle mie membra immobilizzandomi per giorni su di un letto, quando neanche il cibo era un richiamo per i vivi, vivo che non ero più io quando strabuzzavo gli occhi nelle orbite, ricacciando lo sguardo all’interno della mia anima opaca, e subivo il vento incessante che mi scuoteva, mi inchiodava al suolo vibrando sulla pelle, rivoltando le lenzuola dove macerava l’assenza di Vic, e il bianco si fondeva con la penombra e poi era ingoiato dal buio delle ore notturne, e infine l’alba che si insinuava attraverso le tapparelle abbassate per metà, e tornava a informare la camera dell’esistenza della luce, della vita che comunque faceva capolino ogni giorno dietro la porta della camera da letto invitandomi a riprendere le monotonie del mio stato di abulia, ad affrontare il presente. Il presente, un attimo indefinito, non più un intero giorno seduto in mezzo tra passato e futuro, tra ieri e domani come nell’era delle favole. Un istante che trascorreva prima che ne avessi coscienza, e correva a riempire la piazza plumbea del mio passato, già sovraffollata mentre il cielo nero di nubi temporalesche era una minaccia costante, e sotto i portici che tutt’intorno ne coprivano i quattro lati, solo i bambini trovavano riparo, una miriade di bambini sconosciuti l’uno all’altro.
Looking through the colors of the stained glass window. It's like being inside a fairy tale. Can you feel the magic?🪄 ステンドグラスの窓の色を通して見る。 おとぎ話の中にいるようなものです。 あなたは魔法を感じることができますか?🪄 . . #glass #glasswindow #colors #fairytail #magic #pastel #ステンドグラスの窓 #ステンドグラスクッキー #色 #物語 #魔法 #パステル #城 #vetrata #fiaba #pastello #magia (presso Château de Vincennes) https://www.instagram.com/p/CpbJQOvoo_f/?igshid=NGJjMDIxMWI=
Giuseppe Bonaviri ~ Fiaba, nonnitudine e ninne nanne
Domenico Ghirlandaio, Ritratto di vecchio con nipote, 1490 ca.
Cara Mamma … Il mio è un bisogno struggente di scriverti, unito ad una voglia di farti rinascere in me, di sentirti come biologica forza cullante in cui si può dissolvere il pianto, e ogni cupa malinconia.
TOCCHI DI MAGIA E MONDI FUTURI
Quando ci si trova di fronte ad una raccolta di fiabe, vien voglia di dire a…
12esima: M. Cordova, La bottega magica, Costa edizioni
Da Alessandra Andrenacci riceviamo la recensione de La bottega magica di Margherita Cordova.
Il concorso è chiuso, ma, mia colpa, mi ero dimenticato di pubblicare questa recensione di Alessandra Cordova. Eccola.
La bottega magica è una fiaba bellissima, leggendo ci si immerge in un mondo meraviglioso e in regni incantati.
Vi ho trovato dentro tanti riferimenti a libri come Verrà la morte e…