Tumgik
#la mia esistenza è uno spreco di tempo
serenamente-v · 2 years
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Mi sono sempre chiest: come funziona quando muori?
Cioè se io muoio, i miei parenti lo sapranno.
I miei colleghi pure, perché insomma, non vengo più al lavoro e penso che in qualche modo lo vengano a sapere.
Ma i miei amici? Chi glielo dice ai miei amici?
Mia mamma conosce le mie amiche solo di vista e, a parte una di cui ha il numero perché più “storica” le altre non saprebbe come contattarle.
Quindi come funziona, capita per caso che vedono il necrologio sul giornale o la notizia online? No perché considerando che non mi cagano per settimane non se ne accorgerebbero.
Ah ah ah sai che divertente se tipo muoio, mi fanno il funerale e dopo un mese le mie amiche mi scrivono nel gruppo tipo “ooh usciamo?” E si organizzano senza aspettare una mia risposta, come l’ultima volta. E poi mi scrivono in privato “ma perché non rispondi?? Guarda che basta dirlo che non vuoi venire non serve che ci ignori” e io ovviamente non rispondo. Perché sono mort. E allora mi odiano e mi mandano a fanculo ed escono lo stesso. Poi dopo un po’ magari gli viene il dubbio. Sono proprio sparit. Iniziano a mettere in giro la voce che le ho ghostate (lol considerando che sono mort potrebbe anche essere il giusto termine). Finché chissà, un giorno, dopo molto molto tempo, conoscono qualcuno che magari lavorava con me.
E dicono “ah sì avevo un’amica che lavorava nel tuo stesso posto… poi vabbè mi ha ghostata”.
“Ma chi è? Dimmi il nome che magari la conosco anche io”
“Eh, è Lei”.
“Ah si… l’ho conosciuta… mamma mia era così giovane e sempre sorridente…”
E da lì, tra una confusione è l’altra, dopo mesi, scoprono che sono mort. Ma siccome erano impegnate ad essere egoiste e a non cagarmi (perché di base non mi consideravano così tanto loro amica), non se ne sono mai accorte. E magari chissà, staranno male, si sentiranno in colpa. Oppure penseranno che sono lo stesso stronz perché, insomma, potevo avvisare prima di morire che sarei mort, così potevano dire che mi erano state vicine, che erano mie amiche, fare le scenate al funerale e post strappalacrime su fb.
Chissà come funziona.
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yomersapiens · 2 years
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Il tuo culo è la mia comfort zone. Ha preso il posto del divano, dove ero solito sognare, ma dato che alla fine sognavo sempre il tuo culo ho deciso di ottimizzare i tempi. È grande solo pochi pollici in meno rispetto alla mia gigantesca tv, che ho comprato perché non ero ancora a conoscenza dell’esistenza del tuo culo, altrimenti avrei lasciato perdere dato che passo la maggior parte del tempo con gli occhi fissi sul tuo culo.
Il tuo culo rende le mie giornate migliori e non deve fare molto, gli basta esistere. Perdono ogni cosa al tuo culo. Gli parlo quando ti addormenti e ogni tanto guardo qualche serie tv noiosa mentre sei stesa con me sul divano solo per farti crollare prima, girarti e passare del tempo col tuo culo.
Quando usciamo cammino piano per poterlo guardare. Quando sei in bici pedalo piano per lo stesso motivo. Tu pensi io sia lentissimo ma se solo sapessi quanto sono ossessionato dal tuo culo allora forse capiresti.
Il tuo culo dovrebbero vederlo tutti così forse la smetterebbero di ammazzarsi a vicenda. Dovrebbero insegnarlo nelle scuole d’arte insieme a Giotto.
Il tuo culo è il motivo per cui mi sveglio prima e ti preparo la colazione. Per cui metto tre tazze in tavola per offrire anche a lui il caffè. Per il tuo culo metto in pausa i videogiochi, quando mi passi davanti senza pantaloni. Il tuo culo è il mio cuscino preferito. Mi aiuta a tollerare la tua esistenza, ho imparato ad accettare la tua presenza. È il mio premio per portare pazienza.
Il tuo culo è un tramonto, un orizzonte, un paesaggio tondeggiante. Il luogo ideale dove voglio passare le vacanze. Fargli una foto è uno spreco perché non si riesce a capire quanto è maestoso, è come vedere l’aurora boreale ma senza il freddo e che puoi toccare.
Del tuo culo, vale la pena di scriverne. Tramandare la leggenda. Inventare una religione. Imparare a fare grafica 3D e comprare stampanti adatte per riprodurlo in copie esatte ed esporlo in tutti i musei del mondo. Il tuo culo attira gli ufo. Il tuo culo è il mio pensiero felice quando non prendo sonno e lui lo sa quanto poco dormo perché con lui mi confido. Il tuo culo oramai è il mio migliore amico.
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cartacei · 3 years
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Sono ancora frastornato.
Ci sono state talmente tante risposte positive per l’evento Apollo & Arte che, tutt’ora, credo sia pure troppo.
Come direbbe Motta “sono troppi anni che perdi la voce”.
Un po’ è proprio così che mi sento di tanto in tanto.
Certe volte capisco però di non perderla la voce, piuttosto la utilizzo per qualche cosa di importante.
L’esposizione è nata in un pomeriggio mentre attendevo Romina vicino all’Apollo, stavo ascoltando proprio Motta negli auricolari con “vivere o morire”, canzone perfetta per il periodo che stiamo vivendo (o morendo).
È arrivato tutto così, con un colpo di palpebre, un istante, ho immaginato la San Filippo Bianchi di sera, coi neon accesi e le opere affissate.
Questo genere di cose che, in altre città, sono normalità e vengono organizzate dalle amministrazioni e dagli assessori alla cultura.
Perché l’arte è fondamentale per una città, un paese, un mondo.
Noi purtroppo a Messina abbiamo il vuoto istituzionale, abbiamo il precipizio di Knockardakin da dove non vediamo nemmeno ciò che ci circonda.
Ma lo sentiamo!
Eccome se lo sentiamo.
Il resto è stato solo chiamare delle persone in cui credi.
Nessuno di loro ti dirà qualche giorno prima di non poter partecipare più, lasciandoti con le mani in mano.
Nessuno di loro ti farà sentire inutile o utopista.
Nessuno di loro ti farà modificare l’idea primaria.
Nessuno di loro ti metterà ansia o ti farà sentire inappropriato.
Nessuno di loro ti deluderà.
Invece ti supporteranno, ti aiuteranno, puliranno gli espositori, attaccheranno i fogli che saranno sfondi, ti reggeranno sulla scala, incolleranno lo scotch adesivo sui cartoncini informativi, compreranno le puntine quando finiranno, ti scatteranno le foto, doneranno sorrisi, calma morbida e la loro arte.
E quella utopia del fare rete, essere comunità non la sento più lontana, non la sento più impossibile, ma sembra avvicinarsi ancora un po', a piccoli passi facendo grandi cose.
Ecco perché non mi fermo e non ho modificato la mia esistenza per la pandemia, perché sarebbe solo uno spreco di tempo e, come sappiamo, il tempo ti sfugge rapidamente da non poterlo vanificare.
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susieporta · 3 years
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Tra le persone che più invidio ci sono quelle che non si arrabbiano, che non puntualizzano, che scordano i torti subiti. A me non è toccata una simile fortuna: io ho un brutto carattere, l’ho ereditato da mia nonna.
Quando l’ho conosciuta era già anziana e portava diverse gonne l’una sopra l’altra come la nonna di Oskar nel Tamburo di latta: non so se fossero quattro anche le sue, di certo non mi ci potevo nascondere sotto, al contrario di lui. Non me n’è mai venuta voglia, a dir la verità, perché mia nonna non era un luogo ospitale. Non era materna, non in quel modo in cui siamo abituati a considerare le madri, prodighe verso i figli, votate al sacrificio di sé.
Mia nonna era vanitosa, aveva le unghie rosse di smalto rosicchiato e alle dita ogni anello del suo portagioie. Era gelosa dei propri oggetti, non avrebbe mai consentito ai nipoti di romperli o rovinarli, li nascondeva perché non li prendessero e si infuriava se non li trovava più (semplicemente perché aveva dimenticato il nascondiglio), accusando chiunque di averli rubati, neanche avessero chissà quale valore. Forse erano cose che voleva custodire, o il retaggio di una povertà mai superata, che la spingeva ad accumulare; gettarle sarebbe stato uno spreco, un peccato, una hybris che non osava concedersi.
Non cucinava bene, preferiva la frutta: bastava lavarla o sbucciarla e la cena era pronta. Tutto il giorno sedeva in poltrona a ricamare, non solo perché era il mestiere con cui si guadagnava da vivere, ma perché amava farlo. Era brava, e si gongolava quando glielo dicevano. Si sentiva un’artista, dipingeva fiori sulle stoffe e componeva poesie in rima dietro le cartoline dello Stretto che qualche volta mi spediva. A disegnare però ero più brava io: da bambina lo facevo quotidianamente e con la stessa determinazione a imparare con cui avrei fatto tutto, in futuro. Imbevuta di romanticismo quanto lei – che guardava Veronica Castro disperarsi in tv, leggeva «Confidenze» e confidenze riceveva, da amiche più giovani e vicine di casa – a 9 anni mi ero specializzata nei baci. Durante numerosi pomeriggi di zelante esercizio, avevo perfezionato la tecnica per raffigurare, con pochi tratti precisi, un uomo e una donna che limonavano duro, benché parecchio tempo mi separasse ancora dalla pratica. Del resto, sono sempre stata una che parte dalla teoria. E poi quei baci piacevano a mia nonna, che era rimasta vedova quando mia madre era incinta di me, e mi chiedeva di disegnargliene una serie; sceglieva il migliore, lo poggiava accanto alla foto di mio nonno, tornava a ricamare.
Non era la cosa più strana che faceva, almeno secondo le figlie. Quello che mandava in bestia non tanto mia madre, lontana centinaia di chilometri, quanto le sue sorelle, erano i giri solitari di mia nonna a Scilla. Certi pomeriggi, senza avvertire nessuno, lei chiamava un taxi – come una turista, brontolavano, come una signora – e si faceva accompagnare fino a quel borgo a picco sul Tirreno da cui ti sembra di poter afferrare Messina, e Lipari e Stromboli e Panarea, per non restituirle mai più.
La immagino passeggiare fra i vicoli di San Giorgio, il centro storico di casette basse, salutare donne e uomini seduti davanti all’uscio a sventolarsi – mica li conosce, è per educazione – e arrivare sino alla chiesa di San Rocco, farsi il segno della croce, ma non entrare, distratta senza rimedio dalla piazza. La immagino affacciarsi sul castello di Ruffo, bere la colata d’azzurro, e ricordarsi di quando attraversava a nuoto lo Stretto – chissà se è vero, o se questa storia la inventava per me. Non scendeva in spiaggia, aveva gonne sovrapposte che non erano riparo per nessuno e neppure un costume da bagno. Si fermava in un negozio di fiducia, comprava una boccetta di Calabresella, l’acqua di colonia ai fiori di agrumi calabresi, e rientrava nel suo alloggio scalcinato, spaparanzata sul sedile posteriore mentre un tassista guidava per lei.
«Perché non me lo hai chiesto? Ti ci avrei portata io», la rimproveravano le figlie. E lei rispondeva con un principio di collera che voleva starsene da sola, senza gente che le avrebbe scandito le ore, che avrebbe tentato di decidere per lei. Che brutto carattere, ripeteva mia zia. A me pareva invece una rivendicazione di esistenza, quella gita fino a Scilla, quel bisogno di bellezza che mia nonna non voleva giustificare, i soldi spesi per cose che non servono a nulla, una passeggiata sul porto dei pescatori, l’odore di bergamotto sulla pelle.
La collera di mia nonna era un vortice di correnti nelle acque dello Stretto, sbaragliava velieri, ingoiava naufraghi, era un ringhio di cani, sei teste pelose cresciute attorno alla vita, era un mostro appartato sulla costa di fronte alla rupe di Cariddi, «che moleste grida / Di mandar non ristà», come recita l’Odissea – era Scilla dopo l’incantesimo di Circe, non più splendida ninfa, ma creatura spaventosa che fa strage di marinai. La collera di mia nonna somigliava alla mia.
Mi diceva che ero la sua preferita, sebbene a ricamare fossi negata. Ma sapevo disegnare i baci prima di impararli, e da grande avrei preso molti taxi anziché la patente, anche se lei non poteva prevederlo. Forse indovinava in me la sua stessa inclinazione all’inutilità della bellezza, la stessa incapacità di aderire a un ruolo, la stessa testardaggine che erano sue. L’ingenuità di una ragazza che può dire no persino a un dio, perché pretende di fare solo quel che vuole. Perché, insomma, ha un brutto carattere, come certe di noi nate sullo Stretto.
Rosella Postorino
(Ieri su 7Corriere Corriere della Sera. In foto, lo Stretto qualche sera fa).
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alex23196 · 3 years
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Si, sei tu
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È che spesso mi sembra che sia tutto inutile. Spendiamo innumerevoli parole a cercare di capirci l'un l'altro, ma la realtà è che ti conosco a metà, e tu non mi vedi. E litighiamo, litighiamo, io non mollo l'osso perché sono un po' un caso perso, e alla fine tutta la fatica che ho fatto per fare un passo avanti mi sembra uno spreco di tempo.
Ti giuro, ci credo davvero. Ci credo così tanto che nel momento in cui mi rendo conto che non staremo più insieme piango, ma non te lo dico. Ti guardo negli occhi e realizzo che tutte le idee che avevo di te, di noi, erano molto carine, ma fini a se stesse e senza futuro. Tu mi ricambi lo sguardo e mi sorridi e non ti rendi conto che dentro di me sono allagata, dissolta nella delusione che provo e che mi riempie, come una totale rassegnazione all'inevitabile fine.
E tutte le parole spese dove mi hanno portato? Per cosa ho lottato? Dove sono arrivata dopo tutte le ore passate a raccontarti, dov'è la tua immagine perfetta nella mia mente, dov'è finita la mia sicurezza?
Ecco, io guardo l'alba, il mare, e mi sembra abbiano molto più significato dell'amore. Non hanno fini, oltre se stessi. Sono sufficienti e necessari alla loro esistenza. E mi fanno star bene. Non come te.
Ecco, io non voglio più litigare. Voglio un amore simile a quello che provo quando guardo il mare. Voglio la calma, voglio la certezza. Voglio la felicità, la bellezza, e che il mio essere libera non venga messo in discussione. Voglio avere la voglia di svegliarmi al mattino alle 5 solo per guardarti, voglio avere l'impressione di poter raggiungere qualsiasi posto mentre ti ammiro. Voglio un amore dal significato complesso, non completamente intellegibile, qualcosa che mi muova da dentro le forze più potenti che ho, senza che abbia possibilità o necessità di alcuna risposta aggiuntiva.
Voglio guardarti negli occhi e ritrovarmi a pensare "si, sei tu, ti riconosco" prima ancora che possa ammettere a me stessa che ti amo, per poi sorprendermi nell'atto di volerti più vicino, ancora più vicino, finché non si confondano i confini fra te, e me.
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Sono sostanzialmente un essere semideficiente e semiumano in parte bradipo e in parte mitragliatore di cazzate che ricerca abbracci (femminili) come se fossero droga e va in trip ogni volta che ne riceve uno.
Sono un’altalena emozionale che raggiunge livelli stratosferici di gioia per poi precipitare negli abissi della desolazione e della nullità.
Sono un effettivo drogato di affetto in perenne astinenza.
Sono un musicofilo da strapazzo che canta e suona canzoni che nessuno vuol sentire e balla (male) canzoni che nessuno vuol ballare.
Non sono malaccio come scrittore, questo lo ammetto.
Sono una persona egoista e terribilmente possessiva che monopolizza il tempo delle altre persone e si lega esageratamente alle amiche al punto di star quasi male senza di loro e trascura gli amici, anche quelli che conosce da una vita.
Trascuro anche alcune amiche a dire la verità.
Cerco sempre di sentirmi utile per non pensare al fatto che in realtà vorrei che mi scoppiasse un aneurisma al cervello per togliermi di mezzo.
Mi sforzo di migliorare ma non ci riesco.
Sono un fallimento in tutto tranne che nell’unica cosa in cui sono davvero inimitabile: fare schifo.
Sono uno schifo umano.
Porto la barba lunga perché è l’unico modo per nascondermi la faccia.
Il mio viso mi disgusta, non voglio vederlo e non voglio che lo vedano gli altri.
Sono geloso, possessivo, ossessivo, logorroico, immaturo, appiccicoso.
Sono un ingombro superfluo, niente di più
Ce la metto tutta per avere autostima e amor proprio, ma per quanto mi sforzi ogni mio pregio è anche un mio difetto.
Sono gentile, altruista ed educato, ma ho difficoltà a dire di no in molte occasioni, e quindi l’essere gentile diventa l’essere uno zerbino.
Sono affettuoso (non so esattamente se sia un pregio o un difetto) ma a livelli quasi morbosi.
Sono creativo e fantasioso, ma in modo esagerato, a tal punto da sfociare nell’immaturità, nella stravaganza folle e nella mancanza quasi totale di serietà.
Ho un aspetto e un modo di pormi che mi fa sembrare più vecchio, ma non dimostro abbastanza sicurezza, serietà, sono logorroico, macabro, malinconico, sdolcinato, e gentile al punto da sembrare debole
Sono solo un pazzo schizzato che si affeziona troppo alle persone, una presenza sgradevole.
Spesso mi fermo a pensare a come sia possibile che qualcuno mi sopporti abbastanza da essermi amico/a.
Cerco spesso di capire cosa ci trovino in me i miei amici e ho costantemente paura che mi vedano come mi vedo io e mi abbandonino.
Sono incoerente, inadeguato, invadente, inopportuno, imbarazzante, ammorbante e mi prendo troppa confidenza.
Sono geloso e iperprotettivo al punto che se un ragazzo appena conosciuto (in amicizia e non) dalle mie amiche non mi dovesse piacere o non mi dovesse ispirare fiducia passerei la serata con i pugni stretti se dovesse unirsi a me ed alla/e mia/e amica/e
Se il suddetto ragazzo dovesse far soffrire una mia amica la mia prima domanda sarebbe “Lo devo picchiare?” e farei di tutto per instillare odio per il suddetto nella ragazza sofferente.
Anche nel caso in cui nessuna mia amica dovesse soffrire per colpa di uno che non mi piace, cercherei di convincerla della “dannosità” del suddetto, per farli allontanare.
La metà delle volte che qualcuno appena conosciuto è gentile con me ho sempre il sospetto che mi stia pigliando per il culo, ho la costante paura che la mia migliore amica trovi una persona migliore di me (cosa molto facile) e mi elimini dalla sua vita (e probabilmente avrebbe ragione).
Certe volte vorrei poter vedere come starebbero se io non esistessi, o se scomparissi all’improvviso.
Sono un inutile sacco mal confezionato di cazzate, un egoista paranoico morbosamente possessivo e geloso a livelli tossici
Senza l’amore dei miei genitori non sarei mai nato e sinceramente sarebbe stato meglio sotto tutti gli aspetti.
L’unico peccato sarebbe stata la “non nascita” di mio fratello, la sua esistenza è un dono, non uno spreco di materia vivente come lo è la mia.
Sono rabbioso, permaloso, invidioso e rancoroso, pieno di astio e odio, con un grande talento nel farmi il sangue amaro.
Sono una merda malinconica.
Sono spasmodicamente impaziente.
Sono uno stupido sentimentale patologico.
Sono uno sdolcinato penoso e un affettuoso morboso.
Sarei molto più utile da morto che da vivo.
Sono geloso, insicuro e con la costante paura di essere sostituito dai miei amici e ciò mi rende difficile fidarmi al 100%, spingendomi a dubitare della sincerità delle persone.
Sono incapace di separarmi dalla mia migliore amica esattamente come chi soffre di disturbo borderline della personalità fa con la sua “persona preferita”, sono immaturo, paranoico, cinico, acido, rancoroso e vendicativo.
So di avere tanto affetto e amore da dare e sono consapevole di fare del mio meglio per cercare di rendere felici le persone, ma tolto quello non resta nulla di bello e buono.
Quello che ho di positivo è quello che posso dare, non quello che posso essere.
La mia figura ingombrante, sia fisicamente che non, è motivo di imbarazzo, me ne rendo conto, la mia faccia (con annessa barba) fa spaventare e scappare molte persone.
Purtroppo la barba è l’unico modo che ho per vedere la mia faccia nella minor misura possibile, rischierei di distruggere ogni specchio a craniate altrimenti.
Mento spudoratamente, ingannando le persone a me più vicine, per motivi futili e insensati.
Sono un veleno e una sciagura per chi mi conosce e per chi ha la sventura di affezionarsi a me, come facciano le persone a farlo proprio non lo comprendo.
Allontano le persone a cui tengo di più, distruggo tutto ciò che di bello la vita mi regala.
Ho già fatto troppi errori, avvelenato troppi rapporti, non posso permettermi di farlo di nuovo.
Ho già perso la persona a cui tengo di più a causa della mia tossicità.
Sarebbe meglio per chiunque se non mi avesse mai conosciuto.
Se posso dare un consiglio spassionato a chiunque mi abbia conosciuto e mi conoscerà, allontanatemi finché siete in tempo, finché ancora non ho fatto (spero) niente che vi spinga a odiarmi ferocemente, in questo modo il distacco sarà più sano e io non correrò più il rischio di causarvi sofferenze.
Sono sinceramente convinto che sia la soluzione migliore per tutti e credo che tutti sarete d’accordo.
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giancarlonicoli · 3 years
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7 dic 2020 11:02
A CARLE’, BASTA MALINCONIA, FACCE RIDE! OGGI ENNESIMA INTERVISTA AL "MALIN-COMICO" VERDONE. MA SE ANCHE LUI, IN QUESTI TEMPI DI PANDEMIA, INSISTE SULLA MALINCONOIA E SULL’ITALIA CHE FA PIANGERE, TANTO VALE SPARARSI UNA FUCILATA SULLE PALLE – IL RICORDO DI MARADONA A CASA TROISI, IL COVID, I "TERRIBILI" ANNI '70 E I SOCIAL “INGANNI CHE NASCONDONO LA NOSTRA SOLITUDINE. NON CI SI PUÒ RINCRETINIRE STANDO 8 ORE ATTACCATI ALL' I-PHONE…” - VIDEO
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Nino Materi per “Il Giornale”
Lui adora il pubblico e il pubblico adora lui. «Furio», il marito-fissato della povera «Magda», direbbe: «E allora lo vedi che la cosa è reciproca?».
Carriera entusiasmante, quella di Carlo Verdone, dove solo l' operatore ACI in una mitica telefonata trovò il coraggio di dirgli: «Ma va a cagher!». Dagli altri, invece, solo applausi. Meritati. Perché prendere il posto nel cuore degli italiani dei fantastici quattro supereroi della commedia italiana (Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi) era un' impresa quasi impossibile. Però Carlo Verdone c' è riuscito, forte di un talento naturale plasmato da impegno e passione.
Grande interprete e regista non solo a parere dei fan, ma anche a giudizio dei critici, masticatori insaziabili di pane e «specifico filmico». La sua (e la nostra) fortuna iniziò con Non stop, il varietà Rai di comicità d' avanguardia che nel triennio 77-79 portò alla ribalta del piccolo schermo alcuni dei futuri «mostri» cinematografici elaborati dall' attore romano.
Nel 1980 irrompe nelle sale la pellicola d' esordio, Un sacco bello; il bis l' anno dopo con Bianco, rosso e Verdone. Due capolavori. Successi senza eguali. È il periodo di massima energia trasformista di Carlo, una specie di mimesi tra «Zelig syndrome» e camaleontismo fregoliano.
Fin da giovanissimo sui palcoscenici delle cantine periferiche Verdone sperimenta macchiette irresistibili, specchio dei tempi e del carattere nazionale: dal politico trombonesco con l' eloquio «seempree teesoo!», al cittadino ansiogeno che estrae la pistola dal borsello di pelle marrone, mostrando orgogliosamente il porto d' armi al grido di «Chi me l' ha data questa? Questo!». Maschere ancora attuali tra la vacua oratoria tipica degli uomini di Palazzo e l' esigenza (percepita?) di sicurezza da parte dei cittadini.
Verdone inventa un nuovo linguaggio somaticamente rivoluzionario; impossibile non notare quel ragazzo geniale; non credere nella sua alchimia comica; non dargli fiducia.
Al resto provvede la bravura di Verdone. La notorietà cresce. Diventando celebrità.
Un mito. Ma della porta accanto.
«In 40 anni di carriera sono rimasto un uomo semplice. Il pubblico lo ha apprezzato. Forse è questo il segreto della mia longevità».
Da bimbo aveva il terrore di perdersi. Come quella volta allo stadio quando per un attimo non vide papà e poi gli corse incontro sussurrando: «Non lasciarmi mai più...».
«Grazie a lui mi sono sempre ritrovato, anche nei momenti difficili della vita. Mi ha insegnato a stupirmi davanti al bello dell' arte».
Com' è maturata l' idea di diventare attore?
«Ero un ragazzo timido. Non avrei mai pensato di fare questo mestiere».
Il 17 novembre Carlo Verdone ha compiuto 70 anni.
«Mi ha telefonato il presidente della Repubblica per farmi gli auguri. Ho ricevuto centinaia di messaggi da persone sconosciute. Un' emozione travolgente. Mi sono fatto tre domande».
Quali?
«Davvero ho 70 anni? Sono proprio io quello a cui la gente vuole così bene? Mi merito tutto questo? Sembra un sogno».
Invece è la realtà.
«Ho festeggiato, ma senza esagerazioni. Proseguirò nella mia missione».
Quale «missione»?
«Divertire con intelligenza attraverso storie più mature. Sarei patetico se oggi riproponessi gli schemi del passato».
Il suo 27esimo film è bloccato dall' emergenza Covid. Il titolo sembra una profezia: Si vive una volta sola.
«Racconto le vicende di quattro medici. Potrebbero pure loro far parte di quella ampia schiera in camice bianco impegnata nella lotta contro la pandemia».
Un virus infame che non permette neppure di dare un' ultima carezza ai cari prima dell' addio.
«È una condizione straziante. Ma dovremmo riflettere su una cosa».
Cioè?
«I like sui social e le amicizie virtuali sono inganni che nascondono la nostra solitudine. Non ci si può rincretinire stando otto ore attaccati all' i-phone. La tecnologia è una gran cosa, ma gli eccessi sono pericolosi».
A proposito di «eccessi». L' ha colpita la morte di Maradona?
«Lo conobbi in casa di Massimo Troisi. Un ragazzo gradevole, umile. Per lo sport è stato un dono di Dio».
Poi Dio si è dimenticato di Diego. E Diego si è scordato di Dio.
«La sua fine mi suscita pena e tenerezza».
Torniamo alla famiglia Verdone. Che tipo era sua madre?
«Dolce e piena di ironia. È la donna che mi ha compreso di più. Incoraggiandomi a fare l' attore».
Ha due figli, Paolo e Giulia. Che rapporto avete?
«Meraviglioso. Se dovessi sbagliare qualcosa con loro non me lo perdonerei. Sono sicuro che mi ricorderanno come un buon padre».
Lei, invece, che ricordi ha del periodo a cavallo tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80?
«Terribili, fra terrorismo e stragi. E quella parola - «proletariato» - usata a sproposito per coprire gli atti criminali di una banda di vigliacchi. Ipocrisie ideologiche che la Marcia dei quarantamila spazzò via».
Un mese dopo quella marcia epocale (15 ottobre 1980), la terra tremò in Irpinia e Basilicata (23 novembre). Tremila morti. La ricostruzione ha comportato scandali e uno spreco di denaro pubblico senza precedenti.
Lo sviluppo è rimasto una chimera. Per il Sud l' ennesima occasione mancata.
«L' anno successivo, in Bianco, rosso e Verdone, focalizzai uno degli episodi del film sul personaggio di Pasquale Amitrano che, emigrato in Germania, torna a Matera per le elezioni. Va a votare, ma al momento di consegnare la scheda al presidente di seggio sfoga tutta la sua rabbia per le ingiustizie patite dal momento in cui ha messo piede nel Belpaese. Da allora ad oggi la situazione non è granché migliorata».
I colpevoli?
«In Italia abbiamo una classe politica inadeguata. Senza qualità. A volte si arriva nelle stanze del potere più in forza dei giochi di potere che in base a preparazione e competenza. Nel Sud, abbandonato a se stesso, il fenomeno è ancora più grave. Speriamo nei giovani».
Magari il disagio fosse limitato al Mezzogiorno...
«Il degrado riguarda l' intera società italiana. Il mio compito è far ridere, ma questa società fa piangere».
Cosa la indigna di più?
«L' ignoranza di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica. Ma le sembra giusto che posti-chiave vengano occupati in base ai pacchetti elettorali piuttosto che ai titolo di studio?».
A proposito di «titoli di studio», lei può vantare un curriculum accademico da Guinness: una laurea in Lettere moderne con 110 e lode, due lauree honoris causa (in Medicina e Beni Culturali) e un' iscrizione onoraria nell' Ordine dei Farmacisti. Ma è vero che lei ha una vocazione particolare per le diagnosi sanitarie (rigorosamente esatte)?
«La medicina mi ha affascinato fin da piccolo. È una specie di tradizione di famiglia. Ho un ampio giro di pazienti che da anni mi chiedono consigli. Io dico la mia, ma poi raccomando loro: Chiedi conferma a uno specialista».
Si narra che col suo intuito «abbia salvato la vita a quattro persone».
«Anche di più. A Natale ricevo molti pacchi-dono di ringraziamento».
Qualcuno le chiede «dritte» anche sul Coronavirus?
«Il Covid è una cosa seria, figlia anche degli effetti perversi della globalizzazione e del mancato rispetto nei confronti della natura. Ma in tema di pandemia, meglio lasciare la parola ai virologi».
Virologi che però si fanno la guerra l' uno contro l' altro nei salotti-tv. Una smania presenzialista che li ha trasfigurati in macchiette simili al suo dottor «Raniero Cotto Borroni» che nel film Viaggi di nozze, rispondendo a una telefonata mentre sta facendo sesso con la moglie «Fosca», dice: «No...non mi disturba affatto».
«Ogni programma televisivo ha il proprio virologo di fiducia. La gente viene rimbambita a colpi di informazioni contraddittorie. Con la conseguenza, negativa, di lasciare spazio alle tesi negazioniste.
Parla per esperienza personale?
«All' inizio un mio conoscente non prendeva sul serio l' esistenza del Covid. Ma un brutto giorno è stato contagiato, finendo nel reparto intensivo. L' ho rivisto qualche tempo fa al bar: dimagrito e con un' aria sofferta. Mi ha guardato e ha detto: Ora ho capito. Tutti possiamo sbagliare...».
Lei appartiene alla categoria a rischio degli «attori famosi», forse la più soggetta al capitombolo della depressione. Ha mai temuto di cadere vittima del male oscuro?
«È una patologia che non temo. La mia vita è troppo piena di passioni, interessi e affetti per correre un rischio di questo tipo».
Molti suoi colleghi ne hanno invece sofferto.
«Avevano commesso l' errore di mettere il lavoro al primo posto. E quando la carriera è giunta al tramonto, si sono ritrovati soli. Finiti in un tunnel buio. La salvezza è invece la famiglia, gli affetti più cari che non tradiscono mai e ti restano accanto fino all' ultimo dei giorni. Io questi affetti ho la fortuna di averli. E mi li tengo stretti».
I ricordi sono una buona compagnia?
«Quando i ricordi si intrecciano con i buoni esempi, diventano più di una buona compagnia: si integrano con l' anima».
La sua anima è ricca di «ricordi» e «buoni esempi»?
«Sono quelli che mi hanno lasciato in dote i miei genitori. E i miei nonni. Conservo ancora una lettera scritta dal fronte di guerra da mio nonno paterno. È indirizzata a mia nonna e dice: Ho un lapis in mano ma le dita mi tremano dal freddo: ti prego di far studiare Mario, costi quel che costi. Mario è mio padre e quando leggo quel foglio ingiallito trattengo a stento le lacrime».
Mario Verdone ha poi studiato davvero, diventando uno tra i più apprezzati critici e docenti di cinematografia.
«Pur provenendo da una famiglia poverissima il suo livello intellettuale era altissimo, tanto che Norberto Bobbio lo scelse come primo assistente. Grazie a papà ho conosciuto persone di massimo livello culturale. I suoi insegnamenti mi hanno introdotto alle meraviglie della pittura, del teatro, della letteratura, del cinema».
Ma è vero che suo padre la bocciò a un esame universitario?
«La sera prima dell' esame gli dissi che non ero preparato solo su due autori. Il giorno dopo mi fece le domande proprio su quelli. Mio padre era così. Non poteva accettare che suo figlio fosse favorito in qualche modo. Se oggi nutro per lui una sconfinata ammirazione è anche per questo suo modo di essere onesto e integerrimo».
Un atteggiamento assai poco «italiano».
«Nella patria delle raccomandazioni e dei nepotismi, papà ha incarnato la parte migliore del nostro Paese».
Anche per questo l' Italia le suscita malinconia?
«Ma è possibile che ogni giorno ci sia qualcuno che ruba, violenta, uccide? Che le virtuose potenzialità del web vengano da alcuni utilizzate per veicolare orrori di ogni genere?Tutto ciò mi crea tristezza. E mi spinge a trovare rifugio guardano cielo e nuvole, i miei soggetti fotografici preferiti».
Come mai ha deciso di immortalare il cielo?
«Perché il mondo è bello. Ma solo se si guarda in alto».
Sarà un Natale triste. Orfano di tavolate, baci e abbracci. Lei cercherà conforto nelle sue foto?
«Quegli scatti per me sono preghiere senza parole».
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A mio parere a quest’età la ricerca quasi costante da parte di (prettamente tutti) noi ragazzi di una persona che definiamo “fidanzato/a” è la mera e pura risposta al nostro, a volte vano, tentativo di cercare di sopperire alla mancanza di un qualcosa che ci tenga occupati, che ci faccia compagnia fisicamente e mentalmente e che ci faccia sentire “di valore”. Questo ultimo punto è da intendere proprio come il fatto di sapere di essere apprezzati, sapere di avere qualcuno non solo su cui poter contare ma che riesca anche ad amare della nostra persona tutti i particolari, le incertezze e difetti così come i particolari più belli e i pregi, i punti di forza; che sappia valorizzare le nostre debolezze e renderci sicuri di noi, in senso ovviamente positivo. Passo così tanto tempo a chiedermi se “lui” è davvero il “Lui” con la L maiuscola che spesso passo sopra a tutto, come se avessi un velo sugli occhi che rende la realtà un po’ opaca e oscurata, e di conseguenza tendo a non risucire minimamente a pensare al lato che dovrebbe essere definito “divertente” della situazione e del contesto, che definirei quasi ludico, dal momento che [prima pensavo solo e solamente così!] qualsiasi relazione a quest’età nasce e si sviluppa un po’ come una sfida a saperSI accettare per potersi poi aprire e mostrarsi appieno per come si è all’altra persona (percorso tutt’altro che semplice che, dal mio canto, forse devo ancora iniziare ad intraprendere) e può ovviamente (spero ed auguro a tutte le coppie felici) mutarsi in qualcosa di più serio e concreto. Ora sto un po’ rivalutando anche questo concetto del ludico però, dato che spesso e volentieri ho quasi preso in giro, la questione “coppie”, perché fino a davvero poco fa (e forse un po’ ancora adesso) pensavo che non fosse minimamente possibile pensare di essere presi, in tutti i sensi, da una persona. Non che io sia proprio in questa situazione, mi piacerebbe molto ma non penso sia un “sentimento” reciproco, ecco. In ogni caso, forse ero orientata verso questo tipo di pensiero (ovvero una relazione come solo e solamente ludica, che in parte, appunto, lo è in ogni caso, dato che può aiutare davvero a crescere in questi anni della vita e a formare il proprio carattere e la persona e aiutare a far capire cosa e chi si vuole nella vita) perché in generale gli esemplari di sesso maschile che ho conosciuto fino a questo momento della mia esistenza non hanno mai dimostrato una certa maturità che, un po’ poco modestamente, ammetto di esigere. E lui non so, ha smosso qualcosa, che non saprei definire bene ma che ha scombussolato completamente quelli che pensavo di poter definire i miei punti saldi di convinzione. Sarà perché mi sembra tanto maturo (poi magari non lo è, sia chiaro (rip)), sarà per il suo modo di affrontare le cose, che mi pare molto razionale e studiato, non dato al caso, sarà per il suo voler compiere le cose e “intraprendere avventure” (prendilo molto con le pinze) che effettivamente poi dimostra di fare, concretamente, e che non rimangono solo la traccia di un’idea vaga che fluttua mestamente in un cielo pieno di nuvole di promesse mai mantenute. È così tanto “pratico” che mi sembra di parlare seriamente con un adulto e non con un sedicenne, e ciò mi turba. Mi turba assai perché cio è andato letteralmente a stravolgere il mio pensiero, che ora non è più incentrato su “a quest’età non vale la pena di mettersi con qualcuno, è prettamente uno spreco di tempo” quanto più su “la persona giusta può farti aprire gli occhi davvero su qualsiasi argomento per il quale il tuo sguardo era offuscato e la vista annebbiata, e può farti provare ciò che non avresti mai pensato di provare a quest’età, senza che sia solo un qualcosa di ludico e senza che finisca mestamente come un’inutile perdita di tempo”.
In conclusione, è vero che una relazione ha un carattere “ludico” ed educativo, ed è giusto quindi a questa età non prendere troppo troppo le cose sul serio ma divertirsi anche e riuscire ad imparare dagli errori, ma allo stesso tempo sono fermamente convinta che si possa già trovare La Persona Giusta, con tutte le iniziali maiuscole, colei che riesce a rimettere insieme tutti i pezzi mischiati del puzzle che ci compone. E sotto sotto, se devo dirla tutta, spero, forse, nel fondo del mio cuoricino un po’ arido, che lui sia prorpio questa persona
-viola
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                                                 Music                   
All’inizio era il nulla. D O decise che non si poteva avere tutto quello spazio e lasciarlo vuoto, era un vero spreco, si rischiava l’esproprio proletario. Dapprima fu il caos. Si guardò intorno e mormorò: “Bella minchiata, ora mi tocca ripulire” Si mise di buzzo buono e in sette giorni, D O riordinò e disegnò nel bianco latteo del nulla, sette righe che generarono sei spazi (sette giorni per disegnare sette righe? Dritte spero). Si accorse di aver saltato il week end e stizzito, cancellò due righe come memorandum. Nacque così il pentagramma, una sorta di pentapartito, ma che funziona. Quando si alzò dal divano, dopo la pennichella pomeridiana, diede un’occhiata al suo operato. Cominciò a saltellare da una riga all’altra, fermandosi ora in uno spazio ora in un altro. Si divertì così, per cinque, dieci minuti al massimo, ma poi si accorse di quanto fosse monotono tutto quel ciondolare senza scopo. Si senti solo e vuoto. Si depresse. Abusò di alcool, marjuana, hascisc, cocaina e eroina, ma a nulla valse quel suo girovagare di allucinazione in allucinazione. Nella disperazione più nera arrivò persino a considerare i fiori di Bach e la cromoterapia. Niente non ne veniva a capo. Pensò e ripensò, pensò e ripensò, quando ad un tratto, una folgorazione: “Non sarà che per ovviare al problema della solitudine   io debba trovare compagnia?” (quando si dice: il genio) D O si mise alla scrivania e iniziò a fare delle prove: “Hmmm così non va… no così no… ma vahh… ma che merdata… PHUAA!!!… ma porc… se vabbeh, quadrato…” Un altra illuminazione gli permise di capire che, prendendo se stesso come esempio di base e applicando delle piccole variazioni, sarebbe stato semplice plasmare qualcuno con cui far bisboccia e… arricchire la sua esistenza certo. D O si fece un selfie e creò a sua immagine e somiglianza sette creature, dando origine alla Compagnia del Pentagramma (abbreviato: Note, non chiedete perché, mistero della fede) e diede un nome ad ognuna di loro. La prima la chiamò in suo onore, Do (ma tutto attaccato) la seconda Re, la terza Mi, la quarta Fa, la quinta Sol, la sesta La e l’ultima Si (la coincidenza nei numeri: sette sono i peccati capitali e sette le virtù e sette le piaghe d’Egitto e sette i mari e sette sono i nani). Ad ognuna di loro assegnò un alloggio, riga o spazio che fosse e visto che rimanevano uno spazio e una riga vuote, la sua lungimiranza snocciolò così, per non saper ne leggere ne scrivere, il secondo estratto. Mi secondo estratto e Fa secondo estratto. Bona li!!! E mo’? Mah!!! Ognuno dal suo balconcino guardava gli altri e poi intorno e intorno non è che ci fosse molto da vedere, bianco a perdita d’occhio, non c’era iterazione. Un sorriso imbarazzato, un colpetto di tosse, occhi pensierosi rivolti al… su. D O doveva pensare a qualcosa (era sfinito, si stava rompendo i coglioni di tutto sto pensamento). Mumble, mumble, mumble, mumble, muginava e rimuginava ma non riusciva a venire a capo di quel momento d’impasse. Gli venne in mente di tutto: da una bella riunione di condominio al bingo, ma nulla sembrava la cosa giusta per quella compagnia. “Basta, mi sono rotto e ho il mal di testa, forgerò qualcuno che si prenda la briga di creare per me, voglio riposare e non fare più un cazzo!!!” Così D O decise di dar vita a una creatura al di sopra delle parti e che pensasse per lui: impastò gli ingredienti di cui era in possesso e partorì, senza dolore, l’Omino di Zenzero (prima lezione nei corsi di animazione in 3D), aggiunse una folta e lunga capigliatura, un abito improponibile e due mani fornite di dita, rimirò la sua creatura e disse: “Ecco qui, ho creato il Musicista.” (Azz…) Dapprima fu il Batterista, un tipo di musicista primordiale, tera tera!!! Il Batterista, guardò la Compagnia del Pentagramma, si grattò la testa, non ci capì un cazzo e la mise da parte (prendi l’arte…), prese la prima cosa che gli capitò in mano (due bastoncini di legno) e cominciò a pestare su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, dai bicchieri della coca cola ai porta tovaglioli, dai cuscini del salotto alla batteria di pentole antiaderenti della mamma (creatura mitologica e santa, inventrice, tra l’altro, dei tappi per le orecchie). Il Batterista era si primitivo, ma non del tutto stupido e si costruì un set ben organizzato sul quale battere con i suoi legnetti. Cominciò con lo scuoiare bestie di tutti i tipi e inventò il tamburo e così andò fino a quando non intervennero gli animalisti vegani e dovette ripiegare su pelli sintetiche. La fantasia certo non mancava a questo prototipo, da qualsiasi oggetto poteva estrarne l’anima sonora che gli permetteva di giocare con il tempo. Le cose andarono bene per lui fino al giorno in cui arrivarono la Paiste e la Tama e le lacune di questo primate lo portarono quasi all’estinzione. Quella progenie si chiuse in una comunità omologata e standardizzata, perdendo smalto e identità; incrociandosi solo tra consanguinei, diventò malaticcia e pallida… scazzò insomma,  tanto che qualcuno pensò e provò a sostituirli con l’elettronica. La Compagnia del Pentagramma, va da se, non era per nulla contenta di essere stata messa da parte senza mezzi termini e cominciò a lamentarsi vigorosamente, così D O, nello scontento generale, creò: Mozart. Diede lui dei tasti bianchi e dei tasti neri e poi disse: “Potrai usare tutti i tasti bianchi che vuoi ma non toccare i tasti neri se non vorrai saggiare la mia ira” Mozart, che già da piccolo era un ragazzino sveglio, pose a D O una D Omanda: “Perchè o Grandissimo tu mi dici ciò? Perché tu mi dai anche i tasti neri e poi mi ordini di non usarli? Avresti fatto prima a non mettermeli davanti agli occhi, non ti pare?” D O visibilmente irritato per essere stato colto in fallo, replicò: “Io ho parlato, questa è la mia volontà e chi sei tu per fare domande a un D O?” E Mozart insolente: “ Dovresti saperlo, mi hai creato tu con questo caratterino, non è che adesso devi fare quello caduto dal pero.” Proferì queste parole sgranocchiando una bella mela rossa con lo sguardo di sfida classico del bambino prodigio. D O a questo punto, incazzato come una mina, pronunciò frasi forti: “BASTA, fai il cazzo che ti pare, ti concederò il libero arbitrio, ma poi non venirmi a dire che non ti avevo avvertito.” E così Mozart rimase solo con i suoi tasti bianchi, gli intoccabili, tasti neri e un serpente arrotolato al suo fianco che il medico locale aveva consigliato come pet terapy. Le sue dita cominciarono a saltellare sui bianconi, prima timidamente, poi con sempre più baldanza fino a che non raggiunse la più totale padronanza del mezzo, mezz’ora dopo. A quel punto le sue mani volavano senza freni e si sa, in un volo senza freni capita di perdere il controllo. I suoi polpastrelli cominciarono a sfiorare i tasti neri senza pigiarli, con leggere carezze, come a stuzzicare la pelle di una giovane donna; il gesto atto ad eccitare lei, si ritorce contro e gli ormoni frizzano come una pepsi appena versata. Sfiora oggi che ti sfiora domani, una delle dita più eccitata delle altre, profanò una delle vergini nere. Apocalisse!!! D O, inverecondo, esplose la sua rabbia scaturendo una sbrodolata  di simboli da non raccappezzarcisi più. Chiavi, battute, frazioni di tempo, piano pianissimo, forte fortissimo e poi diesis e bemolle e staccato, saltellante, legato, terzinato… ma va in mona vai!!! E per qualcuno non ce n’era abbastanza e dal tumulto sorse il Chitarrista Rock. Larsen, tapping, wah wah e distorto e forzato e nitrito di cavallo e  chi più ne ha più ne metta e poi il Bassista con lo slap, razza meno evoluta del sopracitato, causa un deficit alla nascita (un raggio spazio/temporale più limitato rispetto all’esacorde), una meno pronunciata mania di protagonismo ma una forte propensione all’assurgere, anche ricorrendo a correzioni della propria naturale fisionomia (lifting), per sedere fianco a fianco con la razza superiore. Il condominio della Compagnia del Pentagramma si animò e cominciò ad interagire. E conversazione fu! Dal chiacchiericcio nacque Schoenberg e una dissonanza gergale incomprensibile e confusionaria, che poi venne adottata come lingua ufficiale dalla classe politica. Poi arrivò Stravinsky che regolò le cose facendo coesistere conversazioni diverse regolandone le altezze, la metropoli. Bach, in tutto questo trambusto, cercava di fuggire al pari di Berlusconi che con il suo sassofono prendeva qualsiasi nave salpasse. Bach trovò la fuga Berlusconi no, ma ci andò vicino. D O era furioso e così mise sulle teste dei musicisti una maledizione: la povertà (in realtà erano due, ci fu anche quella della mamma che diceva:”mai con un musicista”, ma non funzionò un granché). Da questa piaga monetaria nacque il musicista jazz, vizioso, sporco con i denti neri cariati dal fumo, piegato su se stesso che nuotava in uno stagno nero e fangoso rotolandosi come una zoccola nella melma e come in ogni stagno che si rispetti, un re ranocchio, che mischiò le carte in tavola e da pappone, diventò colui che portò l’esperanto (l’idioma del futuro genere umano, mai sentito parlare da nessuno tranne forse da me, in versione maccheronica, quando cerco di farmi capire da un nord europeo e in versione spiccia, in Waterworld) a Babele, un certo Miles Davis. Dal nulla D O aveva creato un universo smisurato e bizzarro, dai confini troppo ampi, per essere controllati da uno che si alzava tardi e passava la giornata sul divano a grattarsi. La cosa gli sfuggì di mano e per una distrazione fatale, l’orda barbarica che si era avvicinata alle mura senza essere notata, fece breccia; i Cantanti si rovesciarono all’interno dell’universo di D O, come un travaso di bile. La Compagnia del Pentagramma perse il suo ruolo di protagonista e al suo posto salì sul podio lo specchio, che giorno dopo giorno attraverso la sua lucida vanità accrebbe la forza di quell’etnia fino a trasformarli in front man, coloro per i quali strapparsi i capelli e le mutandine: i belli e impossibili. Da Orietta Berti a Sergio Endrigo, dalla brunetta dei Ricchi e Poveri a Toto Cutugno, dal baffo dei Ricchi e Poveri a Pupo spuntarono come funghi dopo un acquazzone, alimentando il potere di Narciso, il loro dio. L’universo di D O vacillò orrendamente, la Sua immensa galassia si era troppo avvicinata ad un buco nero e rischiava di essere risucchiata. D O con uno sforzo enorme, dato che si era di molto inchiattito, alzò il culo dal divano, richiamò a se tutte le forze e scagliò il suo esercito all’attacco contro quell’infezione emorragica . Lo scontro di questi due super poteri generò Allevi e la sua “O generosa” (colonna sonora e portante della nostra serie A, che uno si chiede come abbiano fatto a giocare al calcio fino ad oggi, senza quell’inno sornione) e tutto fu Fine.
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fakesmily · 4 years
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Sfogo personale
Caro Amore,
Scrivere a qualcuno è forse l'unico modo di attenderlo senza procurarsi cicatrici; e dunque, non potendo parlare con voi, mi ritrovo a parlare di voi.
Ancora non conosco il recapito di queste mie parole, tanto ripetute e inascoltate che al sol pronunciarle paiono cadere a terra e morire; e per giunta mi è sconosciuto, lo ammetto, che voi siate per davvero una persona impellicciata di carne ed ossa, o piuttosto qualcos'altro di apatico: privo di arti in cui alloggiare e di un volto da poter rimirare. Ma ponendo il fato che voi abbiate un cuore pulsante ed un respiro caldo quanto il mio: caldo abbastanza da poter sussurrare nell'inverno e scioglierne il freddo che vi dimora, un freddo che ormai non vi ricordate nemmeno di percepire; ebbene, mi domando dove voi stiate soggiacendo se di queste parole non ne avete origliata nemmeno una eco. Con questo vostro tacito vivere non potete che indurmi a cattivi preludi, dove vi penso caduti vittima d'un qualche pericolo, o dove bazzicate per il sentiero intenti a formulare una qualche giustifica adatta a perdonare la vostra lunga assenza. Ascoltatemi, e credete se vi dico che in nessun caso avreste di che preoccuparvi, poiché potrò perdonare qualsiasi cosa purché sia assolutamente incredibile, e potrò prendermi cura di voi pur non scomparendo nella vostra persona.
.... Quanto a me, non pensatemi chino a lustrare scarpe e ad arricciare capelli, perché di falcate ne ho compiute più di quante voi possiate contarne in vita vostra. Col tempo ebbi persino la disavventura d'esser ingannato da scampoli della vostra persona perduti nei cuori altrui, e non smarrì occasione di scontrarmi in enormi dispiaceri, che assumevano le parvenze di persone, sì, ma che in realtà non sono mai riuscito a considerarle tali: poiché non hanno mai avuto tempo per gli altri, e in quelle poche volte che ho visto succedere che una parla all'altra, be', non sembrava fondamentale che queste capissero o sentissero le loro stesse o altrui parole, e il fatto strano è che... parlano o non parlano e nulla sembra importare.
Ebbene, perdonatemi. Penso voi sappiate che un uomo, o donna che sia, col tempo ammattisce se non ha qualcuno, e si spinge così a largo da ritenere che non importa più chi sia, purché vi sia. E questo è all'incirca ciò che a me è sovvenuto: sono giunto ad avere timore di non conoscere me stesso; ho perduto il controllo di tutto, persino dei luoghi che si trovano dentro la mia testa; e ho capito di dover odiare l'amore per proteggermene, così da non lasciar entrare nessuno nella mia vita, poiché da dentro le persone hanno possibilità del tutto diverse di ferire. Loro utilizzavano principalmente un vecchio trucco, quello di rivelare una bugia per nasconderne un'altra, e parevano così convincenti quando indossavano quelle maschere dai lineamenti incorruttibili, che nessuno, vedendoli, avrebbe mai potuto stanare la loro vera natura. Ma le mie parole e i miei silenzi a loro dedicati, non poterono che attrarre verità ripiene di dolore: 'Indifferenza', fu il nome che diedi a quel male di vivere.
Col tempo dovetti dunque arrendermi all'evidenza: sapevo vivere solo grazie alla speranza di un valore costruito.
Ma non ricevendo alcun accenno alla tua esistenza, lavorai sulle parole da pronunciare, e un giorno chiesi loro, ad ogni singola lettera s'intende, se fossero in qualche modo sbagliate e disprezzate da ciascun destinatario. Esse si limitarono a sussurrarmi di pazientare e a confidarmi che, con l'esperienza, le persone sarebbero rinsavite e avrebbero ascoltato il fondo della loro verità, tralasciando così il proprio diletto costellato di menzogna.
Ma, Amore, parliamoci chiaro fin da subito. Ciò che più mi addolora è che il tempo a nostra disposizione è limitato e sarebbe uno spreco trascorrerlo in compagnia della paura, o meglio, di una paura malsana imposta da una misera solitudine; perché se c'è qualcosa che ho capito in quei momenti in cui mi è parso di scorgerti tra un astante e l'altro, in uno di quei momenti ridicoli e piacevoli in cui ho creduto all'impossibile, be', è che saperti vivo e vegeto mi incute un'enorme paura che vi riempe di affascinanti fronzoli e merletti; una paura diversa da quella precedente: questa ha sempre la solitudine come risultato finale, ma è la paura d'essere abbandonati quando ormai ci si è sentiti amati. Dunque non posso che chiedervi di permettermi di amarvi e di rinnovare il mio dolce e rassicurante terrore.
Pensateci: come potrà mai finire se non comincia mai? Dove siete? Siete perduto? In qualsiasi caso, sappiate ch'io non voglio torturarmi coi ricordi, e spero che voi lo pensiate altrettanto. Poiché arriverà il momento, quando ci incontreremo, in cui bisognerà saper archiviare tutto quel brutto che si è camuffato in bello, un momento in cui si prenderà coraggio e si cercherà di ricostruire tutto da capo, con un diverso palco e con diversi attori. E come voi ben saprete, le scelte più ardue non saranno tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, bensì tra ciò che è giusto e ciò che è meglio.
Bramate fino in fondo, poiché una volta assieme e una volta oltrepassati questi ostacoli, potremo camminare e parlare, e questo a molti sembrerà un modo bizzarro per passare la giornata, ma almeno potrò chiedervi se siete contento, e potrò vedere il vostro sorriso albeggiare non tanto per la felicità quanto piuttosto per la sregolatezza di una tale domanda; e poi potremo stringerci l'un l'altro, dimenticando in un attimo la sofferenza; potrò farti guardare coi miei occhi ciò che tu in questo momento non scorgi; e potrò farti pentire del tempo, ahimè necessario, che hai trascorso a cercarmi e a fingere di non vedermi.
Vi prego di aguzzare l'udito e di sporgere un po' della vostra ragione al di fuori della finestra, e non vi nascondo che ne patirà il freddo e avizzirà aspettando il mio arrivo. Ma una volta giunto potremo riscaldarci col fuoco della nostra passione, e potremo domare assieme ciò che a me piace ricordare come dolceamara indomabile belva.
- Fake.Smily
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allora vediamo di fare un po' di ordine ché qui la situa è scappata di mano. non te ne frega un cazzo e va benissimo cosi perché non importa più nemmeno a me. mi sono persa in questi mesi e ho avuto fin troppa fiducia in te e nelle tue scarse capacità relazionali ma ora anche basta perché insomma ieri notte ho cantato tutto il tempo canzoni dei subsonica e pensa che prima di allora non avevo manco il coraggio di ascoltarne una. invece ieri le ho sentite praticamente tutte, dalla più dolorosa alla più carica di sfoghi e sai cosa, avevo un leggero buon umore addosso. stamattina mi sono alzata e il cielo era stra limpido, di norma la bellezza mi mette malinconia a causa tua, ma stamani ho messo lo stereo a palla e ho guidato come una matta guardando la punta bianca delle montagne e ho pensato MADO SONO BELLISSIME e non mi hanno messo la solita tristezza. ho fumato una sigaretta tutta d'un fiato perché cavolo adoro le mie sigarette e tu non mi servi. e non sto facendo quella offesa che ignora la tua esistenza, io ti ho ben presente ma non voglio più che il mio umore venga influenzato dalla tua persona. mi sono accorta che è totalmente inutile e tu non rappresenti da un bel pezzo la persona di cui ero innamorata. sei un cumulo di detriti e io non posso farci niente se sei così, mi sono annoiata di offrirti tutto il buono che c'è e probabilmente neanche lo meriti ma questo è un altro discorso. mi sta bene che hai i tuoi flirt banali da due spicci con i vari cessi di cui ti prendi solo perché sei sola e allora ogni buco è trincea, a me non importa. sei diventata per me un elemento non più stimolante, mi sono annoiata della tua passività e della tua capacità di dare brividi senza saper scaldare il cuore a lungo termine. sputi continuamente sul piatto in cui hai mangiato e non hai la minima umanità nei confronti di chi dicevi di amare. ma basta così, ti sei presa il tuo abbaglio e io non ho più sbatti di scoprire del buono in te. e per buono intendo qualcosa che faccia del bene anche a me. tu non mi fai più bene. e io dovevo rendermene conto gia tempo addietro, piuttosto che starti appresso e farmi trattare come il primo pezzo di merda. perché sai purtroppo è normale che a volte l'amore venga rifiutato, ma non va bene che venga praticamente umiliato. e mo basta basta basta perché io sono una saetta sono un missile terra terra ho mille forme mi muovo nello spazio e nel tempo e il mio cervello è un mitragliatore e tu sei un blocco. mi blocchi e blocchi la mia dinamicità e non mi va più. voglio mangiare voglio bere voglio dormire voglio studiare voglio uscire voglio piangere voglio incazzarmi voglio conoscere e tutto questo senza che tu mi ostacoli. voglio andare avanti voglio sorpassarti e pure doppiarti mille volte. non ci rimetto io. che ho perso? il tempo passa veloce e probabilmente quando incrocerò di nuovo la tua strada tu sarai esattamente dove ti ho lasciata. tu divertiti pure a perdere tempo dietro certe stronzate se ti fa sentire un po' meno sola e un po' più desiderata, ci perdi tu perché quello che ho in serbo è supersonico e spaziale e ci sono miliardi di persone che desiderano essere amate. vuoi rimanere nella tua campana di vetro a vedere le cose da un buchino, avevi mille occasioni per uscire dal tuo bozzolone e sfoggiare le ali con me, ma tu preferisci strisciare e prenderti briciole. va bene così. ti avrei portato via e lo sai che lo avrei fatto sul serio ma non importa più. io boh insomma forse è davvero questione di testa, della serie che tu ti imponi un tipo di umore e non è l'umore ad imporsi su di te. in effetti, superficialmente parlando, non mi manca niente. ho un lavoro, studio o almeno ci provo, ho delle amiche fantastiche che amicizia è riduttivo il nostro è amore platonico, ho i soldi per fare il cazzo che mi pare, ho una pistola bellissima e ogni volta che esco rimorchio. poi fortunatamente tutti gli altri problemi de capoccia che ho non li hai causati tu, certo me li hai peggiorati ma ora non te lo permetto più. metto comunque in chiaro che nonostante questo papirone io sono lo stesso dispiaciuta per le angosce che ti ho procurato ma mi sono auto punita gia abbastanza, e in ogni caso non ha senso sentirsi in colpa se poi a te non frega nulla del male che hai causato a me. e metto anche in chiaro che non ti trovo uno sgorbio della società, so che c'è qualcosa in te... ma sono stufa di tirartelo fuori. tu preferisci la mediocrità, quella che tiene al sicuro. va benissimo. mi dispiace se mi sono comportata da mostro psicotico fino all'ultimo ma erano tutti tentativi per mantenere una stabilità con te perché ero convinta che mi volessi ancora bene e mi considerassi ancora una persona importante della tua vita, mi hai fatto capire che non è così e non importa. basta che io non mi spreco piu. che bello ho ripreso ad ascoltare tutte le canzoni che mi rendevano triste, vado nei luoghi che ho visitato con te senza farmi venire un infarto e ho anche ricominciato a mangiare di piu. in macchina canto a squarciagola invece di pensare a quello che fai e quando mi ubriaco cerco persone nuove invece di chiamarti al telefono e io penso che questo mi porterà da qualche parte prima o poi. onestamente è a me che dispiace per te, per tante occasioni che hai perso
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serenamente-v · 3 years
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E anche oggi ho sprecato l’intero mio giorno libero a cazzeggiare al telefono facendo il nulla cosmico, senza nemmeno riuscire a portare avanti i miei hobby tipo guardare serie, leggere, disegnare ecc. Cioè manco quello, no, solo un eterno balzo tra un social e l’altro sperando che qualcuno mi caghi. E alla fine resto a guardare memini random deprimendomi per ore e ore in un loop infinito.
A sto punto meglio non avere giorni liberi se ogni volta finisco così…
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pangeanews · 4 years
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Nel Salone del Libro on line c’è tutto, tranne i libri, ormai inessenziali. Beh, io torno a leggere Landolfi, mi insegna che “l’impossibile è poi sempre possibile”
Il Salone (salotto, salumificio) Internazionale del Libro di Torino, non si ferma (una delle conseguenze più nefaste della pandemia è l’abbrutimento ulteriore della nostra vituperata lingua). Anzi, torna a palesarsi in una forma ancora più inquietante e angosciosa. Là dove il libro perde la sua essenza, importanza e funzione. Là dove è tutto griffato, dove non c’è nulla, dove non ci sono, i libri. L’emergenza sanitaria e tutto quel che ne è conseguito, non ha portato una virgola, una parentesi, un apostrofo di saggezza o riflessione, anzi, ha partorito e continua a partorire mostri. Venendo finalmente al punto, il mostro del Salone (appunto) si palesa in streaming. Sui social. Tra gli hashtag. Con gioia e giubilo dei presenti, degli invitati, degli organizzanti. E di questo giubilo non è facile cogliere da fior fiore. Ma tocca farsi del male. Nicola Lagioia, il cosiddetto direttore artistico: “Nel dolore la consapevolezza, nell’amore la conoscenza. Qualche giorno fa, in una delle ore più buie, confuse e dolorose per il nostro paese e per il mondo intero, il gruppo di lavoro del Salone Internazionale del Libro di Torino ha fatto un sogno: riunire alcune delle migliori menti del pianeta per ragionare insieme su ciò che sta accadendo”. Sorvolando sulla retorica da discount dell’ovvio. Per ‘migliori menti’ si intendono Lilli Gruber, Roberto Saviano, Alessandro Baricco, Paolo Giordano e no, non riesco a proseguire. Ma passiamo a Dario Franceschini: “l’iniziativa degli organizzatori di coinvolgere, in una anticipazione, alcune delle voci più interessanti del panorama culturale, rappresenta una preziosa occasione di riflessione e condivisione”. Condivisione cui significato è oramai peggiore di qualsiasi virus e, sulle voci più interessanti, toccherebbe sorvolare se non si fossero testè succitate. Per poi arrivare (e qui mi fermo) alle vere e proprie minacce, per voce del Presidente della Regione Piemonte: “Un giorno non molto lontano dei libri racconteranno quello che stiamo vivendo”. Come se la letteratura e la poesia fossero mero e banale ostaggio, omaggio o reportage della noiosa realtà circostante e non discese negli e dagli inferi dell’animo umano e dai mondi e di mondi inesistenti. Come se non ci fossero ancora migliaia di libri da leggere (e credo nessuno dei quali presente ai Saloni che furono e che saranno) senza la necessità che ne venga scritto anche solo un altro.
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Ma mentre il Salone (in quanto entità spaventevole e spaventosa) dichiara “non si legge solo sui libri” (vergato in patetico maiuscolo), io ne prendo tra le mani uno, nelle cui meravigliose pagine dovrebbero perdersi tutti. Per capire cosa significa scrivere, il significato dello scrivere. Il libro è Rien va, il secondo dei tre volumi che tessono il diario (che andrebbe mandato a memoria) di Tommaso Landolfi, assieme a La biere du pecheur e Des mois (tutti editi da Adelphi, che ha rimesso in vita l’immortale scrittore di Pico). E queste parole, che lette e rilette, sarebbero sufficienti a spazzar via tutta la (succitata) ambizione e presunzione: “Quando l’idea sia venuta, e a suo tempo mi si sia articolata nel capo, a me sembra di aver fatto sin troppo e che il mio lavoro sia finito e che sia indispensabile un po’ di riposo; il resto è faticosa, odiata, inutile, amministrativa e subìta necessità esteriore, come il recarsi in un sordido ufficio governativo per sbrigarvi una pratica. Il pensiero che la mia idea possa o debba essere comunicata ad altri non mi sfiora neppure, in un primo momento, non già per dispregio degli altri, sibbene perché nessuno potrà mai convincermi della loro esistenza, e sarebbe difficile disprezzare ciò che non esiste; e anche perché, ammettendo in via del tutto ipotetica la loro esistenza, non riuscirei, in buona fede, per la modestia e insipienza insieme, a concepire che qualcuno avesse bisogno della mia idea. In un secondo momento, si capisce, insorgono necessità volgari pesanti benché illusorie, che possono indurmi a darle forma sensibile, cioè a tutti manifesta; il che non si può fare in qualche modo mediato, quando non per via di successivi tradimenti. Al tutto si aggiunge una specie di spregio, spregio del mio lavoro e spregio del mio lavoro quale necessità impostami, che può talvolta menarmi a buttar via di proposito il meglio come non conveniente o troppo superiore ai datori di lavoro”. I lettori non esistono ed è uno spreco buttar via le parole troppo superiori per i datori di lavoro (leggasi editori). Ma voglio andare avanti.
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Landolfi è una miniera, un tesoro, un mondo. Landolfi che quando oramai ha raggiunto un disinteresse rispetto all’esito dei suoi libri prossimo all’indifferenza (siamo nel 1960), impone che dalla raccolta Se non la realtà (allora edito da Vallecchi) i suoi lavori vengano pubblicati in un’edizione tutta bianca, senza risvolti, senza quarta di copertina con vergata tale ineguagliabile postilla: “L’autore, stanco di sentirsi attribuire dai critici (o almeno dai più grossolani tra essi, e in ogni caso da chi poco lo conosce) la paternità o l’ispirazione degli scritti per consuetudine stampati in questa sede (i quali lo trovano bene spesso dissenziente), ha pregato l’editore di sostituirli d’ora in avanti colla seguente dicitura: RISVOLTO BIANCO PER DESIDERIO DELL’AUTORE”. Oggi in calce abbiamo gli indirizzi dei social. Il vanto d’esser stati partoriti da qualche scuola di scrittura. E il bisogno spasmodico di apparire ed esserci ovunque e dovunque. Pensiamo ancora una volta con orrore ai libri che verranno (come non bastassero le pagine vacue, vuote, inutili scritte in questi ultimi due mesi dagli stessi che banchettano al Salone virtuale, virtuoso, virulento). E poi ritorniamo e concludiamo con Landolfi che, tra i tanti racconti di inaudita beltà, era capace di inaugurare una delle sue raccolte (in questo caso Racconti impossibili), con una storiella surreale e spassosa composta con parole presenti in qualsiasi dizionario italiano ma sconosciute ai critici prezzolati e tronfi d’allora (i cui figli ancora più prezzolati e tronfi imperversano ora). Ne saggiamo l’incipit: “La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima … Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!… Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene”. Il racconto è La passeggiata, e su tale racconto lo stesso scrittore, successivamente, stila la meravigliosa conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni dove dimostra, dinnanzi a un ridicolo e grottesco tribunale, che La passeggiata contiene, appunto, parole tutte presenti nel dizionario italiano. E che i cosiddetti critici che avevano chiosato e ridicolizzato il suo racconto attribuendogli una lingua inventata, non si fossero in realtà nemmeno posti il dubbio che tali parole potessero trovarsi in qualsivoglia dizionario. “Molto semplicemente che l’impossibile è poi sempre possibile: se, difatto, coloro o costoro avessero avuto il benché minimo dubbio relativamente a una sola delle vessate parole, se di conseguenza si fossero avveduti che codesta parola era regolarmente registrata in qualsivoglia dizionario scolastico, essi le avrebbero cercate tutte e in tutte avrebbero riconosciuto in significato inequivocabile, né si sarebbero per avventura coperti di vergogna con bolse sentenze. Ma c’è di più e di peggio. Ammettiamo che al critico non sia richiesto un particolare fiuto filologico… Amici, guardiamoci in faccia: alle brutte un fiuto letterario, questo personaggio che si autoproclama interprete dell’opera altrui, un fiuto letterario dovrà averlo?”. Fiuto letterario. Quello che manca, che non esiste, che non si percepisce nel Salone Letterario, in chi vi partecipa, in chi vi sguazza, in chi vi sfoggia le griffe e le marchette. Si fiuta solo l’odore di muffa. La vera letteratura è altrove. I libri sono altrove. E invocare quelli che verranno, vuol dire non saper nemmeno dove si trovi, quell’altrove. Quell’altrove che Landolfi ha tramutato in poesia.
Cosimo Mongelli
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maresterai · 6 years
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Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con pudore di un caso come il mio: forse l'ho fatto in parte nelle mie poesie. Ora da quando sono a Roma, basta che mi metta alla macchina da scrivere perché tremi e non sappia più nemmeno pensare: le parole hanno come perso il loro senso. Posso solo dirti che la vita ambigua - come tu dici bene - che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all'etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza. Per questo io qualche volta - e in questi ultimi tempi spesso - sono gelido, «cattivo», le mie parole «fanno male». Non è un atteggiamento «maudit», ma l'ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono. Non ho avuto un'educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale... Questa mia tradizione di onestà e di rettezza - che non aveva un nome o una fede, ma che era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale - mi ha impedito di accettare per molto tempo il verdetto. [...] Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio equilibrio, la mia innaturale resistenza, possono trarre in inganno... Ma vedo che sto cercando giustificazioni, ancora una volta... Scusami - volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno - come in fondo ho ingannato te, e anche altri amici che ora parlano di un vecchio Pier Paolo, o di un Pier Paolo da rinnovarsi. Io non so di preciso che cosa intendere per ipocrisia, ma ormai ne sono terrorizzato. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi pare dicesse San Paolo... Io credo - a questo proposito - di desiderare di vivere a Roma, proprio perché qui non ci sarà né un vecchio né un nuovo Pier Paolo. Coloro che come me hanno avuto il destino di non amare secondo la norma, finiscono per sopravalutare la questione dell'amore. Uno normale può rassegnarsi - la terribile parola - alla castità, alle occasioni perdute: ma in me la difficoltà dell'amare ha reso ossessionante il bisogno di amare: la funzione ha reso ipertrofico l'organo, quando, adolescente, l'amore mi pareva una chimera irraggiungibile. [...] Qui a Roma posso trovare meglio che altrove il modo di vivere ambiguamente, mi capisci?, e, nel tempo stesso, il modo di essere compiutamente sincero, di non ingannare nessuno, come finirebbe col succedermi a Milano: forse ti dico questo perché sono sfiduciato, e colloco te sola nel piedestallo di chi sa capire e compatire: ma è che finora non ho trovato nessuno che fosse sincero come io vorrei. [...] Comprendimi, Silvana, ciò che adesso mi sta più a cuore è essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce. E' l'unico modo per farmi perdonare da quel ragazzo spaventosamente onesto e buono che qualcuno in me continua a essere. - Ho riletto quello che ti ho scritto finora e ne sono molto scontento: forse lo troverai ancora un po' agghiacciante. [...] Quest'ultima crisi della mia vita, crisi esteriore, che è il grafico di quella interiore che io rimandavo di giorno in giorno, ha ristabilito, spero, un certo equilibrio. Ci sono dei momenti in cui la vita è aperta come un ventaglio, vi si vede tutto, e allora è fragile, insicura e troppo vasta. Nelle mie affermazioni e nelle mie confessioni cerca di intravedere questa totalità. La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c'è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch'io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è cosi: e io, come te, non mi rassegno. Da certe tue parole («... tra cose che ti sono costate dolore, se veramente ti sono costate dolore») mi par di capire che anche tu, come molti altri, sospetti dell'estetismo o del compiacimento nel mio caso. Invece ti sbagli, in questo ti sbagli assolutamente. Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale. [...] Ora qui la tua lettera, se la guardo, mi commuove ferocemente, mi sento le lacrime agli occhi: penso a quello che ho perduto, allo spreco della mia vita nella quale non ho saputo accogliere te. Non posso più continuare questa lettera: le altre cose che dovevo dirti te le scriverò domani. Potrei continuare solo se potessi abbandonarmi, ma non posso, deve sciogliersi in me ancora tanto gelo. Perdonami se ti ho scritto un'altra lettera odiosa, ma se potessi scrivere con bontà, con tutta la bontà di una volta, allora questa lettera non sarebbe stata necessaria. Sono furioso contro di me e la mia impotenza, mentre vorrei dirti tutta la mia tenerezza e il mio affetto. Ti abbraccio.
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bloggoloblog · 6 years
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Logos – Capitolo Zero – “Trovare le Parole”
Si passavano anni a cercare le parole per cominciare una storia, non perché non sapessimo cosa dire, ma perché passavamo la maggior parte del tempo a cercare gli incipit, dimenticandoci, il più delle volte, del contenuto stesso delle nostre vite: un’intera generazione bloccata sulla soglia di un discorso, che incredibile spreco di materia prima.
Io ricordo quei tempi, sono abbastanza vecchio da aver conosciuto il libero mercato, l’ebbrezza della scelta illimitata di termini e di costrutti, l’articolazione incontrollata dei rapporti tra sintassi e grammatica; quello che non sono è abbastanza vecchio da avere problemi morali nel lucrare sulla loro mancanza.
C’era stata un’epidemia in qualche angolo sperduto del pianeta e non è tanto importante che questa si diffuse ovunque in poco più di sei mesi, non lo sono i sintomi, per quanto raccapriccianti, come non lo è la circostanza che portasse alla paralisi ed alla morte in un paio di settimane; quello che ad un certo punto fu chiaro e che davvero importa, per quanto assurdo, fu il mezzo di diffusione: il linguaggio.
La malattia si diffondeva attraverso le parole, non attraverso l’aria che le trasportano, ma attraverso i semplici concetti stessi.
I cervelloni di tutto il pianeta erano eccitatissimi ed ognuno disse la sua; qualcuno scoprì che alcune parole erano più contagiose di altre, qualcun’altro che addirittura il linguaggio scritto era conduttore del virus.
Volendo essere scientificamente corretto, cosa che non mi è mai riuscita benissimo, c’è da precisare che in effetti non si trattò di un virus vero e proprio: la gente lo chiamò così perché nessuno seppe catalogare questa serie di avvenimenti.
L’ipotesi più accreditata fu che si trattasse di una specie di interferenza tra campi magnetici e cervelli, non credo debba ribadire la mia poca agilità nelle questioni scientifiche. Io sono sempre stato un tecnico, uno che parte da A ed arriva a C, passando per B: io premo bottoni e muovo leve, non mi interessa sapere altro.
La malattia decimò la popolazione del pianeta, fino a quando una commissione internazionale, incaricata di trovare una soluzione, non presentò la sua cura: nano macchine, esserini robotizzati grandi quando uno spermatozoo, iniettati comodamente come se fossero un vaccino ed incaricati di regolare e controllare i flussi elettrici del linguaggio.
Questi esserini, tuttavia, non erano tanto intelligenti poter coprire tutto il linguaggio ed il loro alto costo portò i governi a decretare ciò che avrebbe cambiato per sempre il modo di intendere la vita stessa: rendere le parole una merce di scambio, controllata e monopolizzata dalla commissione stessa.
All’inizio fu quasi impercepibile, la gente continuò per anni la vita di tutti i giorni e regolarmente acquistava le dosi di parole per comunicare, ma i danni della malattia ed una scellerata politica economica internazionale rendevano i prezzi sempre più alti, fin quando non si venne più pagati in denaro, ma in “Logos”, che divennero la nuova moneta dell’intera economia globale.
La sorpresa arrivò quando la gente cominciò a morire: restare senza soldi non aveva mai ucciso direttamente qualcuno, restare senza Logos lo faceva: la malattia si ripresentava, dando prova di non essersene mai andata.
Ci furono delle rivolte, ma la commissione deteneva il controllo totale le fabbriche di Logos e quei cazzo di ragnetti robotici che ti iniettavano erano programmati per poter essere disattivati a distanza: avrebbero potuto ucciderci tutti premendo un solo bottone e si dice che in molti casi lo fecero.
Fu a quel punto che la pirateria, come ogni volta che qualcosa di indispensabile viene monopolizzato, divenne la nuova resistenza.
Io sono un tecnico e sapevo bene che la mia capacità di tirare le leve mi avrebbe fatto molto comodo al mercato nero: io trovo i clienti, inietto i Logos piratati ed incasso il denaro; vado da A a C, passando per B.
La commissione, ovviamente, sa bene della nostra esistenza e ci da la caccia, si potrebbe dire che la nostra esistenza sia la prova stessa che in realtà produrre Logos per tutti non costerebbe così tanto, ma non è compito mio dimostrarlo ed a dire il vero se non esistesse il monopolio non ci sarebbe il contrabbando ed io sarei disoccupato: quindi non parlatemi di morale, io sono un tecnico.
Mi chiamo Gabriele, come l’Arcangelo ed in effetti è proprio così che mi chiamano i miei clienti quando parlano di me. Quando sono con me, invece, mi chiamano “Signore”, perché io ho un lavoro importante: io gli vendo le parole.
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susanripley · 7 years
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Della pigrizia, o voglia di non fare un cazzo (e gli effetti nefasti sulla propria esistenza)
Esco con questa amica che non vedo da mesi, e che ho sempre stimato per la sua inesauribile energia. Quelle palline impazzite che le vedi a Natale e ti raccontano che hanno fatto un corso da sommelier, torni per le vacanze di Pasqua e si sono finite un corso di yoga e uno di cucito, per non parlare dell'estate quando hanno già cambiato lavoro due volte e preso la seconda laurea. Roba così. E niente, l'amica parte, fa cose, cambia vita. Ma non quei "cambio vita!" e poi la scelta più radicale che fai è buttare via dei calzini a groviera, o comprarti una pianta grassa. Proprio quel "cambio vita" che rimetti in gioco continuamente quello che sei, quello che hai raggiunto fino a quel momento, e quell'essere perfetto che vorresti diventare ma non ce la fai mai, ma devi morire nel tentativo. DEVI, non c'è provare, fare o non fare. Lei è questo essere straordinario fatto di dubbi e forza di volontà, che non si ferma mai sulle proprie scelte ma le ridiscute continuamente . E tira dritto. Prova, riprova, parte, torna, cambia.
E io?
E Io l'esatto opposto: mi sono adagiata. Ho fatto come un animaletto fastidioso e infestante che si fa la tana e non si schioda più. Ho preso le mie lauree, ho trovato il mio lavoro, ho fatto le mie discutibili scelte sentimentali, ho i miei libri, i miei fumetti, le mie bottiglie vuote e le vecchie fotografie. Ho cristallizzato tutto. TIÈ. E ora scollatemi dalla mia bolla di tranquillità se vi riesce. Tutte le mie avventure sono parentesi momentanee: la vacanza on the road, inizia e finisce con le ferie. Esplorare le case abbandonate si fa solo nei weekend. Sono tutte uscite che mi permettono di tornare agile e in fretta quando ho paura nella mia bolla. Stabile, graziosa, ma gelida. Asettica.
Ora, forse la mia amica esagera: verrà un momento in cui avrai bisogno di un'isola in cui tornare, di fissare qualche cosa di stabile, perché è vero che la vita è un'avventura, ma serve un porto in cui rientrare, e fare la famosa "recollection in tranquillity". Vivere così tutto di fila, intensamente, mai un attimo libero, è forse un modo di staccarsi dalla realtà. Per godersi un'avventura bisogna anche avere il tempo di meditarci sopra. Fine momento saggezza.
Perché è anche vero che sto sbagliando tutto. Pure io. Non voglio rimanere nella mia fredda e algida bolla. Voglio osare. Rimettermi in gioco. Tentare vie traverse che magari non c'entrano nulla con quello che faccio, ma magari mi piacciono.
Tutto il tempo che spreco a rimuginare di cazzate, a guardare la tv, a leggere minchiate su internet, a cazzeggiare su Facebook, se lo usassi per fare qualsiasi cosa di nuova, sarei già un pezzo avanti, una persona più simile a come vorrei essere.
Avventura, curiosità, scoprire il mondo. Una bellissima prospettiva.
Come si guarisce dalla pigrizia? Forse non è solo pigrizia, è proprio paura. Paura di sbagliare, di fallire, di non avere un paracadute, di ritrovarsi soli, ma soli veramente. E da questo, come si guarisce?
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