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#La corona d’inverno
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La corona d’inverno di Elizabeth Chadwich
Ciao lettori, oggi vi voglio portare a fare un piccolo saltello nel passato in mia compagnia e del libro che sto per recensire, che dite venite con noi? Il libro che vi vado a presentare è La corona d’inverno scritto da Elizabeth Chadwich Che ne dite andiamo ad approfondire? Titolo del libro: La corona d’inverno Autrice/Autore: Elizabeth ChadwichPagine: 480 TRAMA Di ritorno dalla…
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shambelle97 · 1 year
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Il candore della neve adornava ogni angolo della cittadella celeste, donando una magica atmosfera.
Celebrare il Solstizio d’Inverno equivaleva alla rinascita di una nuova luce, scacciandone l’oscurità.
Ogni angolo del regno era circondato da maestosi abeti, decorati da vivacissimi addobbi.
Asgard attendeva spesso con trepidanza l’arrivo del periodo di Yule.
Ovvero una manifestazione carica di valenze simboliche e magiche, dominato da miti e simboli provenienti da un remoto passato.
Valaskjalf avrebbe organizzato un occasionale banchetto in compagnia dei sudditi e i parenti della famiglia reale.
Ossia un modo per festeggiare e riunirsi tutti insieme.
L’odore pungente delle candele riposte sopra il ceppo, invase i vari lati della stanza.
Si trattava di un’antica usanza per allontanare gli spiriti maligni.
Un frammento di quercia decorato da foglie di agrifoglio, edera e betulla.
Sigyn amava festeggiare un simile evento: tuttavia dovette fare i conti che i familiari paterni non sarebbero stati affatto presenti.
Dopo le nozze col Dio dell’Inganno, nessuno di loro osò più rivolgerle la parola.
Neppure colui che un tempo chiamava ‘padre.’
La ripudiarono senza troppi ripensamenti.
Solo la madre accettò tale relazione, infischiandosene dei pareri rivolti.
Desiderava soltanto la sua felicità.
Non avrebbe permesso che l’adorata figlia adempisse allo stesso identico destino.
Gli amari pensieri vennero riscossi dalla profonda voce del moro.
“Cosa ti turba, piccola vanir?”
Chiese il marito, intuendone la preoccupazione nel suo sguardo.
“Avrei preferito che anche la famiglia di mio padre partecipasse ai festeggiamenti, chiedendone la pace.”
Rivelò mesta, assumendo un’espressione cupa.
Loki osò circondarla in una tenera morsa, affondando il volto affilato sulle ciocche bionde.
Le sarebbe rimasto accanto fino alla fine dei tempi.
Per mesi furono costretti a nascondersi come due ladri, finché non architettò un piano per renderla sua moglie.
Un rischioso inganno che costò ad entrambi l’esilio su Midgard.
L’intera corte dovette abituarsi presto all’idea di averla come principessa.
Theoric fu persino esonerato dall’incarico, non prima di aver giurato una mancata vendetta nei confronti dei coniugi.
Costui tentò di picchiarla, venendo infine salvata da colui che amava davvero.
Il carcere si rivelò l’assoluta condanna per l’ex capitano degli Einherjar.
Sigurd si rivelò un ottimo sostituto dopo l'ultima spedizione nella foresta di Járnviðrr.
Si scambiarono un bacio colmo di dolcezza, avviandosi verso la Sala del Trono.
Essa era gremita di gente.
In fondo all’ampio salone intravidero Thor a conversare coi rispettivi compagni d’arme.
Le intimò di rimanere al proprio posto per attenderlo.
“Suppongo non sia ancora arrivato, nevvero?”
Proferì ovvio il Fabbro di Menzogne, riferendosi ad un particolare dono destinato alla moglie.
“Dovrebbe essere qui a momenti.”
Ribatté il maggiore, guardandosi intorno.
Un uomo di medio alta statura avanzò a passi incerti, dirigendosi verso i figli della corona.
Egli era Bjorn in persona.
“Ben arrivato, Lord Davenson.”
Esordì il Tonante, dandogli ufficialmente il benvenuto.
L’anziano ringraziò in tono cordiale, avvicinandosi poi verso la moglie e la figlia.
Costoro assunsero delle espressioni allibite.
“Cosa sei venuto a fare qui? Non ti basta il male che ci hai arrecato?”
Inquisì ostile Sigrid, rivolgendogli uno sguardo truce.
“Voglio solo chiedere il vostro perdono.”
Sentenziò il generale con dispiacere.
Sigyn gli diede la possibilità di spiegarsi pur essendo titubante.
“Mia adorata figlia: colui che hai deciso di sposare ti rende felice?”
Domandò Bjorn in attesa di una sua risposta.
“Sì padre, più di quanto tu possa credere. Desidero che rispetti tale decisione senza mettere in dubbio i nostri sentimenti.”
L’uomo annuì, abbracciando la giovane.
Piansero commossi, felici di essersi ritrovati.
Loki abbozzò un lieve sorriso, compiaciuto dalla buona riuscita della missione.
Il più bel regalo che avesse mai potuto farle.
Presero posto alla tavolata, venendo serviti da squisite pietanze.
Ovvero coi piatti tradizionali della celebre festività.
La Dea della Fedeltà ebbe modo di conversare con alcuni parenti del consorte.
Si rivelarono gente alla mano, manifestando la propria disponibilità.
I due asgardiani furono lieti di rivedere Balder dopo la recente spedizione ad Alfheim.
Stesso discorso valeva per il cugino.
Si persero in piacevoli chiacchiere, rammentando i bei vecchi tempi passati assieme.
Sigyn dimostrò di essere interessata, udendo attentamente il racconto.
Una narrazione basata da divertenti aneddoti che Loki ritenne a dir poco imbarazzanti.
Preferì rimanere impassibile, versandosi dell’idromele su un calice dorato.
Non poté far a meno di pensare quanto Thor e il brioso parente fossero identici a livello caratteriale.
“Qualcosa non va?”
Chiese la dama dalla chioma serica e lucente, denotando preoccupazione nei suoi confronti.
Il Dio degli Inganni dissentì con un solo cenno del capo.
Ella posò le proprie mani sopra le sue in segno di conforto, venendo ricambiata in un istante.
La festa proseguì con canti, balli ed esibizioni circensi di vario genere.
Fu allora che avvenne il fatidico scambio dei doni.
Ognuno ricevette il proprio, mostrandone l’euforia.
Loki decise di consegnarglielo in privato al termine del banchetto.
La graziosa mogliettina avrebbe fatto altrettanto.
Rincasarono a tarda notte dopo aver rivolto il saluto alle rispettive famiglie.
Il Signore della Menzogna era intento a torturarle la parte laterale del collo con le labbra.
L’Amica della Vittoria sorrise a quell’erotico contatto, emettendo intensi sospiri.
Le eleganti mani del mago vagarono alla ricerca dei lacci per sciogliere il corsetto.
La desiderava più del solito quella sera.
“Splendida.”
Mormorò tra un bacio e un altro, beandosi della liscia e candida pelle della giovane.
Costei si voltò per baciarlo avidamente sulla bocca sottile.
Labbra gelide e ammalianti come il ghiaccio.
Entrambi caddero sopra i setosi cuscini, continuando ad amarsi.
Le ciocche bionde gli solleticarono il volto, facendolo ridacchiare sommessamente.
Sigyn era un balsamo per le sue ferite: un meraviglioso angolo di felicità a cui non avrebbe mai rinunciato.
Ottenerla si rivelò parecchio arduo, ma ne era valsa la pena.
Una bellissima ragazza dall’intelligenza acuta quasi quanto lui.
Una donna forte, tenace e tanto testarda da sedurlo inconsapevolmente.
Una fanciulla che riuscì a scorgere la parte migliore di sé in quella mente così contorta, oscura e machiavellica.
Si sarebbe ostinato a proteggerla dai pericoli circostanti.
Consumarono l’amore, travolti da un accecante turbine di passione...fu lesto a stringerla tra le braccia, evitando di liberarla.
L'ultima volta gli era costato un terribile allontanamento a causa di uno spiacevole equivoco.
Una separazione durata circa otto mesi, rischiando di perderla per sempre.
“Come sei riuscito a convincerlo?”
Domandò improvvisamente la bella vanir, riferendosi all’inaspettato ritorno di Bjorn.
Loki assunse un’aria sorpresa, spiegando per filo e per segno i minuziosi dettagli del piano.
Essere convincente era una delle qualità che caratterizzava il modus operandi del famigerato ingannatore di Asgard.
Renderla felice faceva parte dei suoi gloriosi propositi assieme ad altri progetti di varia natura.
“Questo è il miglior regalo che tu potessi mai fare: grazie per avermi ridato la felicità.”
Sussurrò Sigyn, tracciando alcune linee immaginarie sul torace alabastrino dell’ase.
Il cadetto osò baciarle dolcemente la fronte, ricorrendo all’uso del Seiðr.
Attorno al collo della dama apparve una splendida collana di smeraldi.
Uno dei tanti pegni d’amore che amava donarle in segreto.
“Oh, Loki: è meravigliosa!”
Commentò estasiata, poggiandosi alla testiera del letto per ammirarla.
Eseguì l’identica azione, evocando un pugnale intarsiato da pietre preziose.
Un’arma di pregiata fattura che il marito prediligeva spesso in battaglia oltre la magia.
Lo scrutò incantato, riservandole un sorriso colmo di gratitudine.
“Grazie, piccola: proprio ciò che mi serviva.”
Ringraziò il principe, riponendolo sopra il comodino con delicatezza.
Ripresero a baciarsi, mugolando di estremo piacere.
Una fiamma destinata ad ardere in eterno.
“God Jul, min lille datter av Vanaheim.”
Le augurò nell’antica lingua degli Æsir, perdendosi nelle gemme celesti della sua adorabile sposa.
Uno sguardo penetrante a al contempo avvolgente.
“God Jul, min utspekulerte og forførende trollmann.”
Replicò nello stesso accento, dedicandosi i rispettivi nomignoli.
Dormirono abbracciati e coi cuori colmi di gioia.
Il mattino seguente, Sigyn si svegliò di buon’ora per ammirarne lo splendido panorama.
Esso era ricoperto da singoli strati di neve, donandogli un’aura ancora più fiabesca.
Loki fu il secondo a ridestarsi dal sonno, raggiungendola in pochi attimi.
Le circondò i morbidi e sinuosi fianchi, dandole il buongiorno.
Notò quanto fosse attraente con indosso la vestaglia di seta d’oro.
Tra loro scattò un dolce bacio, guardando infine il bianco paesaggio dalla finestra.
Un magnifico spettacolo che solo la cittadella celeste poteva offrire.
A Vanaheim la neve non esisteva essendo rivolta verso il Sud.
Nientemeno che un regno rigoglioso e florido, costituito da estati perenni.
“Ho sempre sognato di vedere la neve.”
Confessò lei, nonostante vivesse all’interno delle sontuose mura di Valaskjalf da quasi due anni.
Un sogno coltivato sin dalla più tenera età.
“Ed io ho sempre sognato qualcosa di decisamente prezioso.”
Ribatté fiero, indicandola con quegli occhi di lupo che la fecero innamorare.
Iridi sagaci e taglienti da stregarla totalmente.
“E se ci concedessimo un bagno?”
Propose lasciva e maliziosa, lasciando scivolare la veste dorata ai piedi del pavimento.
Il bellissimo corpo nudo della moglie si prospettò dinnanzi alla sua vista, permettendogli di far nascere un nuovo e accecante desiderio.
“Idea alquanto allettante, mia cara.”
Concordò l’astuta divinità, trascinandola dentro l’ampia toeletta con una certa fretta.
Si immersero nella vasca, pronti a consumarne l’amplesso.
Una lussuria impossibile da placare, costituita dal più potente dei sentimenti.
                                                𝑭𝒊𝒏𝒆
One Shot:
  ~ Mischief And Fidelity ~
Name Chapter:
~ God Jul ~
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lamarionettista · 3 years
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Dove va il respiro
Quando la tua presenza
Nelle mie giornate
Si spegne?
Si rintana forse nella terra
Come i fiori d’inverno
Ad aspettare che il disgelo
Mostri un mondo nuovo?
Se sì
Dimmelo
Così che ti si possa ritrovare
Noi tutti
Con una nuova corona
Ma le radici di sempre.
@nina__doli
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chez-mimich · 3 years
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LA CASSŒLA
Oggi ho mangiato un piatto di cassœla. L’ho ordinata “da portar via” (ovvero “take away” per i fighetti e da “asporto” per i burocrati) al bar-ristorante “Corona” (“ristobar” per le shampiste) in centro a Novara. Troppo difficile cucinarla in casa perché, secondo mia moglie, dopo si muore soffocati dall’odore della verza e gli altri condomini del palazzo, “fighetti” pure loro, si indignano, eppure la conosce bene anche lei, milanese di nascita. Una cara amica mi ha detto che a lei “piacerebbe”, però non digerisce la verza. Ma la verza non si deve digerire! Deve “ballare” un po’ sullo stomaco, altrimenti vuol dire che cassœela non è venuta bene. E al gran ballo sullo stomaco devono partecipare anche piedini di maiale, costine, cotenna, ecc. a seconda delle varianti della ricetta. Certo bisogna saperla cucinare ma io credo di saperlo fare, perché mia mamma Angelica la cucinava bene avendo imparato da mia nonna. Inutile che cerchiate, non c’è nessuna foto. Non c’è per scelta. Di solito, quando si mangia un piatto prelibato, ma anche una pizza doc, sui social si pubblica la foto; la foto però non racconta niente, mostra. Invece qui c’è da raccontare, non tanto la storia del piatto, che potete trovare sul “Talismano della felicità”, ma anche su Wikipedia, quello che c’è da raccontare è lo “Zeitgeist” che c’è dietro la cassœla. Un piatto da muratori (il termine potrebbe derivare proprio da “cazzuola”), solo che adesso i muratori mangiano solitamente il “cous cous” o il “tavë kosi”, essendo in gran parte marocchini o albanesi. Diciamo che era un piatto di quando gli italiani facevano anche i muratori. A casa mia nessuno faceva il muratore, ma siccome era anche un piatto povero, lo mangiavamo da poveri. Per essere sinceri non è che lo mangiassero solo i poveri, ma diciamo che i poveri lo mangiavano con più gusto, visto che i ricchi cominciavano a mangiare il “vitel tonné”, così si potevano dare il tono dei francesi, che però il “vitel tonné” non sapevano nemmeno cosa fosse e preferivano la “choucroute”, che altro non è che una versione nordica della cassœla. Va bene, dopo questo sfoggio di cultura culinaria, vi racconto cosa mi ricorda la cassœla: mia nonna davanti alla stufa a legna prima e mia mamma davanti alla “cucina economica” dopo, le piastrelle bianche bagnate dalla condensa, la segatura per terra nelle trattorie quando fuori pioveva, l’odore del carbone per la strada nelle mattine d’inverno, i passaggi a livello nella nebbia, il senso di sazietà e di felicità. Insomma quel sentimento di godimento dei sensi, “l’effetto-aglione”, come lo chiamava Guccini in “Cronache Epafaniche” (o l’effetto-Madeleine per quelli che hanno fatto il Classico). Altro che apericena milanesi in Corso Como, meglio una cassœla al Binari, da Arlati o al Cantinone nella versione meneghina (prima che anche in questi posti arrivassero i designer e la fashion week). Va beh, per non tirarla troppo lunga e in attesa che la cassœla finisca di ballare, un consiglio alle donne: imparate a farla, perché agli uomini piace molto di più dell’acido iarulonico. Altrimenti compratevi il “Trattato di culinaria per donne tristi” di Héctor Abad Faciolince e non lamentatevi se non troverete marito (o se una volta trovato, lo perderete).
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diceriadelluntore · 5 years
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Santa Lucia
in foto: Seppellimento di Santa Lucia, opera di Caravaggio (1608). Chiesa di Santa Lucia alla Badia, Piazza Duomo, Siracusa.
Oggi la chiesa cattolica e ortodossa festeggiano Santa Lucia, martire cristiana del IV sec., patrona di Siracusa. La sua vicenda rientra nella tradizione martirologica siciliana e completa una triade di sante donne siciliane, con Agata per Catania e Rosalia per Palermo, unica nel panorama europeo.
Gli Acta martyrum narrano di una giovane, Lucia, orfana di padre, appartenente a una ricca famiglia siracusana e promessa in sposa a un pagano. Lucia in segreto si era battezzata e convertita alla religione cristiana. La madre di Lucia, Eutichia, era ammalata da tempo. Lucia ed Eutichia vanno in pellegrinaggio a Catania al sepolcro di sant'Agata, affinché intercedesse per la guarigione della donna. Secondo il martirologio “Durante la preghiera Lucia si assopì e vide in sogno Agata dirle: Lucia, perché chiedi a me ciò che puoi ottenere tu per tua madre? “. Nella visione Agata le preannunciava anche il martirio e il suo patronato sulla città. Ritornata a Siracusa, constatata la guarigione di Eutichia, Lucia comunicò alla madre la sua ferma decisione di consacrarsi a Cristo e di donare tutti i suoi averi ai poveri. Il pretendente, insospettito e preoccupato nel vedere la desiderata sposa donare tutto il suo patrimonio, verificato il rifiuto di Lucia, la denunciò come cristiana. Erano in vigore i decreti di persecuzione dei cristiani emanati dall'imperatore Diocleziano.
Lucia sostenne un processo dinanzi all'arconte Pascasio, attestando la sua fede e  proclamandosi cristiana. Minacciata di essere esposta tra le prostitute, Lucia rispose: "Il corpo si contamina solo se l'anima acconsente". Secondo gli Atti Pascasio ordinò che la giovane fosse costretta con la forza, ma lei diventò miracolosamente così pesante, che né decine di uomini né la forza di buoi riuscirono a spostarla. Lucia allora fu sottoposta al supplizio del fuoco, ma ne rimase totalmente illesa, sicché infine, piegate le ginocchia, fu decapitata, o secondo le fonti latine, le fu infisso un pugnale in gola.
Nell’iconografia popolare, soprattutto durante la dominazione Spagnola in Sicilia, si diffuse la leggenda che a Lucia furono cavati gli occhi e che le fossero ricomparsi miracolosamente: l'emblema degli occhi sulla coppa, o sul piatto, sarebbe da ricollegarsi, semplicemente, con la devozione popolare che l'ha sempre invocata protettrice della vista a motivo del suo nome Lucia (da Lux, luce).
Attestato dalla testimonianza scritta di un testimone oculare come il miracolo della fine della carestia dell'anno 1646, domenica 13 dicembre 1646, una quaglia fu vista volteggiare dentro la Cattedrale di Siracusa durante la Messa. Quando la quaglia si posò sul soglio episcopale, una voce annunciò l'arrivo al porto di un bastimento carico di cereali. La popolazione vide in quella nave la risposta data da Lucia alle tante preghiere che a lei erano state rivolte.
Il Culto liturgico si celebra il 13 Dicembre, che prima dell’introduzione del calendario gregoriano (1582) cadeva proprio il giorno del solstizio d’inverno, rendendo all’epoca esatto il proverbio “santa Lucia il giorno più corto che ci sia”.  Per una casuale coincidenza il 13 dicembre è comunque collegato ad un fenomeno astronomico, ossia con il giorno dell'anno in cui il sole tramonta prima: dopo tale giorno il tramonto avviene ogni giorno più tardi; ciò nonostante, anche dopo il 13 dicembre le giornate continuano ad accorciarsi.
A Siracusa i solenni festeggiamenti durano 8 giorni, dal 13 al 20 Dicembre. C’è un collegamento molto particolare tra Siracusa e la Svezia: forse reduci da una visita per il Grand Tour, alcune famiglie aristocratiche svedesi nel 1700 introdussero l’usanza di vestire il 13 Dicembre la figlia maggiore come santa Lucia e che servisse la colazione ai genitori a letto. La ragazza porta in testa una corona di candele accese, in ricordo della luce del Cristo che scese sulla santa. Dal 1927 dopo che un quotidiano di Goteborg propose un concorso su Miss santa Lucia, ogni anno viene scelta una Lucia che dalla Svezia partecipa alla festa della santa di Siracusa.
Danta Alighieri nella Divina Commedia più volte cita la santa: lo stesso poeta nel Convivio si dice devoto alla santa che per sua intercessione gli curò una malattia agli occhi. Il passo però che più mi piace è un piccolo poemetto di Federico Garcia Lorca:
Sulla porta lessi questo cartello: locanda Santa Lucia. Santa Lucia era una bella ragazza di Siracusa. La pitturano con due bellissimi occhi di bue su un vassoio. Sopportò il supplizio sotto il consolato di Pascasiano che aveva i baffi di argento e ululava come un cane da guardia. Come tutti i santi, propose e risolse teoremi deliziosi, di fronte ai quali gli apparecchi di fisica spaccano i loro vetri. Dimostrò sulla pubblica piazza, di fronte alla sorpresa del popolo, che 1000 uomini e 50 paia di buoi non vincono la colombella sfavillante dello Spirito Santo. Il suo corpo, il suo corpaccio, diventò di piombo premuto. Nostro Signore, sicuramente, stava seduto con lo scettro della corona sulla sua cintura. Santa Lucia era una ragazza alta, col seno piccolo i fianchi larghi. Come tutte le donne selvagge, e di occhi troppo grandi, da uomo, con una molesta luce scura. Spirò su un letto di fiamme.
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thekitchentube · 5 years
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🌞 Tanto tempo fa, d’estate, quando ancora non era disponibile tutta questa scelta di preparati al pomodoro, c’era la tradizione di preparare in casa la conserva di Pomodoro, che poi sarebbe servita per i mesi invernali. Si cominciava una settimana prima, andando a prendere le cassette di san Marzano 🍅 nei campi della campagna romana, dove ancora a raccogliere erano operai italiani o giovani studenti in cerca di guadagni per le vacanze. Poi, una bella mattina di Luglio, cominciava la kermesse di due giorni all’aperto sul terrazzo assolato… pentoloni di Pomodori che bollivano sui fuochi a gas emanando il profumo leggermente pungente delle bucce calde, alimentavano una catena di montaggio tutta familiare, in cui si passava poi la polpa nella macchina raccogliendola ancora calda e fumante in bottiglie di vetro colorato, accuratamente lavate e messe da parte. Prima di chiuderle con il tappo a corona, si infilava nel collo, sopra la polpa, una fogliolina di Basilico fresco ed un cucchiaino di Olio. Le bottiglie poi venivano avvolte in stracci e bollite in altri pentoloni prima di essere pronte per finire in dispensa. Tutti erano impegnati nella produzione, ognuno col suo compito . A me spettava, appunto, quello di infilare la fogliolina di Basilico e quel profumo di polpa di Pomodoro calda e Basilico, assieme a quello di casa, è ancora così vivido nella mia memoria da poterlo richiamare anche nelle più fredde serate d’inverno, dovunque io mi trovi. Forse oggi, abituati alle conserve commerciali, non riuscite ad immaginare il profumo ed il gusto di quel Pomodoro, quando poi durante i mesi più freddi si apriva quel tappo a corona e si condiva un semplice piatto di Spaghetti con quel succo, non prima di aver usato un pezzetto di Pane per assaggiare… Ecco, oggi io ho cercato semplicemente di ricreare quella sensazione con questo semplicissimo piatto di pasta fredda al Pomodoro e Basilico, usando la polpa dei frutti solo scottati, poi sbucciati e privati dei semi. I filetti di Pomodoro a pezzetti poi si lasciano insaporire per un’ora circa con Olio Extravergine, uno spicchio di Aglio fresco e Basilico, prima di poter accogliere la Pasta. Da provare, no? 🙋‍♂️🙋‍♀️😘 (presso Merano, Italy) https://www.instagram.com/p/BzAc7MaIEU-/?igshid=1o0i3pdlpmc3l
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valhallarealm · 2 years
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Pagan Pills | Il Solstizio d'Inverno è una festa di rinnovamento della vita anche tramite contatto sessuale
Pagan Pills | Il Solstizio d’Inverno è una festa di rinnovamento della vita anche tramite contatto sessuale
Corona solstiziale in copertina fatta da Silvia T. Il 21 dicembre è il giorno del Solstizio d’Inverno in cui si entra ufficialmente nella stagione invernale. La parola solstizio significa “sol stetit” che significa “il sole si ferma”. In due giorni dell’anno, uno alla fine di dicembre e uno alla fine di giugno, l’asse terrestre raggiunge il massimo grado di inclinazione rispetto al sole. Il…
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storiedellarte · 6 years
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Giorgione, Concerto, c. 1507, Venezia, Gallerie dell’Accademia (in deposito da collezione privata)
PER CINQUE ANNI avremo un Giorgione in più a Venezia. Le Gallerie dell’Accademia da oggi offrono l’occasione straordinaria di studiare in uno spazio pubblico il “Concerto Mattioli” di Giorgione, che gli attuali proprietari hanno lasciato in deposito al museo veneziano. E, subito, per un mese, il Concerto sarà esposto accanto alla Tempesta e alla Vecchia, prima che questa vada in restauro. Avremo così, una accanto all’altra tre opere di Giorgione appartenute al mitico “camerino delle antigaglie” di Gabriele Vendramin.
Nel giorno in cui a Venezia si celebra con Giorgione il bicentenario della prima apertura al pubblico delle Gallerie dell’Accademia come non segnalare finalmente l’uscita dei volumi di Alessandro Ballarin (Giorgione e l’Umanesimo veneziano, 7 tomi, Edizioni dell’Aurora, 2016–2018), che si sono presentati il 28 maggio a Milano, alla Pinacoteca di Brera. Se non altro almeno per ricordare che l’identificazione del Concerto Mattioli con il quadro già della collezione Vendramin è proposto da Ballarin già nel 1981–1982 (vedi tomo 1, pp. 181, 229–234). Un dipinto fondamentale per la sua ricostruzione dell’ultima attività del maestro di Castelfranco.
Il Giorgione di Ballarin, un’opera attesa da così tanto tempo che sembrava impossibile potesse uscire un giorno. L’avevamo annunciata esattamente sette anni fa, appena pubblicato il Leonardo a Milano. Sette anni come i sette tomi usciti ora dalle Grafiche Aurora di Verona. Finiti, ma non stampati tutti. L’ultimo non era ancora stampato qualche settimana fa, subito dopo la presentazione a Brera. Dopo i primi sei tomi è finita la carta. Bellissimo! Come se la tipografia volesse darci il senso del tempo, della fatica e della mole di questo lavoro, che raccoglie e riordina gli scritti di Alessandro Ballarin e mette in scena un immenso racconto, per immagini, didascalie, cronologie e indici de La pittura a Venezia negli anni di Giorgione e del giovane Tiziano (1485–1524), come recita il sottotitolo dell’occhiello che apre il saggio introduttivo di presentazione al Giorgione e l’Umanesimo veneziano.
Indice del primo tomo
Presentazione dell’opera
Sette anni fa non mi riuscì un’intervista sui volumi altrettanto freschi di stampa dedicati a Leonardo a causa, appunto, del cantiere-Giorgione che si era appena avviato. Oggi nemmeno ci provo: da intervistatore, lo so, finirei per essere intervistato dall’autore del Giorgione, che vorrebbe sapere come la vita supera la letteratura e ti porta a guardare con dolore i propri amori di lontano.
«Non si può capire Giorgione a vent’anni!» Non possono non risuonarmi in testa le parole di una vecchia conferenza ferrarese in cui, come in questo libro, per il suo autore la vita è la ricerca. E ora verrebbe da rispondere come continuare ad amare Giorgione a cinquant’anni, quando non credi più a nulla, se non sognandolo o, di lontano, continuare a sentire la pittura, cioè l’emozione, come diceva Bianchi Bandinelli, per la “forma artistica” punto di partenza per l’intuizione critica.
Il Giorgione è un’opera molto complessa composta con apparente semplicità in due tomi di saggi e cinque di tavole «per lo più a colori». La presenza, nel frontespizio, di tre curatrici, Laura De Zuani, Sarah Ferrari e Marialucia Menegatti, che aveva curato anche il Leonardo a Milano, sta proprio a segnalare la difficoltà dell’impresa e la quantità di energie che sono servite per poterla realizzare. Nei primi due tomi sono raccolti i saggi sulla pittura veneziana scritti dagli anni Sessanta del Novecento ad oggi, dal Palma il Vecchio (1965) dei gloriosi Maestri del Colore Fabbri e dal Tiziano, l’amato “Tizianino” (1968), dei Diamanti dell’arte Sansoni alle schede della mostra Le siècle de Titièn al Louvre (1993) nel primo tomo. Nel secondo trovano posto invece la riedizione de La compagnia degli amici (Einaudi, 1982) seguita dai saggi allora rimasti inediti dedicati al rapporto di Giorgione e i suoi due “creati” con la cultura filosofica e filologica dei loro committenti negli anni attorno e subito dopo l’anno 1500.
Piano dell’opera
L’indice dei tomi di tavole dà l’idea della vastità dell’impianto narrativo con cui è costruita questa sezione, che immaginiamo ricca di novità e di imperdibili sottigliezze.
Se il Leonardo a Milano poteva apparire, con un sorriso, un anti-ebook, quest’opera pare infischiarsene degli ebook e del digitale, che sembra essere piegato ad una forma nuova che ha assorbito i vecchi dattiloscritti, gli album fotografici, i caricatori stipati di diapositive e i pesantissimi Power-Point delle lezioni universitarie per farsi qualcos’altro.
Anche se, personalmente, continuo a preferire saggi che si tengono in mano o nella tasca della giacca per averceli nei momenti in cui ci si deve difendere e che si leggono come un romanzo o come il petrarchino di un celebre dipinto di Giorgione (o come il Giorgione di Morassi), mi rendo conto però che questo Giorgione è molto di più di una raccolta di saggi, sembra costruito per lottare con il tempo perduto. E con il tempo a venire.
Un’opera che affonda le radici nella connoisseurship di fine Otto e inizio Novecento e sembra voler dialogare piuttosto che con noi con i grandi del passato e del futuro, con i Berenson Bode Suida Gronau Longhi Morassi Wind Panofsky Warburg ecc. del passato e del futuro. Oppure, fuori da qualsiasi schema, preferisce dialogare solo con l’occhio di un grande fotografo come Mauro Magliani. Non solo una provocazione, anche una indicazione di metodo che meno teorica di così non si potrebbe:
Lavorare con Magliani è stata una grande esperienza: ho sicuramente imparato molto da queste lunghe frequentazioni assieme della grande pittura, dal circuito delle emozioni, che quando si realizza di fronte ai capolavori con i quali ci siamo confrontati, ti lega per sempre, dalle discussioni sui tagli, dove i tagli che io avevo in mente e che erano quelli spesso già impaginati sui powerpoints dell’opera, si mettevano a confronto con quelli tutti diversi individuati dal suo occhio, dall’insaziabile desiderio suo, e naturalmente anche mio, ma forse piú suo che mio, di documentare tutti i passaggi del dipinto, fino alla scoperta di un particolare fino ad allora sfuggito all’attenzione degli studî e tale da poter dire di piú, anche a me, sulla considerazione dell’insieme. Memorabile al riguardo è stato il momento in cui Magliani ha messo gli occhi sull’acqua del Giordano nel Battesimo di Cristo di Santa Corona, a partire dal primo piano quando lambisce un tratto di sabbia screziata da una miriade di ciottoli, per finire nelle anse del fiume alla chiusura della vallata dove la condotta appena sfocata della materia nei declivî delle colline e nella trasparenza dell’acqua, evoca un effetto di foschia che sembra salire dal fiume. Ma che cosa dire della temperatura delle emozioni quando ci siamo trovati con la macchina da presa di fronte alla Vecchia, alla Tempesta, alla pala di Castelfranco? E come dimenticare quel giorno che non finiva piú in cui abbiamo fotografato l’Assunta, un giorno d’inverno con fuori una tempesta di neve che non consentiva neppure di aprire la porta della basilica per andare a prendere qualcosa di caldo, scavalcato il ponte, nel caffè di fronte. D’altra parte quasi tutte le riprese che abbiamo fatto sono entrate nei cinque volumi di quest’opera, per cui si può vedere di volta in volta, dalle immagini, quali siano state le emozioni forti che abbiamo condiviso nelle campagne fotografiche di questo Giorgione. Quanto al mio apporto nei suoi confronti, se posso parlare nella veste di vecchio professore della disciplina, direi che Magliani esce da questa esperienza rinforzato nelle sue attitudini di storico dell’arte, e di conseguenza anche nelle sue attitudini di grande fotografo.
Alessandro Ballarin, Giorgione e l’Umanesimo veneziano con la collaborazione di Laura De Zuani, Sarah Ferrari, Marialucia Menegatti Edizioni dell’Aurora, Verona, 2016-2018 7 tomi, pp. ca. 1650., ill. a colori ca. 3500, ca. 500 b.n. ISBN: 9788897913658
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Il “Giorgione” di Alessandro Ballarin, un amore di lontano PER CINQUE ANNI avremo un Giorgione in più a Venezia. Le Gallerie dell’Accademia da oggi offrono l’occasione straordinaria di studiare in uno spazio pubblico il “Concerto Mattioli” di Giorgione, che gli attuali proprietari hanno lasciato in deposito al museo veneziano.
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mario-fresa73 · 4 years
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I veri libri di poesia si compongono furiosamente e felicemente in un tedioso mattino d’inverno, sognando Sade e Lautréamont e la musica di Johann Sebastian Bach. Il rapporto tra la parola e l’immagine, o meglio la lotta tra il senso di un’immagine immediata e una metafonia che ne stravolge (sovvertendolo) il profondo significato è un tema forte e ricorrente nella poesia di Mario Fresa e, in particolare, nel suo ultimo, magnifico libro intitolato “Bestia divina” (saggio introduttivo di Andrea Corona, La scuola di Pitagora editrice, 2020).
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lhosgabello · 4 years
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WAKE ME UP WHEN CORONA ENDS State comodi. Tanto qui ci liberano tutti ma la situazione ancora non si è risolta. Noi abbiamo deciso di ricominciare ma con tutte le precauzioni del caso. Niente corse contro il tempo ma ogni cosa a tempo debito. Poltrona MORTICIA. L’immagine del relax, del tagliare le rose ad una ad una per conservare solo il gambo con le spine. Ha qualche segno del tempo ma nessun problema strutturale. Decorazione bicolore e un certo spirito “dark”. Una veranda con stile o un giardino d’inverno la deve assolutamente contenere. Intanto la conserviamo in bella mostra nella veranda di Casa Brambilla. Condizioni vintage ottime. Dimensioni: 100x152cm h seduta 46cm diametro seduta 48cm Prezzo: 280euro #poltrona #pavone #seduta #midollino #intrecci #rattan #interiordesign #peacockchair #junglevibes #giardinoinverno #famigliaaddams #poltronamorticia #homedecor #modernariato #addamsfamily #wakemeupwhencoronaends #greenday #lhosgabello (presso L'ho Sgabello) https://www.instagram.com/p/CASRpyPFPxO/?igshid=16q0h5u81rdau
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freedomtripitaly · 4 years
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La città di Andria è una delle mete più incantevoli nella Puglia centrale. Ricca di storia e di arte è conosciuta anche come la “Città dei tre campanili”, oltre che “Città Federiciana” per il suo profondo legame con Federico II di Svevia. Simbolo della città è Castel del Monte, che rappresenta anche uno dei complessi architettonici più noti della Puglia, che si erge su una collina poco fuori dall’abitato, nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia, uno dei Patrimoni dell’Umanità UNESCO. Ecco alcuni consigli per esplorare ed immergervi nella suggestiva città di Andria. Andria: cosa vedere La città sorge sul pendio inferiore delle Murge, a 151 metri sul livello del mare e a 10 km dal mare Adriatico. Le prime tracce di insediamenti nel territorio di Andria risalgono al Neolitico. Colonizzata dagli Ellenici, la città entrò a far parte dei possedimenti normanni e nel XIII secolo fu parte del dominio svevo e residenza del re Federico II, che fece costruire il famoso Castello, sul sito della precedente abbazia benedettina normanna. È forte l’influenza dell’Imperatore, con monumenti giunti fino a noi, come l’Arco di Federico I, ma non solo. Oggi nel suggestivo centro storico di Andria, è possibile ammirare anche le chiese e le torri risalenti al periodo angioino e aragonese, come la Torre dell’Orologio e la Chiesa di San Domenico. Andria e Castel del Monte Castel del Monte è una fortezza del XIII secolo fatta costruire dall’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II, nell’odierna frazione omonima del comune di Andria, a 17 km dalla città. Uno dei siti più visitati in Italia e scelto come simbolo per la moneta da 1 centesimo di euro coniata nello stato italiano. Luogo intriso di fascino e mistero, set scenografico per numerosi film come Il nome della rosa, Il racconto dei racconti, King Arthur – Il potere della spada etc… Da sempre ha solleticato le fantasie di racconti e leggende. L’edificio è a pianta ottagonale e su ognuno degli otto spigoli si innestano otto torri della stessa forma nelle cortine murarie realizzate in pietra calcarea. Il cortile, di forma ottagonale, è contraddistinto, come tutto l’edificio, dal contrasto cromatico proveniente dall’utilizzo di breccia corallina, pietra calcarea e marmi. In passato vi erano collocate anche antiche sculture. Oggi è giunta sino a noi solo la lastra che simboleggia il Corteo dei cavalieri ed un frammento di figura antropomorfa. Le forme architettoniche e le sculture negli interni del castello ottagonale, risentono delle influenze dell’edilizia francese e di quella cistercense. Le decorazioni negli interni riproducono creature mitologiche e motivi vegetali. Tutto l’edificio è intriso di simbolismi che nei secoli e ancora oggi continuano ad appassionare gli studiosi. L’ottagono rappresenta l’infinità del cielo, mentre sulle due colonne che fiancheggiano il portale di ingresso sono presenti due leoni, che raffigurano il solstizio d’estate e d’inverno. La pianta della costruzione rappresenta una corona le cui punte toccano il cielo, un ottagono in pietra la cui altezza lo eleva a 540 metri sul mare, una bellezza architettonica di rilevanza storica, realizzata con rigore matematico ed astronomico. Un connubio simbolico di forme armoniche che uniscono gli elementi culturali del nord Europa, a quelli del mondo islamico a quelli dell’antichità classica e nello stesso tempo, un esempio tipico e iconico di architettura del Medioevo. Visitare Andria e dintorni Andria offre un centro storico complesso e ricco, dove, tra i luoghi di fede affascinanti e caratteristici, ricordiamo la Chiesa di Sant’Agostino, costruita nel XIII secolo dai Cavalieri templari, che passò in seguito ai Benedettini ed infine agli Agostiniani. Degno di nota il portale gotico realizzato nel XIV secolo e l’interno barocco. La Cattedrale di Santa Maria Assunta è il più importante luogo di culto cattolico della città. Fu realizzata per volere di Goffredo d’Altavilla, signore di Andria, tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII secolo. Punto ideale per accedere al centro storico di Andria è porta S. Andrea, o Arco di Federico II, l’unica porta ancora in piedi dopo l’unità d’Italia quando vennero demolite tutte le altre. Nelle vicinanze è situata la chiesa di S. Francesco costruita tra il XIII e XIV secolo, rivisitata e ristrutturata nel ‘700 in stile barocco. È nota la bellezza del suo campanile. Molto rappresentativo, il Palazzo Comunale, edificato dopo il ritorno di Federico II di Svevia dalla sesta crociata, nel 1230. Dal 1813 su decreto di Gioacchino Murat, Re delle due Sicilie divenne l’attuale sede del comune di Andria. A pochi chilometri dal centro cittadino, sospesa tra uliveti e vigneti si trova la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, costruita nel ‘500 sulla grotta dedicata a Santa Margherita, utilizzata dai monaci basiliani. Il suo interno è rinascimentale con volte in legno dorato. Nella cripta è presente un affresco di Madonna con Bambino che appartiene al XIV secolo. Sempre nei dintorni del centro cittadino di Andria, nelle campagne, risiede la cripta di S. Croce, scavata nel tufo. Suddivisa in due navate riporta ancora alle pareti degli affreschi in stile bizantino. Una visita ad una città sospesa nel tempo come Andria è d’obbligo quando si arriva in Puglia! Tra il suggestivo Castello, il centro storico e la campagna che riporta testimonianze di edifici secolari. https://ift.tt/2SFR2dS Andria, in Puglia: cosa vedere di questa affascinante città La città di Andria è una delle mete più incantevoli nella Puglia centrale. Ricca di storia e di arte è conosciuta anche come la “Città dei tre campanili”, oltre che “Città Federiciana” per il suo profondo legame con Federico II di Svevia. Simbolo della città è Castel del Monte, che rappresenta anche uno dei complessi architettonici più noti della Puglia, che si erge su una collina poco fuori dall’abitato, nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia, uno dei Patrimoni dell’Umanità UNESCO. Ecco alcuni consigli per esplorare ed immergervi nella suggestiva città di Andria. Andria: cosa vedere La città sorge sul pendio inferiore delle Murge, a 151 metri sul livello del mare e a 10 km dal mare Adriatico. Le prime tracce di insediamenti nel territorio di Andria risalgono al Neolitico. Colonizzata dagli Ellenici, la città entrò a far parte dei possedimenti normanni e nel XIII secolo fu parte del dominio svevo e residenza del re Federico II, che fece costruire il famoso Castello, sul sito della precedente abbazia benedettina normanna. È forte l’influenza dell’Imperatore, con monumenti giunti fino a noi, come l’Arco di Federico I, ma non solo. Oggi nel suggestivo centro storico di Andria, è possibile ammirare anche le chiese e le torri risalenti al periodo angioino e aragonese, come la Torre dell’Orologio e la Chiesa di San Domenico. Andria e Castel del Monte Castel del Monte è una fortezza del XIII secolo fatta costruire dall’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II, nell’odierna frazione omonima del comune di Andria, a 17 km dalla città. Uno dei siti più visitati in Italia e scelto come simbolo per la moneta da 1 centesimo di euro coniata nello stato italiano. Luogo intriso di fascino e mistero, set scenografico per numerosi film come Il nome della rosa, Il racconto dei racconti, King Arthur – Il potere della spada etc… Da sempre ha solleticato le fantasie di racconti e leggende. L’edificio è a pianta ottagonale e su ognuno degli otto spigoli si innestano otto torri della stessa forma nelle cortine murarie realizzate in pietra calcarea. Il cortile, di forma ottagonale, è contraddistinto, come tutto l’edificio, dal contrasto cromatico proveniente dall’utilizzo di breccia corallina, pietra calcarea e marmi. In passato vi erano collocate anche antiche sculture. Oggi è giunta sino a noi solo la lastra che simboleggia il Corteo dei cavalieri ed un frammento di figura antropomorfa. Le forme architettoniche e le sculture negli interni del castello ottagonale, risentono delle influenze dell’edilizia francese e di quella cistercense. Le decorazioni negli interni riproducono creature mitologiche e motivi vegetali. Tutto l’edificio è intriso di simbolismi che nei secoli e ancora oggi continuano ad appassionare gli studiosi. L’ottagono rappresenta l’infinità del cielo, mentre sulle due colonne che fiancheggiano il portale di ingresso sono presenti due leoni, che raffigurano il solstizio d’estate e d’inverno. La pianta della costruzione rappresenta una corona le cui punte toccano il cielo, un ottagono in pietra la cui altezza lo eleva a 540 metri sul mare, una bellezza architettonica di rilevanza storica, realizzata con rigore matematico ed astronomico. Un connubio simbolico di forme armoniche che uniscono gli elementi culturali del nord Europa, a quelli del mondo islamico a quelli dell’antichità classica e nello stesso tempo, un esempio tipico e iconico di architettura del Medioevo. Visitare Andria e dintorni Andria offre un centro storico complesso e ricco, dove, tra i luoghi di fede affascinanti e caratteristici, ricordiamo la Chiesa di Sant’Agostino, costruita nel XIII secolo dai Cavalieri templari, che passò in seguito ai Benedettini ed infine agli Agostiniani. Degno di nota il portale gotico realizzato nel XIV secolo e l’interno barocco. La Cattedrale di Santa Maria Assunta è il più importante luogo di culto cattolico della città. Fu realizzata per volere di Goffredo d’Altavilla, signore di Andria, tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII secolo. Punto ideale per accedere al centro storico di Andria è porta S. Andrea, o Arco di Federico II, l’unica porta ancora in piedi dopo l’unità d’Italia quando vennero demolite tutte le altre. Nelle vicinanze è situata la chiesa di S. Francesco costruita tra il XIII e XIV secolo, rivisitata e ristrutturata nel ‘700 in stile barocco. È nota la bellezza del suo campanile. Molto rappresentativo, il Palazzo Comunale, edificato dopo il ritorno di Federico II di Svevia dalla sesta crociata, nel 1230. Dal 1813 su decreto di Gioacchino Murat, Re delle due Sicilie divenne l’attuale sede del comune di Andria. A pochi chilometri dal centro cittadino, sospesa tra uliveti e vigneti si trova la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, costruita nel ‘500 sulla grotta dedicata a Santa Margherita, utilizzata dai monaci basiliani. Il suo interno è rinascimentale con volte in legno dorato. Nella cripta è presente un affresco di Madonna con Bambino che appartiene al XIV secolo. Sempre nei dintorni del centro cittadino di Andria, nelle campagne, risiede la cripta di S. Croce, scavata nel tufo. Suddivisa in due navate riporta ancora alle pareti degli affreschi in stile bizantino. Una visita ad una città sospesa nel tempo come Andria è d’obbligo quando si arriva in Puglia! Tra il suggestivo Castello, il centro storico e la campagna che riporta testimonianze di edifici secolari. Andria è un’affascinante cittadina pugliese ricca di storia, edifici religiosi e monumenti di grande interesse come il misterioso Castel del Monte.
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Le storie si raccontano da quando esiste la parola, e priva di storie la razza umana sarebbe perita, come sarebbe perita priva d’acqua» dice un personaggio di questi Ultimi racconti, frase che possiamo leggere come un codicillo testamentario. Tutta l’opera della Blixen presuppone infatti che il narrare storie corrisponda a una nostra esigenza primordiale, a un desiderio che va costantemente nutrito, se non vogliamo che la vita stessa si inaridisca. Ed è un desiderio demoniaco, l’invito a un «gioco spietato e crudele». Quanto alle domande sulle cose ultime, per la Blixen non era opportuno, né adeguato, rispondervi con un qualche concetto o sentenza, ma con una storia. E nessuna vera storia pretenderà mai di essere in sé la risposta, ma rimanderà sempre a un’altra storia: fondamento della vocazione della letteratura a non avere mai fine. Su questo presupposto Karen Blixen concepì un «romanzo» che doveva essere composto di cento racconti intrecciati e sarebbe stato la corona della sua opera. Non giunse a compierlo, ma la prima, mirabile parte di questi Ultimi racconti – pagine in cui la Blixen si è avvicinata come mai prima a pronunciare il segreto della sua arte – contiene sette storie che sarebbero dovute appartenere a quel libro dallo strano titolo: Albondocani, nome di un principe italiano derivato da quello di un sultano delle Mille e una notte, personaggio che sarebbe apparso e scomparso più volte nel corso del libro. Se il grande progetto della Blixen non giunse a compiersi (e avrebbe mai potuto?), tutta la sua opera compiuta va però vista nella sua luce: come un’architettura aerea e sapientemente ponderata, dove alcune parti sono rimaste da costruire, ma altre sono cesellate in ogni dettaglio. Così anche gli altri racconti che compongono questo libro, pubblicato nel 1957, cinque anni prima della morte dell’autrice, si riallacciano alle «storie gotiche» e ai «racconti d’inverno», quali nuovi anelli di un’unica catena, quali nuovi intarsi di una cornice che avrebbe avuto al centro una piccola pezza di lino immacolato, quel silenzio che sta al di là di tutte le storie e tutte le vere storie evocano... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/B0-IT3MHpUI/?igshid=1e9zpwx2y8fad
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serafinomariastagno · 4 years
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Pornosophia / 5
Nebbia e alberi spogli. Una cerniera lampo che non vuole scendere sulla schiena del pomeriggio. Si cammina fianco a fianco, io e Stalker, trascinando le ombre sulle strisce pedonali. Stalker è il mio migliore amico e fa il regista. Lo chiamo così perché è un grande estimatore di Tarkovsky, anche se poi di Tarkowsky ha preso solo i baffi. Ha iniziato a girare i suoi primi film a quindici anni, in super8 millimetri, e dopo tanti anni prosegue ancora nella sua arte. Avanguardia decadente assemblata nel sottoscala di una soffitta, destinata ai festival più sperimentali
Offrimi una sigaretta
Ma se non fumi
Offrimela lo stesso
Stalker, amico mio… Quanto sarebbe vuota questa città, e quanto sarebbero desolanti le mie camminate, se tu non fossi qui. Da 20 anni io e te ci raccontiamo le nostre vite lungo il corso del fiume. D’inverno passiamo sotto l’occhio arrugginito dei vecchi gasometri, lasciando che la nebbia entri nei nostri cappotti. D’estate inseguiamo le urla dei gabbiani fino ad inoltrarci nel parco, per poi farci un caffé al chiosco dei vecchi innamorati. In tutto questo tempo siamo saltati infinite volte dallo stesso aereo, sorvolando isole magnifiche. E ogni volta abbiamo contato fino a 5 prima di tirare il gancio, e abbiamo sentito il paracadute aprirsi sopra di noi, e abbiamo riso e gridato nell’aria purissima. Eppure, per un sortilegio che non posso comprendere, non siamo mai atterrati oltre la pista di decollo.
Ma non si fa così… Così non la respiri
E chi se ne frega, a ma basta sputare fumo. Mi è sempre piaciuta questa cosa del fumo che esce dalla bocca…
E allora me la fumo io, e ti passo un paio di note
La nostra amicizia è una sola interminabile camminata, iniziata ai tempi del liceo, senza stabilire alcuna meta. Si parla e si ride, ci si provoca e ci si consola, seguendo il corso dell’acqua. Il fiume che si travasa nel mare, la città che si travasa nel silenzio. Ci fermiamo al centro del ponte, pieghiamo i gomiti sul parapetto e restiamo immobili, a fissare l’acqua. Qualcuno ha buttato una poltrona nel fiume. Una vecchia poltrona di velluto rosso che emerge dalle rapide, incagliata tra i sassi. C’è un re invisibile seduto sopra, in pompa magna, con la sua corona d’oro e la sua stola d’ermellino. Mi pare di vederlo, quel sovrano impassibile, mentre il fiume lavora per strappare il suo trono. Mentre i gabbiani tutto intorno gridano “vendetta”!
(continua…)
Serafino Maria Stagno
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pangeanews · 4 years
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Sonata doppia in memoria di Fabrizio De André, il cantautore degli amori perduti, sempre “in direzione ostinata e contraria”
Il 18 febbraio 1940 nasceva a Genova Fabrizio De André: poeta, cantante, musicista, scrittore, uomo di una sensibilità davvero fuori dal comune. Riferimento imprescindibile e riconosciuto di un folto gruppo di grandi cantautori italiani che grazie a lui acquisirono ed in alcuni casi condivisero la straordinaria capacità di essere testimoni ed interpreti del loro tempo: De Gregori, Fossati, Guccini, Vasco Rossi, Battiato, Vecchioni su tutti.
Il percorso artistico di De André nasce ascoltando i dischi, donatigli dal padre, dei grandi chansonniers francesi a partire da Georges Brassens, ma è forse il primo dei nostri interpreti a percepire le trasformazioni di un mondo globalizzato, e qui sta la sua grande attualità, senza esserne omologato e senza perdere anima e radici. Egli viceversa procederà sempre “in direzione ostinata e contraria”: anarchico, paladino degli ultimi, esponente della musica etnica e dialettale come linguaggio universale. La voce di un cantastorie dalla sensibilità così umana da sembrare fuori dal tempo e intensa come un romanzo di formazione di Kafka, severo, diretto, “etico” e sempre a cavallo tra tenerezza ed ironia. Una voce stentorea per dare anima alla rabbia per le ingiustizie sociali ma un uomo che, con il suo sguardo puro sul mondo, insegnava a non giudicare mai ma a cercare di capire gli altri e contemporaneamente ad accettare le debolezze di ognuno di noi. Un timbro di voce inconfondibile che era una cosa sola con lo sguardo un po’ triste, la sigaretta sempre accesa ed il ciuffo sull’occhio sinistro.
*
Ha cantato l’amore e la morte con la stessa capacità di descriverne ogni stato d’animo, ogni sfaccettatura, ogni dettaglio. Nella sua poetica possono individuarsi almeno due filoni fondamentali: l’amore e Genova. L’amore struggente: Quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e volerne altri cento (Amore che vieni amore che vai), l’amore carnale: C’è chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa nè l’uno nè l’altro, lei lo faceva per passione (Bocca di rosa), l’amore onirico e sublimato: Sola senza il ricordo di un dolore, vivevi senza il sogno di un amore, ma un re senza corona e senza scorta, bussò tre volte un giorno alla tua porta (La canzone di Marinella), l’amore senza speranza e suicida: Un uomo onesto, un uomo probo, s’innamorò perdutamente, d’una che non lo amava niente (ballata dell’amore cieco), l’amore finito: Vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto,amore, ad appasir le rose, così per noi… (Canzone dell’amore perduto). E poi Genova, la sua amata città, quella dei vicoli di “Via del Campo”, delle voci e dei suoni di “Creuza de ma” e di “Dolcenera” e quelle atmosfere tipiche del retroporto di una città di mare: Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori (La città vecchia). E poi il filone più politico di “La domenica delle salme” e “Don Raffaè” o antimilitarista de “La guerra di Piero”, “La ballata dell’eroe”, “Fiume Sand Creek”. L’ironia sagace de “Il testamento” e de “Il gorilla” e della, più volte censurata dalla Rai, “Carlo Martello”.
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Una produzione ricchissima di brani memorabili di argomento religioso, tratti dai vangeli apocrifi, da cui scaturirono gemme quali: “Si chiamava Gesù”, “Il sogno di Maria”, “Il testamento di Tito”. Ma De Andrè resterà legato per sempre anche ai suoi personaggi: Andrea, il pescatore, un giudice, il suonatore Jones (di carattere autobiografico), Geordie, Susanne, solo per citarne alcuni. In ogni pezzo tracce della sua vita come nel brano “Hotel Supramonte” sul sequestro di persona subito con Dori Ghezzi o la morte dell’amico suicida Luigi Tenco (Preghiera in gennaio). Ma se Fabrizio De Andrè è stato innanzi tutto i versi delle sue canzoni, di grande poeta in musica, in lui si sono magicamente fuse la malinconia struggente: la terra stanca sotto la neve, dorme il silenzio di un sonno greve, l’inverno raccoglie la sua fatica di mille secoli, da un’alba antica…(Inverno) e la speranza che non muore mai: ama e ridi se amor risponde, piangi forte se non ti sente, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior (Via del campo).
Un giorno Albert Einstein disse: Il nostro compito deve essere di liberarci di questa prigione allargando il nostro cerchio della compassione, per abbracciare tutti gli esseri viventi e l’intera natura nella sua bellezza… è quello che fece con la sua arte Fabrizio De Andrè.
Stefano Quaranta
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L’artista è colui che divora tutto quello che vede e che incontra, che vive in prima persona e che gli viene raccontato. Si vive quindi anche negli occhi degli altri, si vive per cantare una storia, per restituire una voce. De André ci canta per srotolare una storia scomoda dal buio delle case, farla scivolare con la musica sulla bocca di tutti. Come nella canzone “Rimini”, dall’omonimo album del 1978 scritto con Massimo Bubola. Oggi sono gli ottant’anni dalla nascita di De Andrè, quest’anno è il centenario dalla nascita di Federico Fellini. Si distanziano di venti anni esatti e un mese. Con questo articolo vogliamo fare incontrare due uomini che hanno preso il quotidiano e ce lo hanno restituito straordinario, indimenticabile. Hanno elevato la vita normale, anche vissuta con una certa discrezione nella difficoltà e nelle contraddizioni, al livello di storia. Hanno creato entrambi una forma di narrazione, hanno reso speciale quelli che li hanno sfiorati. Un artista non chiede il permesso e si appropria del dolore altrui, lo vive in modo necessario.
*
Allora in “Rimini” c’è Teresa che ha gli occhi secchi, guarda verso il mare e parla poco. C’è questa ragazza “che indica un amore perso a Rimini d’estate”. L’altro lato di Rimini è quello che rimane anche d’inverno, è la crosta umana che resiste con gli occhi secchi e le labbra screpolate, che continua ad andare a trovare il mare anche quando fa freddo e c’è la nebbia. Quando tutto pare dimenticato, anche se poi niente si dimentica davvero, si sceglie solo cosa ci fa comodo. De André racconta la storia di una giovane donna che resiste alla fine dell’estate, alla fine di quel carnevale di promesse poi mantenute. Ci porta con delicatezza in quello che tutti sanno ma che nessuno racconta:
“E un errore ho commesso – dice – un errore di saggezza abortire il figlio del bagnino e poi guardarlo con dolcezza ma voi che siete a Rimini tra i gelati e le bandiere non fate più scommesse sulla figlia del droghiere”
*
L’altra Rimini è questa capacità di riportare al mare tutte le promesse fatte o ricevute e mai rispettate, restituirle all’acqua alla fine dell’estate. Sperare che con la prossima estate le onde ce le possano in qualche modo restituire, sbattercele sulla riva come noi facciamo regolarmente con il telo da mare sulla sabbia. Un appuntamento che a ogni anno si rinnova, un punto di speranza, un inverno che contiene nel suo gelo tutti i desideri. Rimini non è dei turisti, non illudetevi di conoscerla se ci siete stati in vacanza, se avete sperimentato il vortice verticale, se siete stati spinti dalla folla sul lungo mare. Rimini è di chi torna perché risponde a una chiamata a cui non sa sottrarsi, è una città che ha luoghi diversi e necessari. Chi si avvicina al ponte Tiberio non può restarne immune, è un luogo che in tutte le stagioni porta alla resa, chiede di arrendersi. Allora al ponte ci si bacia, ci si permette la gioia e la bellezza, ci si restituisce una forma di dolcezza, escono dall’oblio anche le farfalle della notte.
*
La Rimini di De Andrè è quella che chiede di non fare più scommesse sulla figlia del droghiere, è quella che fa crescere le donne con una saggezza dedita all’attesa e alla pazienza, di quelle donne che sono capaci di scegliere una fedeltà che sanno che non appartiene a loro, ma solo al mare, che tutto ciò che porta via poi finisce per restituirlo. Gli uomini nati al mare sono coloro che nel torace hanno una nave, hanno altri continenti che gli viaggiano negli occhi. Sono uomini capaci di partire in ogni momento ma sempre di ritornare. La Rimini vera appartiene a donne e uomini così, a chi è capace di sprecarsi la pelle nelle sue estati nel dominio di Dioniso e allo stesso tempo la custodisce nella nebbia, incartata come un amore delicato. De André e Fellini hanno cucito nella nostra memoria queste storie, questi uomini e donne altrimenti lasciati alla distrazione.
Clery Celeste
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pangeanews · 5 years
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Sia lode (almeno nel giorno del suo compleanno) a Emilio De Marchi, il nostro Alexandre Dumas, pioniere del “giallo”. Storia, tutta italiana, di risse e di coltelli
Il 31 luglio 1851 nasceva a Milano di Emilio De Marchi. Il 16 luglio 1893 moriva il lecchese Antonio Ghislanzoni. Due autori tra i più importanti del XIX secolo italofono. Due autori tra i più satirici della scena letteraria italiana. La collana “Brianze” edita da Bellavite di Missaglia, provincia di Lecco, e ora rinata in virtù di una sinergia con l’editore La Vita Felice di Milano, negli ultimi anni ne ha riscoperto due intriganti novelle che meritano rilettura per il semplice fatto di esser quanto mai attuali, ripubblicate in due volumetti a cura di Paolo Pirola.
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De Marchi, orfano di padre, madre che combatté nelle inssurrezionaliste Cinque Giornate di Milano, città di cui lo scrittore sarà poi consigliere comunale, fu uno dei maggiori autori italofoni di fine Ottocento di romanzi d’appendice o feuilletons, spesso con tinte da giallo, che venivano pubblicati a puntate sui giornali e sulle riviste, e dunque una sorta di Charles Dickens, Victor Hugo, Eugene Sue, Alexandre Dumas, Honoré de Balzac o Emile Zola lombardo, seppur di minor prestigio internazionale e di certo non paragonabile a Manzoni o Fogazzaro.
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Quel maledetto coltello… è una breve novella intorno a un delitto di oltre un secolo fa che ebbe luogo in un paesino brianzolo di cui dà conto il sottotitolo logistico Il delitto di Osnago scelto dal curatore, che per la presentazione ha voluto il prezzemolo della curia italiana, monsignor Gianfranco Ravasi, che è nato a Osnago, e che molto dice tanto di sé quanto di De Marchi – spirituale (ma di che spirito?) forse e tuttavia mai confessionale – patriottico (ma di quali padri?) ma se non altro non nazionalista – “antinazionalistico”, e anzi “arditamente antinazionalistico”, scrive il prelato, l’uno e l’altro bardi della vulgata laicista e “filantropica”.
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De Marchi, filantropista e pedagogico, fu infatti l’autore non solo del celebre Giacomo l’idealista, e di molti altri romanzi a sfondo sociale, ma anche de L’età preziosa, sottotitolo Precetti ed esempi offerti ai giovanotti, e il racconto brianzolo è il terzo di una serie di fascicoletti, La Buona Parola, sottotitolo Letture per il popolo, che lo scrittore diresse negli ultimissimi anni del XIX secolo con lo scopo di educare dall’alto i giovani lavoratori, visto che, come per Gramsci e per i suoi discepoli contemporanei il popolo è sempre pessimo, quindi da educare, emancipare, redimere, far progredire verso le “magnifiche sorti e progressive” di Leopardi…
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La vicenda è brevemente narrata nelle primissime pagine. Un ragazzo di Osnago, tutto studio e lavoro, muratore e studente di disegno e suonatore di fisarmonica, strumento con cui si mette in tasca qualche soldo extra alle feste di paese “dove gli altri buttavano i quattrini in giuochi e bagordi” viene ammazzato in una rissa tra osnaghesi e usmatesi dovuta forse a piccole beghe campanilistiche, politiche o d’altro tipo, in quel di Lecco, dove si trovava con gli amici coscritti per la visita militare. Perché progresso e laicismo significarono esercito di leva.
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La vera causa del morto è però secondo l’autore il matrimonio tra coltello e vino, una vergogna che a suo avviso affligge il tipo certo non esattamente ideale che chiama “l’Italiano”. “Dove arriva l’Italiano arriva il suo coltello, spaventa gli altri popoli, che ci chiamano nazione del coltello… L’Arabo che adora Maometto, impallidisce di paura, quando si vede venire incontro minaccioso un Italiano. L’Arabo ha orrore del sangue e considera chi lo sparge poco meno che figlio del diavolo: e ha ragione”. De Marchi provocatore, sovversivo, raccontaballe, o forse giusto confuso da mescolare i lombardi a tipi etnici ben diversi più vicini agli arabi e far degli islamici figure angeliche? I corsi e ricorsi della storia narrata da confusi o forse con enormi code di paglia.
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“L’Arabo” – da sempre sobrio come voleva Maometto, e senza coltello, certo, ma con in mano una bella scimitarra, e pronto alle invasioni e allo sterminio – sono stati infatti contati circa duecentosettanta milioni di morti sotto la spada islamica, molto avvezza a colonizzare e schiavizzare altri popoli – e “l’Italiano” armato di quel coltello che è per De Marchi l’“amuleto” dei poveracci, specie nel Mezzogiorno, “dove la religione si confonde colla superstizione e perfino col delitto, [e] il coltello si mescola alla corona del rosario e al sacro scapolare”.
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Ma il ragionamento di De Marchi non vale solo per il sud della penisola ma anche per Lecco, e per “altre provincie settentrionali più fredde di clima e di sentimento, dove si fa ballare il coltello per mezzo litro di vino, […] per una fetta di polenta”.
Il problema, per De Marchi, è che gli abitanti della penisola unita dalle armi dei sabaudi sono “più feroci, perché […] più vicini alle bestie che non agli uomini” di quanto non lo siano gli arabi, la povera gente come i signori con i “coltelli lunghi”.
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Il bravo ragazzo muore e la madre ne diventa mezza matta, prima rinchiusa in ospizio e poi in giro per il paese a chiedere l’elemosina, sempre ad aspettare il figlio che non fa ritorno da Lecco.
L’assassino, invece, si fa dieci anni di prigione e, rimbambito dal vino, viene infine trovato in un fosso, in una gelida notte d’inverno, “non si sa se morto di fame, o di freddo, o di malinconia”.
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La colpa, per De Marchi, era del coltello, non del fatto di usarlo solo per difendersi e non per offendere. Lo stesso varrebbe per la pistola e il fucile. Sia mai che l’amico Edmondo De Amicis non possa concludere il suo Sangue romagnolo come si deve. E vale a dire col buono morto ammazzato.
Ma se De Marchi e De Amicis si prendevano molto sul serio con le loro idee di progresso, Antonio Ghislanzoni, che fu narratore e pure librettista per Giuseppe Verdi, autore dei testi della celeberrima Aida e della revisione di altre due opere, è invece un fulgido esempio di satira che tutto coglie e fustiga non senza colpi di genio.
Marco Settimini
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pangeanews · 5 years
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“Un bambino di un anno, sano e ben nutrito, è l’alimento più delizioso di tutti”: ecco perché 290 anni dopo la “Modesta proposta” di Swift è il libro più corrosivo di sempre
Prima dei sei anni, i bambini non ce la fanno a campare di furti, quindi: meglio farli fuori. Anzi: mangiarli, cucinarli a puntino; in umido, arrostiti, al forno, bolliti. Parola del reverendo Jonathan Swift, decano della cattedrale di St Patrick a Dublino. Sono passati quasi tre secoli, duecentonovanta anni, da quel 1729, la crisi economica affligge l’Irlanda, la miseria è ovunque. “Che cosa malinconica, per coloro che passeggiano per questa grande città o viaggiano nel nostro Paese, vedere nelle strade principali e secondarie, e sulle soglie delle casupole, branchi di donne che importunano i passanti chiedendo l’elemosina, con al seguito tre, quattro o sei marmocchi coperti di stracci”. Le prime parole del pamphlet Una modesta proposta (titolo completo: per evitare che i figli degli irlandesi indigenti siano di peso ai genitori o al Paese, facendone un beneficio per tutti), a cura di Luciana Pirè (con testo originale a fronte, edito da Marsilio) hanno gambe da gigante per camminare, oltrepassano i secoli, come fossero centimetri. La tesi curiosa e senza tempo: per sconfiggere sovrappopolazione e disoccupazione il rimedio è semplicissimo, è l’antropofagia. Si mettano in vendita i figli più grassi e, cucinati a puntino con varie ricette, contribuiranno al welfare della nazione. Ucci ucci sento odor di cristianucci, le parole del racconto di Pollicino acquistano, nel delizioso saggio del geniale autore de I viaggi di Gulliver, un registro satirico e politicamente scorretto.
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Corrosivo e vitale, Swift – che pubblica la prima volta A Modest Proposal in forma anonima a Dublino, nell’ottobre 1729 – non prescinde mai dalla corporeità, dalle sue potenzialità mai esaurite, come scrive nell’utile Introduzione Luciana Pirè. La tesi della Proposta è corroborata da molti esempi e da spietate argomentazioni a sostegno. Un primo sguardo ai commercianti: “mi assicurano che un ragazzo o una ragazza non sono merce vendibile prima di dodici anni e che, anche quando raggiungono quest’età, non rendono più di tre sterline, o al massimo tre sterline e mezza corona secondo le quotazioni del mercato”.
L’allusione al tema del cannibalismo nel nuovo mondo non è troppo velata ed è venata di riferimenti politici al partito dei Whig da cui Swift, a quel tempo, stava prendendo le distanze. “Un americano che ho conosciuto a Londra, da buon intenditore, mi ha garantito che un bambino di un anno, sano e ben nutrito, è l’alimento più delizioso, nutriente e salutare, sia in umido, arrostito, al forno o bollito: e non ho dubbi che possa rendere lo stesso ottimo servizio in fricassée o al ragoȗt”. Oltretutto i bambini non sono figli santificati da un vincolo di matrimonio, ma sono più che altro, diremmo noi oggi, figli della serva. I bambini costano e il trattatello di antropofagia infantile prevede anche sadici suggerimenti per le puerpere in allattamento: “consigliando sempre alle madri di lasciarli poppare in abbondanza nell’ultimo mese in modo che arrivino grassi e carnosi su una buona tavola”.
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Il bambino entra così nel menù: “un bambino basterà per due portate in un pranzo tra amici: se invece la famiglia è senza compagnia, ricaverà porzioni ragionevoli dal quarto anteriore o posteriore; e, lessato e condito con un po’ di pepe o sale, sarà molto appetitoso il quarto giorno, specialmente d’inverno”. Già nei Viaggi di Gulliver, si notava l’interesse squisito di Swift per i diversi tipi di carne. Il gigante legato riceveva, infatti, dai piccoli abitanti, carne di “parecchi tipi di animali”, spalle, cosce, lombi, dalla forma di montone, sapientemente cucinati. Lo studio di Swift è approfondito e contempla i mesi in cui il mercato è più florido: “la carne infantile sarà di stagione tutto l’anno, ma più abbondante in marzo, e un po’ prima e un po’ dopo questo mese. Un autore serissimo, ed eminente medico francese, ci racconta infatti che nei paesi cattolici, dove una dieta a base di pesce è ritenuta propizia alla fecondità, nascono più bambini all’incirca nove mesi dopo la Quaresima che in ogni altra stagione”. Non potranno mancare i mattatoi appositi e nemmeno i macellai pronti a lavorare la carne tenera e ancora calda.
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Un’altra riflessione nasce dall’attenta distinzione di genere nella carne: “la carne dei maschi infatti, stando a quanto un mio conoscente americano ha verificato per reiterata esperienza, è in genere stopposa e magra come quella dei nostri scolari, a causa del loro continuo movimento, e il sapore non è gradevole, sicché metterli all’ingrasso non varrebbe la spesa”. Del resto, non si muore solo sotto la fredda lama di un coltello, anzi: “è risaputo che per il freddo, la carestia, la sporcizia e i pidocchi, ne muoiono e ne marciscono ogni giorno con la rapidità che ci si può ragionevolmente aspettare”.
A maggior ragione, si ridurrebbe il numero dei Papisti che, poi, sono i più prolifici d’Irlanda. Tale abbondanza di carne ingrasserebbe anche gli osti che, con tale prelibatezza, potrebbero arricchirsi. Per non parlare dell’incoraggiamento alle nozze, alla premura delle madri verso i figli, all’amorevolezza dei mariti verso le mogli in dolce attesa (che, normalmente, le gonfiano di botte). “Gli uomini sarebbero affezionati alle mogli durante la gravidanza, come lo sono ora alle cavalle pregne dei puledri, alle mucche dei vitelli o alle scrofe in procinto di sgravarsi; e, per timore di un aborto, non le riempirebbero di pugni e calci (usanza fin troppo frequente)”. La carne in scatola – o più precisamente “manzo in barili” – darebbe avvio ad un deciso export del settore. E ridurrebbe l’import: in Irlanda indurrebbe all’acquisto di beni nazionali. Insomma una facile politica economica, a costo zero, in grado di rialzare l’Irlanda dalla genuflessione verso lo sfruttamento colonialista dei governanti britannici.
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Lo scrittore corrosivo, acclamato come patriota irlandese, ibernico – lui che non amava l’Irlanda, nato da protestanti di origine inglese, la sua modesta proposta è volta unicamente al bene comune – si mette al riparo: lui non potrà ricavare un penny dai suoi figli, il più piccolo ha già nove anni e per la moglie si è già fermato ormai l’orologio biologico. La proposta è sarcastica, indecente ma del resto lo è anche la povertà, ieri come oggi. Cinque anni prima di morire, Jonathan Swift scrive anche il testamento, lascia le sue sostanze per la creazione di un manicomio che sarà aperto nel 1757: “Saint Patrick’s Hospital”, o del dott. Swift, come si chiama ancora oggi. I matti, i visionari, si sa, non muoiono mai.
Linda Terziroli
*In copertina: Peter Paul Rubens, “Saturno”, 1636, Madrid, Museo del Prado
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