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katiebear1 · 2 months
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lamilanomagazine · 1 year
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Ascoli Piceno, si fingono il figlio e il direttore delle Poste e ingannano la "madre": arrestati
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Ascoli Piceno, si fingono il figlio e il direttore delle Poste e ingannano la "madre": arrestati. Continua senza sosta l’attività investigativa della Squadra Mobile della Questura di Ascoli Piceno sull’odioso fenomeno delle truffe a carico degli anziani: questa volta sono stati identificate ed arrestate 2 persone gravemente indiziate di essere gli autori di una truffa a carico di una anziana donna 78enne residente nel capoluogo. Finto figlio Nei giorni scorsi, una anziana donna è stata contattata telefonicamente da un giovane, spacciatosi per il suo amato figlio, che le chiedeva di mandare subito il padre presso il vicino ufficio postale per ritirare delle urgentissime raccomandate. Appena l’uomo era fuori casa, la donna veniva ricontattata dal finto figlio che, in maniera drammatica, le diceva di preparare subito tutto il contante e gli ori disponibili perché aveva estrema necessità di pagare al più presto delle multe stradali. A rendere più convincente la trama del racconto, la donna era contattata anche da un fantomatico direttore delle Poste, che naturalmente le confermava tutte le circostanze narrate. Tali pressioni psicologiche incidevano sulla sfera affettiva dell’anziana donna che si dichiarava disponibile a consegnare tutti i soldi e i gioielli di famiglia ad un “impiegato delle poste” che a breve sarebbe passato a casa. Poco dopo, in effetti, si è presentato nell’abitazione un complice del truffatore che ritirava il denaro e i preziosi, cari ricordi di una vita. La scoperta della truffa Una volta resasi conto di essere stata vittima della classica truffa del falso figlio, la donna ha contattato i numeri di emergenza, ma i malviventi si erano ormai dileguati. Il personale specializzato della Squadra Mobile, da tempo impegnato a combattere questi crimini, ha dato corso ad immediate e serrate indagini, dirette dalla Procura della Repubblica di Ascoli Piceno, riuscendo ad acquisire gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati indicati a carico di due campani. Arresti domiciliari Su richiesta della locale Procura della Repubblica, il Giudice delle Indagini Preliminari ha emesso una misura cautelare agli arresti domiciliari per i due indagati, eseguita dagli investigatori della Squadra Mobile che si sono recati a Napoli per arrestarli, collaborati dai colleghi della Squadra Mobile della città partenopea. Nel corso dell’operazione di polizia sono stati recuperati il denaro e i gioielli sottratti, che verranno presto restituiti all’anziana signora. Nei prossimi giorni gli arrestati saranno interrogati dal Giudice per le Indagini Preliminari e potranno fornire la loro versione dei fatti e rappresentare tutti gli elementi a loro difesa.   Read the full article
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kon-igi · 4 years
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Lo so che forse è una domanda diversa dal solito e le chiedo scusa se non vorrà rispondere. Ci racconta della sua vita? Sono molto curiosa perché la ammiro molto
Ma proprio tutta la biografia o solo le parti più divertenti?
Facciamo una via di mezzo tra il tediante e il deliroso.
Intanto sono gemello astrale di Fabio volo, Zinedine Zidane e Marija Zdravkova Grigorova-Grozdeva, una tiratrice bulgara che vinse 2 ori a Sydney 2000 nella pistola 25 m, ad Atene 2004 nella pistola 25 m e 3 bronzi a Barcellona 1992 nella pistola 10 m, ad Atlanta 1996 nella pistola 10 m e ad Atene 2004 nella pistola 10 m.
Nasco a Viareggio e lì rimango fino a 24 anni, finché non seguo la mia attuale compagna e unica donna della mia vita in provincia di Parma, entrambi inconsapevoli che per colpa di 700.000 lire di multa con l’autovelox Figlia N.1 era già una silenziosa pagnotta in forno.
Sono anni difficili e faticosi perché entrambi lavoriamo molto e giochiamo agli hihopper scansalaser per occuparci da soli di nostra figlia, finché nel 2002 non diventa ancora tutto più difficile e faticoso perché per colpa di una cena al ristorante cinese nasce Figlia N.2
Per i 18 anni successivi vinciamo tutti i campionati di campo minato fiorito e pure il Deathmatch Last Man Standing 2015-2018 di ‘riacchiappa la sanità mentale’.
Chi mi conosce sa cosa intendo ma solo chi l’ha vissuto sa cosa significa.
Per il resto sono stati anni più divertenti che tristi - anche perché gli anni tristi li ho riconosciuti come tali solo a posteriori quindi chissene - e in mezzo alla grande fatica, a volte del solo sopravvivere quotidiano, in realtà abbiamo sempre riavuto indietro la gentilezza e la generosità con cui ci siamo mossi in questo strano mondo.
Tutti gli sbagli che ho fatto li ho sempre accettati con la gioia di chi sa che una vita perfetta non è tale nemmeno negli spot delle merendine o sulla copertina della Torre di Guardia, per cui se avessi una macchina del tempo tornerei lo stesso indietro a tenere tra le dita la mano di una mummia e a dirlo alla maestra incredula, a lanciare bombe molotov a muri troppo vicino, a far dondolare ponti sospesi in preda a un brutto trip allucinogeno e a fare esplodere fusti di birra rubata con una calibro troppo grosso ma mai abbastanza da non rimbalzarci addosso.
L’unica cosa che non farei - ma forse è proprio questo che rende bello lo scorrere del tempo in un'unica direzione - è ritornare a credere che quei momenti fossero eterni.
Vabbe’... ti lascio con le strofe di chiusura di una canzone di Bob Dylan - dal titolo Bob Dylan’s Dream - che in modo fisicamente doloroso ogni volta mi ricorda che quello che ho ora è la somma di tutto quello che non ci sarà mai più.
With haunted hearts through the heat and cold We never thought we could ever get very old We thought we could sit forever in fun Our chances really was a million to one. As easy it was to tell black from white It was all that easy to tell wrong from right And our choices they were few and the thought never hit That the one road we traveled would ever shatter and split. How many a year has passed and gone Many a gamble has been lost and won And many a road taken by many a first friend And each one I've never seen again. I wish, I wish, I wish in vain That we could sit simply in that room again Ten thousand dollars at the drop of a hat I'd give it all gladly if our lives could be like that.
Mi spiace... era cominciato come un post divertente e invece ora vado a fare su e giù sulla mia sedia a dondolo con il plaid sulle gambe e una gran malinconia addosso, componendo poesie tipo questa
Io sono acqua,  raccolta e conservata nel vaso di argilla che venne cotto con la legna di una foresta che qualcuno piantò immaginandomi
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arainbowonarainyday · 3 years
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Gli inviti superflui
Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. 
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. 
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. 
Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. 
Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. 
Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore.  Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. 
Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre.
Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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myborderland · 5 years
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti assieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo per le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spianavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, ne’ battesti mai alla porta del castello deserto, ne’ camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, ne’ ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremmo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti. 
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade nascono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ora vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremmo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiche’ le anime si parlano senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – non mi dicesti cose insensate, stupide e care. Ne’ puoi quindi amare quelle domeniche che io dico, ne’ l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, ne’ riconosci all’ora giusta l’incantesimo della città, ne’ le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro. 
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telefono quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perche’ noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come fossero nate allora. 
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perche’ purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. 
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colma di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando sopra di sè una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, ne’ dei presentimenti che passano, ne’ ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Ne’ udresti quella specie di musica, ne’ capiresti perche’ la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade sugli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, ne’ guarderò le nubi, ne’ darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. 
Ma tu – adesso che ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili da valicare, tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Inviti superflui – Dino Buzzati (1949)
[ho dimenticato il tuo nome]
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app-teatrodipisa · 4 years
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IL LIBRO LIBeRO — Irene Bendinelli
Salpammo all'alba.
Eravamo uno sparuto gruppo di curiosi spiriti all'avventura, fermamente intenti a emulare le leggendarie imprese del multiforme eroe Ulisse. Il cielo sopra di noi conservava ancora il respiro lento delle ultime luci stellate della notte, mentre stralci dorati di un nuovo giorno si preparavano a indicarci la rotta.
Eravamo privilegiati spettatori di uno scenario mai visto prima: maestoso, bellissimo, come tante rose tee da poco sbocciate in una meraviglia di colori! Il nostro giardino fiorito era lievitato, sollevato da schiumose onde del Mare-Oceano-Mari.
Cavalcammo, come intrepidi indiani nelle vaste praterie americane, verso spazi aperti, immensi, nell'infinità delle acque salate. Nessuno ci avrebbe potuti fermare! Eravamo più forti di mille eroi della mitologia greca, più coraggiosi di tutti i soldati del mondo riuniti in battaglia e più liberi di centomila palloncini sospesi nell'aere.
Il vento a favore ci guidava come un caro padre che prende il figlio per mano e lo conduce verso i sentieri della sua vita futura. Sostenuti dalla forza di Eolo, ci sentivamo padroni dell'universo, dei mari, delle terre, dell'aria e della miriade di stelle lassù.
Continuava a navigare fiera e sicura la nostra imbarcazione in legno, con tre gonfie vele bianche issate: erano tre morbide nuvole di ovatta, calate sulla linea dell'orizzonte. Intanto gli spruzzi d'acqua e sale ci rinfrescavano, permettevano di farci sentire sui volti tutta la carica esplosiva dell'estate e sancivano l'unione tra noi marinai e le creature marine. Ci sentivamo anche noi come dei pesciolini.
– Esploratori seguaci di Nemo, sgargiante bandiera a strisce bianche e arancioni, all'arrembaggio! Il tesoro dell'isola è già nostro!
Niccolò era completamente assorto in quell'avvincente lettura, che non si era distratto neanche da suoni e suonetti provenienti dal telefono mobile. A capofitto tra quelle pagine sfogliate con vivo interesse, aveva la possibilità di diventare un ottimo marinaio a bordo del vascello Poseidone.
– Agli ordini, capitano! - rispose la ciurma al completo, mentre il Mare-Oceano-Mari riempiva l'anima.
La direzione era quella giusta, puntando ancora per diverse miglia a Nord. La freschezza di quell'acqua salata, sempre più chiara e limpida, ci rinfrescava anche i pensieri, che viaggiavano leggeri leggeri, sorretti da quelle tre gonfie vele bianche.
Da marinaio semplice avevo ancora tanto da imparare, ma la passione e la curiosità non mi mancavano certamente, così controllare la nave, svolgere la regolare manutenzione e talvolta provvedere alla distribuzione del cibo nella cambusa erano attività che non mi spaventavano minimamente. In tutto questo, non perdevo mai di vista il nostro saggio ed esperto capitano Hogart, pronto a guidarci nell'impresa e a risolvere qualsiasi genere di situazione: gli imprevisti, per lui, erano semplicemente nodi di velluto da sciogliere grazie a piccole mani dalle dita elastiche.
Niccolò interruppe la lettura e si osservò le mani. Anche le sue, come quelle descritte nel romanzo, erano mani piccole, con dita peraltro elastiche, proprio perché lui era ancora un bambino. Sarebbe voluto entrare in quella storia, Niccolò, far parte di quella ciurma, aiutare il capitano Hogart a sciogliere i nodi degli imprevisti e dimostrare agli altri marinai, a se stesso, ma soprattutto ad alcuni suoi compagni di classe che aveva coraggio da vendere, anche se a scuola appariva spesso introverso. Le sue, erano ancora mani misurate per impugnare le penne e le matite, morbide per proteggere un cucciolo di gatto e delicate per assemblare in mille diverse costruzioni i mattoncini Lego. Sarebbero diventate capaci, però, non troppo tardi, di ammainare le vele, manovrare il timone, sfidare la forza dei venti e utilizzare tutti gli attrezzi del mestiere marinaresco.
Il sole, intanto, si preparava a troneggiare nel centro della volta celeste. Splendido splendente si sarebbe fatto alto, una palla infuocata, luccicando ininterrottamente sulle creste lievi di quella meraviglia che era il Mare-Oceano-Mari. E l'acqua si sarebbe ancor di più riscaldata e la vita a bordo del vascello Poseidone si sarebbe illusa di stare pigramente in vacanza.
Uno stormo di gabbiani, saziato dall'abbondanza di pesci, decollò veloce dalla superficie azzurra screziata di bianco ai chiari riflessi sconfinati del cielo, diretto verso una mèta ben precisa, per vivere una nuova stagione in un'altra terra.
Un'isola accogliente stava aspettando anche i nostri marinai.
Si delineò di lato alla loro vista un curvilineo profilo di un timido scoglio, col capo di poco alzato e ricoperto da una rigogliosa vegetazione. Mentre la distanza dal veliero all'isola si riduceva, mentre si annullava la presenza di uomini e animali nei paraggi, ardeva il desiderio di approdarvi, la frenesia di corrervi a piedi nudi e di scoprirne il fatidico tesoro. Pirati e galeotti si erano sfidati, su altri mari e in altre epoche, per appropriarsi di gemme e monete in quantità; temerari cercatori d'oro si erano spinti per secoli oltre quelle acque, per nobilitare ogni volta di più le loro imprese; sognatori di altri tempi – e forse anche di questi – erano cresciuti con il sale della fantasia e la speranzosa convinzione di far rotta all'isola di Utopia.
Poche erano le carte nautiche che segnalavano la presenza di quell'isola, a differenza di molte che la ignoravano completamente, indicando al suo posto una qualsiasi corrente acquatica. Ma poiché il mistero si infittisce se un'antica pergamena polverosa viene scovata per caso in una rimessa, trovano invece il loro senso la curiosa esplorazione, l'audace avventura e l'entusiasmo della partenza.
Il capitano Hogart, da vero capitano, fu il primo a scendere dall'imbarcazione, per assicurarsi che su quella terra, emersa dai fondali marini, non si nascondessero insidie. Soltanto pappagalli dai grandi becchi gialli e dalle ampie piume variopinte, appesi sulle legnose fronde di contorte mangrovie, intonarono un acuto saluto di benvenuto.
“Ci siamo!” pensò Niccolò. “Vediamo ora cosa succede.”
I marinai, con la gioia che sarebbe esplosa nei loro petti se non fosse stata contenuta dalle divise a righe bianche e blu, seguirono fedelmente il loro capitano. Parevano una fila ordinata di formiche in processione, caute e silenziose, ma ancor più attente e curiose, alla ricerca di cibo, di briciole di pane. L'ultimo della ciurma, col viso florido e raggiante per la fierezza del compito assegnatogli, issò sulla sponda orientale della riva l'alta bandiera del Poseidone: un tridente grigio rivolto in su, sostenuto dalla possente mano destra del dio Nettuno, protettore di tutti i mari e della loro piccola compagnia.
– Ricordate il richiamo dell'eroe Ulisse ai suoi compagni di viaggio! Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza! – rimbombò così potentemente la voce di Hogart, da far volare via in un istante tutti i pappagalli che li avevano accolti.
“La conoscenza, la conoscenza!” pensai.
Da tre mesi della mia vita mi trovavo a bordo di una nave, che già consideravo come una seconda casa, io che da piccolo non volevo più uscire dalla vasca durante il bagnetto e che giocavo a ore sulle pozzanghere come fossero laghi da attraversare. Avevo imparato tanto finora: ogni uscita in mare aperto era una sfida con me stesso e con la natura, ogni gesto da compiere un esempio di solidarietà verso gli altri, ogni nubifragio una prova da superare per crescere, ogni porto raggiunto una sicurezza da custodire con affetto.
Mentre tali pensieri mi rimbalzavano nella mente, i miei piedi marciavano allineati a quelli degli altri marinai alla scoperta di quell'isola. L'aria era talmente intrisa di un silenzio paradisiaco, che si riuscivano a percepire i respiri affannati e i battiti accelerati dei nostri cuori.
Li avvertiva anche Niccolò quei respiri e quei battiti, che filtravano da quei luoghi fantastici alla cameretta reale del bambino, grazie alle pagine ingiallite di quel romanzo, appartenuto da generazioni alla sua famiglia.
L'isola, con una superficie grande quanto mille uomini in cerchio, odorava di essenze rare, di dolci profumi fruttati e di fresche fragranze floreali. Il lungo viaggio assolato sul Mare-Oceano-Mari trovava il suo meritato riposo all'ombra di nodose mangrovie, di maestose palme verdeggianti e di piante dai fiori tropicali mai visti prima, che infondevano pace e serenità.
Quell'isola era tutta per loro, per quei prodi marinai!
La costa orientale era contornata da un'innumerevole varietà di conchiglie, alghe, ricci e legnetti, adagiati su basse dune sabbiose, mentre la zona a Ovest era battuta da forti venti impetuosi, che si infrangevano su dure e ripide falesie, come se due stagioni naturali si contendessero il controllo di quella dispersa roccaforte.
Nel mezzo stavano loro, i coraggiosi marinai, in equilibrio tra estate e inverno, tra caldo e freddo, nel protetto spazio centrale dove terra, roccia, fiori e frutti convivevano in armonia. Non c'erano tracce di tesori, di bauli, di gemme e di ori, ai quali la ciurma non pensava già più, felice com'era di starsene lì tranquilla e beata. Nel cuore di quell'isola svanivano i rancori e le paure, le ansie e i  problemi, sostituiti dalla calma quiete delle anime, dalle perfette solitudini ritrovate e dall' intramontabile desiderio di libertà mai sopito. Altre isole avrebbero raggiunto, altre avventure avrebbero vissuto, altre storie avrebbero raccontato, ma quella era l'isola alla quale non avrebbero più rinunciato, l'isola del Poseidone, dove ognuno si sentiva libero. Come vento libero.
Niccolò sentì entrare, dalla finestra aperta della camera, un soffio d'aria fresca. Era l'imbrunire di una sera alla fine di aprile, era la briosa brezza di quell'isola, sostenuta e tramandata dall'eco esplosivo della letteratura che aveva trasformato le pagine del libro in onde di libertà, amata libertà.
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bitterbianco · 4 years
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Inviti superflui – (1949) Dino Buzzati
        Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
        Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro.
        Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
        Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
        Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E' inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
        Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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mediaviasetait · 4 years
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Il distanziamento sociale in Cina è la nuova normalità
17/04/2020
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Mi chiedevo quando avrebbe riaperto la palestra dove sono iscritto, a Pechino. Ho sempre pensato che sarebbe stato il segnale più chiaro del superamento della crisi sanitaria, o quanto meno della percezione da parte delle autorità che il peggio fosse passato, dato che in quel luogo si suda, si sbuffa, si condividono materassini, attrezzi, spogliatoi, docce.
Ha riaperto il 3 aprile, ma con alcune regole nuove. Innanzitutto non si può essere presenti in palestra più di dieci alla volta, quindi ti arriva quotidianamente, via WeChat, un miniprogramma che consiste nell’orario del giorno dopo, in cui ti inserisci quando vuoi o trovi spazio. Poi bisogna mantenere almeno due metri di distanza all’interno della palestra, indossare la mascherina, spruzzare con il disinfettante l’attrezzo prima e dopo l’utilizzo, non si può fare la doccia. Infine, sono state rimosse tutte le macchine per gli esercizi aerobici – pedalare, correre, camminare, remare – e si possono solo sollevare pesi. Vietato grondare sudore, vietato ansimare.
Così, sono improvvisamente sparite tutte le frequentatrici dedite allo snellimento e sono rimasti solo i frequentatori più nerboruti, nella fattispecie culturisti cinesi e australiani. I cinesi indossano in genere magliette con slogan motivazionali o patriottici, gli australiani t-shirt con marche di birra, riferimenti al rugby o alla spiaggia: il più coerente tra loro ne indossa una di un torneo di beach-rugby organizzato dalla Qingdao, la marca di birra cinese.
Distanziamento sociale Visito una fabbrica di attrezzature medicali alla periferia di Pechino, loro hanno riaperto subito dopo la fine del capodanno cinese, a metà febbraio, nel bel mezzo dell’emergenza sanitaria, sebbene gli ordini fossero discontinui e buona parte del personale fosse sparso in tutta la Cina, impossibilitato a rientrare dopo le vacanze.
Combattuta tra esigenze economiche e il terrore di una recrudescenza epidemica, la leadership di Pechino ha molto insistito affinché la macchina industriale cinese riprendesse il prima possibile. I dati sulla crescita del primo trimestre registrano la prima contrazione dal 1976, ultimo anno della rivoluzione culturale: -6,8 per cento, un dato anche peggiore di quanto gli economisti si aspettassero.
Si guarda con preoccupazione a una probabile recessione globale e il governo ha già deciso alcune misure per proteggere l’industria: riduzioni fiscali che dovrebbero alleggerire l’onere per le imprese di 1,6 trilioni di yuan (circa 215 miliardi di euro); sostegno finanziario per 3,55 trilioni di yuan (circa 46 miliardi di euro) da veicolare tramite le banche di stato sotto forma di capitale a basso costo. Tuttavia, secondo 62 analisti intervistati da Reuters, la crescita cinese a fine 2020 sarà al massimo del 2,5 per cento, il dato peggiore dal 1976.
Il fatto è che forse non c’è più tanto bisogno di istruzioni. Il distanziamento sociale ti è già entrato dentro
Qui, in questa fabbrichetta dei sobborghi meridionali di Pechino, il titolare, il signor Zhao Guangyu, naviga a vista, in attesa di avere indicazioni più chiare, un messaggio politico che indichi la direzione da seguire. Passa il tempo esercitandosi con la calligrafia nel suo ufficio, visto che – dice – “non posso viaggiare e non posso andare alle feste”. Mentre su una pergamena scrive in bello stile Yidali jiayou – “forza Italia” – rivendica il fatto che fin dall’inizio lui e la sua azienda fossero preparati ad affrontare la “nuova normalità” dettata dall’epidemia: “La guardia all’ingresso misura la temperatura a tutti e poi bisogna indossare sempre la mascherina”, spiega. “Tutti hanno il dovere di disinfettare la propria postazione di lavoro, la sedia, il tavolo. I reparti e gli uffici sono costantemente ventilati. Abbiamo affisso ovunque i manifesti con le regole sanitarie da seguire e quando i lavoratori sono riusciti gradualmente a tornare, dopo il capodanno, li abbiamo messi in quarantena per una settimana, estendendo poi a due settimane”.
Un po’ meno scienza La sua assistente mi accompagna in giro per lo stabilimento. Tutto il personale indossa tute protettive e le immancabili mascherine. In mensa, gli operai mangiano con la testa in scatoloni da imballaggio, che sono stati tagliati in due e trasformati in pannelli divisori. Solo quando prendono posto dietro al cartone, possono togliere la mascherina e nutrirsi. Il tasto dell’ascensore si schiaccia usando degli stuzzicadenti sono infilati in un artigianale supporto di spugna di fianco alla pulsantiera. Piccoli accorgimenti fai-da-te e molto pratici.
La vita sta tornando nel segno di questo “insieme di azioni di natura non farmacologica per il controllo delle infezioni volte a rallentare o fermare la diffusione di una malattia contagiosa” – recita Wikipedia – che a Singapore sembrerebbero diventate una scienza vera e propria, come riporta un articolo di Nikkei Asian Review.
La Cina non è Singapore, anche se forse qualche alto papavero della leadership di Pechino lo vorrebbe, perché qui in fin dei conti è tutto chabuduo, “più o meno”. Il termometro a ultrasuoni con cui mi misurano la temperatura all’ingresso del supermercato segna 33 gradi. All’uscita me la faccio rimisurare per timore di essere morto mentre mi aggiravo tra gli scaffali: 35.9. C’è un forte sospetto che tutti i termometri in giro per la Cina siano tarati al ribasso o non tarati del tutto – siano chabuduo – per evitare scocciature: tai mafan – “che menata”, diremmo noi – è un’espressione sulla bocca di tutti. Bisogna sì, attenersi alle regole che arrivano dall’alto, purché non siano troppo mafan.
E quindi anche il distanziamento sociale che è scienza a Singapore, in Cina è un po’ meno scienza, come i cartoni nella mensa e gli stuzzicadenti di fianco alla pulsantiera dell’ascensore, nella fabbrica del signor Zhao.
Averle viste tutte L, la mia amica di Wuhan, si è fatta due mesi di isolamento in casa, dal 23 gennaio alla settimana precedente all’8 aprile, quando la città focolaio dell’epidemia è stata di nuovo riaperta al resto della Cina. Suo padre è medico in uno degli ospedali che tra dicembre e gennaio sono stati investiti dal Sars-cov-2, lavora come anestesista, non era a diretto contatto con i malati. Eppure se l’è preso, il virus. Quando l’hanno dimesso dall’ospedale non era ancora completamente fuori pericolo – per sé e per gli altri – ma era necessario fare spazio ad altri malati più gravi. Così, a mali estremi, L ha piazzato il babbo nella panetteria che lei ha aperto come attività collaterale al proprio lavoro in uno studio legale. A serrande chiuse.
Le ho detto che dopo essere stato chiuso a doppia mandata in una panetteria, io uscirei dalla quarantena pesando 120 chili suppergiù. “Ma no“, ha risposto seria, “non c’era il pane, quell’attività è solo una specie di hobby”. Lei e la madre facevano recapitare del cibo all’anestesista recluso con i servizi di pronta consegna. All’inizio di aprile la famiglia si è ricongiunta e sono perfino andati a passeggiare lungo lo Yangtze, portandosi anche la nonna.
In molti negozi di Pechino ci sono segni per terra fatti con il nastro adesivo che marcano le distanze da tenere tra persona e persona, per esempio quando si è in fila alla cassa. Ma se all’inizio dell’epidemia tali distanze erano rigidamente mantenute, ora nessuno ci fa veramente caso. I due metri di distanza in palestra non sono quasi mai rispettati, ma la mascherina, quella sì, se provi a toglierla ti richiamano all’ordine.
Il fatto è che forse non c’è più tanto bisogno di istruzioni. Il distanziamento sociale ti è già entrato dentro, non stai più vicino agli altri, non stringi mani, non abbracci. I cinesi hanno ancora un po’ paura a uscire, mandano avanti noi, gli incauti laowai, e poi naturalmente i vecchi, quelli che non hanno rinunciato al tavolo del mahjong neanche a gennaio, all’apice della crisi. Loro le hanno già viste tutte, hanno sofferto la fame, cosa sarà mai un virus?
Nel 2010, Martín Caparrós scriveva in Non è un cambio di stagione che l’idea egemonica di ordine, nell’epoca che abbiamo vissuto finora, è nordeuropea: “Un ordine di individui. Un ordine di mormorii. Un ordine di colori soavi. Un ordine di silenzi rispettosi. Un ordine di movimenti controllati, moderati”.
Caparrós si chiedeva: “Come sarà, quando arriverà, l’ordine cinese, di grida e spintoni, di moltitudine, di mascheramenti e tranelli, di ori e di rossi?”. Forse il virus ha imposto anche ai cinesi un’idea di ordine nordeuropea, fatta di distanze più che di spintoni? Non lo credo e non lo spero, quindi nella mia Pechino guardo con un misto di timore e speranza alle piccole violazioni del distanziamento sociale.
Fonte: Internazionale.it
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augmentedampharos · 6 years
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rose, wish, cherry, gloss
rose: what makes you feel beautiful?
Wearing lipstick and dressing in cute color coordinated outfits. :> And taking selfies!
wish: what are your favourite memories?
That’s a difficult question...I’ve got a lot of nostalgia for living in Budapest right now. I’ve been thinking about that time a lot. But I also have a lot of great memories with my SO. The only thing coming to mind right now (cause I’m exhausted I think) is a lot of inside jokes, like salami, and just laughing together in general...>w
cherry: what words of advice would you give to a stranger?
It’s okay to ask for help.
gloss: list ten songs you love right now
The Oathkeeper - Auvic
The Phoenix - Fall Out Boy
Hold Me Tight Or Don’t - Fall Out Boy
Bloodflow - Grandbrothers
We Go Down - Krewella (a lot of Krewella tbh)
Supercharger - PENGUIN RESEARCH
Joker Ni Yoroshiku - PENGUIN RESEARCH
Ori Tali Ma LVNDSCAPE Remix - Sander Van Doorn
Roll On - Lincoln Jesser
Feels - Calvin Harris (+ many other artists)
It’s a wide mixture of things as always!
Thank you for asking me friend
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intantolondrabrucia · 7 years
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Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti. Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro. Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E' inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati, Inviti superflui.
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eat-sleep-edm · 7 years
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steelfeather · 7 years
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Aww, love, thank you! Love ya
B - “Believe,” by The Score
O - “Ori Tali Ma,” by Sander Van Doorn
O - “Outlaws,” by Alessia Cara
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mamosefan · 7 years
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dwilestari · 5 years
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Udah gede, masih aja pake jam tangan bocah....yang hampir kubuang. Ceritanya, dikasih ayahku sebagai oleh-oleh. Waktu itu aku masih kecil banget, entah waktu SD atau TK. Ya namanya juga anak kecil ya... Belum tau fungsi dan pentingnya jam tangan. Jadi ya gak diapa-apain. Ditaro aja di lemari. Lalu waktu SMA, aku bongkar-bongkar lagi lemari. Memilah barang-barang yg perlu dibuang atau enggak. Ketemu lah jam tangan ini. Sayang sih, ini oleh-oleh dari ayah... tapi ya udah gak guna, sedangkan barang bertumpuk. Kubuang lah dia ke tempat sampah di rumah. Lalu kulanjutkan beberes. Kemudian mama dateng, "ini siapa yg buang jam tangan di tempat sampah?" Ya kujawab, "Aku ma." Sambil diliat-liat lg jam tangannya mama jawab, "Sayang ih. Jam tangan bagus loh ini... Yaudah, buat Mama aja" Singkat cerita mama mencoba membangkitkan kembali si jam kuning. Dan BERHASIL, JALAN LAGI si jam kuning. WAW. Dikasih lg deh jamnya dr mama ke aku. Karena jam nya terlalu kekanakan, aku jadi jarang juga sih pakenya. Sampai dia abis batere lagi. Ya... Lagi-lagi aku membiarkannya. Sebenernya aku punya jam tangan berbeda. Lalu kemarin jam tangan itu mati. Gak bisa nyala lagi. Terpaksalah aku hidupkan kembali si jam kuning. Kucari tukang yg bisa ganti batere dan tali nya. "Pak, mau ganti batere, sekalian ganti talinya juga" "Oh, iya" jawab bapak tukang jam. Sewaktu melepas bagian belakang jam, "Kirain teh jam-jam an. Jam bagus ini neng." "Oh iya pak?" Asa gak percaya tapi senyum terkembang, "Bagusnya diliat dr mana pak?" "Mesinnya juga beda neng, ori ini mah, jam asli." "Ah.. iya pak hehe" sambil senyum-senyum malu, kuceritain lah ttg si jam ke bapak tukang jam. Wah... Ternyata yg selama ini dibilang mama sama ayah kalo jam tanganku bagus ternyata bukan kibulan biasa. Dasar Tari kurang ajar! Ah... Iya... Aku masih suka melupakan, lebih tepatnya mengacuhkan... kalau ternyata selama ini, dari dulu, ayah dan mama selalu memberikan yg terbaik untuk anaknya. Apapun itu, entah itu anaknya peduli atau tidak, mereka tetap memberikan yg terbaik. Betapa kurang ajarnya aku... Dan betapa sempurnanya aku memiliki mereka. Sekarang, walaupun kekanakan, aku pakai lagi si jam kuning ini #denganbangga ✌ https://www.instagram.com/p/Bo_6UUeg3NJ/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=am7qxcc6fcw3
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ninfaribelle · 7 years
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti. Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient'altro. Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!". Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello! ", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose. (Dino Buzzati)
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