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#il pubblico della poesia
marcogiovenale · 11 months
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pod al popolo, #010_ il pubblico dell'economia della poesia
Come ragionevolmente aggiornare il celebre titolo 1975 di Berardinelli & Cordelli? La risposta in questo decimo Pod al popolo. Il podcast irregolare, ennesimo fail again fail better dell’occidente postremo. Buon ascolto.
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fridagentileschi · 5 months
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NIKA TURBINA: LA BREVE VITA DI UNA POETESSA RUSSA
Nika Turbina, nata a Jalta, in Crimea, il 17 dicembre 1974, fu presentata come una seconda Anna Akmatova, una delle più importanti poetesse russe. Ma il destino non fu tenero con lei.
Il percorso letterario di Nika iniziò all’età di 4 anni, quando prese a scrivere e a leggere poesie a sua madre e a sua nonna.
Non erano i soliti testi che scrivono i bambini, ma roba seria; versi per adulti.
''Io sono una bambola rotta.
Si sono scordati di mettermi
un cuore nel petto.
E al buio, in un angolo, inutile,
abbandonata.
E come una bambola rotta
al mattino ho ascoltato
i bisbigli di un sogno:
«dormi, tesoro, dormi
e voleranno gli anni
e al tuo risveglio
di nuovo vorranno
prenderti in braccio
cullarti per gioco,
e troverà il suo battito
il cuore».
È solo tremendo
aspettare.''
Turbina fu subito notata e seguì per lei una cascata di riconoscimenti e premi. Quando aveva 9 anni, il suo primo libro di poesie, che si intitolava proprio così,“Pervaja kniga stikhov” (“Primo libro di Poesie”), venne pubblicato a Mosca. Tradotto in 12 lingue, vinse il Leone d’oro per la poesia a Venezia nel 1984.
Pochi sapevano che da sempre Nika soffriva di asma bronchiale, il che la portava all’insonnia e alla depressione permanente. Definiva se stessa “un essere della notte”. “Solo di notte mi sento protetta da questo mondo, da questo rumore, da questa folla, da questi problemi”, diceva Nika.
Gli anni passarono e l’ormai adulta Nika divenne meno interessata al suo pubblico rispetto a quando era una ragazzina di grande talento. Cercò di trovare il suo posto nella vita: si sposò e si mise a studiare fotografia. Nulla la aiutò, e negli ultimi anni fu dipendente da droghe e alcol.
L’11 maggio 2002, a 27 anni, cadde da una finestra del quinto piano. Non è mai stato chiarito se si sia trattato di un suicidio o di un tragico incidente.
''Sono pesi queste mie poesie,
pietre spinte lungo una salita.
Le porterò stremata
allo strapiombo.
Poi cadrò, viso nell’erba,
non avrò lacrime abbastanza.
Smembrerò la strofa
scoppierà in singhiozzi il verso
e si pianterà nel palmo
con dolore anche l’ortica.
L’amarezza di quel giorno
tutta trasmuterà in parola.''
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diceriadelluntore · 6 months
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Storia Di Musica #298 - X, Under The Big Black Sun, 1982
Le due voci di oggi, nel percorso mensile di scoperta dei gruppi in cui la voce leader è maschile e femminile, rappresentano il duo più spettacolare, più estremo e più stupefacente (in molti sensi). Furono agli inizi degli anni ’80 la nuova sensazione della musica punk americana (che ricordo aveva caratteristiche molto diverse da quello europeo, musicali si, ma soprattutto ideologiche). La storia parte con John Nommensen Duchac, un musicista statunitense cresciuto nei dintorni di Los Angeles. Nel 1978 in piena stagione punk insieme ad un chitarrista rockabilly che collaborò con Gene Vincent (quello di Be-Bop-A-Lula) e Etta James, Billy Zoom, e un batterista che ama il country e il blues, D.J. Bonebrake, inizia a suonare nei locali alternativi di Los Angeles. Nel 1979 l’incontro con una poetessa beat (definizione sua) Christene Lee Cervenka, che viene convinta a cantare. Lei cambia il nome in Exene Cervenka, John in John Doe, che è il nome usato negli USA per indicare un uomo la cui reale identità è sconosciuta. Scelgono un nome per il loro gruppo del tutto coerente con la loro idea di apparire enigmatici e “qualunquisti”: X. Con questo nome incidono i primi due singoli, Los Angeles e Adult Book, che comparivano in una compilation dal titolo Yes L.A., la risposta sarcastica ad un progetto simile sulla new wave newyorchese, che si intitolava No New York prodotto da Brian Eno. L’incontro decisivo avviene al Whisky Club di Los Angeles dove li vide suonare Ray Manzarek, colonna dei The Doors. Con il suo aiuto firmano un contratto discografico e nel 1980 esce Los Angeles. Album epocale anche per la iconica copertina (una X in fiamme su sfondo nero) la band mostra il suo lato alternativo allo stesso punk: mini storie nichiliste (Your Phone’s Off The Hook, But You’re Not), inni alla malinconia (The Unheard Music, Nausea, costruite anche con il Farfisa in stile Doors di Ray e usate recentemente in documentari e in famose serie TV), la ripresa di Los Angeles e una cover arrabbiata di Soul Kitchen come omaggio al maestro in consolle. Critica e pubblica sono estasiati e gli X iniziano ad essere la prima vera sensazione del punk californiano. Sull’onda di Los Angeles, nel 1981 la band replica con Wild Gift. Stavolta la copertina è a colori accesi, sempre con Manzarek in produzione, il disco è tutto dominato dai duetti acidi di John Doe e Exene, e musicalmente il punk rock si alterna a momenti dove l’amore di Zoom per il rockabilly ha la meglio (In This House That I Call Home), con due dediche speciale alla città degli angeli, mai così decadente come in Universal Corner e Beyond And Back. Anche questo disco è un successo di critica e pubblico. Alla prova del nove del terzo album, arriva l’atteso capolavoro.
Under The Big Black Sun esce per la Elektra (la casa discografica dei Doors, ultimo regalino di Manzarek) nel 1982: in copertina un disegno del famoso Alfred Harris. Under The Big Black Sun è un album che sulla solita base schizzata e veloce del punk innesta altri stili, per un disco seminale per le generazioni successive: la meravigliosa Hungry Wolf e Motel Room In My Bed sono super rock e tutte giocate sui duetti vocali tra Doe e Exene, e dominati, soprattutto la seconda, dalla stupenda chitarra affilata di Zoom e il drumming di Bonebrake. La poesia del duo si districa tra sbavate storie d’amore, finite spesso in adulteri (Riding With Mary) o nella desolazione di una metropoli che è nerissima e maledetta (Because I Do). La sorella della Cervenka, Mary, morì durante le registrazioni, e a lei Exene dedica la toccante Come Back To Me (dove compare addirittura un sax). Zoom giganteggia anche in Real Child Of Hell e nella famosa How I (Learned My Lessons). C’è spazio anche per una “ballata” (The Have Nots) e per una ripresa di un brano blues (passione profonda di Doe, che con i due maschi della band farà due dischi di country blues con il nome The Knitters) Dancing With The Tears In My Eyes, di Dubin e Burke, nel repertorio di Leadbelly. Il momento magico continua con il successivo More Fun In The New World (1983) in cui si vira più verso tematiche sociali e non più solo personali, con due canzoni che diventeranno famose, The New World e una cover di Breathless di Jerry Lee Lewis, usata nella colonna sonora di All'Ultimo Respiro, remake americano del 1983 del classico di Godard Fino All'Ultimo Respiro, con Richard Gere protagonista. Di questi quattro dischi la celeberrima e mai troppo ringraziata etichetta discografica Rhino ha ripubblicato tutti i dischi rimasterizzati, con l’aggiunta di numerose chicche, anche live. John Doe ha affiancato alla carriera musicale anche una da attore, con ruoli anche in film famosi (Il Duro Del Road House, L'Ultima Volta Che Mi Sono Suicidato, Boogie Nights - L'Altra Hollywood tra gli altri) e ha partecipato a due serie TV molto famose qualche anno fa come Roswell e One Tree Hill. Exene Cervenka invece ha pubblicato diversi libri di poesia. Fino al 1985 i due erano anche sposati (poi la Cervenka sposerà Viggo Mortensen, da cui si separerà a sua volta), e non mi sembra un caso che dopo la loro separazione quel mix speciale e imprevedibile di punk e poesia di cui erano capaci sia diminuito. Date un ascolto ai loro lavori, tra l’altro in pieno stile punk durano pochissimo (Los Angeles in versione originale 27 minuti).
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klimt7 · 8 months
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RAI: SERVIZIO PUBBLICO?
M'è capitato per sbaglio di vedere l'altro pomeriggio, "La Vita in Diretta" condotta da un certo Alberto Matano su RAIUNO.
Un programma che ho scoperto va in onda tutti i santi giorni feriali.
Ho messo in moto il cervello.
A chi giova imbastire un programma del genere? Un programma che si onora di sfruculiare in mille modi diversi, la curiosità macabra del pubblico.
Di sollecitare una sorta di perversione sadica nell'apprendere i dettagli feroci e disumani degli assassini che abbelliscono il nostro bel paese. E intendo il numero delle coltellate, il topicida fatto ingerire alla ragazza incinta, la trappola mortale architettata e spacciata per "incontro chiarificatore".
Eccolo allora il festival della pugnalata, del sangue schizzato sul pavimento, androne, scalinata. Un fiorire delle peggiori atrocità sbandierate a destra e manca con l'ausilio del commento della criminologa di turno.
A chi serve un orrore del genere travestito da cronaca del Presente.
Certo, serve a certo Pseudo-giornalismo per fare ascolti. Per scandalizzare, per scioccare, per catturare attenzioni raschiando il fondo del barile della peggiore "cronaca nera" del nostro paese.
Ma questo rimestare, questo intingere continuamente le mani nei delitti della peggiore criminalità e della miseria di certi individui perversi e malati, a chi giova?
È EDUCATIVO ?
È MORALE ?
È QUESTO CHE DEVE ESSERE IL "SERVIZIO PUBBLICO" FINANZIATO COL CANONE DA TUTTI QUANTI?
È SOCIALMENTE ACCETTABILE PRESTARSI A FARSI MEGAFONO E CASSA DI RISONANZA DEL PEGGIO CHE ACCADE NELLA NOSTRA ATTUALE SOCIETÀ?
La cosa che mi lascia di sasso è la SERIALITÀ delle puntate.
Mi spiego: un singolo crimine, delitto, omicidio, viene ripreso quotidianamente.
A volte anche per decine di puntate.
Quasi che un telespettatore dovesse mandare a memoria l'intera sequenza di un assassinio. E questi allora che fanno?
Ti aiutano a memorizzare. Spacchettando l'intero accadimento in tante sequenze da imparare un poco ogni giorno.
Come se fosse una POESIA da imparare a memoria!
...ogni giorno ti offriremo 4 versi dell'intero componimento!
Ci pensavo ieri sera.
Perchè allora, invece di presentarci una serie infinita di femminicidi ormai già avvenuti, non si cambia punto di vista e di osservazione?
Perchè, se ci sta davvero a cuore il problema di questa piaga sociale che è la violenza alle donne, il giornalista, invece che intervistare a bocce ferme, i parenti e le amiche della malcapitata di turno, non va ad intervistare...
una donna ANCORA VIVA, ANCORA RESPIRANTE, ANCORA PENSANTE
che abbia presentato una denuncia per maltrattamenti, violenza, percossse ?
Perchè se si è davvero " servizio pubblico" invece che speculare sul dolore e sulla carneficina in corso ai danni del genere femminile, non si decide di documentare il problema vero, di entrare nella carne viva di questi inferni umani che sono certe relazioni.
Perchè non si decide, invece, quando ancora "si è in tempo" di prendere le parti delle vittime di maltrattamenti, di documentarne le difficoltà, di arrivare a chiedere immediati interventi di ordine pubblico (braccialetto elettronico o carcere) contro gli aggressori, prima ancora che l'irreparabile sia accaduto?
Non sarebbe forse quello il migliore SERVIZIO PUBBLICO che si potrebbe svolgere a difesa delle donne che rischiano ogni giorno di essere le prossime vittime di femminicidio?
Io me lo chiedo.
Meno tv del dolore, e più trasmissioni educative sul tipo di relazioni che vale la pena vivere.
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ma-come-mai · 1 year
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Splendido pezzo, anti-conformista e coraggioso su Sanremo, scritto da Tomaso Montanari per Il Fatto Quotidiano.
"" L’inquietante sensazione è che il marketing di Sanremo si sia mangiato proprio tutto: perfino il presidente della Repubblica, voluto e acquisito al Festival dall’onnipotente manager di Amadeus e Benigni, in una indecorosa “privatizzazione” della massima magistratura repubblicana, all’insaputa degli organi di governo del servizio (già) pubblico.
Del resto, la forza di Sanremo è questa: essere sempre, nel bene e nel male, lo specchio fedele dello stato delle cose. Ed è innegabile che l’imbarazzante rappresentazione della nostra eterna società di corte, col sovrano benedicente in persona e l’aedo osannante, sia stata terribilmente efficace: proprio perché capace di raccontarci per come siamo veramente, al di là delle intenzioni dei protagonisti. Per la stessa ragione, il preteso inno d’amore di Roberto Benigni è stato così imbarazzante: perché la Costituzione è tutto tranne che uno strumento di celebrazione del potere costituito. La Carta – diceva Piero Calamandrei – “è una polemica contro il presente, contro la società. Perché quando l’articolo 3 vi dice ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana’ riconosce con ciò che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare”.
Ebbene, la retorica fluviale di un Benigni autoridottosi a cantore dello stato delle cose è esattamente il contrario di queste parole acuminate: la Costituzione viene depotenziata, messa al guinzaglio, normalizzata. Diventa un bel sogno, del tutto inconferente con una realtà che, anno dopo anno, la contraddice sempre più profondamente. Bisognerebbe ricordare, allora, che la Costituzione è “sorella” di chi si batte davvero per farla rispettare e attuare: non di chi assiste inerte a questa deriva, rimanendo al potere da decenni. Altrimenti nulla rimane della “rivoluzione promessa” che, sempre secondo Calamandrei, vi è racchiusa: la Carta diventa un soprammobile trasmesso per via ereditaria, un innocuo sedativo utile ad addormentare del tutto le coscienze.
L’apice dell’ipocrisia si è toccato nel passaggio sulla prima parte del primo comma dell’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. “Il verso di una poesia, una scultura”, l’ha definita Benigni, esaltandone “la forza, la bellezza, la perentorietà”, e concludendo che “se questo articolo lo avessero adottato le altre Costituzioni del mondo non esisterebbe più la guerra sulla faccia della Terra”. Fosse stato presente un bambino, uno di quelli capaci di dire che il re è nudo, avrebbe potuto urlare che non basterebbe affatto che altri Paesi adottassero questo articolo: lo dovrebbero poi anche attuare! Perché se lo facessero con la stessa coerenza dell’Italia, allora le guerre sarebbero ben lungi dallo scomparire.
Un anno fa, al tempo dei primi invii di armi all’Ucraina aggredita dalle truppe di Putin, i costituzionalisti si divisero tra chi riteneva quell’aiuto compatibile con l’articolo 11 e chi invece riteneva che fossimo fuori dalla Costituzione. Tutti, però, concordavano che se quell’invio non fosse stato immediatamente accompagnato da una forte azione diplomatica allora si sarebbe configurata la situazione di una risoluzione di una controversia internazionale solo attraverso l’uso della forza. Che è esattamente ciò che la Costituzione vieta: ed è anche esattamente ciò che, purtroppo, è poi puntualmente successo. Ci possono essere ben pochi dubbi, oggi, sul fatto che il continuo invio di armi, e la nostra partecipazione a un fronte occidentale che prolunga la guerra come mezzo per contrastare l’influenza di Russia e Cina, sia contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione. Appare chiaro che l’Italia non sta lavorando per la pace, ma per la “vittoria” contro Putin: ciò che la Costituzione ci proibisce di fare! La guerra, insomma, non la stiamo affatto ripudiando: come dimostra a usura la presenza di un esponente di spicco dell’industria delle armi al ministero della Difesa.
Non è la prima volta che accade, purtroppo. Nel 1999 il primo governo D’Alema (di cui Sergio Mattarella era vicepresidente del Consiglio; per poi passare alla Difesa nel secondo dicastero D’Alema) partecipò a una guerra illegittima sia per la Carta dell’Onu sia per la nostra Costituzione. Non c’è da stupirsi: la logica del potere non è la logica della Costituzione. Quel che invece deve stupirci, e indignarci, è l’ipocrisia con cui un artista si piega al servo encomio e alla propaganda che tutto questo vorrebbe nascondere. “L’arte e la scienza sono libere”, dice la Costituzione: ma se sono gli artisti a consegnarsi a una servitù volontaria, allora per l’ennesima volta quelle parole rimangono inerti.
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valentina-lauricella · 6 months
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Per me Leopardi non costituisce studio, ma pura evasione. Può sembrare un paradosso, cercare - e trovare - la felicità in un noto pessimista (sebbene ri-valutato) e la serenità in un personaggio complesso, imprendibile, frustrante per chi esiga una totale tomografia fenomenica. Per quanto sia auspicabile che la biografia degli artisti non sia più ingombrante della loro opera, la vita di Leopardi, la sua persona, sono entrate nell'immaginario popolare e in quello di altri artisti, che hanno così creato, dal nucleo originario del dato reale, una costellazione di ampliamenti, interpretazioni, corresponsioni.
L'ombra di Leopardi perdonerà il verosimile, pensa Giampaolo Rugarli, autore del libro Il bruno dei crepuscoli, perché è meglio il verosimile che abbia un'anima, e giunga al pubblico, piuttosto che l'arido vero, illuminato da una cruda luce, che non commuova altrettanto o addirittura per nulla. Perché non rendere la stessa vita di Leopardi una poesia (revisionata, balbettata, enunciata con una voce ch'è quasi un fiato, ma tesa e tenuta insieme da un filo di senso superiore)? Sembra quasi cosa dovuta, piuttosto che intento per il quale ci si debba scusare.
Rugarli in questo intento riesce benissimo; con risultati esteticamente altalenanti, ma compensati dall'altalena di emozioni che riesce a generare nel lettore. Qui e lì, la carenza di materiale biografico certo, si rende evidente, non sufficientemente coperta dall'invenzione letteraria, che pure si mantiene sempre coerente; non tradisce la logica né la psicologia; non rompe l'incanto della sospensione dell'incredulità.
Il primo capitolo è costituito dal monologo della cugina di Leopardi, Geltrude Cassi Lazzari, giovane e robusta donna maritata che si sorprende ad essere turbata dal cugino molto più giovane di lei, sgraziato e deforme, che però fa baluginare intelligenza e carisma tali da trasformare la pena e il fastidio iniziali in un delirio che la tiene sveglia.
Il secondo è anch'esso un monologo, scritto come personale orazione funebre, dalla prostituta romana Dafne, che ricorda, probabilmente a un passo dalla morte per colera, il periodo in cui la sua vita s'intrecciò, in modo impalpabile e inesplicabile, ma persistente, alla vita del ragazzo Leopardi, ospite dello zio Antici.
Il terzo è costituito dagli appunti del giovane nobiluomo Papadopoli, allievo di latino e greco del Leopardi. I due diventano amici, e il ragazzo diventa preoccupato spettatore della vicenda in cui Leopardi cercherà l'umiliazione prostrandosi ai piedi della rotondeggiante, umoralmente labile dea Teresa Carniani Malvezzi.
Nel quarto capitolo, Ranieri accenna, in una lettera alla sorella, ai tumulti sentimentali del periodo fiorentino di Leopardi, in cui egli passa dalla venerazione della virago Fanny Targioni Tozzetti all'abbandono a lui, testimoniato dalle famose letterine amorose con cui lo implorava di tornare a Firenze, manifestando la volontà di quel "sodalizio" che poi si protrasse ben oltre il volere dei suoi contraenti.
L'ultimo capitolo, redatto dal medico Mannella, testimone del periodo più aspro della malattia di Leopardi, quello napoletano, è il più drammatico e torbido, in cui le ambiguità, le menzogne, le manipolazioni operate dai fratelli Antonio e Paolina Ranieri, sembrano isolare il fragilissimo Leopardi in un precoce sudario di morte, desiderata e provocata, che infine si compie.
È un viaggio a più voci attorno alla psiche di Leopardi, che riesce a restituire un ritratto profondamente armonico e credibile della sua personalità, dal quale lo scaturire della sua opera sembra naturale, quasi necessario. Questa non è una mera biografia, ma un'opera letteraria parallela, a sé bastante, che paradossalmente potrebbe funzionare anche se Leopardi non fosse mai esistito come persona reale, ma fosse stato, da sempre e per sempre, un personaggio padrone dell'immaginario, e la sua vita una parabola archetipica in cui ciascuno può rispecchiarsi e provare a interpretarsi.
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fotopadova · 1 year
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Walker Evans. Parte terza: grandezza e contraddizioni
di Paolo Felletti Spadazzi
 --- Un nuovo modo di vedere
-- Quando ci narra la storia della fotografia in America, Susan Sontag (Sontag 2004) inizia con una citazione di Walt Whitman (1819-1892), il padre della poesia americana, secondo il quale "ogni oggetto o condizione o combinazione o processo esprime una sua bellezza". Secondo Sontag "la fotografia americana è passata dall'affermazione all'erosione e da questa alla parodia del programma di Withman. Il più edificante personaggio di questa storia è Walker Ewans", la cui poetica."deriva ancora da Whitman, e precisamente dall'abbattimento delle discriminazioni tra bello e brutto, tra importante e banale". Questo modo di vedere ricorda una citazione del Talmud che Guido Guidi ama ripetere: “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”. Walker Evans ci insegna a vedere in modo diverso le cose di ogni giorno, un po' come fece la pop art negli anni '60, usando oggetti quotidiani come le bottiglie di Coca Cola o le lattine di zuppa al pomodoro.
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A sinistra: Walker Evans, Griglia per  camion,  Connecticut (1973). A destra:. Robert Rauschenberg, Auto  con telone (1979)
 Anche il famoso illustratore Saul Steinberg (1914-1999) avrebbe affermato che Evans ha insegnato a vedere a tutta una generazione (Katz 1971).
John Szarkowski, nella sua introduzione alla retrospettiva su Evans esposta al MoMA nel 1971, scrive: "Le immagini di Evans hanno ampliato il nostro senso della tradizione visiva utilizzabile e hanno influenzato il modo in cui ora vediamo non solo altre fotografie, ma anche cartelloni pubblicitari, discariche, cartoline, stazioni di servizio, architettura vernacolare, strade principali e pareti delle stanze."
Nel 1933 il Museum of Modern Art espone "Walker Evans: Photographs of 19th Century Houses", che è la prima mostra fotografica personale allestita da un importante museo negli Stati Uniti.
Nel 1938, in occasione della celebre personale di Evans, American Photographs, sempre al MoMA, Thomas Mabry, direttore del Museo, osservava che Evans era ritenuto dai suoi ammiratori uno dei più grandi fotografi americani viventi.
Tuttavia, un incremento ancora maggiore della popolarità di Evans derivò dalla mostra retrospettiva del 1971 e dalla relativa pubblicazione, entrambe curate per il MoMa da John Szarkowski.
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1971. Copertina della monografia su  Walker Evans curata da John Szarkowski insieme alla omonima esposizione  allestita al MoMA
 A tale proposito Lewis Baltz afferma che “a metà degli anni settanta il prestigio di Evans era così assoluto da far pensare che in America non fosse possibile intraprendere alcuna ambiziosa attività fotografica senza invocarne il nome [...] Per moltissimi fotografi americani Evans è quello che Cartier-Bresson è per i francesi: un artista con un retaggio inesauribile”
Numerosi altri storici e critici collocano Evans fra i fotografi più influenti e famosi del 20° secolo (Hilton Kramer, Bruce Jackson, David Campany, Philippe De Montebello e Maria Morris Hambourg).
In particolare Hilton Kramer (1928-2016), noto critico e saggista statunitense, nella sua introduzione alla biografia di Walker Evans redatta da James Mellow (Mellow 2001), afferma che "è stato riconosciuto da lungo tempo che Walker Evans è stato in America il più grande fotografo della sua generazione. Ciò che viene riconosciuto meno spesso è che è stato anche una delle figure emblematiche nell'arte e nella cultura del suo periodo storico".
Naturalmente una personalità di spicco come quella di Evans non poteva che dividere le opinioni del suo pubblico, in particolare all'inizio della sua carriera. Ad esempio, il fotografo Ansel Adams scrisse che le fotografie di Evans gli avevano fatto venire un'ernia (Rathbone 1995).
Tra i fotografi italiani che riconoscono l'importanza di Evans per la propria formazione ricordiamo Luigi Ghirri (Ghirri 2021), che scrive "Evans è l’autore che ho amato, amo e stimo più di ogni altro e che sento più vicino. Ho visto le fotografie di Evans nel 1975, e ritengo sia stato fondamentale per il mio lavoro, per quello che avevo fatto e stavo facendo e per il suo successivo sviluppo” (Ghirri 2021).
Gabriele Basilico, parlando di Evans, affermò: “penso sia stato il mio vero grande maestro segreto, un riferimento etico e estetico che ha molto influenzato il mio lavoro” (Gasparini 2016).
Michele Smargiassi, che ha curato una recente monografia su Evans (Smargiassi 2021), lo definisce "il più misterioso, sfuggente, contraddittorio (azzardiamo: anche il più grande) dei fotografi americani".
 B/N o colore?
Secondo Oscar Wilde "La fedeltà è per la vita sentimentale ciò che la coerenza è per la vita intellettuale: semplicemente la confessione di un fallimento". E l'attività di Evans, coronata da indubbio successo, non è stata certo esente da aspetti contraddittori che accenneremo di seguito.
Consideriamo dapprima il rapporto di Evans con la fotografia a colori.
Evans sosteneva che la pellicola a colori può essere usata validamente quando la caratteristica di un soggetto è la sua volgarità e quando il colore proviene dalla mano dell’uomo.
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1958.  Architectural Forum, Color Accidents
 Anche se le fotografie più conosciute di Evans sono in bianco e nero, occorre ricordare che realizzò, tra il 1945 e i 1965, ben nove memorabili portfolio con fotografie a colori per la rivista Fortune e la serie "Color Accidents", tutta imperniata sul colore, per la rivista Architectural Forum.
Però, in un'intervista del 1971, quando Paul Cummings gli chiese se era mai stato interessato dalla fotografia a colori, Evans rispose che aveva fatto fotografie a colori in alcune occasioni, ma non lo approvava molto. E soggiunse "Perché credo che il colore non sia ancora veritiero. Inoltre credo che non ce ne sia bisogno. E che non sia nemmeno durevole".
In un'altra occasione disse che uno degli aspetti positivi del colore è la sua deperibilità.
Quando, a partire dal 1973, cominciò ad utilizzare compulsivamente una Polaroid SX-70, ebbe a dire: "Un anno fa avrei detto che la fotografia a colori era volgare. Il paradosso è una mia abitudine. Ora mi dedicherò con grande cura al mio lavoro a colori" (Mora 2004).
 Niente politica
Altri aspetti contraddittori possono essere osservati nel rapporto di Evans con la politica e, in particolare, con l'establishment americano dell'epoca, di cui si è fatto cenno anche nella seconda parte.
Evans espresse più volte le sue riserve nei confronti della fotografia che pretende di cambiare il mondo.
Tuttavia, nel 1933, all'inizio della sua carriera, Evans accetta un lavoro con rilevanti aspetti politici. L'editore J. B. Lippincott chiede a Evans di realizzare le fotografie per un libro del giornalista radicale Carleton Beals (The Crime of Cuba) che costituisce una violenta accusa agli interessi del capitalismo nordamericano, che proteggevano la brutale dittatura del presidente cubano Gerardo Machado. Alcune delle 31 fotografie che vengono scelte da Evans per la pubblicazione, tra le centinaia di scatti eseguiti, sembrano riflettere l'impegno politico del libro.
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1933 L'ultima fotografia di The  Crime of Cuba. Compaiono le scritte Abbasso la guerra Imperialista e Appoggiamo  lo sciopero dei lavoratori di sigari
 Due anni dopo Evans viene reclutato dalla Resettlement Administration, divenuta in seguito Farm Security Administration (FSA). La principale finalità della sezione Storica della FSA, dove viene arruolato Evans, è di documentare, ai politici e a tutti i cittadini americani, la povertà rurale seguita alla grande depressione del '29, anche per giustificare i conseguenti interventi governativi di sostegno. Una nota redatta a mano da Evans in tale occasione, nella quale elenca le richieste da fare al suo nuovo datore di lavoro, si conclude con la frase "NO POLITICS whatever" (Niente politica, in nessun modo).
Infine, nel 1938, in una nota introduttiva (non pubblicata) al proprio libro fotografico American Photograph, ritiene necessario precisare che le fotografie "sono presentate senza sponsorizzazioni o collegamenti con le direttive, estetiche o politiche, di nessuna tra istituzioni, pubblicazioni o agenzie governative per le quali è stato svolto parte del lavoro".
Si registra quindi un continuo tentativo da parte di Evans di dimostrare di aver effettuato le riprese in modo totalmente indipendente dalle finalità del proprio committente, anche se in certi casi come quello di Cuba, il risultato finale è stato evidentemente utilizzato anche con fini politici.
Nonostante questa asserita disaffezione per la politica, nel 1971, quando fu intervistato da Leslie Katz, Evans affermò: "All'epoca ero davvero antiamericano. (al ritorno da Parigi 1927-1930) L'America era un grande business e volevo scappare. Mi ha nauseato. La mia fotografia è stata una reazione semiconscia contro il retto pensiero e l'ottimismo; era un attacco all'establishment" (Katz 1971).
A quanto pare, quello che Lewis Baltz definisce "il più americano dei fotografi" (Baltz 2014), potrebbe forse essere stato, allo stesso tempo, il più antiamericano di essi.
Bibliografia
Baltz, Lewis (2014). Il più americano dei fotografi, in Scritti, Monza: Johan & Levi (ed. or. 2013)
Beals, Carleton (1933). The Crime of Cuba. Philadelphia: J. B. Lippincott,.
Cummings, Paul (1971), Oral history interview with Walker Evans, Oct. 13-Dec. 23, Archives of American Art, Smithsonian Institution https://www.aaa.si.edu/download_pdf_transcript/ajax?record_id=edanmdm-AAADCD_oh_212650
Evans, Walker (2012). American Photographs, New York: Museum of Modern Art (ed.or. 1938)
Gasparini, Laura (a cura di) (2016). Walker Evans. Italia, Milano: Silvana Editoriale
Ghirri, Luigi (2021). Niente di antico sotto il sole, (scritti e interviste a cura di Francesco Zanot), Macerata: Quodlibet.
Katz, Leslie (1971) in Bertrand, Anne ed. (2017). Walker Evans. Le Secret del la Photographie. Entretien avec Leslie Katz, Parigi, Centre Pompidou parzialmente riportata in: https://americansuburbx.com/2011/10/interview-an-interview-with-walker-evans-pt-1-1971.html
Mellow, James R. (2001). Walker Evans, New York, Basic Books
Mora, Gilles; Hill, John T. (2004), Walker Evans: The Hungry Eye, LondonThames & Hudson (prima ed. 1993)
Rathbone, Belinda (1995). Walker Evans: A Biography, Boston: Houghton Mifflin Harcourt
Smargiassi, Michele (ed.) (2021). Walker Evans, Roma: Roberto Koch Editore
Sontag, Susan (2004). Sulla fotografia, Torino: Einaudi, (ed. or. 1973)
Szarkowski, John (1971). Walker Evans, New York: MoMA 
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levysoft · 9 months
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Quando, tra il settembre e l’ottobre del 1935, si dedicò alla stesura de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin non sapeva ancora che la pubblicazione di quello che unanimemente è considerato il suo lavoro più influente sarebbe stato rimaneggiato dalla redazione della rivista Zeitschrift für Sozialforschung tanto da farlo incazzare come una iena e spingerlo all’ennesima riscrittura di un testo che avrebbe visto la luce solo postumo nel 1955.
Nel tredicesimo capitolo della prima stesura dattiloscritta dell’opera, Benjamin gettò lì una frase che pur fotografando una situazione fattuale anticipava nelle sue implicazioni di qualche decennio Andy Warhol: «Ogni uomo contemporaneo avanza la pretesa di essere filmato». Nella sua lapidarietà, questa frase rivela un mondo. Non soltanto ci parla di una nascente società di massa che si interfaccia con lo shock del cinematografo, ma ci fa comprendere come, pur cambiando a distanza di quasi un centinaio d’anni la natura dei media, l’approccio dell’ uomo “contemporaneo” non sia cambiato, anzi. 
Ma quanto colpisce del testo di Benjamin è la requisitoria che segue, una critica sociale verso la tendenza autoriale dei lettori, che abbandonavano il ruolo passivo di fruitori per diventare essi stessi scrittori. Nulla da eccepire: ci troviamo agli albori di una democratizzazione della scrittura, che in linea di massima non sarebbe in contrasto con gli ideali di Benjamin, ma che in realtà fece scattare in lui un allarme. Il sospetto era che dietro la scomparsa della distinzione tra autore e pubblico vi fosse all’opera una logica capitalista: era il lavoro stesso a prendere la parola. 
Nel suo secondo pantagruelico romanzo Il pendolo di Foucault, Umberto Eco ambientò parte delle vicende nella redazione della casa editrice Garamond, dove Casaubon, Jacopo Belbo e Diotallevi vengono introdotti proprio dall’editore ai perversi meccanismi delle Edizioni Manuzio. Quest’ultima è un APS (acronimo di Autori a proprie spese): cioè una classica vanity press, con gli stessi autori che, nell’illusione di entrare a far parte del fantastico mondo dell’editoria, finanziano la stampa del proprio libro. 
Il malcapitato di turno (nello specifico Eco decide per un pensionato con il vizio della poesia, tal commendator de Gubernatis) farà i salti mortali per firmare un contratto vessatorio celato dietro un lancio editoriale “satrapico”: delle diecimila copie promesse ne saranno stampate solo 1.000, di cui solo 350 rilegate. Per finire in bellezza, 200 di queste saranno cedute all’autore, le altre distribuite a biblioteche locali, redazioni e riviste pronte a cestinare il plico, nonostante le dieci cartelle di presentazione entusiasta. Un meccanismo spiegato con sottile ironia dal filosofo piemontese, ma che sostanzialmente illustra un mercato dell’editoria parallelo e, che in alcuni casi, si sovrappone a quello ufficiale.
Il mercato editoriale post-pandemico ha conosciuto un’evidente e positiva crescita, che ha visto come settore trainante quello dei fumetti, unico segmento che nell’ultimo decennio è stato in costante e continua crescita. Eppure, questo scenario idilliaco è stato scosso da un dato allarmante. Secondo uno studio realizzato da CAT Confesercenti Emilia-Romagna in collaborazione con SIL, Sindacato Italiano Librai Confesercenti, e con il supporto scientifico di Nomisma, i dati non sono così incoraggianti. 
Il 30% dei libri pubblicati – spesso tra autopubblicazioni, editori improvvisati e vanity press – non vende neanche una copia, e 35.000 titoli su quelli pubblicati nel corso del 2022 hanno venduto meno di dieci copie. Quando ho letto la notizia ho subito pensato alle pagine del romanzo di Eco, e sostanzialmente la situazione nell’arco di quasi trent’anni è peggiorata: il bacino dei lettori si è notevolmente ristretto a scapito invece di quello degli autori. Certo, è indubbio che il quadro è più complesso: a una scarsa selezione a monte – con un lavoro quasi nullo di scouting e editing – si aggiunge una promozione assente o basata sull’improvvisazione e sulla buona volontà dell’autore. 
Al computo dei libri che nessuno compra vanno sicuramente annoverati una serie di titoli “scientifici” o accademici spesso pubblicati grazie a sovvenzioni pubbliche o fondi personali utili a creare un rating spendibile e che praticamente hanno una vita editoriale praticamente nulla. Ma quest’ultimo è un discorso un po’ ostico. 
Senza dubbio, di libri inutili ne vengono pubblicati a migliaia ogni anno, alimentando un mercato dopato e falsamente democratico. La falsa speranza che la possibilità che a tutti venga data voce e dignità di stampa nasconde, come sottolineato da Walter Benjamin, una strategia del capitale che in maniera bulimica si sostenta della vanità autoriale di lettori avidi di gloria editoriale.
Se i dati possono essere riportati anche sul segmento che riguarda il fumetto dobbiamo inferire che molti dei titoli pubblicati spesso da editori minori e con scarsa capacità di proiezione sul mercato non vengono acquistati e letti. Questo dato non può non essere sovrapposto alla scarsa qualità dei contratti proposti agli esordienti. Sull’onda della campagna #ComicsBrokeMe, anche i fumettisti italiani hanno evidenziato situazioni di sfruttamento e scarsa tutela del diritto d’autore. Spesso contratti vessatori e capestri diventano la norma,soprattutto nel caso di esordienti e wannabe interessati a entrare a far parte di questo settore. 
L’associazione MeFu ha sottolineato il problema, evidenziando soprattutto le ricadute sul diritto d’autore e sulle royalties. Fermo restando che sono pochi gli autori in grado di vendere tante copie da generare compensi derivanti da royalty in un mercato curvato sui soliti nomi. Che, pur generando interesse e facendo da traino per l’intero segmento, monopolizzano un settore con poche reali possibilità di successo per giovani autori che meriterebbero più attenzioni anche e soprattutto da parte dei loro editori.
Ora, a latere sarebbe opportuno forse avere il coraggio di demistificare l’importanza del libro cartaceo: nonostante alcuni lavori non possano fare a meno della capacità del supporto cartaceo – vuoi per soluzioni cartotecniche particolari, vuoi per un formato di lettura che ha nel libro la sua struttura cardine – ci sono decine di migliaia di titoli, tra cui sicuramente anche fumetti, che non meritano la dignità di stampa e che potrebbero forse vivere una vita più agevole nella loro dematerializzazione, sfruttando le opportunità democratiche e anarchiche del web. 
Forse è arrivato il momento di invertire la rotta e sovvertire l’idea che la dignità di stampa renda un’opera degna di essere letta. Il feticismo del libro come simulacro del proprio pensiero è una narrazione un po’ obsoleta e deleteria: ognuno avanza la pretesa di essere pubblicato in un mercato in cui la maggior parte dei libri finisce al macero o a prendere polvere sugli scaffali. Il libro nell’epoca dei social è un oggetto anacronistico, un vezzo avvolto da un romanticismo affettato e imbolsito.
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salliland · 1 year
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HAIKU il fiore della poesia giapponese. Lo haiku, la più piccola forma di poesia esistente, scandito in tre versi di cinque, sette, cinque sillabe, affonda le radici nel passato remoto della cultura nipponica: originariamente era la prima strofa (hokku) di un componimento più lungo, ma acquistò un'importanza sempre crescente fino a essere riconosciuto come genere indipendente. Questa antologia ne segue lo sviluppo dalla prima grande fioritura nel Seicento, epoca di profondo rinnovamento sociale in Giappone, fino alle soglie della contemporaneità, attraverso traduzioni che mirano a restituire al pubblico italiano l'icasticità e la purezza di una forma espressiva che ha sempre affascinato l'Occidente. #mondadori #salliland https://www.instagram.com/p/Cp4w_dlor0q/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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marcogiovenale · 1 year
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"il pubblico della poesia" / nanni balestrini
“il pubblico della poesia” / nanni balestrini
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raffaeleitlodeo · 1 year
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L'80% del bilancio regionale è sulla sanità, la sanità è in declino e quindi questa classe dirigente ha fallito. Come fare per sopravvivere, per mantenere in vita la retorica autocelebrativa del "buon amministratore"?
Facile: bisogna parlare d'altro. 640mila veneti sono senza medico di base, la salute mentale è' al collasso, 3000 anziani che ne avrebbero diritto non trovano posto nelle case di riposo, le visite specialistiche erogate dal pubblico sono diminuite del 13% in un anno, dati Agenas, così i veneti devono andare nel privato? Se non ne parliamo la realtà non esiste. Non si narra più la realtà, la narrazione crea la realtà.
Zaia di sanità non parla più, ma oggi ci parla di Bob Dylan. È il politico che diventa influencer, le ragioni della perdita dei diritti vengono sostituite dalle emozioni a buon mercato. Lo statista viene sostituito dall'uomo marketing, che evoca stili di vita, produce suggestioni narrative, ci parla della sete di libertà degli Stati Uniti degli anni '60, della forza emancipatrice del rock, della potenza della poesia.
Ci sono molti modi per manipolare le coscienze. Quando il leader sostituisce il partito (la lista Zaia ha preso il 40%) e il marketing l'ideologia ( quella di Zaia è la narrazione del "buon amministratore", retorica vuota, quasi antipolitica), la propaganda funziona attraverso la distrazione. Armi di distrazione di massa operano quotidianamente per parlare di tutto a parte di quello che conta. 
Il 70% dei nuovi poveri in Italia lo diventano perché devono affrontare spese sanitarie impreviste. Milioni di italiani hanno smesso di curarsi. Tragico. Tu non pensarci, non protestare, smetti di ragionare. Pensa a Bob Dylan: "Il successo arriva nel 1963 interpretando le proteste per la pace contro la guerra fredda e gli orrori del Vietnam". 
Questo Zaia è proprio bravo, è proprio Rock! Un bravissimo amministratore.
  Carlo Cunegato, Zaiastan e la propaganda che diventa distrazione, Facebook 11/04/2023
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chez-mimich · 11 months
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NOVARA JAZZ 2023 DIARY: VEYRAN WESTON, PULTZ-MELBY, JOE MCPHEE, MILITELLU AVERY FLATEN TRIO, CHICAGO SAO PAULO UNDERGROUND E BUCUC
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La Chiesa di San Giovanni Decollato ad Fontes ha ospitato il primo concerto nell’ultima giornata di Novara Jazz. Si tratta del concerto di Veryan Weston sull’organo Biroldi, recentemente restaurato, con una composizione appositamente creata per il Festival: si tratta di “Tessellation V for Tracker Action Organ - The Sacred Geometry of Sound.” Ed è subito incanto quando le canne dell’organo cominciano a veicolare l’aria. Una composizione assai articolata, basata sulle scale pentatoniche e molto variegata, che restituisce sonorità non proprio consuete per un organo chiesastico. Il secondo concerto della giornata è il “solo” di Adam Pultz-Melby all’interno della Galleria Giannoni e, “comme d’habitude” dinnanzi al quadro di Filiberto Minozzi, “Sinfonia del mare” del 1909. Un assolo che definire molto particolare sarebbe dire l’ovvio. Adam Pultz-Melby, danese che vive e lavora a Berlino, dall’aspetto ascetico stupisce subito il foltissimo pubblico con una meditazione yoga pre-concerto. Ma quando le corde del contrabbasso cominciano a vibrare lo stupore è ancora maggiore: poche note dalla durata infinita, ripetute è leggermente variate. Si potrebbe definire una struggente ripetizione che sembra non avere fine. Corde fatte vibrare fino ad esaurirne ogni possibilità. Poi si passa al primo concerto del pomeriggio che è un altro “solo” quello di Joe McPhee, nella Chiesa del Carmine nel cuore di Novara. Prima però la consegna della “Chiave d’oro” di Novara Jazz al grande sassofonista applauditissimo dal pubblico. C’è poco da dire, quando Joe prende tra le mani il sax la magia prende corpo. Per dire la verità prima di suonare Joe McPhee fa il predicatore (nel miglior senso della parola) toccando temi che vanno dalla libertà al “climate change”, ma poi quando è il sax a “parlare” la poesia diventa palpabile. Si dirà che l’unica musica adatta ad una chiesa sia la musica sacra, ma in realtà qualsiasi musica, ad alto tasso di spiritualità, potrebbe essere accolta in un luogo di preghiera e il free jazz ha in sé un alto tasso di spiritualità con Joe McPhee che ne è stato e ne è ancora uno dei massimi interpreti. Ritmo infernale quello di Novara Jazz, dopo neanche un’ora da Joe McPhee, ecco “Mitelli Avery Flaten Trio” nel giardino della soprintendenza di Novara. Qui siamo nel campo della sperimentazione stretta con un rumorismo elettronico diffuso e che dialoga magnificamente con gli strumenti: il contrabbasso di Ingebrigt Håker Flaten, la batteria di Mikel Patrick Avery e la tromba e la cornetta di Gabriele Mitelli ( oltre l’elettronica appunto). Da come è stipato il pubblico si comprende che il Festival ormai ha una platea che travalica l’ambito locale. É lo stesso pubblico, ma ancora più numeroso che si ritrova nel magnifico Chiostro della Canonica del Duomo per i “Chicago/Sao Paulo Underground” con ancora una volta Rob Mazurek alla tromba elettronica e sonagli vari, Chad Taylor, alla batteria e Mauricio Takara alle percussioni. Roboante e intenso, come sempre, il loro sound dove la batteria propone ritmi massicci e la incomparabile voce di Rob lancia nello spazio del chiostro urla liberatorie e/o propiziatorie di religioni sconosciute. Tutto prelude ad un finale fatto di ritmi indemoniati e nello stesso modo possono essere definiti quelli di BCUC ovvero “Bantu Continua Uhuru Consciousness” da Soweto, South Africa. Basta vedere le gigantesche congas e le due grancasse posizionate sul palco del Broletto per immaginare di che morte dobbiamo morire, anzi forse di che esplosioni di vita ci tocca vivere. Il pubblico resiste al primo pezzo, ma al secondo è già scatenato in danze (pseudo tribali), mentre Zithulele ‘Jovi’ Zabani Nikosi urla la sua vitalità dal palco nei più disparati dialetti parlati in Sudafrica. Energia, tutta e pura energia. Si chiude così in maniera, per così dire dionisiaca, l’edizione del ventennale del Novara Jazz Festival che ha messo in campo tutta la potenza di fuoco di cui era capace. Ma siamo pronti l’anno prossimo a stupirci ancora…
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schizografia · 11 months
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L’attore è un «mostro», o piuttosto i mostri sono degli attori-nati, siamese o uomo-torso, perché trovano un ruolo nell’eccesso o nella mancanza che li affligge. Ma piú l’immagine virtuale del ruolo diventa attuale e limpida, piú l’immagine attuale dell’attore passa nelle tenebre e diventa opaca: avremo un’impresa privata dell’attore, una vendetta misteriosa, un’attività criminale o giustiziera particolarmente oscura. E questa attività sotterranea si manifesterà, si farà a sua volta visibile, a mano a mano che il ruolo interrotto ricadrà nell’opaco. Si riconosce il tema dominante dell’opera di Tod Browning, già all’epoca del muto. Un falso uomo-torso si consegna al suo ruolo e si fa veramente tagliare le braccia per amore di colei che non sopportava la mano degli uomini, ma tenta di riscattare se stesso organizzando l’omicidio di un rivale integro (Lo sconosciuto). Ne I tre, il ventriloquo Eco può parlare solo mediante la propria marionetta, ma si riscatta nell’impresa criminale che compie travestito da vecchia signora, anche a costo di confessare il proprio crimine attraverso la bocca di colui che era ingiustamente accusato. I mostri di Freaks sono mostri solo perché sono stati costretti a passare nel loro ruolo manifesto e solo attraverso un’oscura vendetta si ritrovano, conquistano uno strano chiarore che giunge tra i lampi a interrompere il loro ruolo. In The Blackbird, «l’attore» è colpito da paralisi nel corso di una trasformazione, quando stava per piegare il proprio ruolo di vescovo a un’intenzione criminale: come se il mostruoso scambio d’un colpo si raggelasse. Una lentezza anormale, soffocante, penetra in genere i personaggi di Browning, nel cristallo. In Browning non compare affatto una riflessione sul teatro o sul circo, come vedremo in altri autori, ma una doppia faccia dell’attore, che il cinema poteva cogliere solo instaurando il proprio circuito. L’immagine virtuale del ruolo pubblico diventa attuale, ma in rapporto all’immagine virtuale di un crimine privato, che a sua volta diventa attuale e sostituisce la prima. Non sappiamo piú dov’è il ruolo e dov’è il crimine. Forse era necessaria una straordinaria intesa tra un attore e un autore: Browning e Lon Chaney. Questo circuito cristallino dell’attore, la sua faccia trasparente e la sua faccia opaca, è il travestimento. Se Browning ha in tal modo raggiunto una poesia dell’indefinibile, sembra che due grandi film di travestimento siano eredi della sua ispirazione: Il delitto perfetto di Hitchcock e La vendetta di un attore di Hichikawa, con i suoi splendidi sfondi neri.
Gilles Deleuze
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reginarix · 1 year
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Esercizio: punto di vista interno all'azione ma esterno a tutti i personaggi che intervengono.
Spiriti Affini
Salone del Libro, New York
La presentazione del libro del rinomato poeta Moltheni stava terminando, qualche giornalista si stava già alzando, venne scattata la foto di rito accanto al cartonato dell’evento e un gruppo di ammiratrici si mise in fila per salutare l’autore e chiedere un autografo. Una giornalista però alzò la voce sopra il brusio, la vidi alzarsi in piedi per attirare l’attenzione:
- Mr. Moltheni, un’altra domanda prego!
L’agente intervenne prontamente, al suo assistito non piaceva essere al centro dell’attenzione, si vedeva che era davvero una sofferenza per lui parlare in pubblico:
- Miss Print, la prego, la poesia non ha bisogno di tutte queste spiegazioni!
Lui guardò comunque verso il poeta, l’interesse dei giornali era sempre una buona pubblicità e ci contava molto: così Moltheni, con un sorrisino rassegnato, accettò di rispondere a questa ultima domanda. Tutti si sedettero di nuovo e la giornalista proseguì:
- La domanda che ancora non ha risposta è: cosa è successo? Cosa è cambiato? Dopo il boom di qualche anno fa lei è rimasto inattivo per molto tempo, ora torna con questo nuovo lavoro del tutto diverso. Qual è l’ispirazione adesso?
“Bella domanda” pensai, valeva davvero la pena fermare tutto per ascoltare una risposta.
Moltheni si prese il suo tempo per rispondere: aggrottò le sopracciglia, fissò lo sguardo in un punto indefinito e notai come si afflosciò un po’ sulla sedia. Stava decidendo se dire la verità? Stava scegliendo quale parte raccontare? O se raccontarla? Infine lo vidi riprendere forma e sostanza: si sistemò composto, bevve un sorso d’acqua e iniziò.
- L’ispirazione è un mondo parallelo. Non intendo dire che sia un luogo di fantasia, è un mondo che esiste davvero e che mi coinvolge totalmente. Solo resta accanto al mio. E talvolta io ho la necessità di portare qui qualcosa di ciò che provo laggiù. L’arte rende reali anche qui quelle emozioni e sensazioni. L’ispirazione dei miei primi lavori era un mondo piuttosto caotico, di prati falciati e spiagge, sole, pioggia e specchi neri, dove però trovava posto ogni parola, ogni musica ne rappresentava una parte. Ci ho vissuto per anni e non mi sono mai sentito solo. Ma diventa logorante dividersi su due piani così a lungo: alla fine bisogna sempre scegliere se lasciare andare quel mondo oppure realizzarlo in questo. Quando si torna ad un’unica realtà ci si trova cambiati: si notano più cose, si cerca di essere più presenti, si dà un significato profondo ai particolari. Ci vuole tempo per ricrearsi e tempo per affidarsi un'altra volta ad un mondo nuovo. Adesso mi trovo a scrivere di una nuova ispirazione, un nuovo universo parallelo: secondo me più ricco, più intimo, perché contiene tutto quello che sono, compreso tutto quel mondo che avevo lasciato. Un’ispirazione che posso condividere qui (e mi piace farlo, o non ne scriverei affatto) ma che vivo nella piena libertà del mio io.
Non sono capace a scrivere della mia vita, posso solo parlare di quello che sento, ecco qual è la mia ispirazione.
Si appoggiò di nuovo allo schienale e tutti restarono in silenzio qualche istante a cercare di capire queste sue parole. L’impressione generale era che avesse parlato in codice, ma che loro non ne avessero la chiave. Potere della poesia!
La giornalista aveva l’aria perplessa, si aspettava qualcosa di diverso: chissà, magari voleva sentire un cenno sulla famiglia del poeta, oppure l’idea di una musa ispiratrice… invece niente, era così geloso della sua privacy! La vidi abbassare lo sguardo delusa.
- Grazie, mr. Moltheni. – mormorò.
A questo punto l’agente a fianco dell’autore si alzò, chiese se c’erano altre domande e mise fine alla conferenza stampa, stavolta davvero.
Subito si formò la fila per chiedere gli autografi. Ci pensai un po’, poi decisi di fermarmi anche io: valeva la pena salutare un collega che a qualunque domanda rispondeva in poesia. Quando il suo agente mi riconobbe nella fila gli brillavano gli occhi! Stava di sicuro già pensando a future collaborazioni, eventi, pubblicazioni… Mi venne male quando mi corse incontro e mi trascinò via. Io e Moltheni ci scambiammo uno sguardo pieno di comprensione mentre venivamo presentati.
Forse non eravamo solo colleghi. Piuttosto spiriti affini.
"È una questione di qualità La tua presenza Rassicurante e ipnotica Mi affascina"
G.
SGN, 04/05/2023, 10:14
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loveint-diario · 1 year
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Capitolo 23 – Conquistiamo futuro recuperando il passato
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IV.22
Nel cerchio di un anello
Alla ricerca di ricordi
affidati alla memoria
di chi c’era.
Assecondiamo
un movimento circolare,
percezione di una retta
un avanti che se continuo
fa ritorno.
Conquistiamo futuro
recuperando il passato,
architetti del presente
disegnatori specializzati
di memorie interne.
tratta da Canti Malinconici, una raccolta di mie poesie inedita.
Mi trovavo seduta sul lato passeggero, mia sorella stava guidando e scattai dal mio smartphone una foto del sole che stava tramontando su una curva di strada, nel traffico denso del Grande Raccordo Anulare. Qualche giorno dopo postai quella foto su Instagram con la poesia in epigrafe, era ottobre.
Dopo il rientro da Barcellona avevo ripreso a scrivere, a fotografare e avevo continuato a disegnare il mio diario grafico; il mio processo di elaborazione era finalmente iniziato. Sapevo di essere spiata quindi censuravo molto la mia scrittura, non toccavo direttamente il dolore, non lo fronteggiavo come avrei voluto fare e come avrei fatto, se avessi avuto la certezza di essere l’unica a leggere ciò che scrivevo, avevo trovato un modo di nascondermi tra parole e simboli mentre cercavo di maneggiare con cura il buio.
Partii per Roma, m’imbarcai su una nave che partiva da Palermo e dato che in navigazione internet non funziona, mi sentii libera di scrivere e quella notte in nave iniziai un racconto autobiografico che conclusi, qualche giorno dopo, durante la navigazione Civitavecchia - Barcellona.
Avevo da poco letto La scomparsa di George Perec. Il libro è scritto interamente senza mai, dico mai, utilizzare la lettera e; un gioco letterario in cui cela la più grande sparizione del suo libro.  Sentivo che qualcosa di me stava scomparendo, mi trovavo a Roma anche perché dovevo ritirare dalla segreteria universitaria i documenti che mi sarebbero serviti, qualora avessi richiesto la convalida dei titoli in Spagna. Avevo detto a tutti che mi trasferivo lì per svolgere la mia professione, ma non lo sentivo vero. Non volevo più fare la psicologa, ero in totale burn out e capivo che non sarei stata in grado di svolgere la mia professione adeguatamente.
Intitolai il mio racconto La scomparsa e per undici capitoli, partendo dall’ultima sera trascorsa a Gela, presi a pretesto ciò che realmente mi accadde durante quei giorni e intrapresi un viaggio nei luoghi della mia memoria, della memoria delle persone che incontravo e di quelle che ritrovavo. Qualcosa di me stava veramente scomparendo ed io volevo fare come le farfalle, quando dopo essersi scrollate di dosso la carcassa del bruco, si allontano e camminando piano piano sulle zampe, si fermano e aspettano pazienti che il vento asciughi le loro ali.
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A San Lorenzo, il quartiere dove si trova la Facoltà di Psicologia e la sua segreteria, camminando per via degli Apuli corre lungo un muro dove su uno sfondo color salmone, scorrono le sagome bianche delle donne uccise da uomini che dicevano di amarle. In ogni sagoma bianca c’è scritto il nome della donna, la data del giorno in cui è stata uccisa e chi l’ha uccisa: marito, ex-marito, padre, compagno, ex-compagno, fidanzato, fratello, amico, figlio e dopo, si ripetono uguali, per lo più ex qualcosa.
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Il giorno che andai a ritirare i documenti passai davanti a quel muro vedendolo per la prima volta. In uno dei capitoli del mio racconto scrivo:
La segreteria era ancora chiusa ma decisi di aspettare fuori in modo da essere la prima. Dopo poco venne ad aspettare anche un ragazzo e condividemmo, come spesso accade nel mio Paese durante una fila ad un luogo pubblico, la nostra comune insoddisfazione per il modo di lavorare del luogo pubblico in questione, in quel caso la segreteria universitaria, da qui passammo alla critica dell’Università intera fino ad arrivare non so come, a parlare del caso Weinstein. Raccontai di aver letto proprio quella mattina che altre attrici si erano aggiunte alle denunce per molestie sessuali contro il regista, aggiunsi il mio rammarico sul fatto che alcune amiche, donne quindi, condividessero il pensiero di molti, riguardo all’opportunità che queste attrici avessero avuto di fare carriera in questo modo e riflettevo su quanto invece, sia spesso difficile per le vittime denunciare una violenza subita. A quel punto il ragazzo mi rispose:
«Come dice una tua conterranea (si riferisce a Carmen Consoli e cita la frase di una delle sue canzoni più famose) “Se è vero che ad ogni rinuncia corrisponde una contropartita considerevole, privarsi dell’anima comporterebbe una lauta ricompensa”, e io la penso come lei, magari adesso si sono pentite di averlo fatto e cavalcano l’onda della giustizia, ma sul momento hanno approfittato dell’opportunità».
A quel punto non parlai più, sembra che sia proprio atavico il pregiudizio che una donna che subisce violenza, in qualche modo ne sia responsabile.
Rileggendolo oggi aggiungerei che radicato è anche il pregiudizio che una donna che subisce violenza possa non averne sofferto così tanto, che sia anzi probabile che dall’esperienza qualcosa abbia persino guadagnato. Un pensiero brutale ma condiviso da molti, da così tanti che sembra quasi comprensibile che un produttore violenti le attrici con cui lavora mentre ci lavora, come brutalmente normale -tanto da essere legge- era considerato durante il secolo scorso, il matrimonio riparatore.
Rileggendo oggi quello che scrissi allora, mi fa ancora orrore ma non mi sorprende più se un ragazzo di vent’anni, un giovane studente di Psicologia, che si reca ogni giorno in Facoltà per seguire le sue lezioni, passando accanto a quel muro resta indifferente mentre gli scorre a fianco la sfilata della violenza. Non mi sorprende nemmeno quando ascolto notizie di cronaca su personaggi famosi, o come sempre più spesso accade su figli di uomini famosi, accusati di violenza sessuale nei confronti di donne e adolescenti. Adesso so che la fama talvolta può essere una maschera di carnevale, indossata la quale tutto è lecito. Non mi sorprende più ma continua a farmi orrore.
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I Canti Malinconici e La scomparsa sono stati scritti per me, non per essere pubblicati o letti da chiunque. I Canti li ha letti soltanto un amico, che a sua volta mi ha permesso di leggere il suo romanzo mai pubblicato. L’unica persona che ha letto La scomparsa è Giò, a cui è dedicato un intero capitolo. Lei è l’unica persona che ha letto tutti i miei racconti, anche quelli più intimi. Mi piacevano sia le sue critiche che i suoi apprezzamenti, anche quando le sue riflessioni su ciò che esprimevo, o su come lo esprimevo, mi disturbavano un po’ mi spingevano ad andare oltre, ad esprimermi ancora e meglio di prima, ma soprattutto mi fidavo di lei e di come avrebbe usato il suo sguardo sulla mia intimità.
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Non ci vedevamo da anni, ci rincontrammo a San Lorenzo lo stesso giorno che ritirai i documenti in segreteria, all’ora di pranzo avevamo appuntamento davanti l'entrata dell'Università. Lei fu la prima a cui confessai l’identità del personaggio famoso e dato che già lo seguiva su Instagram si accorse, nei mesi seguenti, delle risonanze tra quello che scrivevo io e ciò che lui pubblicava sul social.
Così scrivevo del nostro incontro e di quando le raccontai quello che mi stava accadendo
...Dell’amicizia però, il senso più nobile è la fiducia. Ecco perché è una forma d’amore. L’amico vero ti conosce, è quello che quando tutto il modo ti dà del matto, sa che sta accadendo qualcosa di grosso, che magari non capisce ma non dubita mai, nemmeno per un secondo, che tu sia impazzito.
...Giò sapeva e non dubitava della mia salute mentale, anche se capii che era in apprensione per la mia salute psichica. Con lei non fu difficile raccontare della storia virtuale, non fu difficile neanche confessarle quando la storia d’amore nel web aveva iniziato a tingersi di giallo e a diventare una storia di spionaggio, delazioni e delatori. Per la prima volta, riuscii ad esprimere il senso d’impotenza in cui mi aveva gettato l’essere vittima di un hacker che era in grado di fare qualsiasi cosa con il mio smartphone e con il mio iPad. Ascoltarmi, osservarmi, leggere i miei contenuti, i miei messaggi, i documenti, qualsiasi cosa, come se i miei supporti tecnologici fossero i suoi. Avere accesso completo a ogni sfera della mia privacy. Riuscii finalmente ad esprimere come il non avere i mezzi per poter porre fine a questo abuso, mi facesse sentire debole e sfiduciata, completamente impotente.
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E poco dopo
“Cosa ti piaceva di lui?” Giò ha chiesto a un certo punto.
Cosa mi piaceva. Mi piaceva quello che diceva, come lo diceva. Mi piacevano le cose a cui dava importanza. Mi piaceva la sua azione sociale, condividevo quello contro cui lottava…
…Non ho l’animo della fan per i personaggi pubblici. Anche gli Stati con ancora i regni monarchici mi fanno uno strano effetto, così assurdo, quasi surreale.
..Dico questo per dire, che penso si possa apprezzare l’opera di qualcuno, di un personaggio pubblico noto, come non so uno scrittore, un artista o un politico per esempio, senza per questo innamorarsi o desiderare di avere una relazione più intima con lui o con lei. Il sentimento del fan penso, include questa speranza, come include una quasi morbosa curiosità per i dettagli della vita personale e privata di questo personaggio noto. Io non sento questo desidero per nessuno dei personaggi che ammiro, e non lo sentivo neanche nei suoi confronti, mi piaceva e lo ammiravo, e stimavo la sua capacità di vivere in una situazione particolarmente difficile come era quella in cui viveva lui.
(..ho iniziato)A sentire oltre le sue parole, a sentirmi chiamata dalle sue parole e a sentire una profonda empatia per lui. Ho iniziato a vedere quello che non mostrava, quello che tra parole, punteggiatura ed immagini restava un silenziosissimo urlo.
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La corsa in auto con mia sorella finì in un locale di San Lorenzo, quello dove pranzai con i miei amici e la mia famiglia per festeggiare il giorno che discussi la tesi. Quella sera incontrai due compagne di studio che avevo perso di vista quando mi trasferii in Sicilia. C’eravamo tutte e tre laureate con una tesi in psicofisiologia con il prof. Vezio Ruggieri. Era stato il nostro maestro. Molto di quello applico nel mio lavoro me lo ha insegnato lui; ancora oggi utilizzo molti dei principi del Modello Psicofisiologico Integrato da lui creato per i miei interventi. In uno dei capitoli del mio racconto parlo dell’importanza che il prof. Ruggieri ha avuto nella mia formazione di psicologa, racconto dei seminari di teatroterapia e di musicoterapia che seguii con lui per tre anni, della mia partecipazione al montaggio e alle riprese del film che stava realizzando sulla filosofa Ipazia, di come le sue lezioni e il suo modo di osservare abbiano profondamente influenzato la mia maniera di intendere la psicologia e l’essere umano.
La scomparsa è un testo nel quale riannodo le fila di un lungo percorso di vita in un momento di totale frammentazione. Sto lasciando il mio Paese, ho quarant’anni e guardo indietro vedendo gli anni della mia gioventù, passo al setaccio i progetti che avevo e i sogni che mi spingevano a realizzarli per capire cosa ne è rimasto. Recupero pezzi di me recuperando amicizie lontane nel tempo, riscopro cosa hanno significato per custodire con più cura quello che mi hanno trasmesso. Rivedo i momenti in cui le mie scelte hanno deviato un corso che poteva andare altrimenti, riconosco i passi che mi hanno portato a diventare quello che mi scopro essere diventata.
Se oggi pubblico parti di questi scritti personali non è soltanto perché mi aiutano a ricordare, a raccontare e a trovare un senso, ma perché come ho detto all’inizio di questo blog, tutto ciò che pubblicherò qui, è tutto ciò che lo stalker ha visto spiandomi, ha preso e ha utilizzato per le sue pubblicazioni. Almeno quelle di cui mi sono accorta. Se ce ne siano di più di quelle che riporto non lo so, e confesso che sono anche contenta di non saperlo. Nel 2020 lo stalker ha pubblicato un saggio molto più corposo dei mie 11 capitoli, in cui scrive a se stesso ripercorrendo i luoghi e i personaggi, attraverso i loro libri, che sono stati utili alla sua formazione. Tra questi la filosofa Ipazia che, in un video di presentazione del suo libro arrivatomi in notifica sul mio smartphone, dice di amare letteralmente non soltanto metaforicamente. Non ho letto il libro, quello che so è quello che mi ha sbattuto in faccia con le sue notifiche e con i suoi post fino a quando l'ho seguito. Quello che ho visto è bastato a farmi riconoscere ciò che era mio, ciò che apparteneva alla mia vita.
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In un certo senso la psicologa che ero nel tempo in cui scrivevo La scomparsa non c’è più, ce ne una diversa, una che conosciuto il trauma e lo stress traumatico non solo come professionista, come studiosa e per interposta persona, ma anche come vittima. O come sto cercando di fare, come protagonista. Alla maniera di Yayoi Kusama provo a riappropriarmi delle mie paure, dei miei dolori, delle mie ferite, le mostro e me ne libero, lasciandole qui libere di vagare nella rete.
Roma 26 febbraio 2023 h: 5.25pm – 27 febbraio 2023 h:5.05pm
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crazy-so-na-sega · 2 years
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esercizio di versificazione
Quanti saccenti che non sanno niente Quanti visionari Quanti veggenti Che riempiono di fiamme e di fumo le loro parole E offuscano il senso e la direzione del loro percorso Per sembrare più interessanti Innanzitutto a se medesimi Dando l’impressione che hanno da dire Molto di più di quanto hanno da dire
Guardateli Stanno dicendo ora stesso Molto di più di quello che stanno dicendo Ma il mondo distratto Non riesce a sentire Tutto quello che hanno da dire Signora mia
Ascoltateli La gran parte di loro Non ha nulla da dire Ma lo dice Andando insistentemente da capo Prima che si arrivi alla fine del rigo
Pare che questo sia Il primo motore della poesia Signora mia Immutato dal tempo che fu (Ancor prima che sia nato Gesù) Con tutto lo spreco di carta Che ne deriva e comporta
Ma questo Alla poesia Cosa diavolo importa? Il buon poeta e il poeta buono Sono poco versati nelle circostanze effimere dell’attualità e Nelle problematiche della vita sociopolitica della gente comune
È d’uopo altresì rifuggire la rima Che conferisce al testo Un sapore di buone cose di pessimo gusto
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“Meglio un albero senza fusto Meglio un ramoscello o un arbusto Che un caffè dall’aroma robusto Infarcito di un linguaggio frusto trito e ritrito Fatto di formulette che puoi ripetere a menadito Per sfornare il tuo piatto adusto”  E fare in modo che Come da rito Nessuno legga Con dovuta attenzione Né possa esservi qualcuno che regga Tutta intera La lettura della composizione
E poi è d’obbligo suonare esoterici e oscuri Ma questo credo di averglielo già detto Signora mia
Oppure giocare a fare i banali Per nascondere quanto banali si sia per davvero Dietro un muro di simpatiche anafore Infarcite di battute ad effetto E colpi di teatro Fatti per essere detti in pubblico Tra il rumore dei bicchieri e qualche rutto che dia ritmo alla serata
O anche (E con questo passo e chiudo) puntare a più amplie platee Discettando di natura a chi vive in città E darsi pose da provinciale universale Essendo trito ed essendo banale Come il pane senza sale Che ti danno in ospedale Per accompagnare la pastina e il merluzzo (E se ti va bene Arriva anche una mela Avvolta in una bustina di plastica Trasparente ma opaca )
Per il resto Le consiglio di seguire il mio laboratorio di poesia Costa pochissimo e le assicura un posto in prima fila Nel nulla della poesia contemporanea Nel quale m’onoro di naufragare Come chi ha di fronte un bicchiere E si sente nel mare
Il che (non) è norMale Signora mia
-https://aitanblog.wordpress.com/2022/06/
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