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#Julian Zhara
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Venice
Photo: Dieter Krehbiel
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marcogiovenale · 8 months
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oggi, 21 ottobre, allo studio campo boario (roma): le forme dell'oralità poetica
LE FORME DELL’ORALITÀ POETICA a cura di Alberto D’Amico, Giovanni Fontana e Cetta Petrollo Pagliarani a Roma, OGGI, 21 ottobre 2023, dalle ore 16:00 Studio Campo Boario cliccare per ingrandire
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pangeanews · 5 years
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“La poesia o odia o ama. In entrambi i casi è molesta, o sgradevole, o inopportuna”: una lettera per Julian Zhara
Ho iniziato una corrispondenza email con Julian Zhara nel 2012, pare unʼepoca fa perché i social non avevano ancora invaso militarmente le nostre vite e vi era ancora spazio per non conoscersi e scriversi delle lettere. Il suo era il nome sconosciuto di un ragazzo di ventʼanni nato a Durazzo, in Albania, ma residente in Veneto dalla prima adolescenza, prima a Padova e poi a Venezia, dove lavorava come barista e scriveva le sue prime poesie, in italiano.
Le lessi, in un file word, e le trovai potenti. Commoventi, senza mezzi termini. Talvolta esaltanti. Linfa vitale, materia grezza, nuda realtà da attraversamento ripresa in soggettiva con una videocamera amatoriale in mano, senza fronzoli né pose. Parole tangibili. Utensili, lame. Non volevano insegnare niente, finalmente. Non volevano essere belle né esibire una raffinatissima sensibilità né servire qualche stupida teoria letteraria. Finalmente una scrittura vivente, pensai, in un paesaggio desolato di imitatori di Milo De Angelis e candidati manciuriani dellʼanticanone programmatico.
Eccone una, ad esempio, intitolata A mio padre: “39 anni, abbandoni la città / dove il sole dorme immerso / nelle carezze famigliari e parti / così fiero, alto-borghese, / là si chinano con rispetto antico, / tra bestie nel sud, sei solo l’albanese. / E da uomo diventi braccia, / coltivi speranze a usura, / paghi l’identità rinnovata / con la faccia dimessa, / in attesa / di una riscossa futura”.
Oppure Lʼonto (vale a dire “lʼunto”, in veneto, “lo sporco”): “Al bar, / dove le controfigure fanno di me / una meccanica estensione del capitale, / vedo un giorno un uomo, un altro / espediente di carne per il compimento / di non so quale destino. / Noi schifati nel vederlo, con la paura / che si sarebbe presentato anche l’indomani. / […] / Ma ogni tanto, guardando il mare, / lo penso vicino a sua moglie, / finalmente redento / dal dolore dell’assenza, / almeno tra i morti, / normale.”.
Julian Zhara non ha mai pubblicato questi versi giovanili. Nel frattempo (sono passati sette anni) si è fatto conoscere, o riconoscere (si è imposto, si direbbe nei termini agonistici non estranei alla psicologia dellʼuomo), come uno dei principali esponenti della cosiddetta nuova scena orale veneta, partendo dalla baraonda degli slam poetry e dalla prima lezione di Lello Voce per approdare infine a un format di esibizione più personale, da locale notturno e urbano, uno spokenword (monologo ritmico) su basi elettroniche accompagnato da una mimica facciale e gestuale anchʼessa cadenzata al tempo dellʼesecuzione.
Non amo particolarmente questo periodo “dimostrativo” di Julian, sebbene ne ammiri umanamente la fierezza e la testardaggine. Non lo amo perché, al netto dello studio vigoroso svolto delle varie forme di oralità poetica (dalla prosodia latina e greca, alla ritmologia slava, alle tecniche più facilmente decifrabili del rap) mi pare che i suoi testi abbiano qui perduto (o posto a margine di un più rigido controllo compositivo che non lascia spazio al prodigio dellʼerrore) quel sangue originario alla testa che spillava più liberamente nellʼombra della fanciulletta incoscienza. La sua voce, sotto le luci della ribalta, pare farsi più decente, più interessata a “funzionare”. Ma a che serve, funzionare?
*
Apro una parentesi di apparente contraddizione. Proprio nei giorni in cui abbozzo la prima parte di questo pezzo esce su “LʼAvvenire” (24 marzo 2019) un articolo di Giuliano Ladolfi, dal titolo “La triste stagione dellʼarrogante dilettantismo poetico”, contro il fenomeno degli slam poetry. Il brano mi pare sbagliato da tutti i punti di vista, non è a fuoco e mira su un nemico immaginario (lo slammer come dilettante che urla parole a caso, contrapposto al poeta letterato), la pietra cioè lanciata in aria ricade in fronte senza avere sfiorato nulla.
Ho risposto via social sul profilo di Matteo Fantuzzi, che lo rilanciava: “Il dilettantismo poetico non ha area e la sedicente lirica imitativa ne è piena, come specularmente non mancano poeti della scena orale ben più eruditi filosoficamente e formalmente dei frequentatori medi dei Villaggi Poesia. In ogni caso: se le sale degli slam sono piene dove le aule dei reading di poesia convenzionale sono desolati antri abitati da qualche fidanzata imbarazzata o assessore di paese affamato di tartine, qualcosa su cui ragionare mi pare ci sia (sulla morte perlomeno apparente di un linguaggio; e la morte va meditata, se si ama veramente il defunto o a maggior ragione se si voglia tentare una stregoneria, un sortilegio, una reincarnazione). Il fenomeno slam verifica, anche per chi voglia continuare un legittimo percorso di scrittura afona, lo stato espressivo dei linguaggi e in qualsiasi caso è un elemento indubitabile da tenere a mente anche per chi voglia, per motivi più profondamente estetici di una querelle di famiglia, contestarlo”.
Tengo dunque ben a mente questo elemento per chiudere questa sezione del discorso. La performance di Julian Zhara, evidentemente, funziona. Funzionano gli slam e funzionano i concerti di spokenword. Le sale dei locali sono piene, dove i reading di poesia classici sono diventati ormai delle pantomime pietose di fronte al vuoto cosmico dellʼinesistenza. Ma a cosa serve intrattenere un pubblico, questo campione italiano degli anni Duemila, che meriterebbe piuttosto di essere insultato?
*
La poesia o odia o ama. Non si intrattiene in futili convenevoli con degli sconosciuti. In entrambi i casi è molesta, o sgradevole, o inopportuna. Anche quando si inginocchia in lacrime sotto i fiotti di luce della discoteca, dove ha visto la Madonna. Un evento estetico non può mai essere congruo. Roberto Roversi (a memoria, da una conversazione privata): “Ho smesso di fare letture in pubblico perché gli applausi mi parevano umilianti”. Chi deporrebbe, infatti, una lettera nel bosco per ricevere del consenso? (Dal punto di vista musicale, inoltre: perché inchiodarsi al ritmo e non danzarci attorno? Tradirlo, disattendere la regola, decelerare in libero stile, come Glenn Gould. Manifestare fonicamente il conflitto tra la carne e il tempo.)
Lo scorso anno, dopo anni di palestra live e performance itinerante, Zhara pubblica il suo primo libro di poesia, dal titolo Vera deve morire, per Interlinea edizioni, nella collana Lyra giovani diretta da Franco Buffoni, a cui lo legano, inevitabilmente, gli studi svolti di ritmologia a cui Buffoni ha dedicato non poche energie e pubblicazioni negli anni Novanta e Duemila oltre che una scelta di campo prosodica significativamente conflittuale con la tradizione metrica italiana.
Chi si attendeva una quadratura del cerchio con la raccolta dei monologhi performativi e lʼufficializzazione dello slammer è rimasto deluso. Vera deve morire è infatti un poemetto dʼamore, deve molto formalmente alla prima poesia di Amelia Rosselli e testimonia piuttosto lʼapertura di un nuovo periodo estetico dellʼautore. Sorprende, soprattutto, lʼadesione a un tono minore e intimo, a tratti crepuscolare (lungo la linea Pascoli-Gozzano; fino a Pavese), con cui Zhara affronta il suo battesimo alla carta.
*
Si è detto, si è ribadito mi pare senza ragion veduta, che il poemetto canterebbe un discorso amoroso tra le due rive adriatiche, lʼitaliana e lʼalbanese. Non ho riscontrato nel testo alcun indizio che giustifichi tale interpretazione. Lʼamata del libro è una ragazza italiana e la memoria albanese, che emerge in un solo testo, si mostra come una piccola vergogna, un segreto inconfessabile custodito tra le lenzuola del letto. Vera è la sola, infatti, a sapere che il poeta sogna ancora in albanese e la sua presenza è una presenza di conciliazione e di scioglimento di unʼidentità originaria (la “lingua dei tuoi antenati”) in un paesaggio urbano privo di caratteristiche regionali: il Veneto come emblematico non-luogo europeo di scompartimenti treno, bar di periferia e appartamenti in affitto.
La perdita sentimentale (il nome di Vera è un omaggio dichiarato al fantasma onnipresente dellʼomonimo racconto crudele di Villiers de lʼIsle Adam: “Sicché lei se nʼera andata!… Ma dove!… Vivere, ora? Per fare cosa?… Era impossibile, assurdo”) lascia infine la voce poetica nuda nel paesaggio adottivo in cui è stata introdotta. Ma questo momento di perdita è il battesimo di Julian Zhara come poeta italiano nato a Durazzo.
Ma è nella forma che si svolge il discorso più intimo del libro. La poesia di Julian Zhara respinge, nella sua erudizione ritmica, ogni elemento della tradizione metrica italiana (settenari, endecasillabi). Dove il contenuto esplicito del testo affronta il tema dellʼidentità come architettura da costruire nel conflitto tra cultura e direzione, origine e volontà, la forma svolge invece un movimento più ambiguo, non speculare ma incongruo.
È nella prosodia slava che Zhara fa tintinnare la lingua italiana e qui si affaccia un discorso cruciale e irrisolto sulla tradizione quale organismo mutante, paesaggio fluviale e metamorfico di reincarnazioni, innesti e assolute discontinuità.
Davide Nota
*In copertina: Julian Zhara in una fotografia di Serena Campanini
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gianlucadandrea · 6 years
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La poesia sorride e resiste – Pordenone: Settembre 2018
Settembre 2018 – Pordenone La poesia sorride e resiste - Pordenone: Settembre 2018
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redazionecultura · 6 years
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Poesia Festival 2018: da Concato a Scabia, da Magrelli a Ferroni...
Poesia Festival 2018: da Concato a Scabia, da Magrelli a Ferroni…
Ancora una volta il Poesia Festival invaderà pacificamente la provincia modenese che si adagia ai piedi del primo Appennino con la sua quattordicesima edizione. Dal 17 al 23 settembrenove comuni del modenese saranno lo scenario per l’ormai tradizionale rassegna d’inizio autunno dedicata alla poesia e alle sue contaminazioni con le altri arti. Un coro di voci diverse che testimoniano quanto la…
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allinfoit · 6 years
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POESIA FESTIVAL 2018 | Da BRANDUARDI a CHANDRA CANDIANI da CONCATO a FERRONI e tanti altri
POESIA FESTIVAL 2018 | Da BRANDUARDI a CHANDRA CANDIANI da CONCATO a FERRONI e tanti altri
Dal 17 al 23 settembre la poesia sarà protagonista nei borghi antichi di nove comuni modenesi. Grandi autori e giovani promesse testimonieranno la grande vitalità della poesia oggi. Per citarne solo alcuni, Livia Chandra Candiani, Valerio Magrelli, Giuliano Scabia, Roberto Pazzi, Giovanna Vivinetto, Julian Zhara. Saliranno sui palchi sparsi per le colline modenesi anche artisti del calibro di An…
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touseitistheart · 7 years
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Le albe coronano il termine delle mie ore orizzontali, albe di riti dissimili e precise, recluse nel recinto della cancrena afosa, albe uranizzate dal rigore del mattino: un fendente di sociopatica luce di lampione e sole timido a grattarmi le palpebre, legarmi gli arti, dirigere un 4:33 di nervi contorti, e giacevo- tremante- giacevo come quand'ero bambino gonfio di terrore, l'unica percezione reale del mio corpo era il sudore ghiacciato freddo, come a volermi aprire i pori, squarciare le fessure, il silenzio intorno, fuori; dentro uno stadio in trepidazione e schiamazzi urla rantolii tamburi sregolari in sei ottavi, poi sette, poi sei, a dissociarsi dalla scarica di crampi che di botto mi attraversava e si arrestava nella bocca dello stomaco, per attorcigliarmi tutto, voler solo crepare, finalmente sparire, vomitare, l'estrema soluzione vomitare. Giravo la testa per non sboccarmi addosso ma gettare gli avanzi nel parquet polveroso. Così mi alzavo. L'immagine tra le lenzuola ben stampata era un io che avrei voluto accoppare, stremato, tentavo di addormentarmi sul tappeto, scrollarmi dal fondo della notte il viso stilizzato, la beffa di quel volto che continuava senza invito ad apparire, aprirmi i rubinetti e poi andarsene. Piangevo, tingevo il tappeto di bava quando le lacrime erano scomparse, pregavo – mentre lo stomaco attorto si slegava dal dominio del cervello, lo processava e ne assumeva il controllo- pregavo che non succedesse più, speravo solo di potermi liberare, uscire da me, e pregavo, con tutte le forze pregavo di dormire per due ore ancora. Quando le prime luci distanti mi disegnavano l'ombra che stremato continuavo a carezzare, svenivo dalla stanchezza, dormivo forse, per risvegliarmi poco dopo sconfitto e tramortito dalla battaglia durata poche ore che a me sembravano millenni passati. Mi alzavo, guardavo di sbieco la sagoma di sudore freddo nel materasso, ne toccavo la gelida orma, andavo in salotto mentre tutti erano a letto a bere un succo: là seduto pensavo alla notte a venire, meditavo qualche trucco per risalire dalla lotta se non vincitore, almeno fuggitivo, mai come quelle mattine ti ho maledetto per lasciarmi vivo in questo verminaio. Julian Zhara
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themomsandthecity · 7 years
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The Most Beautiful Bohemian Baby Names
Picking a baby name for some parents-to-be can prove to be the toughest task - there are just too many to choose from. If you're looking to at least narrow down your search by category, we've compiled our favorite bohemian names that each have a bit of earthy, hippie flair. They all roll off the tongue so well - how will you choose just one? Ahead, check out our favorite bohemian baby names (we have a lot of favorites, sorry in advance). Related 50 Vintage Girl Baby Names That Are Classics For a Reason Boys * Alaric * Alchemy * Alder * Allistair * Alto * Ansel * Apollo * Archer * Ari * Aries * Arlo * Armon * Arrow * Asa * Asher * Aspen * Atlas * Atticus * Auden * August * Axel * Bear * Bodhi * Breeze * Brody * Cass * Chakra * Cobalt * Cosmo * Cove * Cullen * Cyan * Dax * Dexter * Emile * Eryk * Everest * Ezekiel * Ezra * Felix * Finch * Fletcher * Flint * Forrest * Fox * Gareth * Grey * Griffin * Hawk * Heath * Hendrix * Hendry * Hurley * Huxley * Indy * Jarvis * Jax * Joaquin * Jonah * Jude * Jules * Julian * Kai * Knox * Kylo * Larkin * Lars * Leander * Leif * Lennon * Loki * Malakai * Marley * Mars * Memphis * Milo * Nirvana * Ocean * Onyx * Orion * Oscar * Oz * Phoenix * Poe * Poet * Quest * Rafe * Raphael * Rebel * Reef * Remy * Rex * Rhett * Rider * Riordan * River * Rocky * Scout * Sebastian * Silas * Sonny * Stellan * Stone * Storm * Tristain * Tate * Wheeler * Wild * Wilder * Wolf * Woody * Xander * Xavier * Zephyr * Zest Girls * Adele * Allegra * Amethyst * Aria * Arwen * Aurora * Autumn * Avery * Bea * Birdie * Bloom * Blossom * Blue * Boheme * Cadence * Calliope * Catrine * Celeste * Chiara * Clementine * Clover * Coriander * Cosima * Cyrene * Dahlia * Daisy * Darcy * Deja * Delilah * Della * Demelza * Drea * Eisley * Elowen * Ember * Esmeralda * Everly * Faye * Fern * Fiona * Flora * Gaia * Gemma * Goldie * Harlow * Haven * Hazel * Ilona * Indie * Indigo * Iris * Isla * Ivy * Jessa * Juniper * June * Juno * Kaya * Kodiak * Lark * Lavender * Lennon * Lilac * Lilou * Lotus * Luna * Lyra * Lyric * Mae * Magnolia * Maple * Mareike * Marigold * Marlowe * Meadow * Melody * Moon * Nala * Noa * Olive * Ophelia * Paisley * Paloma * Patchouli * Pearl * Piper * Poppy * Reverie * Rayne * Rey * Ruby * Saffron * Sage * Shiloh * Skye * Snow * Soleil * Sparrow * Story * Summer * Symphony * Tabitha * Tallulah * Tessa * Twyla * Uma * Vellum * Violet * Waverly * Willow * Winter * Wren * Zhara * Zelda * Zella http://bit.ly/2rQBF5L
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francescafiorini · 6 years
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Da Branduardi a Chandra Candiani, da Concato a Scabia, da Magrelli a Ferroni: ecco Poesia Festival 2018
Da Branduardi a Chandra Candiani, da Concato a Scabia, da Magrelli a Ferroni: ecco Poesia Festival 2018
Dal 17 al 23 settembre la poesia sarà protagonista nei borghi antichi di nove comuni modenesi. Grandi autori e giovani promesse testimonieranno la grande vitalità della poesia oggi. Per citarne solo alcuni, Livia Chandra Candiani, Valerio Magrelli, Giuliano Scabia, Roberto Pazzi, Giovanna Vivinetto, Julian Zhara. Saliranno sui palchi sparsi per le colline modenesi anche artisti del calibro di…
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tmnotizie · 6 years
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ANCONA – La tredicesima edizione del poesia festival La Punta della Lingua parte con un week end di anteprime, dal 15 al 17 giugno​, con iniziative per bambini ​e adulti​, fra cui la presentazione della prima traduzione italiana di “After Lorca”(1957), capolavoro del poeta culto Jack Spicer per la collana Argo, e la lettura del poeta Ron Padgett​, autore di tutte le poesie del film “Paterson”, proiettato per l’occasione.
Venerdì 15 giugno si inizia con La Punta della Linguaccia. Pensieri di cose grandi​, ​un ​laboratorio di poesia per bambini dai 6 anni con Azzurra D’Agostino​. Dalle ore 17.45, al Bar Conero sulla cima del Monte Conero, l’incontro tra le parole per affrontare con i piccoli i grandi temi: quello che ci fa felici, quello che ci spaventa, le grandi domande, il mondo. Il tutto letto e riscritto a partire da poesie e filastrocche, rime da smontare e rimontare, per trovare, insieme, la nostra voce.
A seguire, alle 19.15 Poeti in classe​, ​presentazione del progetto che, sulla scorta dell’omonimo volume pubblicato da Italic Pequod nella collana La Punta della Lingua, ha portato nell’ultimo anno poeti marchigiani nelle scuole primarie della Regione. Per introdurre i più piccoli all’esistenza della poesia in carne e ossa. Con letture degli elaborati prodotti durante i laboratori. Con Azzurra D’Agostino, Evelina De Signoribus, Renata Morresi, Eleonora Del Sorbo (ed altri), interverrà il Garante Andrea Nobili ​e la dirigente scolastica Elisabetta Micciarelli. ​In collaborazione con Garante dei diritti della Regione Marche. Ingresso gratuito.
Dopo il Rifocillo del poeta ​alle ore 20.15 presso il Bar Conero (€ 10, prenotazioni 320.1830461) alle ore 21.45 si parte per l’Escursione poetica con Fabio Franzin ​e Azzurra D’Agostino. ​Una ​Passeggiata notturna, in collaborazione con Forestalp​, per i sentieri del Monte Conero. Un’esperienza immersiva tra natura e poesia accompagnata da due delle più sicure voci della poesia italiana contemporanea. Si consigliano scarpe comode e una pila. POSTI LIMITATI: escursione € 8 / rifocillo del poeta + escursione poetica € 15 – prenotazioni 320.1830461 entro il 14/6).
Sabato 16 giugno ​la giornata, tutta al nuovissimo FARgO Bar​, ​Parco del Cardeto, è dedicata a Le Marche della Poesia ​con alcune tra le più significative voci poetiche marchigiane, tra cui Fosco Giannini, ​presentato da Antonio Luccarini, e Nadia Mogini, presentata da Anna Elisa De Gregorio (ore 18.30). A seguire Cecilia Monica ​presenta “Olfactorium” (Pequod, 2018) di Moira Egan (ore 19.30): con questi nuovi versi, la poetessa americana conduce il lettore attraverso viaggi olfattivi speziati dal sontuoso linguaggio dell’arte, della poesia e della tradizione profumiera.
Insieme a Egan ci sarà Damiano Abeni per l’incontro Il traduttore e il suo doppio​. Il maggior traduttore italiano degli ultimi americani si interroga, in versi, sulla funzione deformante e cognitiva del linguaggio poetico e sulla traduzione come arte performativa. Dopo il rifocillo del poeta al FARgO bar a cura di Mi rancho (panino e birra € 10, possibilità anche di grigliate a € 16, prenotazioni 320.1830461), alle ore 21.30 Renata Morresi presenta Lella De Marchi in “Paesaggio con ossa” (Arcipelago Itaca, 2017) e alle 22.00 la presentazione della collana Lyra Giovani diretta da Franco Buffoni con due esordi originali: “Vera deve morire” dell’’italo albanese Julian Zhara​, ​sospeso tra nostalgia della lingua madre e un’autentica ossessione per la metrica italiana e “Dolore minimo” di Giovanna Cristina Vivinetto​, prima poeta transessuale italiana, in cui l’incandescenza dell’esperienza esistenziale si distilla e purifica grazie ai mezzi della formalizzazione poetica. Ingresso gratuito.
Domenica 17 giugno ​alle 18.45 Lazzabaretto della Mole Vanvitelliana, Andrea Franzoni presenta “After Lorca” di Jack Spicer (Gwynplaine, 2018), prima traduzione italiana del capolavoro del poeta culto Jack Spicer per la collana Argo. La traduzione di “After Lorca”, a opera di Andrea Franzoni e curatela di Fabio Orecchini per la collana Argo​, è la prima in Italia. Interviene il poeta e critico statunitense Paul Vangelisti. In collaborazione con Arci Ancona. Ingresso gratuito.
Alle 19.45 il Reading di Ron Padgett uno degli ospiti più attesi del Poesia festival alla Mole Vanvitelliana di Ancona. Il pluripremiato poeta newyorchese, noto in Italia come autore di tutte le poesie del film “Paterson” di Jim Jarmusch, presenta la sua prima raccolta pubblicata in italiano, in esclusiva per il festival, nella collana “La Punta della Lingua” di Italic Pequod. Traduzione di Damiano  Abeni. A seguire alle 21.30 presso l’Arena Cinema della Mole Vanvitelliana Ron Padgett presenta il film Paterson​ di Jim Jarmusch (Usa, 2016) (V.o. sub ita). In collaborazione con Arci Ancona – ingresso €4.
Chiamata alle arti: Nie Wiem cerca volontari la realizzazione del Poesia Festival! Riunione giovedì alla Casa delle Culture. Tutte e tutti coloro che fossero interessati a collaborare possono scrivere a [email protected] ed entrare a far parte dello staff dei volontari!
La Punta della Lingua – 13ma edizione (direzione artistica Luigi Socci e Valerio Cuccaroni​) prosegue dal 2 all’8 luglio con 30 eventi e oltre 50 ospiti italiani e internazionali ad Ancona, Parco del Conero e nei luoghi leopardiani con letture, performance, film, concerti e facebook poetry.
Il programma è on line su www.lapuntadellalingua.it/programma-2018/  Le foto e le biografie degli ospiti su: https://ift.tt/2sTfTxs .
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pangeanews · 5 years
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La poesia contemporanea? Recitare lo stesso copione, buono per le riviste femminili patinate e per le battaglie socialmente impegnate in vetrina
Recitare il copione. La commedia dell’ascolto
Gente che continua a giocare con la messa in scena delle parole, con la le loro varie rappresentazioni, grazie a copioni ben stabiliti: quello dell’impegno e del disimpegno; quello della “performance” e quello della “semplicità” o comunicatività, quello della ricerca “mistica” o del divertimento da guitto ironico che nulla conosce e soprattutto sperimenta del comico. Vanno e vengono sui palchi, si danno un ruolo, si ascoltano dire cose già sentite, già pre-scritte come da copione, invaghiti stupidamente della comunicazione e dell’umanismo diventati luogo comune, anch’essi già tutti scritti nel copione. Si credono questo o quel tipo di poeta: sono personaggi, macchiette chiuse ad ogni esistenza proprio laddove si credono più aperti e disponibili, democratici nei confronti del pubblico – un pubblico di altrettanti caratteristi, inscritti nello stesso copione, il medesimo sopra e sotto al palco… recitano salendo sulla sedia la loro noiosissima Vispa Teresa. Sono intrattenimenti per intrattenitori.
*
Queste mammolette della “poesia comunicativa” e della “comprensibilità – naturalmente solo a livello di immagini e significati, come se la comunicazione fosse davvero ridotta a questo – e della “parola che deve arrivare a tutti”, questi facitori di cartoline illustrate dei “sentimenti”, che talvolta arrivano persino sui banchi di scuola con seminari e altre tremende iniziative, sono in realtà, più o meno consapevolmente, fascisti del significato, del punto di vista, del linguaggio in quanto generalizzazione banalizzante e unificante, che sanno distruggere l’incomprensibilità significante della vita con le loro rappresentazioni, con i loro piccoli quadri o scatti da selfie dell’esistenza. Scriveva a tale proposito Geoffrey Hill: one of the things the tyrant most cunningly engineers is the gross over-simplification of language, because propaganda requires that the minds of the collective respond primitively to slogans of incitement. […] I think art has a right — not an obligation — to be difficult if it wishes. And, since people generally go on from this to talk about elitism versus democracy, I would add that genuinely difficult art is truly democratic.
Ne ho sentito una, Isabella Leardini, dire che un suo testo era talmente conosciuto che lo ritrovava nei diari dei ragazzi e delle ragazze delle superiori: ma questo, mi pare, non ha niente a che fare con la memorabilità della poesia ma, piuttosto, con la facilità del memorizzare banalità che non richiedono altro che la conferma di ciò che già si conosce, proprio come accade con le canzonette e i tormentoni estivi. Per non parlare poi degli atleti della “performance” poetica come, ad esempio, Julian Zhara o Tiziana Cera Rosco, che non riescono a comprendere la differenza tra l’improvvisazione e l’essere improvvisati nel loro ruolo, urlando o fingendo la recitazione, il cambio di voci, mischiando senza alcun costrutto arti diverse perché incapaci di padroneggiarne almeno una, cioè di esserne completamente al servizio. E che dire dei “padri” che avvallano in collane e prefazioni questa mediocrità scriteriata e cialtrona, finto-intellettuale? Come può, ad esempio, Milo De Angelis sostenere, davanti alla grandezza di un suo verso, i complimenti fatti a giovani e meno giovani poeti incosistenti, privi di tensione e totalmente avulsi dalla poesia? Come si può esaltare e promuovere indistintamente, anche in collane prestigiose, o i soliti vecchi bacucchi, vedi il caso di Sergio Zavoli, e altri improbabili, presenti evidentemente per altri motivi, come Vincenzo Cerami, Elio Pecora, Giovanna Rosadini, Tommaso Giartosio, Chandra Livia Candiani, Erri de Luca? Una marmellata dolciastra, fatta in modo industriale, con il marchio di successo in cui però non succede assolutamente nulla. E, se un testo poetico non cambia almeno di poco la visione e la direzione esistenziale del lettore, a che pro leggerlo?
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Decolonizzare l’orecchio
Decolonizzare l’orecchio e l’ascolto, nella nostra attuale temperie culturale non significa tanto liberarsi da schemi sonori e ritmici dati poiché, purtroppo, i poeti attuali sono quasi tutti privi di questi stessi tracciati e sembrano “pensare” più per immagini, quasi sempre stereotipate nella mediocrità o nell’eccesso: occorrerebbe accecarli, ecco. Scrivono con gli occhi essenzialmente, cioè sono incapaci di ascolto profondo del ritmo e, quindi, del farsi non appropriativo del senso. Quasi mai c’è traccia di ritmo e di suono: tutto è concentrato sulla rappresentazione, sulla maledetta convinzione del volere esprimersi, senza lasciarsi giocare dalla percussività del linguaggio e della musicistica che dovrebbe incontrare il loro orecchio. Un orecchio evidentemente troppo intasato dal cerume sociale, sentimentale – nemmeno capace di cogliere e vivere in se stesso la cacofonia del reale, di quella Cosa che, lacanianamente, non smette di non inscriversi e che proprio in questa sua azione, percuote il corpo dell’ascoltatore. Niente, questo non sembra nemmeno essere percepito: tutto è una immensa rimozione, un fantasma estetico o, meglio, estetizzante a buon mercato, buono per le riviste femminili patinate e per le battaglie socialmente impegnate in vetrina. Eticamente osceno.
Andrea Ponso
*Andrea Ponso ha pubblicato con Mondadori il libro di poesie “I ferri del mestiere” (2011); per il Saggiatore ha commentato e tradotto il “Cantico dei Cantici” (2018), per le edizioni San Paolo ha pubblicato da poco “Qohelet o del significante. Proposta di interpretazione mistagogica”.
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allinfoit · 6 years
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Poesia Festival 2018 |Da Branduardi a Chandra Candiani, da Concato a Scabia, da Magrelli a Ferroni
Poesia Festival 2018 |Da Branduardi a Chandra Candiani, da Concato a Scabia, da Magrelli a Ferroni
Dal 17 al 23 settembre la poesia sarà protagonista nei borghi antichi di nove comuni modenesi. Grandi autori e giovani promesse testimonieranno la grande vitalità della poesia oggi. Per citarne solo alcuni, Livia Chandra Candiani, Valerio Magrelli, Giuliano Scabia, Roberto Pazzi, Giovanna Vivinetto, Julian Zhara. Saliranno sui palchi sparsi per le colline modenesi anche artisti del calibro di…
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pangeanews · 6 years
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“La poesia è una sorella incestuosa e pratico il darwinismo della fantasia”: dialogo con Tiziano Scarpa
Di solito, leggo altro. Lo so. Non è bello iniziare una intervista così. Di solito l’intervista è una iniziazione all’avorio e all’incenso, si ricopre l’intervistato di mirra. Invece è necessario iniziare così. Per battere la lingua su un fatto. La militanza non esiste se si fa ‘giornalismo culturale’ – che a ripeterlo sbucano tarme da tutti i pori – l’elmetto estetico lo indossi, semmai, mentre scrivi il romanzo definitivo. Ma neanche lì, a dire il vero. Perché le convinzioni esistono – se sei serio con te stesso – per essere sbriciolate dalla curiosità. Ad esempio. Di solito leggo altro. Non leggo Tiziano Scarpa perché la mia febbre letteraria mi porta ad altre longitudini. Mi incuriosisce, però, la bulimia linguistica di Scarpa, scrittore – cosa più unica che rara – che ha vinto un Premio Strega – era il 2009 – con un libro bello davvero (Stabat Mater), l’estremista di Kamikaze d’Occidente – una roba tra Boccaccio e Philip K. Dick – quello della lunatica guida di Venezia (Venezia è un pesce), lettore furibondo – a lui si deve la ‘scoperta’, tra l’altro, di Antonio Moresco e dell’Andrea Temporelli romanziere – drammaturgo – almeno, ricordo L’infinito, intorno a Leopardi – poeta. Pare una specie di Ovidio, Tiziano Scarpa – ma a lui piace Catullo – che complica la scrittura, la torchia, la traumatizza, in perpetua metamorfosi e furia da poligrafo (nel 2016 Einaudi pubblica Il brevetto del geco, quest’anno Il cipiglio del gufo). A me la poesia di Scarpa, pregiudizialmente – ricordo Groppi d’amore nella scuraglia, 2005 – non piace. E allora cosa lo intervisti a fare? Preferisco parlare con chi è altro da me e mi insegna qualcos’altro. Ecco. Non avendo formule né idee, brancolo nel nulla, e amo dialogare con gli intelligenti. Le nuvole e i soldi (Einaudi, pp.128, euro 11,50): s’intitola così l’ultimo gruppo di poesie di Scarpa. Leggo. Ammiro. Resto di una altra sensibilità lirica – scrivere poesia è come mordere un pezzo di legno e riconoscere se è betulla, abete, nocciolo. Eppure. Ci sono poesie che mi sbilanciano e mi sbiancano. Come quella che ho ricalcato in calce all’intervista, bellissima. E poi galleggiano versi, così, che ti spaccano i denti (“la verità la so/ la verità fa schifo/ io seguo l’impostura/ sopporto il suo gravame/ sto nella dismisura/ fra verità e cognome”). Così, dopo aver rimesso i canini al proprio posto, contatto Scarpa.
Mi domando. Scrivi romanzi, scrivi poesie. Dove sta la differenza d’ispirazione, se c’è, o d’impegno, o di ‘tenuta’ mentale e linguistica? Insomma, entriamo senza scafandro nella tua testa.
Un romanzo lo covo in testa per anni: ma non prendo appunti, voglio che sopravvivano e si facciano scrivere solo i personaggi più potenti, in una specie di darwinismo della fantasia. Le poesie invece le scrivo subito, e non le posso progettare.
Poesia. Cosa c’è da poetare, oggi, che la poesia è frastuono e il poeta un pupazzo inerme? 
Non sono in sintonia con queste tue immagini, “frastuono”, “pupazzo inerme”… Comunque, io le mie poesie non le vado a cercare. Ho organizzato la mia scrittura in modo da avere una stanza sempre libera per gli ospiti inattesi. La poesia è una sorella incestuosa che torna a trovarmi quando vuole lei.
Soprattutto: tu che poesia leggi?
Leggo un po’ di tutto, però piuttosto casualmente. In questi anni mi hanno convinto Nadia Agustoni, Simone Cattaneo, Azzurra D’Agostino, Roberta Durante, Ivano Ferrari, Francesco Giusti, Aldo Nove, Giovanna Rosadini, Luigi Socci, Francesco Targhetta, Anna Toscano, Gian Mario Villalta, Julian Zhara, e il sorprendente esordio in versi di Andrea Bajani. Non mi piace molto chi si adagia sull’enigma, anche se ho sempre venerato Amelia Rosselli e Milo De Angelis.
Dove rintracci la geologia dei ‘padri’, se ci sono?
Fra i miei poeti prediletti ci sono Primo Levi, Aldo Palazzeschi, Francis Ponge, Raymond Queneau, i barocchi. Di recente ho ripreso Caproni e le farfalle di Gozzano.
A me pare, per dire, che al di là della ‘luce della concretezza’ e l’ustione dell’ironia, ci sia anche qualcosa di Giovenale, il lampo morale dopo la descrizione mortificata del tempo presente (esempio: “Mi prenderò sul serio/ soltanto nell’istante/ in cui mi perderò?”). Dì tu.
Direi Catullo. Il suo liber è molto più ricco della vulgata scolastica a cui è stato ridotto. È il primo individuo singolo che si confronta con tutto il mondo, da Cesare ai miti, dal lutto privato alle beghe letterarie. Parla di tutto, non solo di disperazione amorosa: politica, poesia, sesso, religione…
Mi piace questo distico: “Io so che le parole/ contengono i desideri dei morti”. Cosa significa?
Le parole contengono la fame insaziata di chi ha vissuto prima di noi, la loro vita mancata. Se venissero adempiute, le parole si dissolverebbero, come una profezia o una maledizione finalmente placata. Ma in quel “contengono” c’è anche l’altro significato del verbo: “trattengono”, frenano le potenze distruttive che i morti ci hanno trasmesso. E nota bene che in questo momento io ti sto scrivendo le risposte di questa intervista grazie alle parole inventate dai morti; noi due stiamo comunicando dentro i desideri dei morti.
Nel tracciato lirico-urbano vedo una certa ossessione per morte, suicidio, l’incendio di ciò che non è più. È così? C’è altro?
Ognuno vede ciò da cui si sente guardato negli occhi. Ma non chiedermi di fare una lista dei “temi” delle altre poesie: ti ho già suggerito Catullo… Piuttosto, nelle Nuvole e i soldi io sento gli accenti, la metrica, le rime, l’angoscia che si sfoga come un percussionista picchiando sulle sillabe. Ah, e poi c’è il “Piccolo poema del delfino”. Mi sta a cuore, il delfino che salta fuori dalle onde del discorso e ci si rituffa dentro.
Cito pure questa, a mo’ di chiusura tombale, di refrain e di requiem, “conformismo dei morti,/ abiura dei viventi”. 
Io citerei l’inizio di quest’altra: “I soldi, mi credevo superiore,/ pensavo mi bastasse il batticuore”.
…e quelle poesie dove la stessa frase, atrocemente scandita, fa spazio a barre nere, con versi presunti, di tenebra. Come nasce l’idea? 
Credo tu ti riferisca alle poesie in cui c’è un testo stampato in chiaro che fa tipograficamente da sfondo, e un altro testo in neretto che si staglia in primo piano. Non ricordo com’è nata l’idea. Mi sembra adeguato ai tempi che ci sia uno spazio linguistico tridimensionale, come se qualcuno parlasse sopra un’altra voce, o con un retropensiero fisso in testa; oppure parla in una stanza dove c’è una radio accesa che ripete un tormentone: forse un ritornello pubblicitario, forse la nenia di un rosario…
Insomma, da scrittore ambidestro: com’è messa la prosa italiana? E la poesia? Eliminiamo dal desco, allo stesso modo, piagnisteo ed euforia. 
Non rispondo, non mi piacciono i giudizi sommari. Invece credo che la scrittura sia sempre stata “ambidestra”, come dici tu. È quasi più difficile trovare autori e autrici che si siano dedicati solo alla poesia, o solo alla narrativa, che il contrario. Pensa a Petrarca, Boccaccio, Foscolo, Manzoni, Leopardi… E nel Novecento Gozzano, Palazzeschi, Bontempelli, Pavese, Pasolini, Bassani, Primo Levi, Testori, Volponi, Sanguineti, Zanzotto, Sandro Penna, Elsa Morante: sia poeti che narratori. Oggi, per esempio, fra tantissimi poeti che sono anche autori di romanzi (alcuni si sono messi perfino a scrivere noir), una narratrice potente è Laura Pugno, che ha sempre scritto anche poesie.
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Poesia scritta dalle parole #15
  Il primo giorno di ora legale genera il più bel crepuscolo dell’anno.
L’ora è convenzionale, lo stupore reale.
Ci immergiamo a guardarlo dalla fotosfera, dai bassifondi di aria terrestre illuminata dai lampioni.
Attraverso lo strato di luce elettrica il cielo diventa turchese. Il risparmio energetico è la causa materiale di questo colore. La sobria ora legale rende lecito il sentimentalismo azzurro.
Per un’ora si apre una sconnessione fra tempo e luce, una larga fenditura nello spazio. È saltata la saldatura dell’orizzonte, cielo e terra non sono suturati.
Riuscire anche noi a sbalzarci. Un valico fra senso e dicitura.
Ci appostiamo in questo breve sempiterno. Restiamo assorte, attentissime, per carpire il segreto, il decreto dell’ora che si scosta dal suo adesso.
Tiziano Scarpa
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