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#Giulio Mozzi
marcogiovenale · 2 months
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"libri e diversità": una puntata di 'pendodeliri', di antonio pavolini, dedicata a un intervento di giulio mozzi
Antonio Pavolini – nei Nuovi pendodeliri – in dialogo con le riflessioni di Giulio Mozzi in tema di editoria pubblicate (anche) qui: https://slowforward.net/2024/02/25/feltrinelli-dal-produttore-al-consumatore-giulio-mozzi-2024/ ___
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gloria-ma · 1 year
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Libri – i migliori manuali di Scrittura Creativa #2
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rideretremando · 4 months
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"Le cose che mi sono sentito dire più spesso in questi anni, come accompagnamento a un rifiuto, sono: (a) non c'è una storia d'amore, (b) non c'è un messaggio di conforto alla fine, (c) i personaggi sono ambigui. Poi certo, non è che non si pubblichino (ma per lo più tradotti, a occhio) romanzi senza storia d'amore, senza messaggio di conforto alla fine, senza precisa distinzione tra buoni e cattivi. Ma i motivi di rifiuto sono in genere quei tre, spesso accompagnati dal mefitico quarto: (d) troppo difficile per il pubblico italiano. (Quello stesso pubblico, peraltro, che ha adorato Philip Roth, David Foster Wallace ec.)."
Giulio Mozzi
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agrpress-blog · 5 months
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Si svolgerà sabato 9 dicembre 2023 alle ore 15.30  presso la Sala Vega alla Nuvola dell’Eur a Roma, nell’ambito di “Più Libri più Liberi” (6-10 dicembre 2023) - la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria - l’incontro “Incubi e Paura: scrivere il perturbante” , nel corso del quale verrà presentato il libro di Giorgia Tribuiani Scrivere il perturbante (Dino Audino editore, 2023).  Con l’autrice interverranno Luca Briasco, Giovanna Guidoni e Giulio Mozzi. «L’abitudine, la fiducia che abbiamo imparato a nutrire nei confronti delle leggi del mondo, ci permette di abitare quest’ultimo con una certa dose di tranquillità: il tipo di paura che affronteremo in questo manuale in cui ci rendiamo conto che il nostro mondo è fallito» (Giorgia Tribuiani, Scrivere il perturbante. Modelli, tecniche, strategie, Dino Audino editore, Roma, 2023). Bambole che prendono vita, distorsioni temporali, case dotate di un’anima, corpi che non si riflettono negli specchi: come raccontare il brivido che proviamo quando, scrutando fra le pieghe della realtà, scopriamo che ciò che ci era familiare assume un volto inquietante e terrorizzante? La narrativa perturbante fa leva sulle paure più ataviche ed esistenziali di ognuno di noi e mette in discussione la visione del mondo che abitiamo. Giorgia Tribuiani, affermata scrittrice di questo topos letterario, nel manuale parte dalle teorizzazioni di Sigmund Freud e dalle principali caratteristiche del perturbante, per affrontarle in chiave narrativa: l’invenzione dell’incipit, la costruzione dei luoghi e delle scene, i meccanismi di svelamento, l’affidabilità o meno del narratore. Quindi la “soglia”, la “crepa” nelle leggi di natura e il labile confine fra reale e fantastico. Ad una prima parte teorica, corredata di esempi e modelli, segue una di stampo laboratoriale, in cui autori come E.T.A. Hoffmann, Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft, David Lynch e Roman Polanski diventano compagni di un percorso privilegiato per creare testi che lascino il pubblico con il fiato sospeso. Scrivere il perturbante è il primo di tre titoli dedicati alla costruzione dei generi fantastici e del mistero. Giorgia Tribuiani dirige con Giulio Mozzi la Bottega di narrazione, scuola di scrittura creativa per la quale ha ideato e conduce annualmente il “Laboratorio del mistero” dedicato alla narrativa perturbante e fantastica. È autrice dei romanzi Guasti (Voland, 2018), Blu (Fazi Editore, 2021) e Padri (Fazi Editore, 2022) e dei racconti lunghi Binari (Hopefulmonster, 2022 - collana Pennisole, diretta da Dario Voltolini) e Superstar (Tetra, 2022). Scrivere il perturbante. Modelli, tecniche, strategie di Giorgia Tribuiani, pubblicato da Dino Audino editore (Roma) nella collana “Manuali” e disponibile in libreria e online da giugno 2023, verrà presentato alla Nuvola dell’Eur nel corso di “Più Libri più Liberi” sabato 9 dicembre 2023.
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paoloferrario · 5 months
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Quello che ho da dirvi. Autoritratto delle ragazze e dei ragazzi italiani, a cura di Giuseppe Caliceti e Giulio Mozzi, Einaudi , 1998
Quello che ho da dirvi, VV.. Giulio Einaudi editore – Stile libero Quello che ho da dirvi
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LE DIECI INFALLIBILI REGOLE PER L'USO DEGLI AGGETTIVI
di Giulio Mozzi
1. Lo scopo dell’aggettivo è modificare, aggiustare, definire meglio il senso del nome. In tutte le scuole di scrittura – si dice – si insegna che gli aggettivi vanno evitati. Una regola di questo tipo è una sciocchezza. Vanno evitati tutti gli aggettivi inutili, per le stesse ragioni per cui, in genere, cerchiamo di evitare le cose inutili. Ma su che cosa sia utile e che cosa sia inutile potremmo accapigliarci per giorni.
2. Quando assegni un aggettivo a un nome, prova a domandarti se non esista un nome che contenga in sé anche il senso dell’aggettivo. Con diminutivi e accrescitivi pare facile, ma attenzione alle sfumature: un «piccolo bar» è forse la stessa cosa che un «baretto»? E un «omone» è la stessa cosa che un «grand’uomo»? Ma c’è anche il problema inverso: se in un racconto compare «un piccolo cane agile, dal ventre sottile, il pelo breve e il muso appuntito», è abbastanza evidente che potremmo risparmiare un sacco di parole scrivendo «un levriero italiano»: e, tuttavia, quanto perderemmo in visibilità? In tanti altri casi invece si può fare: il risultato finale di una gara o di un gioco non è forse l’esito? (Senza parlare di tutti i pleonasmi dei quali potremmo fare a meno, tipo «il protagonista principale», «la campionessa olimpionica» ecc.).
3. Poiché l’aggettivo deve definire meglio il senso del nome, dev’essere preciso: sennò si aggiunge imprecisione a imprecisione, vaghezza a vaghezza, approssimazione ad approssimazione. «Andò a sbattere contro un grosso albero»: «albero» è vago, ma quel «grosso» non ci aiuta a capire davvero come fosse l’albero (meglio: «Andò a sbattere contro un platano»).
4. A volte può convenire far scivolare un aggettivo da un nome all’altro. «Un maglione di lana morbida» non è la stessa cosa di «un maglione morbido di lana» (e «un morbido maglione di lana»? e «un maglione di morbida lana»?). Non si tratta di distinguere il giusto dallo sbagliato, ma di capire le sfumature di senso proprie di ciascuna soluzione (vedi alla voce ipallage).
5. Gli aggettivi seguono le mode. Oggi come oggi, per dire, tutto è impercettibile: «Lo salutò con un impercettibile cenno del capo» (dove è chiaro che: se il cenno del capo è impercettibile, il destinatario del cenno non può averlo percepito). (Altro gioco sarebbe qualcosa come: «Giuseppe salutò Mario con un impercettibile cenno del capo; Mario rispose con un inudibile “‘ngiorno”»). Evitiamo dunque le mode o, al limite, creiamole: così le precederemo, anziché seguirle.
6. Gli aggettivi possono anche accoppiarsi, per rinforzare l’immagine, anche quando siano pressoché equivalenti: «Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti» (Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 35); per definirla di più possono essere messi a contrasto l’uno con l’altro: «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo» (Manzoni, I promessi sposi, xxxiv). Il dizionario dei sinonimi va tenuto sottomano.
7. Che differenza c’è tra quel locale la milanese cui insegna recita «Al buon panino», e quello la cui insegna recita «Al panino buono»? L’unica certezza è che nel primo locale si spenderà un po’ meno. Giusto? Se è giusto, perché? (perché lo spostamento dell’aggettivo dalla sua sede più ovvia a una meno ovvia è sempre un preziosismo).
8. La scena che racconti deve apparire davanti agli occhi del lettore. Ma non, come nel cinema, totale e indistinta (indistinta nel senso che non facciamo in tempo, il più delle volte, a percepire tutto ciò che c’è in scena: anche in un’inquadratura semplicissima, come quella qui sotto (da «La morte a Venezia», film di Luchino Visconti da un racconto di Thomas Mann), è difficile con uno sguardo cogliere tutti i particolari); piuttosto, per dettagli significativi. Se di un personaggio scrivi che «indossava un costume molto rosso», l’hai già piazzato nella mente di chi ti legge (e rischia di mangiarsi tutto il resto della scena). Non la descrizione minuziosa, in linea di massima, devi perseguire: ma quasi un disegno per punti da unire: come nei giochi che facevi da bambino (e, ricorderai, che ben prima di unire tutti i punti l’esito ti era chiaro).
9. L’aggettivo deve passare inosservato, oppure farsi vedere moltissimo. Le vie di mezzo sono poco produttive.
10. Fa’ attenzione agli aggettivi che si accoppiano ai nomi troppo spesso o troppo facilmente. Lo «spietato assassino», l’«incredibile risultato», lo «sguardo pacioso», la «parlata cantilenante», l’«occhiata veloce» e così via. Possiamo dirle mentre parliamo, magari, ‘ste cose, ma non nello scritto. (Che poi, certe volte, manco si capisce che cosa esattamente descrivano, queste espressioni: un «sorriso tirato», per dire, non ho mai capito che cosa sia di preciso: e sono stato ore davanti allo specchio, a provarci e riprovarci).
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s-memorando · 1 year
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"Immaginare le storie. Atlante visuale per scrittrici e scrittori" di Giulio Mozzi e Valentina Durante.
“Immaginare le storie. Atlante visuale per scrittrici e scrittori” di Giulio Mozzi e Valentina Durante.
 Un libro che ho letto in un tempo incredibilmente lungo, inframmezzato anche da altre letture, ma non perché fosse noioso o poco interessante, piuttosto perché è un libro da leggere a piccole dosi, centellinando ogni capitolo, paragrafo, suggerimento. Non ho mai sottolineato, preso appunti, riflettuto come su questo testo che riunisce in 176 pagine tanti consigli, osservazioni, considerazioni…
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rafiocchi · 1 year
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Giulio Mozzi lo consiglia da tempo. Ma Giulio Mozzi cura la collana Fremen di Laurana. Però quando anche un libraio/lettore come Andrea della Libreria Il Delfino - Ubik Pavia ti dice che devi leggerlo, non può che finire così. #GianMarcoGriffi #LauranaEditore #GiulioMozzi #libreriaildelfino https://www.instagram.com/p/CnAIXR_s0DZ/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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downtobaker · 3 years
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Ma in poesia si possono usare le parole frigorifero, alluce e resilienza?
Ma in poesia si possono usare le parole frigorifero, alluce e resilienza?
di Giulio Mozzi Ma la domanda del secolo è: «Si possono usare in poesia le parole “frigorifero”, “alluce”, “resilienza”?». La prima risposta che mi viene è: «Sì, si possono usare»; ma la seconda risposta che mi viene è: «La domanda non ha senso». Sono ormai due secoli che la poesia italiana, uscita dalla gabbia petrarchesca nella quale l’aveva rinchiusa Pietro Bembo con le sue «Prose della…
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queerographies · 3 years
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[Le ripetizioni][Giulio Mozzi]
Giulio Mozzi in questo suo romanzo guida il protagonista, e chi legge, attraverso avventure in parte reali e in parte del tutto immaginarie, portandoli a sfiorare le vite strane e misteriose di personaggi senza nome.
Mario è un uomo che inventa storie, modifica la realtà, non è interessato alla verità, né sulle cose né sulle persone. Mario sfugge, per indolenza, all’obbligo di capire che tutti ci lega e tutti ci frustra. Vuole sposare Viola ignorandone la doppia, forse tripla vita. Anni prima è stato lasciato da Bianca, subito prima che nascesse Agnese, che forse è sua figlia o forse no. Tuttavia, se Bianca,…
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marcogiovenale · 19 days
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facebook, o della deficienza artificiale
9 apr 2024 l’algoritmo di facebook, non so se toccato dal raggio dell’indecenza artificiale o no, sta in questi giorni bannando o esplicitamente “spostando in basso” contenuti assolutamente neutri, come – a puro titolo di esempio – due miei commenti (entrambi cancellati) ad un post di oggi di Giulio Mozzi, in cui banalissimamente mi interrogavo se avessi letto il suo testo anni fa nella rivista…
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ilquadernodelgiallo · 5 years
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Il mio problema con certa poesia riassunto in tre righe
“- È così... Bisogna liberarsi dal bisogno del senso... Aprire le porte della percezione... Rendersi disponibili a una significazione arcana, alla manifestazione del mistero...” (Giulio Mozzi, Fantasmi e fughe)
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agrpress-blog · 6 months
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Si è svolta venerdì 20 ottobre 2023 presso la Libreria Mondadori di via Piave la presentazione del libro di Giorgia Tribuiani Scrivere il perturbante (Dino Audino editore, 2023). L’autrice ha dialogato con Gioacchino De Chirico. «L’abitudine, la fiducia che abbiamo imparato a nutrire nei confronti delle leggi del mondo, ci permette di abitare quest’ultimo con una certa dose di tranquillità: il tipo di paura che affronteremo in questo manuale in cui ci rendiamo conto che il nostro mondo è fallito» (Giorgia Tribuiani, Scrivere il perturbante. Modelli, tecniche, strategie, Dino Audino editore, Roma, 2023). Bambole che prendono vita, distorsioni temporali, case dotate di un’anima, corpi che non si riflettono negli specchi: come raccontare il brivido che proviamo quando, scrutando fra le pieghe della realtà, scopriamo che ciò che ci era familiare assume un volto inquietante e terrorizzante? La narrativa perturbante fa leva sulle paure più ataviche ed esistenziali di ognuno di noi e mette in discussione la visione del mondo che abitiamo. Giorgia Tribuiani, affermata scrittrice di questo topos letterario, nel manuale parte dalle teorizzazioni di Sigmund Freud e dalle principali caratteristiche del perturbante, per affrontarle in chiave narrativa: l’invenzione dell’incipit, la costruzione dei luoghi e delle scene, i meccanismi di svelamento, l’affidabilità o meno del narratore. Quindi la “soglia”, la “crepa” nelle leggi di natura e il labile confine fra reale e fantastico. Ad una prima parte teorica, corredata di esempi e modelli, segue una di stampo laboratoriale, in cui autori come E.T.A. Hoffmann, Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft, David Lynch e Roman Polanski diventano compagni di un percorso privilegiato per creare testi che lascino il pubblico con il fiato sospeso. Scrivere il perturbante è il primo di tre titoli dedicati alla costruzione dei generi fantastici e del mistero. Giorgia Tribuiani dirige con Giulio Mozzi la Bottega di narrazione, scuola di scrittura creativa per la quale ha ideato e conduce annualmente il “Laboratorio del mistero” dedicato alla narrativa perturbante e fantastica. È autrice dei romanzi Guasti (Voland, 2018), Blu (Fazi Editore, 2021) e Padri (Fazi Editore, 2022) e dei racconti lunghi Binari (Hopefulmonster, 2022 – collana Pennisole, diretta da Dario Voltolini) e Superstar (Tetra, 2022). Scrivere il perturbante. Modelli, tecniche, strategie di Giorgia Tribuiani, pubblicato da Dino Audino editore (Roma) nella collana “Manuali” e disponibile in libreria e online dal 30 giugno 2023, è stato presentato presso la Libreria Mondadori di via Piave venerdì 20 ottobre 2023. Nel corso dell’incontro è stato presentato anche il libro di Luca Briasco Il re di tutti. Un ritratto di Stephen King (Salani), disponibile in libreria e online da giugno 2023.
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giuliomozzi · 5 years
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Note di lettura: “Il postino di Mozzi” di Fernando Guglielmo Castanar. A queste Note di lettura non può proprio mancare Il postino di Mozzi (Arkadia editore…
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Come si scrive un racconto
di Giulio Mozzi
[Una lezione di “scrittura creativa” scritta, un po’ di tempo fa, per un convegno della Fondazione Mondadori].
Come si scrive un racconto? E quali sono i libri che insegnano a scrivere un racconto?
Devo fare una premessa. Tutti noi siamo, fin dalla nascita, immersi nelle storie. Siamo appena nati, non capiamo ancora niente, e già i genitori ci raccontano delle storie. Siamo bambini, e già cominciamo a inventare storie ri-raccontandoci, re-inventando, ampliando, modificando le storie che ci sono state raccontate (io, tanto per fare un esempio, quando avevo otto anni, da grande volevo fare il Sandokan). Siamo adolescenti, e cominciamo a sentire il desiderio di scrivere per conto nostro, senza interferenze altrui, la Storia Più Importante: e cioè la Storia Futura Della Nostra Vita. Siamo adulti, e cominciamo a raccontare storie ai bambini. Siamo vecchi, e tutto ciò che ci resta è la nostra storia, e la voglia di raccontare storie a chiunque ci stia a sentire… Torniamo a casa dal lavoro, la prima domanda che ci si scambia è: «Com’è andata?», e subito siamo lì a raccontarci le storie del lavoro, dell’ufficio, dell’autobus, della strada. Conosciamo una persona nuova, attraente, e subito cerchiamo di raccontarle storie che ci rendano attraenti. E così via.
Quindi, per tagliare corto: tutti noi siamo capaci di raccontare una storia. Possiamo mancare della pazienza necessaria a metterla per iscritto; possiamo non considerare il raccontare storie cosa così importante da perderci le sere e le domeniche; possiamo considerarci raccontatori di storie comuni e qualunque che non potrebbero interessare nessuno se non noi stessi e i nostri cari; ma, comunque, di raccontare storie siamo tutti capaci.
La domanda: «Come si scrive un racconto?» ha dunque, come prima risposta: «Si scrive un racconto come si racconta una storia all’amico, al consorte, allo sconosciuto. Tal quale». E non venitemi a dire che ai bambini si raccontano storie che già sappiamo, o che le storie che raccontiamo ai nostri cari quando torniamo a casa sono «storie vere». Non è così. Sempre – ripeto: sempre – quando raccontiamo una storia la trasformiamo, la aggiustiamo, facciamo il possibile perché diventi più bella. Anche quando raccontiamo qualcosa che ci è successo, d’istinto sistemiamo il racconto in modo che ne spariscano i tempi morti, le battute di dialogo insignificanti, tutto ciò che non è a nostro giudizio interessante. La «forma-racconto» è bene impressa nella nostra mente. È, oso dire, una delle forme principali del nostro pensiero.
Esiste il verbo «racconteggiare»? No, non esiste. Tuttavia, se qualcuno usasse il verbo «racconteggiare», noi capiremmo al volo il senso della parola: «andare raccontando, magari con interruzioni e e soste e pause e deviazioni, ma arrivando comunque alla fine»; così come «passeggiare» significa «muovere il passo, magari con interruzioni e soste e pause e deviazioni, ma arrivando comunque alla meta (cioè tornando al punto di partenza)». La parola «racconteggiare» è perfettamente comprensibile, benché non sia mai esistita prima d’ora, perché è stata fabbricata secondo le corrette regole della morfologia. Voi conoscete le regole della morfologia? Magari sì; ma suppongo che i più direbbero: «No». Confesso: nemmeno io le so. Le so per istinto, le so perché le ho interiorizzate per benino (sono quarantasei anni che parlo, leggo, scrivo) e, per così dire, non ho nemmeno bisogno di saperle per formare, se ne ho voglia, una parola nuova. Allo stesso modo siamo capaci di raccontare storie; anche se non sapremmo dire come si fa. Possediamo l’istinto, non una vera e propria conoscenza della cosa.
Allora potremmo dire: tutti raccontiamo storie; tutti possediamo l’istinto del racconto; non tutti abbiamo davvero conoscenza dell’arte del raccontare.
I libri dei quali vi parlerò ora – brevemente, poche frasi per ciascuno – sono libri che, secondo me, aiutano a raggiungere una vera e propria conoscenza dell’arte del raccontare.
(L’arte del raccontare, peraltro, è un’arte e non una scienza. Quindi non è descrivibile in termini razionali. Si va comunque per suggerimenti, immagini, tentativi).
Il partito preso delle cose di Francis Ponge (Einaudi) è un libro di poesia, benché sia scritto in prosa. Contiene dei brevi testi ciascuno dei quali tenta di descrivere un oggetto, di solito un oggetto del quale più o meno tutti possiamo avere esperienza diretta: la pioggia, il bicchier d’acqua, il ginnasta, il pane. È un libro molto bello (ed è un vero peccato che di Ponge, oggi, in Italia, sia disponibile praticamente solo questo libro; mentre una bellissima raccolta di suoi testi, uscita a suo tempo nella collezione Lo Specchio, con traduzioni di Ungaretti e altri, non si ristampa più da tantissimo). Ponge descrive gli oggetti non solo in quanto tali, cioè oggetti nel mondo, ma anche in quanto oggetti del discorso. La sua esplorazione non si limita all’oggetto così come possiamo osservarlo, toccarlo, annusarlo: ma arriva, attraverso avventurosissime esplorazioni del vocabolario e della tradizione letteraria, all’oggetto come “centro gravitazionale” attorno al quale ruota una costellazione di parole (e quindi di significati). È quindi istruttivo, per chi voglia raccontare, leggere questo libro: perché insegna che ogni nostra parola ha, oltre la vita che le pertiene in quanto “dice” qualcosa, anche una vita come parola in quanto tale, ossia come un “dire” autonomo. Ma vi invito a leggere questo libro di Ponge solo come viatico per poi leggere un altro suo testo: Tentative orale, non disponibile in italiano (nelle Oeuvres complètes pubblicate nella Pléiade, è nel II volume). Questo testo, detto da Francis Ponge difronte ad alcuni amici, registrato e poi trascritto, è un «tentativo», appunto, di descrivere il modo di produzione di testi come quelli raccolti nel Partito preso delle cose. Ed è una lettura tra le più istruttive per chi voglia raccontare storie: perché parla dell’affrontare un qualsiasi oggetto, un qualsiasi fuori-da-me, come di un affacciarsi sull’abisso. Per chi (cioè per quasi tutti) è abituato a usare le parole come se non avessero alcun peso, a nominare gli oggetti come se nominarli fosse ovvio, Tentative orale è un adeguato correttivo.
Io devo molto alle poesie di Antonio Porta. E perciò, tra tanti altri libri che raccontano il «come si fa» della produzione poetica, ne scelgo appunto uno suo. S’intitola Nel fare poesia, lo pubblicò Sansoni (ora è fuori commercio; si trova nelle librerie a metà prezzo, ancora) ed è un libro molto semplice: Porta ha scelto un certo numero di poesie sue, lungo tutto l’arco della sua produzione, e per ciascuna ha scritto un breve testo che ne spiega la genesi: non solo la genesi, diciamo così, “contenutistica” («Ho voluto scrivere su questo per queste ragioni, spinto da queste emozioni», eccetera), ma soprattutto la genesi “formale”. Porta è stato un grande sperimentatore di forme poetiche (e prosastiche). Leggendo questa sua “autoantologia autocommentata” si impara una cosa: che la forma di uno scritto, di qualunque scritto, non è mai ovvia; e che se si impara a porsi il problema della forma – a sentire la forma come un problema – si è già imparato quasi tutto l’imparabile. Adesso dico una cosa che potrà sembrare una bizzarria: il problema della forma non è un problema formale. Il problema della forma è un problema morale. La moralità non sta nelle cose che diciamo (scriviamo), ma nella forma che scegliamo per dirle (scriverle). Non porsi il problema della forma significa essere, né più né meno, immorali.
Ancora un libro di uno scrittore: L’invasione, di Antonio Moresco, pubblicato da Rizzoli. Che va letto se non altro per leggervi un saggio nel quale Moresco se la prende con Italo Calvino a proposito del Labirinto. Calvino, dice in sostanza Moresco, ha allestita, gestita, continuamente rinnovata, dettagliata infinitamente, un’allegoria della scrittura come Labirinto. Bene. Però, dice Moresco, Calvino si è completamente dimenticato del fatto che, nel Labirinto, c’è il Minotauro: una bestia spaventosa per la somiglianza-dissimiglianza che ha con l’uomo, e ferocissima. Vedo molti ragazzi (più ragazzi che ragazze: le ragazze sembrano avere più coscienza della cosa) avvicinarsi alla scrittura e alla narrazione come se entrambe potessero essere risolte nel puro gioco. Così non è. Sempre, anche quando si parla deliberatamente di niente, si parla del mondo. Sempre il mondo è lì. Nel più incantato e incantevole dei Labirinti o dei Castelli in Aria c’è sempre un Minotauro, identico e opposto a noi, che ci dà la caccia. Questo non va dimenticato. Se leggerete questo libro, non ve ne dimenticherete.
Adesso tiro fuori alcuni libri di artisti che non sono scrittori. Lo faccio perché, curiosamente, gli scrittori sembrano avere più difficoltà a parlare del loro lavoro (del «come si fa», del «come è») che gli artisti della figurazione, della musica, dell’architettura o del cinema.
Futuri impensabili, del musicista e produttore Brian Eno (Giunti) è il diario di un anno di vita e di lavoro (il titolo originale del libro, infatti, è: A Year, Faber & Faber). La cosa più bella è vedere come per Brian Eno (“inventore” dell’ambient music; produttore di gruppi come U2, Talking Heads, Devo; coautore dei più bei dischi di David Bowie; videoartista; collaboratore di artisti figurativi come Mimmo Paladino; eccetera) un’esperienza artistica multiforme si fondi su poche, pochissime idee; e, oserei dire, su poche, pochissime sensazioni. Ed è interessante vedere come Eno affronti ogni aspetto della sua vita, non solo professionale, fondando le sue scelte su queste pochissime idee (sensazioni). Poi è divertente leggere le pagine di diario dei giorni in cui Eno lavora con gli U2 o con David Bowie; è divertente scoprire come il suo primo problema, quando finalmente si entra in studio per registrare, non siano i suoni, bensì le relazioni tra le persone che lavorano all’impresa; è divertente leggere cronache di eventi artistico-mondani la cui rilevanza mediatica sembra pari solo alla futilità concettuale; ma non è questo, ciò che ci serve di questo libro. Le pagine da rileggere, dopo averle lette, sono quelle in cui Brian Eno ci ha data l’impressione di essere un uomo pazientissimo.
Comporre l’architettura, dell’architetto Franco Purini (Laterza) è una «prima lezione» (secondo la linea della collana che lo ospita) sulla composizione. Che poi si tratti specificamente di composizione architettonica, non è così importante. Ad esempio, se Purini scrive: «Quando la sua elaborazione si protrae per un periodo consistente, il progetto finisce con il divenire una sorta di ideale sezione delle diverse situazioni che ha attraversato, trasformandosi in qualcosa che, al pari di un fiume, porta alla foce informazioni, suggestioni, eventi, come altrettanti materiali raccolti nel suo corso», dice qualcosa che vale tale e quale per la scrittura. Un testo, se viene lavorato a lungo, finisce col diventare una sorta di «racconto di se stesso», del suo proprio farsi: dall’idea-germe fino al dispiegamento della narrazione. E, se ci saranno lettori che leggeranno unicamente il contenuto del racconto, ci saranno anche quelli – i più attenti – che leggeranno anche il racconto del contenuto. Il racconto nasce da un’idea-germe, cresce grazie alla scelta di una forma, si nutre di parole che si riferiscono a oggetti e (contemporaneamente) stanno di per sé, si costituisce come edificio misterioso abitato da un animale che temiamo proprio per quanto ci assomiglia�� Tutto questo, che lo veda o non lo veda il lettore comune, c’è: nel testo. E tutto questo è il testo.
La logique des images è un libro del regista Wim Wenders (L’Arche) che raccoglie scritti apparsi, in varie lingue, in diverse pubblicazioni (libri collettivi, riviste, cataloghi ecc.). Ci sono molte pagine teoriche ma, come al solito, io credo che a chi voglia raccontare siano utili soprattutto le pagine memoriali. Quando ricevette in dono dal padre una cinepresa, il ragazzo Wim Wenders cominciò a girare i suoi primi film. Faceva così: si metteva alla finestra e filmava ciò che accadeva giù in strada. Quando riguardava quei brevi filmati (duravano 4 minuti: il tempo di una bobina in superotto), si sentiva riempire dall’emozione. Come mai? Per la ragione che ormai vado ripetendo e ripetendo: perché la prima scelta è la scelta della forma. Il ragazzo Wim, facendo quei suoi piccoli film della gente giù in strada, stava imparando che cos’è la forma nel cinema. Che è prima di tutto: inquadrare, escludere, includere. Nel cinema una porzione di mondo viene presa, e sta lì come se fosse tutto il mondo. Il cinema è una gigantesca sineddoche: una parte per il tutto. Guardando i suoi piccoli film il ragazzo Wim provava l’emozione di guardare, di pensare come guardabile, tutto il mondo. Non vi fa lo stesso effetto, una pagina a stampa? Non ciò che è scritto nella pagina a stampa: ma proprio la pura e semplice pagina a stampa? (Il primo testo del Partito preso delle cose di Francis Ponge s’intitola: «La pioggia». Voi lo leggete, e proprio nel momento in cui state per andare in estasi difronte alla bravura di Ponge nel descrivere la pioggia, vi accorgete che in realtà quel testo descrive una pagina a stampa).
Finisco con un libro fatto da un amico. Dico «fatto», e non «scritto», perché Gudio Guidi è un fotografo (uno dei più grandi fotografi italiani di paesaggio) e il suo libro Between the Cities (Electa) raccoglie le fotografie di un viaggio (svolto a tappe, estate dopo estate) attraverso l’Europa. Guido dice che fotografare è come «“mettere tra virgolette” un pezzo di realtà». Quando si mette tra virgolette una porzione di testo, si intende dire: che quella porzione di testo non fa del tutto parte di quel testo, in quanto viene da un altro testo (e si useranno allora le caporali, « »); o che quella porzione di testo non va intesa nel suo senso letterale bensì in un senso traslato, che dovremo desumere dal contesto. Quando guardiamo una fotografia, dunque, dobbiamo ricordare che ciò che stiamo guardando non fa del tutto parte del libro (o della mostra, o della casa) che stiamo guardando, in quanto viene da un’altra porzione di mondo; e dobbiamo ricordare che il senso preciso di quella fotografia non è ricavabile se non attraverso un confronto con il nuovo contesto nel quale quella porzione di mondo ora si trova. E si torna sempre sullo stesso punto. Le storie, le fotografie (ma anche i pezzi musicali, i quadri, le sculture, gli edifici), sono fatte con oggetti presi dal mondo dell’esperienza e ricollocati nel mondo dell’invenzione. Quando un oggetto viene fatto passare da un mondo all’altro, rimane lo stesso e contemporaneamente cambia. Nell’intuire che cosa sia, questo restare identico e contemporaneamente diventare altro, credo che sia il segreto di ogni arte.
Che è, appunto, intuizione. E nessun manuale vi servirà mai.
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rideretremando · 2 years
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Interessante riflessione di Giulio Mozzi
"Per sommi capi. Il sistema dei passaporti vaccinali doveva servire, esplicitamente, a proteggere le persone non vaccinate o incompletamente vaccinate contro il covid e - nel contempo - a far riprendere fiato a certe attività economiche particolarmente massacrate dalle chiusure senza per questo incrementare più di tanto la circolazione del virus. Non esplicitamente, doveva servire a convincere a vaccinarsi coloro che non si erano ancora vaccinati per loro volontà: e questo, si intuiva allora, e si può dare per certo ora, era lo scopo principale.
In realtà il sistema dei passaporti vaccinali ha raggiunto in minima parte il proprio scopo non esplicito: a guardare i dati sulle vaccinazioni pubblicati in questi giorni (io mi affido a ciò che pubblica il Lab del Sole 24 ore), non è servita a questo socpo nemmeno l'introduzione dell'obbligo per gli ultracinquantenni: ieri, primo giorno dell'obbligo, risultavano ancora completamente non vaccinate il 9,28% delle persone tra i 50 e i 59, il 6,95% delle persone tra i 60 e 69, il 5,18% delle persone tra i 70 e i 79, il 3,41% delle persone dagli 80 in su. Ovviamente si può immaginare che, col crescere dell'età, cresca anche il numero delle persone che per un motivo o per l'altro non possono vaccinarsi.
Quanto agli scopi espliciti, la protezione delle persone non vaccinate è un concetto che proprio non è passato: immediatamente il sistema dei passaporti vaccinali è stato interpretato come una forma di punizione ("Non vuoi vaccinarti? E noi ti impediamo la vita sociale"). Considerato qual era lo scopo non esplicito, un'interpretazione non proprio fuori luogo.
Che la circolazione del virus nella sua variante delta sia stata contenuta dal sistema dei passaporti vaccinali, è difficile da dimostrare (il che non significa che non possa essere stato efficace: significa solo che è difficile dimostrarlo).
Che alcune attività economiche abbiano avuto la possibilità di stare in piedi, se non proprio di prosperare, anche grazie al sistema dei passaporti vaccinali (le cui alternative sono: "liberi tutti" / "tutti chiusi"), mi sembra una cosa vera. Lo dico a occhio, basandomi su quel che leggo nei giornali, sui tavoli pieni nella pizzeria all'angolo, e sul numero di volte che amici e conoscenti mi hanno parlato di cene in pizzeria.
In realtà molte cose sono difficili da capire a causa del sovrapporsi di eventi e provvedimenti. Il virus nella sua variante delta ha circolato meno (fino a un certo punto) grazie alla bella stagione, alla vaccinazione di massa, o ai passaporti vaccinali? Personalmente, ma non saprei andare oltre l'intuizione, credo che il grosso della protezione sia stato assicurato dalla vaccinazione di massa. Che protegge così così dal contagio, ma assai bene dall'aggravamento e dalla morte. (Che il vaccino abbia fallito perché "ci era stato promesso che ci avrebbe protetti totalmente" è un'affermazione risibile: non è mai stato detto, che io sappia, che il vaccino avrebbe offerto una protezione totale).
Che l'irruzione della variante omicron abbia cambiato completamente lo scenario, mi pare indubbio. Ci sono però alcune cose che non sappiamo. Non sappiamo, per esempio - e questo mi pare gravissimo - se le persone che oggi si aggravano fino ad aver bisogno del ricovero ospedaliero o della terapia intensiva, o addirittura muoiono - sono state contagiate dal virus nella variante delta o nella variante omicron, o magari da entrambe. Si fanno troppo pochi sequenziamenti, soprattutto non si fanno abbastanza sequenziamenti nella popolazione ospedalizzata. I dati dell'ISS sulla diffusione di omicron e delta sono indagini a campione. Non sappiamo quale sia la differenza di impatto di omicron su vaccinati e non vaccinati: dall'aneddotica che mi viene riferita (ho dragato Fb ai limiti delle mie possibilità) mi par di capire che la malattia in forma lieve (qualche giorno di malessere, e via) si presenti tanto tra i vaccinati quanto tra i non vaccinati, senza grandi differenze. Sulle forme aggravate, ho detto: non si sa.
Quanto alla parte di popolazione non vaccinata, è stata generalmente etichettata in blocco con le parole: no vax. In realtà in quella popolazione ci sono persone che hanno preferito non vaccinarsi per convinzioni ideali profonde, persone che hanno preferito non vaccinarsi per comprensibili timori, persone che hanno preferito non vaccinarsi per motivi deliranti (di varie specie, tra l'altro), persone che non possono vaccinarsi e che sono state consigliate di non vaccinarsi dallo stesso SSN, persone che a tutt'oggi non sanno se possono vaccinarsi o no perché non riescono a avere una risposta chiara dal SSN (magari non è possibile darla, eh!), e forse altri casi che sfuggono alla mia esperienza e alla mia immaginazione. Questa etichettatura è stata molto dannosa.
La retorica del tipo "Devi vaccinarti per tutelare gli altri" è fasulla. Chi si è vaccinato l'ha fatto per tutelare sé stesso. (Anche Gesù di Nazareth diceva: "Ama il tuo prossimo come te stesso", ovvero: si comincia sempre dall'amore per sé). Questa retorica fasulla si è facilmente trasformata in "Chi non si vaccina danneggia gli altri", o addirittura "Chi non si vaccina è un criminale". E qui non parlo solo di discorsi da Fb: la decisione di sospendere dall'Ordine degli psicologi, per esempio, tutti gli iscritti non completamente vaccinati (a prescindere dal motivo della non vaccinazione, a prescindere da fatto che chi fa psicoterapia può farla, e in questi due anni per lo più l'ha fatta, per via telematica, cioè senza alcun contatto fisico con il paziente) ha l'aria di essere semplicemente persecutoria.
Le persone non vaccinate, per qualunque motivo non si siano vaccinate, hanno bisogno di maggiore assistenza. Non certo della minaccia di essere privati dell'assistenza. Da ieri, per una consistente parte della popolazione, vige l'obbligo di vaccinarsi: non per questo chi si rifiuterà dovrà ricevere una minore assistenza.
Io non vedo, come lo vedono altri, dietro a tutto questo, un piano per modificare l'umanità; per farci diventare un popolo di pecoroni eccetera. Tutte le teorie variamente complottistiche mi sembrano difettare, come difettano in genere le teorie complottistiche, dell'essenziale: di un'identificazione dello scopo. Dietro alla vicenda dei passaporti vaccinali vedo vedo solo un tot di impreparazione (ma chi era preparato a tutto questo?), un tot di pressapochismo, un tot di paternalismo, un tot di maniacale passione burocratica, un tot di isteria. So a quali stress sono stato sottoposto io, in questi due anni, e mi immagino a quali stress siano state sottoposte le persone che si sono alternate al governo - ai vari livelli di governo - della situazione. Non ha aiutato, certo non ha aiutato, il continuo tentativo da parte delle forze politiche di sfruttare i provvedimenti antiepidemici per guadagnare o non perdere consenso.
Ma mi pare che, giunti a questo punto, se effettivamente la variante omicron sta soppiantando la variante delta, se effettivamente la variante omicron ha una pericolosità molto più contenuta della delta, forse è il momento di rinunciare ai passaporti vaccinali. È stato un esperimento che aveva le sue ragioni; non ha funzionato, anche per il modo pessimo in cui le sue ragioni sono state agite e spiegate.
Ieri sono morte 427 persone. Non sappiamo (non lo sappiamo noi cittadini, ma mi pare che non lo sappia nemmeno il SSN) se sono morte di omicron o di delta. Questo mi pare gravissimo.
Note. 1. Un discorso a parte andrebbe fatto sulla scuola, sulla retorica del tipo "La scuola non si ferma", sul bizantinismo delle regole, sull'impraticabilità - in assenza anche di strumenti tecnici adeguati - della didattica mista; ma ho già scritto fin troppo.
2. Forse il mio ragionamento è viziato dalla fortissima speranza, così forte da vivere in me come una convinzione, che quella in atto sia l'ultima spallata. So che questa speranza è condivisa, esplicitamente, da molti "esperti" (metto le virgolette a causa dell'abuso che si è fatto della parola in questi ultimi due anni). So anche che speranze e convinzioni sono cose diverse.
3. Quanto alla questione se si debba dire "il covid" o "la covid", penso che potremmo discuterne più tardi."
Giulio Mozzi
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