Tumgik
#ero più assonnato
spettriedemoni · 4 months
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Sguardi
«Hai uno sguardo molto dolce»
«Me lo dicono in tanti. Da cucciolo»
«Sono assolutamente d’accordo»
Ecco perché non potrei mai fare la parte del cattivo. Non sarei credibile.
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libero-de-mente · 5 months
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𝗗𝗶𝗮𝗿𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹'𝗔𝘃𝘃𝗲𝗻𝘁𝗼
𝟯 𝗱𝗶𝗰𝗲𝗺𝗯𝗿𝗲 𝟮𝟬𝟮𝟯
Caro diario
questa mattina, mentre ancora assonnato cercavo di calcolare le ore che mi rimanevano per tornare a letto questa sera, ho ricevuto una telefonata.
La voce dall'altro lato era concitata "Rino sono caduta, sono sul terrazzo. Ho freddo aiuto. Aiutami ti prego".
Mia madre. Oramai convivo con questa consapevolezza che in qualsiasi momento le possa capitare qualcosa. Del resto intimarle di stare ferma e non fare nulla risulterebbe, per lei, come una condanna a morte.
L'arrendersi all'evidenza che non può pulire, stendere, riassettare la casa in generale o preparare dei manicaretti al sottoscritto come ha sempre fatto sarebbe un colpo letale per lei.
Mentre correvo da mia madre pensavo al "cadere".
Chissà cosa si prova quando a cadere è il tuo corpo, ma non la tua mente e la tua anima. Dev'essere un contrasto forte, il non accettare che il corpo che ti ospita da quando sei nato sia compromesso. mentre la testa ancora vorrebbe fare mille cose.
Il mio corpo è già ceduto molte volte ma era dovuto a qualche patologia, quindi avevo una giustificazione che il mio cervello accettava come discolpa.
Una volta no, cedette anche il mio cervello. Ero disperato, troppe ingiustizie di chi credevo essere mio fratello. Fratello, diminutivo di frate, contrazione del latino frates. A sua volta, il lemma latino trova un riscontro diretto nel sanscrito bhratar, al cui interno troviamo la radice bhar-, legata all'idea di sostentamento e nutrizione.
Stesse radici. Stesso nutrimento. Stesso sangue.
Lei, mia madre, ha vissuto questo tradimento da mamma. Penso che sia ancora più terribile. Lo credo fermamente in quanto genitore anche io, non sopporterei di essere tradito da uno dei miei figli. Preferirei morire piuttosto che vivere tale condizione.
L'ho aiutata, nulla di grave per fortuna caro diario, e dopo averla scaldata e finito le faccende per la quale era caduta, ho fatto una cosa semplice. L'ho fatta ridere. Così da scaldarle il cuore e l'anima.
Natale è in questi gesti, non negli alberi addobbati e nei regali, almeno per me è così. Certo le decorazioni aiutano a vivere in allegria, ma è aiutando che secondo me si crea l'atmosfera che assaporavamo da piccoli.
Credo che oggi sia stato importante che lei si sia rialzata, questo dà forza e coraggio. Non importa come e quando cadi, importa sapersi rialzare, anche con un aiuto, perché così ci si rafforza nell'animo.
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Come un anno fa, proprio a quest'ora, mamma ricevetta la chiamata da mio fratello dicendole che nonno non c'era più. Ricordo che ero nel letto assonnato, ma in dormiveglia a causa dello squillo del telefono. In quel momento mi si gelò il cuore e non sapevo che emozioni trasmettere. Ricordo solo che da quel momento mi passarono davanti agli occhi tanti ricordi dei momenti passati con lui, ma sopratutto del lungo periodo di malattia che lo ha portato allo spegnersi. Non posso credere che sia volato già un anno e anche se non lo mostro, lui mi manca tantissimo💔
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...  Quel giorno rubammo la libertà al lavoro, per fuggire assieme esuli in una gita irriverente. Un giorno definitivo, maledetto.
La costiera amalfitana era incantevole, più del solito, forse rifletteva la serenità dei nostri sguardi rimandandoci un’immagine di intatta magia. Fuori della stagione balneare il mare è recalcitrante a ospitarti in casa, in pantofole e vestaglia aveva lo sguardo assonnato bonariamente irritato per averlo destato dal suo letargo autunnale, ma noi con discrezione ci eravamo avvicinati alla riva fasciandoci i piedi di schiuma bianca, e respirando con forza il tepore del sole per riscaldarci. Eravamo soli sulla spiaggia. Camminammo a lungo senza troppe parole; era bello esserci, partecipare alla mirabolante avventura della natura che moltiplicava i suoi tentacoli per avvilupparti ed effondere il suo alito resinoso. Eravamo parte del cosmo, mentre anche il cinismo quotidiano che avrebbe evidenziato la retorica contenuta da certe affermazioni, era messo da parte, sigillato in una bottiglia alla deriva, dimenticato a casa assieme all’orologio. Quando ci allontanammo dalla spiaggia erano le prime ore del pomeriggio. Andar via non fu semplice, per l’insistenza della sabbia che ci esortava a rimanere insinuandosi tra le calze e le scarpe, pregandoci di non lasciarla sola per un intero inverno. Una giornata indimenticabile disse Vic, che continuava a scavare con le sue parole dei solchi indelebili in un ricordo che sarebbe diventato l’ultimo che avrei avuto di lei. I suoi capelli nerissimi assorbivano la luce del sole, cedendola nei suoi occhi scuri, nel suo sorriso impreciso. Ho rivisto infinite volte negli ultimi dieci mesi queste scene, mi ripassavano davanti agli occhi come un film senza sonoro. Ho rivisto Vic e me parlare, sorridere, scherzare, senza che un solo suono desse calore ai miei ricordi.
In auto, sulla strada del ritorno, le curve rocciose della costiera erano assai poco frequentate nelle prime ore pomeridiane. Forse la velocità era eccessiva, forse soltanto la concentrazione sulla guida non sufficiente. Vic spinse la nuca all’indietro sul poggiatesta del sedile inarcandosi in un sorriso beato. Mi piaceva vederla sorridere, leggerle sul volto una gioia di vivere che tanto raramente riuscivo a provare anch’io, e che per lei al contrario era quasi uno stato abituale, una dimensione quotidiana. Il sorriso che cerco ancora quando ripenso a lei, un sorriso con cui coprire l’innaturale espressione di terrore che impresse sull’ultimo istante della sua vita e che mi turba ogni volta che sogno il suo viso. Ero rivolto verso di lei, e sorridevo, lei dileggiava le mie piccole fissazioni, e io le accentuavo per darle modo di prendersi gioco di me. Poi dentro i suoi occhi vidi suicidarsi repentinamente l’allegria e nascere lo sgomento. Si accorse per prima dell’autobus, sbucato da dietro una curva, che ci veniva contro. La nostra automobile viaggiava al centro della carreggiata. Forse fu solo un’impressione, ma quando guardai attraverso il parabrezza il pachiderma meccanico che ci fronteggiava fui certo della prossima collisione e tentai di evitare lo scontro frontale con una frenata istintiva quanto letale. L’auto sbandò prima a sinistra, sfiorando il muretto che delimitava lo strapiombo, quindi ritornò, ormai senza controllo, verso la parete rocciosa sul lato destro della strada. Lungo i fianchi della lingua d’asfalto che s’insinua nelle sue viscere, la montagna è imbavagliata da una rete metallica per impedire che possa espellere residui di se stessa sui veicoli in transito; la nostra auto si scagliò su quella rete infrangendosi sulle solide gengive del monte. Pochi istanti prima dell’impatto, ricordo la mia sensazione di sollievo per aver evitato fortunosamente di precipitare nel dirupo alla nostra sinistra; se anche l’urto sarà violento, almeno non precipiteremo nel vuoto, forse ce la caveremo con poco. Nei tre secondi, anche meno, che trascorsero dal momento in cui sfiorammo il muretto alla sinistra della strada, a quando ci schiantammo nella roccia a destra, ebbi il tempo anche di controllare che Vic avesse indossato la cintura di sicurezza, e valutare maggiori le possibilità di salvarci. Lei gridò qualcosa; fu l’ultima parola che disse da viva, ma io non la ascoltai. Poi lo schianto, un fragore di vetri rotti e lamiere piegate, il contraccolpo causato dalla nostra stessa forza franata su una immobilità millenaria, infine un silenzio oleoso e denso che tappa le orecchie e i sensi con le sue mani vischiose. I soccorritori trovarono me riverso sul volante, privo di conoscenza, con una ferita lieve al capo ed entrambe le gambe spezzate. Vic era morta sul colpo; l’automobile aveva colpito la montagna prima con la parte anteriore e poi con la fiancata destra: uno spuntone di roccia era penetrato nell’auto attraverso il finestrino e le aveva fracassato il volto raggiungendole il cervello, quasi inchiodandola al poggiatesta del sedile. L’immagine del suo viso dissoltosi sotto la pressione della pietra è rimasta fissa nella metà oscura del mio cervello, anche se non ho coscienza di quel momento terribile. Mi risvegliai in ospedale sicuro di trovarla accanto a me, magari ferita, ma sopravvissuta come me. Quando lessi sul silenzio dell’infermiera la verità, affiorò l’immagine della roccia che distruggeva la sua faccia. Una raffigurazione che trovai disegnata sulle macchie di materia celebrale secca sul sedile anteriore dell’auto, il giorno che disbrigai le pratiche burocratiche necessarie alla distruzione di quel groviglio informe, agonizzante in un garage del soccorso stradale.  ....         
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nonsochisonopiu · 11 months
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Chiamarmi così dolcemente, mentre il mio orecchio destro era poggiato sul battito del tuo cuore, per chiedermi se ero sveglia, se non dormivo, se ti ascoltavo, e al mio annuire assonnato dirmi per la prima volta “Ti amo” è stato il momento più bello degli ultimi sei mesi. Ti ho stretto forte a me e ho sentito il tuo battito accelerare. Ho percepito il nervosismo della nostra prima sera insieme, la tua ansia prima di darmi il primo bacio. Le prime volte ti mettono così tanta ansia, ma non farlo. Perché ti amo anch’io.
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cantorepensatore · 2 years
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La giornata era iniziata come al solito.
Nonostante la sveglia fosse fissata per le 7 gli occhi si aprirono alle 9 e già capii che il mio progetto di andare a studiare a casa da mia zia di buon mattino era ampiamente sfumato. Ho sbagliato, non dovevo collegarmi online con i miei amici la sera prima.
Mi alzo dal letto ancora assonnato, mi dirigo in bagno e guardo la mia immagine allo specchio: uno zombie. Mi pettino i capelli che, come ogni notte, hanno deciso di trasformarmi in un sayan senza però darmi la conseguente forza muscolare. Arrivo vicino al tavolo, do il buongiorno a mio padre, apro il frigorifero e inizio a preparare la colazione a base di latte e biscotti plasmon, i miei preferiti. E’ vero che sono per bambini dai sei mesi in su ma poco importa, sono buoni. Tuttavia, il caso mi è avverso: i plasmon sono finiti….tragedia.
Decido di improvvisare una colazione con i galletti della Mulino Bianco e la Nutella, un incipit molto salutare insomma. Dopo averne mangiati un paio la mia attenzione è catturata da una serie TV marchiata Netflix, nota come “L’ultimo Dragone”. Carina, ce ne sono di peggiori, anche se….30 episodi a stagione (ne sono solo due, per fortuna) nella maggior parte dei quali c’è il protagonista, narcotrafficante, che è bello come un modello di armani, più letale di un ninja e al centro di così tante relazioni che mi stupisce non l’abbiano contatto per una breve comparsa in Beautiful. Ma sto divagando.
La serie assorbe gran parte della mia concentrazione e le 10 si trasformano nelle 11:30, altro che Harry Potter questa è magia. Decido quindi di tornare attivo e mi abbandono a una rilassante doccia calda, anche se….piccolo promemoria per il futuro: voglio una doccia un po' più spaziosa.
Dopo la doccia mi vesto, metto il profumo, sistemo i capelli e la barba per farla risultare un minimo decente e vado a comprare il pane. Tempo perfetto, è un autunno diverso ormai, non come quelli cui ero abituato da bambino quando il pianeta era un po' meno forno a microonde.
Arrivo al panificio, una palatina e una rosetta, il solito. Pago con banconota da 5 euro, costo 1,20 euro, resto 4,80 euro….ebbene si mi aveva dato 1 euro in più. Sono andato a casa, ho posato il pane, sono tornato al panificio e ho restituito l’eccedenza. E’ stata la cosa giusta, non ho dubbi.
Tornato a casa decido per il peggio, accendo la xbox e avvio Call of Duty: Warzone…..era meglio non farlo!
Sintetizzo: MALE!
Mi chiamano per pranzare, e con fare ormai stressato mi siedo a tavola. Pasta e Zucca, avrei preferito altro ma va bene così. Una volta concluso il pranzo (ho dimenticato di magiare il secondo purtroppo), vado nella stanza e tento di dare un senso a un tablet di 11 anni fa. Internet non va, Google neanche. Unico programma installato è un lettore di Pdf, almeno per quello funziona. L’ho avuto gratis, un investimento senza rischi praticamente.
La serata si è conclusa come al solito: letto, youtube, pensieri.
Fine. Vedremo i prossimi giorni.
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vefa321 · 3 years
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Presto è tardi!
Mi ero ripromesso di non farlo più, di non andare oltre, di non andare avanti.
Eppure anche una sveglia che non conosco, nell'aria leggera del mattino, mi prende la mano e mi butta giù dal letto.
Ne avessi avuto bisogno, l'avrei cercata anch'io, io che mi sveglio con il tempo sulle spalle, con il fiato sul collo del giorno ancora in fasce.
E così all'improvviso è già mattina, l'alba appena abbozzata come un opera solo ipotizzata.
La luce semplicemente riflessa, contesa tra le stelle, la luna ed un sole assonnato.
I suoni, cinguettii allegri di nottambule civette, il rumore sordo della penombra, la musica lieve di un filo di vento.
Una domenica prestata alle buone intenzioni, vivere il poco, il tanto, il tutto.
Tumblr media
Perché se è sufficiente un raggio di sole ad accendere il cielo, se basta un'onda a cancellare la spiaggia, se un soffio di tempesta scema in un sospiro di vento...
Mi basta un sorriso ed un caffè per fare di un giorno, una vita vera, una vita intera...
@vefa321
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doppisensi · 4 years
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Un mese.
Non sono pronta ancora a dire a voce quello che sto per scrivere... ma tanto, qui nessuno mi legge davvero.
Ormai è un mese che fisso quel cestino vuoto sulla mia scrivania, senza il coraggio di toglierlo. La considero una mancanza di rispetto.
Nessuno degli altri gatti prende il tuo posto in quel cestino, non so perché... so solo che quel vuoto sembra enorme. E non solo perché tu eri il gatto più piccolo di tutti e occupavi sempre il cesto più grande... ma proprio perché eri una presenza ingombrante in questa casa.
Manchi in un modo che nemmeno riesco a concepire, che non pensavo di poter provare. Non mi sono mai sentita così sola in tutta la mia vita. Sola e vuota.
Mi manca girarmi e vederti, sempre, ogni giorno, 24 ore su 24, per 16 anni. 
Mi manca tornare a casa e vederti corrermi incontro.
Tornare tardi la sera e sentire le tue urla incazzate “ma ti pare l’ora di tornare a casa? dai che ho sonno!”. Dividere il mio cuscino con te, tutte le notti. Non sono più abituata a dormire da sola. Mi manca vederti assonnato sulle mie ginocchia quando vado in bagno di notte. 
Il miagolio costante quando parlavo al telefono. Sempre in piedi accanto al mio computer o ai miei libri quando studiavo: una sfinge, un guardiano. Sfacciato nel mostrare amore, incurante dei sentimenti altrui: non te ne fregava niente di far capire a tutti che ero la tua umana preferita.  Le scenate di gelosia nei confronti degli altri (gatti e umani). Sempre le fusa pronte, il miagolio sommesso ad imitare i miei toni di voce. Miagolavi sempre (davvero sempre), più di quanto abbiano fatto tutti gli altri gatti messi insieme. Avevi sempre qualcosa da dirmi, e quasi sempre erano le parole giuste. 
E ora? Ora che faccio?
Come si sopporta questo silenzio?
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130km/h
Buio pesto.
Come al mio solito ero in piedi con il braccio sul mio taxi a fumare una sigaretta acre che mi avvicinava sempre di più alla morte ma che continuavo a fumare perché era l'unica cosa a cui volevo pensare, era l'unica cosa che potevo fare in quella serata buia oltre ad attendere, forse all'infinito.
Non volevo pensare a nient'altro se non al fumo che mi aveva già distrutto un polmone ma non mi importava, dopotutto non mi preoccupava morire così perché avevo scelto così, avevo scelto io questo modo per distruggermi e sono felice di averlo fatto col senno di poi, perché era l'unica compagna di vita che mi era rimasta.
Mentre fumo mi si avvicina questa ragazza, bellissima, assolutamente perfetta nelle sue movenze e nel suo portamento: capelli rossi, occhi verdi, poco più bassa di me ma longilinea, dolcissima nei lineamenti ma decisa, impenetrabile, quasi inquietante nel suo sguardo indagatorio.
È vestita bene: ha un vestito mozzafiato con motivi floreali e una spilla a forma di papavero che diventa, forse in maniera inconsapevole, il punto che cattura tutta la poca luce attorno a noi e la sprigiona in tutte le direzioni, quasi come se dovesse lei il centro di tutto.
"Salve, è ancora in servizio?".
"Certo, dove vuole andare?".
"Scelga lei".
"Lasci fare a me".
Presi le due valigie, le riposi nel bagagliaio e partii, sapendo già dove portarla.
"30 minuti di viaggio, è un problema?".
"Non lo è".
Silenzio.
Accendo il tachimetro e controllo l'ora, sono le 0:53 e l'unico problema è il mio essere leggermente assonnato ma non importa, la nicotina farà effetto prima o poi.
Prima di mettere in moto sposto lo specchietto per vederla meglio in faccia, per scrutare i suoi movimenti facciali anche in quel momento della giornata in cui gli sguardi passano in secondo piano e posso farlo in tutta sicurezza, perché la strada è sgombra e non ci sono svolte, devo solo tenere una velocità di rotta stabile.
Metto in moto e il mio taxi cigola come al solito ma è una compagna fidata, posso andare tranquillamente.
Parto e la strada è quasi completamente al buio, se non per dei lampioni che ogni tanto illuminano la strada e che illuminano i suoi occhi, oltre che la sua spilla che s'è allentata ma che continua a reggere e a restare su quel vestito che, visto da più vicino, mi sembra semplicemente incantevole.
Il cielo però è stellato, e ogni tanto noto qualche stella in lontananza anche se sono concentrato sul suo sguardo indagatorio e questo mi mette semplicemente a disagio; tutto questo va avanti per 5 minuti buoni perché non sta facendo altro che studiarmi.
Mi studia ed è pronta per dirmi qualcosa, il suo sguardo dice semplicemente tutto ma l'unica cosa che proprio non vorrei fare in quel momento è parlare, e lei si accorge di questo mio bisogno anche se, a una certa, il silenzio riempito dal motore del mio taxi e dal vento che si infila come un proiettile nell'abitacolo si interrompe: sta piangendo e anche se lo sta facendo in maniera scaltra non lo nasconde e, anzi, forse voleva proprio farmelo notare, forse aveva solo bisogno del posto giusto in cui farlo.
La sento piangere ma non la interrompo perché in questo momento, in questa auto che sfreccia nel cuore della notte, sono uno spettatore non pagante che stava guardando una persona distrutta che aveva appena mandato a quel paese tutti i suoi schemi mentali, tutte le sue esperienze e ha tirato fuori tutto quel che c'era nel suo cuore, anche se coperto da un dolore forse incancellabile.
Decido di fermarmi sulla piazzola di sosta più vicina perché quella scena mi stava distruggendo, letteralmente.
Accendo le frecce d'emergenza e le porgo un fazzoletto che lei prende con uno sguardo che non potrò mai dimenticare: in quel momento ero il genio che stava esaudendo il suo ultimo desiderio anche se non ero chi voleva che fossi.
Prima di prendere quasi con violenza quel fazzoletto noto il suo sorriso accennato che diceva praticamente detto tutto e che mi aveva reso felice, felice di averla aiutata in qualche modo anche se quel fazzoletto era solo un palliativo, solo un modo per alleviare un dolore inestirpabile.
Lo prende e non mi dice niente perché non c'era bisogno di parlare, perché il rumore delle sue lacrime era così assordante che non avrei sentito niente nemmeno se avesse urlato.
Riaccendo i fari, spengo le frecce d'emergenza e rimetto in moto, era l'unica cosa che potessi fare per coprire la vergogna nelle sue lacrime, per farle credere che le sue paure erano al sicuro nel silenzio di questa notte.
Mi rimetto in carreggiata e lei mi dice una cosa che mi perforò l'anima come un proiettile.
"Scusa".
Mi fece sbarrare gli occhi, perché era l'ultima voce che mi aspettavo di sentire quella sera.
Guardai lo specchietto e mi accorsi che la ragazza che avevo caricato a bordo non c'era più e, al suo posto, c'era lei: il suo caschetto castano, i suoi occhi azzurri, il suo sguardo dolce, la sua presenza che mi colpiva sempre, in ogni momento.
L'avrei riconosciuta tra mille.
Non c'era più il vestito floreale, non c'era più la spilla ma, al loro posto, c'erano un vestito nero e una collana che ricoprì il ruolo della spilla stessa.
"Che ci fai tu qui?", le chiesi.
"Perché non dovrei essere qui?".
"Non mi aspettavo di rivederti".
"Lo so, anche io non me l'aspettavo".
Non mi fermai perché non ce n'era bisogno, perché volevo arrivare comunque a destinazione ed era l'1:03, quindi mancava ancora un po'.
Ritornai alla velocità di marcia prestabilita e, appena fatto, guardai nello specchietto ed era l'unica cosa che non dovevo fare, l'unica cosa che mi pento di aver fatto in tutta questa maledetta vita.
Guardai nello specchietto e la vidi piangere, di nuovo.
Era l'ultima cosa che volevo perché l'avevo vista piangere tante volte ma quella volta, quasi come se glielo dovessi, piansi anche io.
Lei si asciugò il volto con il mio fazzoletto e riuscì, poi, a contenersi mentre io scoppiai in un pianto infinito, abbassando le mie difese per la prima volta, riuscendo in quel dolore a mostrami completamente: in quel momento mi vergognai come un cane perché era la prima volta che mi guardava versare lacrime e non volevo accadesse così, non l'avrei mai voluto né desiderato, considerato, nemmeno pensato nei meandri della mia immaginazione.
Cercai di accelerare per coprire il loro fragore ma non ci riuscii perché lei se ne accorse, perché lei se lo sentiva e il mio accelerare non fece altro che accentuare il tutto.
Non sapeva cosa dire e cosa fare e non perché non lo sapesse ma perché non poteva, perché non era altro che una spettatrice non pagante che era lì, immobile, a guardare una persona distrutta che aveva appena mandato a quel paese tutti i suoi schemi mentali, tutte le sue esperienze e ha tirato fuori tutto quel che c'era nel suo cuore anche se coperto da un dolore forse incancellabile, anche se era la prima e ultima volta che avrebbe assistito a quello spettacolo.
Mi ripassò il fazzoletto.
"Scusa", mi disse di nuovo.
Mi asciugai le lacrime e controllai l'ora, era l'1:14.
"Mi dispiace, non volevo farti piangere".
"Piangere, io? Ma da quando?"
Inchiodai di colpo, anche se non dovevo e non potevo ma dovevo girarmi, non potevo fare affidamento al mio specchio, soprattutto in quel momento.
Mi girai e mi guardai negli occhi.
Ero senza parole, incredulo davanti alla scena che mi si parava davanti: ero io quello seduto sui sedili posteriori del mio taxi, ero fottutamente io.
Non dissi niente, ma ripartii per fermarmi dopo poco, per fermarmi sull'ennesima piazzola di sosta.
Accesi le frecce d'emergenza e la luce posteriore perché dovevo e volevo guardarmi, perché avevo bisogno di affrontare me stesso e leggermi nel pensiero, utilizzando quegli occhi verdi che erano diventati armi di distruzione di massa e difesa invalicabile, via più semplice per accedere alla mia anima e muro di difesa per non accederci mai, mai.
"Che cazzo ci fai qui?", dissi al mio alter ego.
"Dobbiamo parlare".
"Cosa vuoi?".
"Lo sai cosa voglio".
"Lo so, ma non dipende da me"
"Quante cazzate"
"Lo so, mi conosci"
"Devi prenderti le tue responsabilità e modificare il corso degli eventi"
"Non c'è niente da modificare, è tutto già scritto"
"Sì ma l'unica variabile che devi modificare sei tu, sono io"
"Come dovrei cambiare?"
"Devi essere più tu"
"Più io?"
"Lasciami uscire, ogni tanto"
"Non posso, perché sei il mio lato migliore ma anche il più pericoloso"
"Proprio per questo devi farmi uscire"
"Proprio per questo non posso farti uscire"
"Smettila di attenerti ai tuoi schemi mentali"
"C'ho messo anni per costruirli"
"I muri sono fatti per essere abbattuti"
"E le paure per essere sconfitte, ma non è questo il momento adatto"
"E invece lo è, lo sai"
"Lo so, ma non posso"
"Perché?"
In lontananza arriva un’auto che accende gli abbaglianti e che mi acceca per qualche istante.
Non vidi più niente, letteralmente e, quando riaprii gli occhi, non c'era più nessuno, non c'ero più.
Ero rimasto solo e mi ero ormai convinto che tutto quello che stavo vivendo fosse un sogno, mi ero ormai convinto che fosse tutto frutto della mia fantasia e non potevo fare altro che stare al gioco e vedere cosa sarebbe successo, vedere chi mi fosse apparito sui sedili posteriori di quest'auto e prepararmi al peggio.
Ripenso però al fatto che quando sono partito ho caricato dei bagagli e decido che devo andare a controllare il bagagliaio della mia auto per vedere se l'ho fatto davvero o meno: prima, però, spengo la luce posteriore e accendo le luci d'emergenza perché non sono sicuro di sapere se tutto quello che mi è successo è successo davvero, ho paura, non so se voglio saperlo.
Tolgo le chiavi dal meccanismo d'accensione e la inserisco nella serratura del bagagliaio, anche se non so se voglio saperlo, non so se voglio aprirlo davvero perché se fosse successo davvero potrei rimanerci male, potrei rimanere deluso perché non ero pronto a tutto questo, non ero pronto.
Decido di aprirlo e, anche se non vedo praticamente niente mi basta udire il cigolio del bagagliaio per capire che i bagagli, che avevo gentilmente infilato lì dentro, ci sono ancora.
"Non è frutto della mia immaginazione, cazzo".
Richiudo il bagagliaio e decido che devo rilassarmi, non posso ricaderci adesso, proprio non posso; allungo una mano e prendo dalla tasca posteriore dei miei jeans l'ultima sigaretta rimasta, l'ultima distrazione rimasta prima di ritornare alla mia squallida vita del cazzo e ritornare davanti a una verità che non voglio accettare, una verità che mi fa davvero male.  
La accendo e, oltre alle luci d'emergenza e al rosso della sigaretta che brucia quando aspiro non c'è nessuna luce: sono completamente al buio, mentre il fumo del tabacco riempie i polmoni e il naso, come se fosse la prima volta, come se fosse l'ultima volta.
Mi appoggio brevemente al mio taxi e mentre lo faccio mi accorgo che sono solo: non c'è nessuno sui sedili posteriori, sto guidando per me e per nessun altro e questo mi mette fretta, una fottuta fretta che mi spinge a ripartire, quasi immediatamente: butto la sigaretta che non fumo completamente, rientro in quel micro universo che ho creato con anni di sudore, spengo le luci d'emergenza, accendo i fari e mi rimetto in moto anche se ricontrollo l'ora e, anche se faccio un po' di fatica, mi accorgo che sono le 1.37.
Mi ero ripromesso di arrivarci in 30 minuti ma non importa, sono quasi arrivato.
Vedo la città in lontananza ma la prima cosa che noto sono i lampioni che bombardano l'abitacolo con una luce calda, con una luce fatta apposta per illuminare la scena e rendermi l'attore protagonista di un'opera teatrale chiamata vita e, anche se nella mia vita son stato sempre che ha subito le azioni degli attori non protagonista, in quel momento ero io quello sotto i riflettori, ero io il protagonista della mia vita anche se non me ne sono mai accorto, anche se l'avevo dimenticato.
Ci siamo quasi, sono quasi arrivato.
Mi accorgo che, sui sedili posteriori, c'è qualcuno: risistemo lo specchietto per dare un'occhiata ma, anche con tutta quella luce, anche con i lampioni che illuminavano il mio abitacolo come se fosse davvero quello il centro di tutto l'universo non riuscii a capire chi ci fosse, non riuscii a capire chi fosse la persona che stavo portando nel posto che ho scelto d'istinto, ma anche con cura.
Non riuscii a notare il suo sguardo, la sua fisionomia, i suoi atteggiamenti, i suoi dettagli, il suo sorriso, niente di niente.
Presi dal vano portaoggetti i miei occhiali da vista per vederci chiaro ma, anche indossandoli, non riuscii a capire chi fosse quella persona e mi resi conto che non era quello il momento giusto per capirlo, non era quello il momento in cui dovevo fare e farmi domande, non era quello l'istante giusto per anche solo chiedermi cosa stesse succedendo.
Forse non lo capirò mai in realtà ma non importa, in quel momento non dovevo farmi domande.
Nella mia mente rimbalzano i miei pensieri e, mentre mi accecano quasi completamente, mi accorgo di essere arrivato dal rumore delle onde che sbattono contro degli scogli inamovibili, dall'odore di salsedine che permea l'abitacolo e copre l'odore di fumo e lacrime che mi portavo dietro da quando sono partito e dal fatto che mi sento bene, anche se sono impaurito.
Siamo arrivati.
Mi fermo e spengo il motore dell'auto, i fari, tutto e mentre lo faccio cerco di dare un'occhiata dietro anche se continuo a non vedere niente, anche se ho mille domande in corpo e non posso fargliele perché sì, l'unica cosa che capisco è che quella persona è una lei che non ha intenzione di uscire dall'auto, non ne ha proprio voglia.
Io però scendo comunque perché sono stanco, provato e l'unica cosa che voglio in questo momento è scaricare i bagagli e tornare a casa, mettermi a letto e dormire: apro quindi il bagagliaio e prendo i bagagli con forza perché pesanti come macigni, pesanti come il peso che mi porto sul cuore e li scarico stando attento a posarli a terra con calma, dolcezza, con la dovuta attenzione.
Lei scende dall'auto e, anche se non riesco a vederla, me ne accorgo dal rumore della portiera che interrompe per un istante il fragore delle onde e, appena riesco ad alzare lo sguardo, noto che si è messa proprio sotto l'unico lampione con la lampadina fulminata di tutta la città.
Lo trovo buffo, il destino mi sta di nuovo prendendo in giro, sempre se esiste ovviamente.
Mi accorgo che si sta accendendo una sigaretta e, subito, il mio pensiero ritorna al fumo e mi maledico immediatamente perché l'ultima sigaretta che mi era rimasta l'ho fumata a metà e gettata per via di una fretta ingiustificata, quasi controproducente; mi maledico, perché devo ritornare a casa e non troverò mai un tabacchino aperto a quest'ora, mai.
Lei mi fa segno di avvicinarsi e, anche se ho una certa paura, lo faccio e nel farlo le porto i bagagli che non volevo lasciare lì e, mentre li lascio a pochi passi da lei, mi allunga una sigaretta e un accendino di colore giallo, quasi come se avesse percepito il dolore nel non avere più sigarette, quasi come se avesse colto il mio stato d'animo, quasi come se volesse rassicurarmi.
Le nostre mani si sfiorano e, mentre il mio sguardo va al prendere il tutto mi dice una cosa che ancora ricordo, che ancora mi fa sperare e che annullò tutti i miei timori, tutte le mie paure: "Conservalo, poi lo rivoglio".
Dopo averlo fatto se ne va, trascinandosi con sé i bagagli che fanno un rumore sordo, assordante, anche se coperto in parte dal rumore delle onde che continuavano a schiantarsi inutilmente contro scogli pesanti come macigni, infrangibili e inestirpabili, proprio come le mie paure, proprio come il mio dolore, il mio timore, le mie ansie.
Decido di sedermi perché l'unica cosa che posso fare, oltre ad osservarla e vederla sparire nel buio e nella luce di quella notte, è fumare: prendo la sigaretta, prendo l'accendino giallo e incomincio a fumare.
Lo faccio, e mi riprometto che quella è l'ultima sigaretta che mi fumerò prima di reincontrarla di nuovo, prima di poterle ridare il suo accendino grazioso, minuscolo ma sorprendentemente resistente: me lo rigiro tra le dita e capisco che in quel momento, in quel palcoscenico ormai buio ci sono solo io, e nessun altro e questo mi fa capire che non m'importa dell'ora, del costo della corsa, del luogo in cui sono, di chi ho rivisto in quella macchina.
Non importa.
La sigaretta finisce e devo ritornare a casa, voglio ritornare a casa: mi rimetto in auto e mi accorgo che l'unica cosa rimasta in quella serata è proprio il fazzoletto che riuso perché ho bisogno di piangere, ho bisogno di sfogarmi e lo faccio, per un bel po', mentre la mia macchina sfreccia sulla strada del ritorno, mentre sfreccia su quella strada che mi ha cambiato la vita anche se, quando ho deciso di percorrerla, non c'avrei mai pensato e piango anche per questo, perché raccontarti questa storia è strano anche per me, è strano soprattutto per me.  
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plassocean · 4 years
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Scrivo e cancello, ricordo e a volte dimentico.
Un po' insoddisfatto, riprendo, ma non trovo le parole.
E ce ne sono, di parole?
Probabilmente si, ma ho davvero bisogno di esprimerle?
...
Forse non c'è questo bisogno, forse è solo una scusa per non dormire e stringere tra le mani il tempo di una pausa. Ed è solo un ostacolo, perché io in realtà voglio dormire!
...
Forse le parole sono una sofferenza inutile, di cui ci carichiamo stupidamente.
Ma s'è fatto tardi, e svegliarsi presto diventa una sofferenza al solo pensiero, e gli spazi tra ogni riga sono troppo grandi, e voglio metterli comunque, e mi dispiace.
In questi spazi potrebbe entrare un'altra riga, e magari un altra ancora, seppur con difficoltà.
Vi entrerebbe il tempo di una canzone, di una sigaretta, di un messaggio, di una passeggiata per Napoli, di un amore!
...
Ci entrerei poi io, per guardarmi intorno e sentirmi cullato dall'abbraccio delle mie parole, dei miei ricordi.
E forse, con un po' di difficoltà, ci entreresti anche tu.
Forse un po' stretti, ma protetti e cullati da parole, ricordi, vita. E farebbe così male allora stare stretti? E non diventerebbe una benedizione, più che una sofferenza?
...
Un battito di ciglia, e sono di nuovo qui tra gli spazi. Ma si sta larghi, si sta comodi, si sta bene, e vorrei stare male.
...
Un altro battito, più lento, quasi immobile, e vedo fiumi di parole, e vedo te, e c'è casino, trovo la forza di non implodere e resistere, e fa tanto male. Vedo piccole e rare alture da cui poter innalzarmi, per guardarmi intorno dall'alto. Giusto il tempo di guardare e mi ritrovo di nuovo immerso nelle parole, nella vita, ed è tutto così pieno, quasi soffocante, ho paura! Aiuto, è troppo, salvatemi, o andate via! Vi prego, lasciatemi dormire, lasciatemi dormire!
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Riapro gli occhi, c'è silenzio.
Un po' assonnato, nel mio letto, finalmente comodo,
Finalmente sto bene.
Ma ricordo qualcosa...
Non c'è più.
Si sta cosi bene, larghi, non ho niente di cui preoccuparmi.
Ora ho il tempo di preoccuparmi.
Non era paura...
Ero felice.
Ma ora si sta cosi bene....
Si sta così bene.............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
...
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perlaoceanica · 5 years
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29 agosto 2019
In questi giorni ho ripensato a quella che credo sia stata la mia più grande cotta di tutti i tempi. Ho scritto di lui pagine e pagine con il cuore in mano aspettando che muovesse un passo verso di me, per afferrarmi, mentre io mi sarei buttata in avanti senza neanche il minimo dubbio.  Ci siamo conosciuti durante i nostri viaggi in treno verso l’università, io al primo anno e lui al secondo. Una mattina di ottobre l’ho visto in un angolo della stazione, guardava il cellulare un po’ assonnato, con i ricciolini spettinati e io ho pensato che fosse uno degli esseri umani più magnetici che avessi mai visto. Che fosse gentile e timido, l’opposto dei ragazzi con cui ero uscita in passato, lo avevo capito appena ho incontrato il suo sguardo quella stessa mattina e ne sono stata rapita. Una sorta di colpo di fulmine unidirezionale lo definirei.  Dovevo conoscerlo, era il mio unico pensiero. Ogni mattina dopo essere scesi dal treno prendevamo l’autobus per raggiungere la nostra sede, sempre in ritardo e schiacciati come sardine. Così una mattina sono salita dopo di lui e ho fatto una qualche battuta, che sono la mia specialità ma anche la sua, e lui ha riso. Ho subito allungato la mano, per quanto possibile in quel poco spazio, e mi sono presentata. Ero così fiera di me, di non essermi fatta troppi problemi.  Da quel momento sono iniziati i due anni più belli e difficili, perchè mi sembrava che l’interesse reciproco ci fosse, ma allo stesso tempo non c’era alcuno sviluppo. Abbiamo riso tantissimo, creato dei piccoli riti quotidiani, le discussioni sul fatto se sia meglio il pandoro o il panettone che a lui i canditi non piacciono tanto e a me il contrario, lui che mi accompagna davanti all’aula e fa il giro lungo e io che dico che non deve ma lui dice di smetterla di dirlo ogni volta tanto lo fa lo stesso, lui che mi prende in giro senza prendermi in giro davvero, lui che mi ascolta che ormai ha capito che a me piace parlare e io che capisco che a lui parlerei di tutto, lui che si ricorda qualsiasi tipo di aneddoto sui miei professori e io che rimango stupita e lui che mi dice guarda che ti ascolto eh. Poi un giorno ha smesso di prendere il treno e ci siamo persi, tutta la poesia non c’era più. Ci siamo sentiti di rado, mi ha dato un passaggio l’ultima volta, poi era finita. Ci siamo incontrati per sbaglio in un bar un paio di volte ognuno con i propri amici e io guardandolo non riuscivo a capire perchè tra noi non fosse mai successo niente, ma forse il bello è stato proprio quello.  Ho parlato di lui a chiunque, a tutti i miei conoscenti, è stato speciale, era la prima volta in cui sentivo che a qualcuno importava di me, anche solo per mezz’ora al giorno. Avevo promesso che se non mi avesse scritto per congratularsi per la laurea non avrei più pensato a lui, avrei messo il cuore altrove dopo anni. Non lo ha fatto, me ne sono resa conto di recente e ho ricominciato con i pensieri e che poemi mi fa scrivere ancora oggi che sono sola. Continuo a camminare.
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spettriedemoni · 5 years
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Caffelatte
Mattine sempre uguali, eppure diverse, caffelatte, tazze, cucchiaini, miele, biscotti e briciole, tante briciole sul tavolo e sul pigiama.
La fretta, i vestiti, i denti e via incontro a una nuova giornata, fredda, tutte uguali eppure diverse.
E in mente mi risuona una frase: "Non basta volerlo, devi desiderarlo ardentemente" mi pare sia di Ovidio, l'ho letta stamattina su Tumblr, sono sicuro, ma non ricordo da chi, ero distratto e pure assonnato eppure la ricordo anche se forse non era proprio così.
I pensieri si affollano e parlano tutti insieme ma quella frase mi risuona in mente come una voce più forte su tutte le altre.
Abbottono il cappotto ed esco. La mattina è fredda e mi sveglia per davvero adesso.
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ragazzachenonesiste · 6 years
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Ehi, amore mio
Mi mancava chiamarti così, sai? Non immagini quanto.
La verità è che senza te fa tutto schifo. Senza di te ormai tutto è in bianco e nero, i colori se ne sono andati via con te. Non c'è più niente che mi faccia emozionare...niente che mi faccia vivere. Non riesco più a dormire, non riesco più a fare molte cose da quando te ne sei andato tu.
Ti ricordi la prima volta che ci siamo visti? Io si, come fosse ieri se devo essere sincera. Mi ricordo che ero la persona più felice di questo mondo. La notte non dormii nemmeno da quanto ero euforica. A scuola non riuscivo a stare ferma e tutto ciò che riuscivo a fare era pensare a quanto mancasse. Finalmente ti avrei visto, abbracciato, baciato. Era tutto così surreale, eppure stava accadendo davvero. Alla fine le ore passarono, seppur lentissime. E ti vidi. Mi ricordo ancora il momento in cui ti scorsi: eri sul lato destro della strada.  Eravamo al telefono ed in quel momento ti dissi di alzare lo sguardo, tu mi vedesti e mi sorridesti. Eri così bello che mi mancò il fiato ( beh, tu sei sempre bello da togliere il fiato, ma questa è un'altra storia). Mi ricordo il tempo che abbiamo trascorso sulle panchine lungo il fiume, rigorosamente all'ombra perché tu sai quanto mi dia noia il sole. Ricordo il modo in cui mi tenevi per mano, quello in cui mi baciavi,  la facilità con cui mi facevi sentire al sicuro. Avevo così tante farfalle nello stomaco che non riuscii nemmeno a pranzare...ti ricordi? Mi ricordo quanto fu brutto averti di nuovo lontano. A cosa serve la distanza se non ad essere annullata con la persona che si ama ?
Mi ricordo perfettamente anche di tutte le altre volte che ci siamo visti, sai? Mi ricordo la prima volta che andammo alle terme: avevo una paura di farmi vedere in costume da te inimmaginabile. Temevo mi avresti visto come mi vedo io, di non piacerti. Avevo fin troppe paranoie, ma appena ti vidi svanirono tutte: in quel momento per me esistevi solo tu, al diavolo le paranoie. È incredibile l'effetto che mi fai. Non mi sono mai sentita a mio agio se non con te, sei tu il mio posto giusto e su questo c'è poco da fare. Mi sorprende continuamente il fatto che tu mi ami, non capisco cosa ci trovi in una come me. Perché sì, sono un disastro completo, non puoi negarlo. Eppure tu mi rendi migliore. Grazie a te non ho avuto gli incubi per la prima volta dopo anni. Grazie a te ho iniziato forse a piacermi un po' di più. Con te al mio fianco, guardando lo specchio riuscivo ad odiare di meno il mio riflesso. Ho perso il conto di tutte le volte che mi hai calmata quando avevo un attacco di panico, le volte che mi hai fatto sorridere dopo una giornata no.  Tutte le volte in cui mi hai consolata quando ti parlavo di quella che "famiglia" non si può chiamare. Tu mi salvi da tutto, e questo è certo. Sei capace di salvarmi persino da me stessa e in questo non era mai riuscito nessuno. E lo so, sono un casino assurdo: tra gli attacchi di panico, i pianti da stress, gli incubi, le paranoie, i miei problemi col cibo ed il terrore di guardarmi allo specchio; io non so davvero come tu faccia a starmi vicino. Eppure, nonostante tutto, tu mi ami.
E lo so: ho sbagliato tanto. Probabilmente, ho sbagliato troppo. Mi sono concentrata solo sul fatto che stavo male ed ho deciso, pensando di fare il tuo bene, ma non era così.  Non stavo facendo il tuo bene, e nemmeno il mio. Ho agito cercando di convincermi che stessi facendo del bene, quando in realtà ero solo tanto spaventata. Non fraintendermi, non sto cercando di giustificarmi in nessun modo, so di aver sbagliato. Te lo dico in ginocchio e con le lacrime agli occhi che ho sbagliato.  Ho sbagliato molto, e non hai idea di quanto io mi senta in colpa per averti fatto soffrire. Se, ora, dovessi dire ad una persona qualsiasi che sta pensando di lasciare la persona che ama, convincendosi che sia per il bene di essa, convincendosi di starla proteggendo dal proprio dolore che sta provando...gli direi di fermarsi immediatamente. Di non fare questa cazzata perché è  lo sbaglio più grosso che si possa commettere.Gli direi che si sbaglia, su tutto ciò che pensa. Non sta proteggendo la persona che ama, la sta ferendo e sta facendo del male anche a se stessa. Gli direi di stare tranquilla perché, al contrario di ciò che pensa, la persona che ama, vedendo che sta male, semplicemente l'amerà ancora più forte. I mali servono a questo, no? Ad essere curati dall'amore. Gli direi, semplicemente, di amare e di lasciarsi amare. Gli direi di non fare come me, che sbagliando tutto ho perso l'amore della mia vita. Ed ora sono qui, amore mio, in lacrime a chiederti scusa. Sono stata un'idiota, pensavo di sapere tutto ma non era vero nulla: l'unica certezza che ho è che ti amo. Ti amo da impazzire. Ti amo oltre la pelle e fin dentro le ossa. Ti amo che anche respirare è secondario. Amo tutto di te. Amo il modo in cui sorridi, quello in cui mi abbracci, il modo in cui mi baci e quello in cui mi prendi per mano. Amo il modo in cui ti sistemi il ciuffo ed amo da impazzire lo sguardo assonnato ma pieno d'amore che mi rivolgi quando ti sveglio e ti ho portato la colazione a letto. Amo il modo in cui mi abbracci forte quando devi salire sul treno, ma è chiaro che nessuno dei due vuole allontanarsi dall'altro. È inutile dire cazzate, io senza te non voglio starci. Io senza te non so starci. Tu sei tutto ciò che voglio e tutto ciò di cui ho bisogno. Tu sei l'amore della mia vita. 
Io ti vedo nel mio futuro. Anzi,  è molto meglio dire che l'unico futuro in cui mi vedo è quello con te. Se penso alla mia vita tra due, cinque, dieci anni, sinceramente non ho idea di come sarà: l'unica cosa certa sei tu, sempre. Ci vedo con una nostra famiglia, con io che ti amo e tu che mi ami e mi insegni passo per passo cosa è e come funziona una vera famiglia. Io ti amo e voglio amarti sempre, tutta la vita, nonostante tutto e tutti. Io ti voglio nella mia vita, ho bisogno di te. Voglio che tu ci sia tutti i giorni: in quelli più importanti ed anche ( se non soprattutto)in tutti gli altri. Ma ancor di più voglio esserci io per te, sempre. Voglio esserci quando sarai felice, quando tornerai la sera stanco ed io ti riempirò di coccole. Voglio esserci quando avrai le giornate no, così potrò abbracciarti e ne parleremo se vorrai, in caso contrario mi prenderò cura di te in silenzio. Io voglio prendermi cura di te ed amarti sempre.  Perché tu forse non ne hai idea, ma io ti amo fino all'impensabile, ti amo tanto che certe volte mi tremano le gambe. Ti amo, ed amarti è probabilmente l'unica cosa buona che riesco a fare. Ti amo oltre l'immaginabile.
Non sono qui a chiederti di perdonarmi ora, perché so di essere stata un'idiota e che probabilmente sarebbe chiedete troppo, dato che penso neanche io mi perdonerò mai.
Ma tu, ti prego, amami. Lo so che sono un casino, ma tu amami. Amami se sbaglio, se affanno, se barcollo. Amami anche se ho gli attacchi di panico e tremo quando devo guardarmi allo specchio. Perché tu sei veramente tutto per me. Tu mi fai sentire al sicuro, sei la mia casa. Tu sei l'amore della mia vita, sei il mio diamine di eroe. Amami anche se queste non sono 500 parole ma, fino a qui, sono addirittura 1361 ( lo sai che non sono mai stata brava a riassumere, specialmente quando si parla di te ).
...amore mio,
vuoi amarmi per l'immenso disastro che sono?
@dentro-ho-il-buio
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20/09/21
Tia sta molto meglio, ne sono tanto felice, magari oggi riesce ad alzarsi, magari oggi mi faccio mettere sulla carrozz chissà se me lo fanno fare..
Stamattina ero tutto assonnato e non volevo svegliarmi ma è stato divertente e più leggero del solito, ho riso e scherzato con le infermiere, un lunedì che non pare proprio tale
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sinome · 3 years
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Uno scomodo bacio
Ecco, tutto è perfetto, tutto quadra, nulla può andare in modo diverso. Quella mattina ero felice ma non sapevo cosa mi sarebbe successo poche ore dopo. Insomma ero pronto per affrontare un’altra giornata; mi preparai in fretta per andare a scuola, stavolta avevo studiato ed ero preparato a qualsiasi evenienza, salendo in macchina ripetevo in mente tutto quello che avevo studiato per essere sicuro di non aver dimenticato nulla, la strada per andare a scuola mi regalava 10 minuti ed io in testa non facevo altro che ripetere. Mio padre mi guardava stranito, mentre guidava io avevo uno sguardo sordo a ciò che mi succedeva attorno, scesi in fretta dall’auto salutando a malapena. Il cancello era ancora chiuso, tutti fuori la scuola aspettavano di entrare ed io ne approfittai, cacciai il libro e ripetei di nuovo. Di li a poco avrei risolto qualsiasi quesito mi si sarebbe presentato. Me lo sentivo!
Di solito non facevo mai colazione prima di un test, non mi veniva mai fame, eppure in quell’istante un crampo allo stomaco mi prese in pieno; c’era un piccolo bar di fronte a scuola, avevo un paio di euro che mamma puntualmente metteva nella mia tasca ogni mattina, entrai e mi sedetti; il mio cuore scoppiava . Presi una briosch e un bicchiere di latte freddo, bevvi come se non avessi mai avuto sete, mi esplodeva il cuore dall’ansia, intanto c’erano un paio di ragazzi che facevano casino all’entrata con dei biglietti in mano, non riuscivo a capire cosa stessero dicendo allora mi avvicinai, e la vidi! Aveva gli occhi azzurri ed i capelli color rame , era più alta di me e sicuramente qualche anno più grande, mi parlò sorridendomi e mi diede un biglietto con sopra scritto una orario ed una data, era un invito ad una festa di compleanno. Lei mi sorrideva e continuava a guardarmi come se avessi uno di quei giganti brufoli che ti vengono per lo stress, non feci in tempo a chiederle del perché di tutto quella attenzione che lei si girò e corse via lasciandosi dietro solo il profumo.
I cancelli si aprirono ed io corsi per prendermi uno dei primi posti in classe. Si vedeva che ero preparato, di solito mi mettevo o al centro o in uno dei posti in fondo . La professoressa smistava i compiti da compilare ed io sudavo ed avevo paura di dimenticare tutto con la stessa velocità con cui nella mia testa tutto si presentava! Finii con quindici minuti di anticipo chiesi di uscire, corsi in bagno ad accendermi una sigaretta. Tirai fulri il pacchetto da dieci e me ne infilai una tra le labbra, presi l’accendino e l’accesi. Un rumore tra le mie gambe attiro la mia attenzione, mi era caduto qualcosa! Ah si ! Era l’invito al compleanno di Federica, sopra c’era scritto “ ti invito alla mia festa di compleanno” l’orario e la data, sarebbe stata quella sera  alle otto in un locale al centro. La cosa bella era che quel biglietto profumava ancora di lei, quello stesso profumo che si era lasciata dietro quella mattina. Continuai a fissarlo e mi accorsi che le mie narici non facevano altro che aspirare quella fragranza, senza il mio consenso. La sigaretta era finita ed io ero ancora li ad annusare quel biglietto. Scuola fini, ed io tornai a casa; contento avvisai mamma che il compito era andato bene e lei con un sorriso mi abbraccio. Ci sedemmo a Tavola per pranzare, io guardavo la tv mentre i miei chiacchieravano. Papa faceva il custode nel palazzo dove vivevamo, e discuteva con mamma quel giorno dicendole che era arrivata una nuova famiglia al secondo piano. Li interruppi, dovevo avvisare papa della festa di quella sera, se no non avevo nessuno che poteva accompagnarmi.
Sette e mezzo, camicia nera, pantaloni con cavallo basso, cinturone con mega fibbia, insomma pronto per la festa mi metto del profumo e salgo in macchina . Ci mettemmo un po’ ad arrivare, alla fine scesi dalla macchina, trovato il locale, e salutai papa che con voce seria mi disse “ ti passo a prendere a mezzanotte”. Non badai tanto a quello che disse, avevo il cellulare mi avrebbe sicuramente avvertito quando stava per venire.
Erano già tutti li, chi beveva qualcosa, chi ballava, ed in fondo al locale c’era un tavolo con immaginate chi seduta? Federica, tutta intenta a ricevere regali e gli auguri. Il mio cuore riprese come quella mattina a fare casino. Mi guardava ovunque mi spostavo eppure ero il più piccolo tra gli invitati e  poi ammettiamolo neanche tanto carino. Ma lei mi sorrideva. Presi un drink, volevo sciogliere l’ansia e magari fare due passi in pista. Il locale era spazioso e c’era della buona musica, chissà chi era il dj!. Mi guardavo attorno la cercavo in ogni angolo, volevo vederla e magari sentirmi battere di nuovo il corazon all’impazzata!
Ballavo, ad un certo punto scatto una di quella canzoni lente che si ballano in coppia, stavo per sedermi quando mi sentii tirare il braccio e uno strattone mi giro, ragazzi la vidi, era lei, Federica, voleva ballare mi strinse a lei. Sudavo dalla fronte mentre le misi le mani attorno alla vita, e lei con la manica del suo abito nero mi asciugo , le sorrisi e lei continuo a fissarmi! Ballammo abbracciati ero almeno una spanna più basso di lei e la mia testa non andava d’accordo con i piedi che messi sulle punte cercavano di seguire i suoi movimenti. Ballammo tutta la serata assieme, ogni canzone me ne innamoravo sempre di più, le sue mani sulle mie spalle le sue lunghe gambe, i suoi larghi fianchi mi facevano ribollire il sangue . Ragazzi, stavo ballando con una tipa più grande di me e non sapevo in realtà neanche chi fosse. – ragazzi ultima canzone della serata! Avvertiva il dj.
Allora ballammo insieme l’ultima canzone, io che continuavo a sudare e lei che mi stringeva più forte, si avvicino al mio orecchio e mi disse  “ adesso ti bacio, non svenire eh!” cosa! Mi sta per baciare ! Sembrava che il mio cuore si fosse fermato, le mie labbra alle sue ed il mio naso rivolto all’insù perché ero troppo basso mi fecero capire che realmente mi stava  baciando. Umidiccio ed appiccicoso! Bello ed intenso! Un senso di calore mi avvolgeva il collo ed il petto, non c’era  più nulla intorno solo io e lei. Le Notre labbra si staccarono, in mente mille pensieri: chissà come ho baciato! Sarà rimasta delusa! Magari potevo gestire meglio quella maledetta lingua che non sembrava più mia ! Lei mi guardò mi sorride e disse “ un po’ scomodo ma bello “
Sveglio Simone, svegliati!, cosa! Ero nel mio letto?!
Che significava stavo sognando?! Sveglia Simone o farai tardi a scuola! Oddio sognavo, era tutto un sogno, non capivo più nulla, corsi in bagno a lavarmi la faccia e non riuscivo a spiegare come potesse essere così reale quel sogno. Papà mi pressava, mi disse che dovevamo accompagnare anche la figlia dei nuovi inquilini a scuola, e che sono mi muovevo avremmo fatto fare ritardo anche lei. Assonnato mi vestii mentre pensavo al sogno di quell’assurdo bacio, di quella splendida ragazza, di quell’assurdo momento. Entrai in macchina, eravamo in orario ed aspettavamo in cortile la nuova arrivata , quando sgranai bene gli occhi per guardarla mentre entrava in macchina. Oddio era lei, Federica, cioè la ragazza del mio sogno. Lei dietro seduta io avanti e mio padre che guidava, sognavo ancora ! Mi accorsi che dallo specchio alla mia destra, quello per guardare dietro insomma, lei mi fissava e sorrideva. – allora Simone questa è Federica e per un po’ la accompagneremo noi a scuola! D'altronde frequentate lo stesso istituto! Potreste diventare amici ! Chissà! Dio ragazzi! Papà ci lascio fuori la scuola e lei avvicinandosi mi disse nell’orecchio a bassa voce “ un po’ scomodo ma bello”.
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millamasciu · 6 years
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Sentivo un bruciore, come quello del latte caldo della mattina, salire fin sopra le gengive, partiva dall'angolo più remoto dell'intestino fino a raggiungere l'esofago, per passare poi tra gli alveoli polmonari causando fiato corto ed affaticamento e per finire infine tra il femore e la tibia con le gambe che facevano Giacomo Giacomo.
Mi accorsi tardi che non era affatto quel latte bollente che papà lasciava sui fornelli fin troppo a lungo la mattina. Mi accorsi tempestivamente che stavo provando l'emozione della vita, l'essenza dello stupore e dell'angoscia in contemporanea.
Un fiume in piena e una marea senza fine mi inondarono i ricordi. Ero lì a due passi, vicina ma non abbastanza per poterla toccare. Per poter rivivere quegli istanti colmi di gioia e spensieratezza.
Mi sentii appartenuta, persa tra i ricordi sbiaditi, a qualcosa di vano e superfluo, a delle parole insensate e scoordinate.
Che per tutto il male che m'hai fatto un drum proprio non lo meritavi e tantomeno il mio sguardo assonnato delle 4 di mattina. Eppure eri lì, ubriaca lercia, spaesata e assente in cerca di tabacco. Feci ciò che sentii. Fui fin troppo educata. Cazzo un calcio in culo lo avresti meritato.
Eppure follemente innamorata e codarda come sono l'unica cosa che riuscii a fare fu quello di negarti lo sguardo d'addio.
L'angoscia e i sensi di colpa devono cibarsi della tua misera anima. Ed io devo godere del male altrui per poter stare bene.
Fottiti.
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