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#edizioni della Camera verde
marcogiovenale · 2 years
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20 anni del libro "curvature"
20 anni del libro “curvature”
non era il primo in assoluto ma lo considero così: primo libro. e sono felice che sia stato collettivo: mio e di Francesca Vitale. Curvature, La camera verde, Roma, luglio 2002. con una prefazione di Giuliano Mesa leggibile qui * per chi fosse interessato, una autoannotazione qui * & una segnalazione: https://slowforward.files.wordpress.com/2022/03/lunita-4-gen-2003.jpg una…
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spinebookstore · 3 years
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~ L'Anima della festa - Tea Hacic a Bari #selecter ~ Sarà Barbara Laneve @barbaralaneve aka #LANEIGE a curare la cornice sonora pensata ad hoc e che accompagnerà Tea Hacic-Vlahovic @teahacic durante tutto l'incontro che terrà a Bari con SPINE Bookstore. La tappa del tour di @FandangoLibri per "L'anima della festa" arriverà a Bari Venerdì 9 Luglio per una serata (sold out) con presentazione e firmacopie finale. #BarbaraLaneve è Fashion & Music Consultant, organizzatrice di eventi e party con la sua @displayagency, collabora con Elle Italia, Camera della Moda, The Kinksy, L’Officiel, @punktmagazine, @carineroitfeld (Vogue France), etc. Appassionata di sottoculture, con suo marito da dieci anni ha anche un’etichetta discografica, @discipline_recordings, che cura la parte musicale dell’agenzia e l’organizzazione di concerti, club night e format. Organizzatrice dell' @indielabelmkt, coordinando il format inglese in Puglia, per un upgrade di @popupthesunday, di cui è creatrice e direttore artistico. Con suo marito Gae è resident di @radioraheem.milano (Milano) con lo show "Ooh Là Là" e ha curato una playlist speciale per @ossi_fanzine, fanzine erotica di culto italiana. E attualmente pr ed event manager insieme a Protopapa del format @masseria.wave, presso la Masseria La Restuccia a Lecce. Le sue selezioni, tra il superficiale e l'introspettivo, sono come se Miu Miu facesse una collaborazione con Adidas. Con un pizzico di Comme Des Garçons. Ascolteremo ciò che ha scelto per voi, prima, durante e dopo la presentazione, per il firmacopie del libro sulla terrazza di Ode Upgarden, la nuova area verde con bar di Officina degli Esordi. #spinebookstore #teahacic #lanimadellafesta #Bari #tour #Spine #Bari #Puglia #Italia #libri #fumetti #autoproduzioni #smallpress #albiillustrati #microproduzioni #editoria #edizioni #italiane #estere #stampe #graphicnovel #illustrazione #arte #poster #bookshop #booklovers #illustratedbooks #indipendente (presso SPINE Bookstore) https://www.instagram.com/p/CQ8VC5fgplR/?utm_medium=tumblr
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cesarecitypilgrim · 6 years
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Pochi visitatori occidentali si concedono il tempo di vistare uno dei luoghi più piacevoli e rilassanti della capitale cinese: Il Giardino del Sogno della Camera Rossa (Daguanyuan). Non è  solo la riproduzione di angoli che evocano la nostra immagine del giardino cinese. Si tratta piuttosto di una visualizzazione abbastanza precisa dei luoghi descritti nel più importante e ipnotico romanzo della tradizione letteraria cinese. Un libro che seduce chiunque lo affronti da secoli: Il Sogno della Camera Rossa.
Con questo post voglio essere due volte eretico. Non parlerò infatti di luoghi strettamente spirituali e lascerò più spazio alle immagini. Lo farò per parlarvi del Sogno della Camera Rossa, un libro che ho molto amato e che considero un testo ricco di magia e spiritualità, oltre che di trame amorose e intrighi sociali. Scritto alla metà del XVIII secolo da Cao Xuechin. racconta l’universo magico di una grande casa patrizia e le storie, i drammi e le poesie che vi si intrecciano, gran parte delle quali hanno come sfondo il meraviglioso giardino. Nella cultura cinese questo romanzo ha un’importanza che è difficile paragonare a qualsiasi altro romanzo della tradizione europea e la città di Pechino gli ha reso un tributo ricostruendo non solo il giardino ma anche i padiglioni  della grande casa nobiliare, arredati cercando di avvicinarsi il più possibile alle descrizioni fatte nel romanzo. Costruito nel 1984 come set per uno sceneggiato di grande successo della televisione cinese, il giardino è stato mantenuto diventando un’attrazione turistica molto popolare ed è anche una dimostrazione di come la memoria di questo capolavoro della cultura sia ancora forte nella nuova Cina occidentalizzata e imbarbarita dalla ricchezza. Raccomando a tutti (o perlomeno a chi crede che un romanzo non sia solo una successione di avvenimenti frenetici…) la lettura del romanzo Il Sogno della Camera Rossa, disponibile anche in traduzione italiana (più sotto ho postato le cover delle due principali edizioni), come pure mi sento di suggerire a chi si rechi a Pechino di trovarsi un paio d’ore per visitare questo luogo curioso e decisamente “cinese” nella forma e nello spirito. Di turisti stranieri se ne incontrano davvero pochi ma ogni angolo ha comunque cartelli e spiegazioni anche in inglese.
Ecco una breve galleria di foto (di Maria Lecis) che rendono solo minimamente l’atmosfera del giardino.
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Una classica porta cinese circolare mi porta all’interno di uno dei padiglioni dove sono stati ricostruiti gli ambienti in cui agiscono i personaggi del romanzo.
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Talvolta le ricostruzioni includono anche manichini in costume d’epoca. L’effetto è realistico? Lascio decidere a voi….
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I colori vivaci, verde e rosso in particolare, sono tipici dell’architettura tradizionale cinese. Osservo divertito gli spazi di questo parco a tema letterario di Pechino.
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In un paesaggio ideale cinese non possono mancare i ponti…
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… né le rocce. Ogni giardino tradizionale cinese, anche il più piccolo, è infatti un microcosmo dove vengono riprodotti tutti gli aspetti della natura.
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Naturalmente grande importanza ha anche l’acqua dove si trovano i padiglioni dedicati alla contemplazione che sono un’altra delle caratteristiche del giardino cinese.
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Non mancano i passaggi coperti che collegano tra loro i diversi corpi della casa tradizionale, anche disposti a livelli diversi.
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Anche se la superficie su cui si sviluppa il giardino non è enorme, la capacità illusionistica degli architetti dei giardini cinesi riesce a far sembrare tutto molto più grande di quanto  lo sia. 
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Chiunque abbia familiarità con il romanzo si diverte a riconoscere nei luoghi costruiti nel giardino e a ricordare le scene che vi sono ambientate.
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Seduto sotto questo portico, affacciato sull’acqua, ho passato un’ora di grande tranquillità, malgrado il giardino fosse frequentato da molti turisti locali, non certo silenziosi…
Un giardino letterario: il Sogno della Camera Rossa a Pechino Pochi visitatori occidentali si concedono il tempo di vistare uno dei luoghi più piacevoli e rilassanti della capitale cinese: Il Giardino del Sogno della Camera Rossa (Daguanyuan).
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paeseseratoscana · 4 years
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Cannabis, un futuro verde
Diarkos edizioni presenta il libro Cannabis. Il futuro è verde canapa del giornalista Mario Catania, un moderno compendio che analizza e approfondisce tutti gli utilizzi che si possono fare della pianta di canapa. C’è chi dice siano mille, chi 25mila e chi oltre 50mila, sicuro è il fatto che siano innumerevoli e che oggi, dopo anni di censura ideologica su questa pianta, si sta assistendo alla…
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pangeanews · 6 years
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Quando Allen Ginsberg disse a Gianni Milano: “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il Beat è morto”. Storia degli “angeli fo**uti” della beat generation de’ noantri
Anche il disordine è arte, la dissipazione un delirio estetico, precipitare nell’iride crudele di un verso, infiammarsi nell’effimero. Dei Beat sappiamo tutto o quasi: il fenomeno letterario – che poi divenne ‘sociale’ e stabilmente ‘pubblicitario’ – che ha per paladini – nella difformità degli esiti estetici – Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, esplose con la pubblicazione di On the Road. In Italia, fu ‘Nanda’ Pivano a divulgare il verbo Beat; eppure, c’è stato un fenomeno del tutto nostrano, quasi alieno agli Usa, di alienati dalla società, di poeti alieni, di “randagi agnelli angeli fottuti” – così un ‘manifesto’ del 1967 firmato da Gianni Ohm alias Gianni De Martino – le cui “coordinate letterarie… erano state Pavese, Fenoglio, Sartre, Céline, Joyce” (Francesco Tabarelli), prima di subire l’ipnotico, lisergico fascino dei beatnik. Gianni Milano fu uno dei cavalieri della beat generation de’ noantri, ed è emblematico il suo aneddoto: quando incrociò Allen Ginsberg, il guru di Howl gli urlò in faccia, “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il beat è morto”. Alessandro Manca – studioso che si è formato su Pier Vittorio Tondelli – ha curato un repertorio molto interessante sulla “beat generation italiana”, I figli dello stupore (Edizioni Sirio, 2018; con film di Francesco Tabarelli in allegato), che finalmente mette in ordine un movimento disordinato di cui molto s’è detto, poco si sa e che fu storicamente annientato dal magma del Sessantotto. Alfonso Gatto li guardava con simpatia (“I beats hanno, quasi tutti, occhi chiari e fieri, cercano l’essere dal parere… Io li rispetto: è un fenomeno che ha dato e darà vita a nuovi erranti, a nuovi necessari errori”), e con inattuale simpatia vanno letti i proclami politici espressi attraverso la rivista ‘dis-organica’ Mondo Beat, pregni di una radicalità e ingenuità spesso salutare (“Votare significa scegliere le etichette intercambiabili… tutto è sempre uguale, perché tutti in fondo rappresentano un padrone”, scrive Agor nel 1966, e dire che ha visto giusto è tautologia). A chi s’interessa di fatti letterari più che ‘storici’ – eppure, che bello il mito ricorrente di una vita sotto le stimmate della poesia, nei sotterranei, di un mondo stigmatizzato dal bello, dalla rapinosa, a volte tragica, rinuncia a tutto – sorprende vedere – ad esempio, nel poema Guru di Gianni Milano – certi stilemi che furono di Piero Jahier e di Giovanni Boine, oppure quella trasandatezza lirica, da ‘anti-’ costanti, che fu degli Scapigliati. Di certi testi che sono puro ‘gesto’ – ad esempio, Is di Vincenzo Parrella, una sfilza di parole sincopate – non resta che la testimonianza di un tempo perduto, altri, invece, risuonano ancora oggi, e andrebbero ripescati (più che l’istintuale Eros Alesi, benvoluto da Antonio Porta, alfiere di “un contatto che si fonda sulla verità”, come scrisse Giuseppe Pontiggia, che si uccide neppure ventenne nel 1971, sigillando per sempre l’esperienza beat nostrana, va letto il romanzo psichedelico di Andrea d’Anna, Il Paradiso delle Uri, che passò per Feltrinelli nel 1967). Gli ‘angeli della desolazione’ di casa nostra, straccioni Rimbaud, metropolitani Siddharta, furono stritolati dai vezzi intellettuali del Gruppo 63 e dalla retorica preconfezionata della letteratura ‘d’impegno’, politicizzata. Anche in questo fallimento sta la differenza con gli Usa: qui da noi i ‘ribelli’ radicali non hanno via. D’altronde, in Italia, siamo abituati al triclino mica all’autostop. (d.b.)
Intanto: quanto dura il fenomeno del ‘beat’ italiano, intorno a quali riviste e autori, sotto quale magistero o ispirazione?
Il ‘beat’ nostrano si materializza negli anni dal 1965 alla fine del 1967. Come ricorda in un’intervista con Luigi Bairo uno dei ‘papà’ di quel fenomeno, il poeta e pedagogista Gianni Milano (classe1938), a partire dal 1965, gruppi di giovani della marginalità metropolitana, si ritrovarono nei parchi, nei giardini pubblici, nelle metropolitane delle principali città italiane. Li univa non la conoscenza della scena americana o una qualche ideologia specifica, quanto l’asfissìa per il sistema di vita nostrano, il desiderio di verità, di espressione, di pace, l’antimilitarismo, il rifiuto del consumismo e delle mode, l’anarchismo. La parola d’ordine di quegli anni fu ‘Non contate su di noi’. E la stessa cosa avveniva a Milano, a Torino a Genova, a Lucca, a Firenze, a Roma. E anche in provincia, come a Monza e a Cinisello Balsamo, per fare due esempi lombardi. Furono tempi di capelli lunghi e minigonne, di letture poetiche in pubblico fischiate e minacciate da lancio di ortaggi, di fame viscerale, di fughe da casa di minorenni innamorati, di comunità povere ed estasiate. Anni in cui lo scrivere e il fondare riviste e fanzine fu visceralmente legato alla possibilità e alla speranza di ambire a nuove fratellanze, al conoscersi nel magma delle profondità e da condizioni iniziali di grande solitudine ed emarginazione sociale.
In quell’Italia – ricorda Milano – si viveva in un bolla illusoria ed illudente: la chiamavano ‘boom economico’ che riguardava, come sempre, i soliti e non coloro che più ne avrebbero avuto bisogno. Vero è che le merci giravano e il loro acquisto diveniva uno status symbol ma altrettanto vero è che questo non ampliava l’area di auto-liberazione ed emancipazione. I “più” divenivano “clienti” e consolidavano un sistema repressivo-paternalistico con la benedizione del Vaticano, a volte sornione, a volte corrucciato. Insomma: si era, in Italia, come ranocchie in uno stagno, senza grandi visioni, senza ampi respiri culturali e politici. Mancava, insomma, la percezione della vita come esistenza irripetibile e si preferiva recitare, male, il paludoso dramma d’una rivoluzione abortita nel “tutti a casa”. Anche le contestazioni, in Italia, scivolavano lungo canovacci già praticati: quasi si temeva di volare. Il moralismo, poi, che annichiliva in una burletta il senso dell’etica, ungeva i giorni. Si pativa la mancanza di “vere” prospettive e di vere domande. Alcuni – inizialmente non molti – non si trovavano a casa in questo orizzonte e l’unica possibilità, faticosa e pericolosa, era nuotare controcorrente, tagliandosi fuori dallo stagno dei ranocchi.
In questi ragazzi si mescolava a un’insoddisfazione politica e sociale una passione per la letteratura, organizzavano reading pubblici, fondavano club e si dedicavano a pubblicazioni che andavano dai semplici ciclostilati a riviste più strutturate. Per quanto riguarda le pubblicazioni si possono ricordare le poesie di Poppi Ranchetti, curatore del periodico ‘I lunghi piedi dell’uomo’, il romanzo di Silla Ferradini ‘I fiori chiari’ che racconta la Milano beat, il poeta Aldo Piromalli, poi migrato verso la scena alternativa di Amsterdam e il poeta con iniziale base a Roma Carlo Silvestro. Forse tra le numerose pubblicazioni periodiche di quegli anni, la più nota è ‘Mondo Beat’, pubblicata tra il 1966 e il 1967, rivista che non fu esclusivamente dedicata alla letteratura, bensì anche alla politica e alle questioni sociali. A causa di un articolo «sull’adulterio maschile e femminile», la rivista fu ostracizzata dal Vaticano e sequestrata dalla polizia. In un manifesto redatto insieme a un’altra organizzazione controculturale, ‘Onda Verde’, la redazione invocava libertà sessuale, obiezione di coscienza contro la leva militare e «la libertà di divorziare». Non c’è da stupirsi se le istituzioni furono immediatamente allertate e, dopo l’ennesimo sequestro, la rivista chiuse i battenti (cf. De Martino, Grispigni 1997). Pur non occupandosi solo di poesia, altre riviste dichiaravano nel titolo la filiazione diretta con il poema di Ginsberg, ovvero ‘Urlo Beat’ e ‘Grido Beat’. Anche l’esperienza lucchese fu significativa, con due riviste come ‘Esperienza 2’ (numero unico, 1967) e ‘Noi la pensiamo così… e via’ (numero unico, 1967). In quegli anni fu attiva anche la casa editrice Pitecantropus di Torino, da considerarsi come il primo esperimento editoriale di poesia dal basso e di matrice ‘beat’, tra gli altri libri di poesia portò alla luce ‘Guru’ (1967) e ‘Prana’ (1969) di Gianni Milano, ‘Comprami’ (1967) di Antonio Russo, ‘Illuminazione’ di Paolo Cerrato e ‘Qzearas’ (1969) di Piergianni Curti. La stessa Pivano lavorò a un periodico in collaborazione con Ginsberg. Intitolato ‘Pianeta Fresco’. Ebbe vita breve (chiuse dopo due numeri), ma segnò un alto livello di originalità artistica ed è un significativo prodotto delle fertilizzazioni transculturali dell’epoca. ‘Pianeta Fresco’ segnò un apice delle attività di stampa alternativa in Italia direttamente collegate alla Beat Generation. Ma fu una rivista elitaria e non a buon mercato.
Allen Ginsberg con Gianni Milano
Poi: che rapporti ci sono con i beat americani, da cui tu segnali comunque, una distanza?
In Italia, la traduzione e la diffusione della letteratura Beat si deve principalmente a Fernanda Pivano, alla quale la Mondadori chiese, nel 1957, un parere sull’opportunità di pubblicare in traduzione ‘On the Road’ di Kerouac. La sua risposta affermativa fu il primo passo verso un impegno a contrastare l’ostilità che, come lei stessa ribadì, percepiva negli operatori culturali italiani dell’epoca. Mentre quotidiani e rotocalchi presentavano i Beat in un misto di sensazionalismo e curiosità pruriginosa condita di droga e sesso, la Pivano tentava di rivolgersi direttamente a un pubblico intellettuale. Detto ciò non andrebbe dimenticato che la Beat Generation fu a lungo percepita in Italia come fenomeno sociale e in quanto tale si prestò da una parte alle forze dell’ordine e all’establishment in generale come facile etichetta nei confronti dei giovani ribelli degli anni ’60. A dire il vero alcuni ragazzi non li avevano nemmeno letti inizialmente, i beat americani, e ciò rende tutta la vicenda probabilmente ancora più interessante e non smaccatamente derivativa. Altri invece furono spinti dalla lettura del primo Kerouac, dal primo Ginsberg e dal volume ‘Poesia degli Ultimi Americani’ curato sempre da Fernanda Pivano (Feltrinelli, 1964). Gianni Milano ha ricordato spesso come il ruolo di ‘Nanda’ Pivano fu decisivo. Lei, con la sua cocciutaggine, senso della bellezza e amabilità, riuscì a introdurre nell’orto letterario italiano queste esotiche ed esuberanti, irriverenti ed oscene piante d’oltreoceano. Ma l’effetto non fu immediato. Gianni Milano mi raccontò di quando Ginsberg venne in Italia nell’autunno del ’67 in occasione dell’uscita del primo numero di ‘Pianeta Fresco’ (dicembre ‘67) e lui ebbe modo di incontrarlo il poeta americano gli disse: “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il beat è morto”.
Inoltre: come mai sfinisce, finisce il ‘beat’ italiano, travolto, scrivi, dal Sessantotto. Che idea estetica propugnava quel movimento in relazione, per dire, al Gruppo 63, o alla pamphlettistica ‘politica’.
Nel documentario curato dal regista Francesco Tabarelli e prodotto dalla Sirio Films, che è allegato al volume di ricerca di cui mi sono occupato, l’editore Marcello Baraghini (Stampa Alternativa, Strade Bianche) e Gianni Milano ricostruiscono con brevi ma acutissimi pensieri proprio il rapporto tra i beat e i sessantottini: il movimento studentesco si muoveva su linee prevedibili, rigide e confessionali, era figlio di una società che stabiliva rapporti con i suoi membri a muso duro. Repressione, illusione, mistificazione, conformismo. I giovani di cui ho approfondito la parabola poetica fecero scelte, a volte ingenue e pericolose, di totale rifiuto dell’allora nascente Villaggio globale, miravano a divenire santi. Parevano alieni, erano visti come matti, derisi, perseguitati, rinchiusi nelle patrie galere, processati, giovani che avevano come soprannome Scheletrino, Saigon, Ombra e non possedevano che la loro vita. Gianni Milano ricorda anche come, non essendo missionario, il cosiddetto “movimento beat” visse della sua vita, per tutto il tempo possibile tra un respiro e l’altro, tra un digiuno e l’altro, tra un foglio di via e l’altro, straccione, e povero. Se non è del tutto morto è perché era ricerca. Quei ragazzi ruppero il guscio d’una realtà ch’era sempre stata presente, ma non la si era voluta vedere, indagare. Nel momento in cui si superò la separazione e si rigenerò l’unità di pensiero, di visione e di azione, ebbe inizio la diaspora. Quel movimento – se di movimento vero e proprio si può parlare – fu, di fatto una terza via alla poesia, ponendosi al di là della linea tradizionale (vedi i vari Montale) e della via iper-intellettuale dei neoavanguardisti. Non vi furono contatti significativi tra questi percorsi. Furono anni di relazione con la politica, intesa però non come partitica, ma come Vita, bensì di aperture e lacerazioni esistenziali. Una grande parte di quei ragazzi scrittori erano scappati di casa, avevano abbandonato Chiesa, partiti e istituzioni che consideravano morte o insensate, anche la famiglia fu tra queste.
Infine: quali sono le personalità artistiche di maggior spicco secondo te, e che senso ha riesumarle oggi. Intendo, oltre a un senso immediatamente storico (e forse nostalgico) c’è anche un significato estetico, di fatti letterari da recuperare e far risorgere?
Ti faccio tre nomi: Gianni Milano, Andrea d’Anna ed Eros Alesi. Gianni Milano con il suo poemetto psichedelico ‘Uomo Nudo’, scritto nel ’66, con dedica ‘alla storia del movimento’ e pubblicato per la prima volta nel ’74. La scrittura di Milano è erede delle migliori intuizioni visionarie e stilistiche di Allen Ginsberg: “uomo nudo / esclamazione del cielo che in principio era il Verbo / tu disceso dall’albero con la banana in culo ed un gettone / ansioso da infilare nel vuoto tu scala di caverne pulsanti / d’infiniti anfiteatri di sangue terapie sotterranee / di veicoli impazziti grande ululato caos di sangue (…)”. Andrea d’Anna ha scritto il capolavoro della nostra ‘beat generation’: il romanzo ‘Il Paradiso delle Urì’ (Feltrinelli, 1967). Libro praticamente introvabile e probabilmente l’unico romanzo genuinamente psichedelico della nostra tradizione letteraria. D’Anna, fu poeta e traduttore che prese parte alla scena beat milanese e collaborò alla rivista ‘Pianeta Fresco’. Tradusse ‘Tarantula’ di Bob Dylan e ‘Arte Psichedelica’ di Robert E. L. Masters e Jean Houston; e poi vari libri di canzoni di Peter Tosh; ha tradotto ‘Vita ed arte di veggente’ di Francoise Robin; e soprattutto ‘LSD: la droga che dilata la coscienza’ di David Solomon. Il romanzo ‘Il Paradiso delle Urì’ fu scritto da febbraio a luglio del 1966 tra Verona, Formentera e il Marocco, D’Anna scrisse: “Non saprei proprio come definirlo. È un romanzo autobiografico, psichedelico, di fantareligione? So solo che l’ho scritto perché dovevo scriverlo”. Gianmaria Rizzardi afferma: “Il Paradiso delle Urì, scritto sotto l’effetto delle sostanze allucinogene, è un atto d’amore per l’Africa e il suo crogiolo di razze, culture e religioni”. Il romanzo ebbe l’introduzione di Fernanda Pivano. Eros Alesi: di lui il critico Manacorda scrisse: “Le sue poesie sono preghiere. Forse le uniche preghiere laiche della letteratura italiana degli ultimi decenni”. Alesi, è uno di quei ragazzi che rimase ragazzo, infatti morì a soli 19 anni, ‘volando’ come Icaro verso l’Assoluto, ci ha lasciato un testamento di poche pagine ma di tale forza e intensità da provocare in chi lo legge un turbamento profondo, quasi un’esperienza di “viaggio mistico”. Per i tipi di Stampa Alternativa si può rintracciare il libretto ‘Che Puff’, che però ebbe un percorso difficile. Il nome di Alesi vide per la prima volta la luce in una pubblicazione nel 1973, quando fu inserito all’interno di “Almanacco dello specchio”, rivista di letteratura allora pubblicata da Mondadori. Stroncato da Pier Paolo Pasolini (“Non ho nessuna particolare pietà per questo disgraziato ragazzo, debole e ignorante, che è morto per la stessa ragione per cui si fanno crescere i capelli”), fece di nuovo capolino sei anni più tardi tra le pagine dell’antologia ‘Poesia degli Anni Settanta’, curata da Antonio Porta con prefazione di Enzo Siciliano (Feltrinelli, 1979). Marcello Baraghini di Stampa Alternativa, come accennavo, ha diffuso recentemente questo scritto – nella collana Millelire – intitolandolo ‘Che Puff – Il profumo del mondo’ (2015). È il racconto poetico on the road di un giovane ribelle dei primi anni ‘70, quando una generazione invase le strade in corteo, in coppia, da soli, conquistando, senza chiedere il permesso al potere degli adulti padri e padroni, il diritto di parola e di canto. Marco Lodoli, recensendo il volumetto ricordò come “Il 31 gennaio del 1971, Eros Alesi si lascia cadere dal muraglione del Muro Torto: era tossicodipendente, sbandato, confuso, viveva nelle grotte di Villa Borghese insieme ad altre anime perse, ed era un vero poeta”. Eros, attraverso una sorta di diario lirico, “racconta e canta la sua vita estrema. Racconta i suoi viaggi in Oriente sulla rotta dell’eroina, i suoi ricoveri negli ospedali psichiatrici, le amicizie, il percorso sempre più trafelato verso il nulla”. Possiamo dunque ora rileggere quella sua lunga lettera-poema al padre, ex fantino alcolista, odiato e amato, “che è un grido indimenticabile, una pagina che deve trovare posto nella letteratura italiana. Alesi è stato veramente un angelo caduto sul selciato della vita, un’anima pura distrutta dalla smania di trovare un senso alla propria disperata esistenza. Costa solo un euro questo libretto curato con affetto da Enzo Lavagnini: contiene una storia che fa male, ma che dobbiamo conoscere”. Giuseppe Catani sottolinea le “tracce di Allen Ginsberg, di Arthur Rimbaud, di scrittura automatica, tracce di una vita intensa, vissuta con la foga di un ragazzo anticonformista e visionario”. Eros Alesi conobbe bene la forza di impatti, i richiami alla droga e all’autodistruzione, le urla liberatorie, l’invito a cogliere (e bruciare) ogni attimo di vita, la realtà che non esiste. Tutti questi sono gli elementi di una poetica presa a schiaffi da un ritmo incalzante, percorso da invettive feroci come da improvvisi momenti di tenerezza.
Oggi a tuo avviso esistono dei ‘beat’, e cosa significa essere ‘beat’, forse cugini eccitati degli scapigliati di metà Ottocento?
No, filologicamente disquisendo oggi non ci sono beat. Facendo mie le parole introduttive di un’intervista fatta al poeta Gianni Milano (da Luigi Bairo), come ho ricordato, uno dei ‘papà’ di quel ‘movimento’, credo che si parli spesso, “troppo spesso di Beat. Se ne parla e straparla da molte parti, soprattutto di questi tempi babbei in cui rivive superficialmente il modo di vestire e di suonare degli anni sessanta. Si sa. Così procede la macchina del business, che nulla sa inventare, ma solo riesumare e riciclare le culture passate, riproponendole nella loro più fatua esteriorità, dopo che queste sono state opportunamente sterilizzate, come in un vaccino, di ogni contenuto eversivo, destabilizzante”. Il termine beat risale all’incirca al 1955, ed era un modo di dire musicale, jazzistico. Indicava la battuta, il ritmo. Fu Kerouac che con un istrionismo intenzionale volle tradurre la parola come una sincope di beatus. Essenzialmente fu un movimento furtivo, metropolitano e notturno, che coltivava la depressione, ma anche l’entusiasmo esibiva con orgoglio il proprio anticonformismo e la propria agitazione, aveva abolito il sonno, era terrorizzato dalla possibilità di un olocausto nucleare. Con questa mia ricerca che si è concretizzata nel volume ‘I figli dello stupore. La beat generation italiana’ ho scoperto che anche nel nostro paese, e stiamo parlando di un periodo precedente al ’68, vi furono dei ragazzi che provarono a superare con un sol balzo la frontiera che separa il desiderio dall’azione. Un ultimo aneddoto: Gianni Milano ricorda che, nell’inverno del 1966, quando fu invitato da Fernanda Pivano a Milano, lesse, sui muri della Metropolitana di Cordusio, ‘W i veri beat’. Era la fine. Anche tra i ‘capelloni’ era arrivato il virus del confronto, della competizione, del modello. Era ora di morire per rinascere. Alcuni di quei ragazzi non arrivarono all’età adulta. Nel Giardino dei Randagi ci sono le loro tombe.
  L'articolo Quando Allen Ginsberg disse a Gianni Milano: “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il Beat è morto”. Storia degli “angeli fo**uti” della beat generation de’ noantri proviene da Pangea.
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bikevisor · 6 years
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salentipico-blog · 7 years
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Da martedì 1 a sabato 5 agosto nel centro storico del comune salentino appuntamento con la diciottesima edizione de Il Mercatino del Gusto, una delle manifestazioni dedicate alla cultura enogastronomica più longeve e importanti d’Italia.
Oltre 50 tra cene, laboratori e degustazioni guidate, più di 30 concerti, showcase e spettacoli di danza, 5 presentazioni di libri, appuntamenti dedicati ai più piccoli, circa 100 aziende coinvolte, i migliori cuochi di Puglia ai fornelli e migliaia di turisti provenienti da tutta la regione e dal resto d’Italia.
Tutto cucito insieme da un unico filo conduttore “La bellezza”, tema della diciottesima edizione del Mercatino del Gusto di Maglie, in provincia di Lecce, che si terrà dal 1 al 5 agosto nel centro storico della cittadina salentina.
Per cinque giorni la Puglia metterà in mostra la sua identità, l’integrazione perfetta con le altre culture, la biodiversità e la qualità. Lo farà nelle piazze dedicate al vino, alla birra, all’olio extravergine d’oliva, al gelato e al caffè, nelle vie allestite con decine di bancarelle riempite dai prodotti della gastronomia regionale, dei presidi e delle comunità del cibo, da quelli per il benessere, gluten free e i dolci.
Si potrà cenare seduti nei ristoranti all’aperto delle “cene in strada” che propongono carne, pesce, pasta o pizza o nella prestigiosa Villa Tamborino, dove i cuochi eccellenti della regione racconteranno i loro piatti accompagnati dai produttori delle materie prime utilizzate nelle “Cene di filiera colta”. Imperdibili le due postazioni del “cibo di strada” per riscoprire, passeggiando, tutto il sapore delle pietanze semplici della tradizione pugliese.
In questa edizione ancora più spazio sarà dedicato ai laboratori pensati per chi vuole approfondire e conoscere più a fondo la cultura enogastronomica regionale. Con “Vino e cucina” quattro cuoche pugliesi prepareranno i loro piatti “a vista” abbinati ai vini più interessanti dialogando insieme a giornalisti, blogger e produttori. Il Giardino di Rosaria, ospiterà “GustoLab” dove esperti del settore e chef accompagneranno i presenti nella degustazione di originali accostamenti. Per gli appassionati dell’oro verde si terranno cinque serate dedicate all’olio con degustazioni guidate da assaggiatori professionisti.
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Infine il gastronomo e storico Gino Di Mitri e il cuoco per passione Sergio D’Oria accoglieranno i loro ospiti in Corte Mellone con insalate di pasta e di cereali e vino, per parlare di contaminazioni e ibridazioni nel Salento.
Anche per i bambini si terranno laboratori esperienziali nel Mercatino Junior: potranno conoscere divertendosi le filiere agricole pugliesi nelle Masserie didattiche o toccare con mano la meraviglia di una nuova esperienza tra natura, filosofia, arte e scienza negli appuntamenti a cura di Salento faber. Non mancheranno la musica con i concerti jazz a cura dell’associazione Bud Powell, le presentazioni di libri e gli showcase nel “Caffè letterario” e le danze e musiche popolari proposte dall’associazione Tarantarte.
Tra gli ospiti gli chef Pietro Zito, Kleida e Stefano Nuzzo, Massimo Andrea Di Maggio, Vincenzo Elia, Alfredo De Luca, Vito Gaballo, Alessandra Civilla, Antonella Scatigna, Miriana Capone, Sara La Tagliata, Rosanna Mita, Ippazio Turco, Alessio Gubello, Annalisa Presta, Simona Avallone, Daniel Graziano; gli esperti, produttori, giornalisti e blogger Davide Ganci, Marianna Cardone, Antonio Tomacelli, Giovanni Resta, Michele Polignieri, Cosimo Damiano Guarini, Giacomo Mojoli, Antonio Stornaiolo, Pino De Luca, Mariella Piscopo, Antonella Millarte, Valentina Bruno, Sabrina Merolla, Leda Cesari, Sabina Rubini, Francesca De Leonardis, Titti Dell’Erba, Elio Paiano, Teo Musso e molti altri.
Il Mercatino del Gusto in questi anni ha contribuito a promuovere in modo innovativo e originale il patrimonio enologico, agroalimentare, ambientale e turistico. Rappresenta un osservatorio sulla cultura enogastronomica pugliese: in questi anni la manifestazione è stata testimone della crescita e dello sviluppo del settore, convogliando nella sua programmazione l’eccellenza delle produzioni regionali, le nuove tendenze e le realtà emergenti. L’evento magliese si distingue dalle numerose iniziative estive per l’attenzione ai contenuti e ai messaggi da promuovere: esalta la territorialità, rigetta l’omologazione e l’appiattimento delle produzioni.
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Organizzato dall’omonima associazione, presieduta da Salvatore Santese, con il sostegno di Regione Puglia, Comune di Maglie e di numerosi partner privati e con il patrocinio di Camera di Commercio e Confesercenti, il Mercatino sarà, come ogni anno, una vera esperienza dei sensi che coinvolge gli appassionati e i cultori del buon cibo, i curiosi e i turisti provenienti da tutto il mondo.
Ad agosto a migliaia scelgono il Salento e le sue bellezze paesaggistiche, culturali e architettoniche anche per non perdere l’occasione di partecipare a questo vero e proprio raduno del gusto. Chi visita il Mercatino del Gusto ha la possibilità di fare un viaggio da nord a sud della regione passeggiando tra le circa 100 bancarelle allestite nel centro storico di Maglie, incontrando gli espositori, dialogando con loro e soprattutto assaporando i prodotti eccellenti dell’enogastronomia. I produttori presenti sono i migliori interpreti della tradizione, hanno saputo recuperare antichi sapori ma operano guardando al futuro sempre attenti alla sostenibilità ambientale, sociale e ai nuovi stili di consumo.
Raccontare la Puglia: questa è la sfida che il Mercatino del Gusto raccoglie, impegnandosi a far vivere ai partecipanti tutte le sfaccettature di una regione generosa, caratterizzata da una biodiversità straordinaria e attraversata da culture diverse, ognuna con la propria ricchezza, la propria identità, i propri sapori.
Dopo la “Cura” e la “Gioia” la cinque giorni ruoterà attorno al tema della bellezza, nel senso più strategico e contemporaneo del suo valore e significato. La “Bellezza” delle cose, dei gesti, delle idee e, soprattutto, la bellezza della Puglia, dei suoi castelli, delle sue torri d’avvistamento, delle sue masserie fortificate, dei suoi trulli, dei suoi ulivi monumentali, dei suoi vigneti, del suo mare, per non parlare del cibo, dell’ospitalità delle sue genti, della voglia di emergere dei suoi giovani.
La cinque giorni si aprirà (martedì 1 agosto – ore 21) nell’atrio del Liceo Capace con il Premio Mercatino del Gusto, un omaggio all’impegno, alla creatività, all’originalità, alla capacità e alla competenza di chi, attraverso il proprio lavoro e la preziosa passione, contribuisce alla diffusione dell’identità culturale della Puglia, accrescendone il valore inclusivo e sostenendone lo sviluppo.
Il Premio è una preziosa riproduzione artistica realizzata con le tipiche luci delle luminarie firmata da Mariano Light, azienda tra le più famose e rinomate al mondo. Dopo la cerimonia, presentata da Antonio Stornaiolo, concerto dell’Ensemble dell’Associazione Culturale Jazz Bud Powell di Maglie diretta da Francesco Negro e Matteo Maria Maglio.
Nel corso delle prime quattro edizioni il Premio – una riproduzione artistica realizzata da Mariano Light – è andato tra gli altri, agli chef Peppe Zullo, Pietro Zito, Pasquale Tuccino Centrone, ai giornalisti Nereo Pederzolli, Lucia Buffo, Davide Paolini, agli imprenditori Giuseppe Montanaro, Luciana Delle Donne, Pierangelo Argentieri, al professore Salvatore Giuliano, al creativo Michele Galgano, alla biologa Sabina Rubini.
E sono tanti gli ospiti che con la loro presenza e i loro interventi hanno arricchito le serate del Mercatino dalla sua nascita ad oggi: Chef Kumalè, Paolo Marchi, Oscar Farinetti, Roberto Burdese, Teo Musso, Renzo Arbore, Francesco Scimemi, Roy Paci, Don Pasta, Michele Di Carlo, Nico Cirasola, i giovani attori di Braccialetti Rossi, Edoardo Winspeare solo per fare qualche nome.
Il Mercatino del Gusto sceglie di investire in un futuro più rispettoso dell’ambiente con Ecofesta Puglia, la certificazione che interviene per ridurre l’impatto ambientale degli eventi.
Per le vie di Maglie, infatti, saranno presenti gli informatori ecologici di Ecofesta Puglia che presidieranno i punti per la raccolta differenziata e guideranno i fruitori nel corretto conferimento di carta, vetro, metalli, umido, plastica e rifiuto indifferenziato, distribuiranno ecogadget e saranno a disposizione per informazioni sulle azioni amiche dell’ambiente. Le stoviglie biodegradabili e compostabili saranno sminuzzate in diretta con il trituratore, un macchinario che le rende ottimo strutturante per il compost prodotto chiudendo il ciclo del rifiuto organico nella compostiera.
Nelle azioni green saranno tutti protagonisti grazie alla campagna “Differenzia il Mercatino del Gusto – Porta la sporta!”, un invito a portare con sé le buste in mater-bi distribuite lungo le vie del centro storico di Maglie, per raccogliere i rifiuti e non lasciarli a terra. Saranno poi differenziati presso i punti di raccolta statici e mobili presenti dell’area grazie al supporto degli informatori ecologici attivi durante l’evento. L’evento è certificato “100% energia pulita Dolomiti Energia”.
https://issuu.com/mercatinodelgusto2015/docs/mercatino_del_gusto_2017_-_brochure
Da martedì 1 a sabato 5 agosto 2017 Centro Storico – Maglie (Le) Info www.mercatinodelgusto.it Facebook.com/MercatinoDelGusto
Al via la 18^ ed. de “Il Mercatino del Gusto” a Maglie Da martedì 1 a sabato 5 agosto
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marcogiovenale · 1 year
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manca pochissimo: l'11 febbraio, dalla mattina alla sera, mercatino di libri @ studio campo boario (roma)
LIBRIDINE MARKET: libri nuovi e usati, fumetti, edizioni per ragazzi, riviste, piccola editoria, scritture di ricerca Evento facebook: https://www.facebook.com/events/419693076999128 Personalmente esporrò sul mio banchetto libri nuovi della Camera verde, e delle collane Syn (IkonaLíber), Chapbooks e UltraChapbooks (TIC Edizioni), oltre a copie – tutt’altro che facili da reperire – di testi e…
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pangeanews · 6 years
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“Tra tutti i vuoti/ scelse di vivere”: Sativi di Antonio Bux. Ovvero: la poesia è come l’olio (dice Jakobson)
“Sono dell’opinione che in principio ogni scrittore voglia essere poeta”, scriveva William Faulkner. “Quando scopre di non saper scrivere poesia di prim’ordine, e la poesia deve essere di prim’ordine, allora tenta con i racconti, che sono il secondo genere più arduo. Quando fallisce con i racconti, viene il momento del romanzo. Vale a dire che cerca di esprimere la tragedia e la passione dell’esperienza, della vita, con quattordici parole. Se non va, ci ritenta con duemila parole. Se fallisce di nuovo, gliene serviranno centomila.” Le cose possono anche stare diversamente, ma è vero che al pari di una produzione esorbitante, come quella che ogni anno sfornano i poeti italiani, poche opere sono degne di attenzione.
Scrivendo in prosa o in versi il punto non cambia. Occorre domandarsi che cosa sia la letterarietà, ovvero ciò che rende un’opera letteraria. Roman Jakobson, linguista, risponde che questa è un principio di organizzazione, non una proprietà tra le altre del testo. Detto in parole più semplici, tra un cibo condito e uno scondito c’è una differenza, e la poeticità per Jakobson è come l’olio: “Una componente che trasforma gli altri elementi e determina così il carattere dell’insieme. L’olio non costituisce un piatto a sé, ma neppure un’aggiunta accidentale o un elemento meccanico: cambia il gusto di tutto il cibo. Quando in un’opera letteraria la poeticità, la funzione poetica acquistano un’importanza decisiva, allora parliamo di poesia”. La letteratura è artificiosa, innaturale come la mossa del cavallo negli scacchi.
Se la parola, per comunicare, è un’anomalia che dovevamo necessariamente scegliere, la letteratura ne rappresenta una perversione ulteriore. Priva di utilità, è buona a niente se non a passare il tempo e quindi a sprecarlo, quando dovremmo usarlo altrimenti. La poesia è dunque qualcosa di artificiale, che sta al linguaggio come il vizio sta al sesso atto a generare. Una deviazione che deve di fatto estraniare e perturbare il lettore, colpirlo, segnarlo.
A ogni modo, se scegliete di usare il vostro tempo leggendo poesia, non sempre recandovi in libreria troverete questi libri conditi di letterarietà. Anzi, l’offerta sugli scaffali è selezionata per soddisfare gusti quasi sempre facili: nel migliore dei casi ricircolano perennemente gli stessi classici; nel peggiore, ci sono montagne altissime di libri colorati come quelli dei bambini, solo più idioti. Succede spesso in Italia che alcune, pochissime realtà più piccole, siano capaci di valorizzare la letteratura di qualità, che un’occhiata agli scaffali delle più rinomate librerie ci precluderebbe.
Antonio Bux collabora con due case editrici, per le quali cura due collane: Sottotraccia per la Marco Saya Edizioni e L’anello di moebius per la più recente RPlibri. Sativi (Marco Saya Edizioni, 2017), è la settima fatica dell’autore, complessa e interessante seppur di difficile interpretazione. L’opera investe l’intera esistenza umana, a partire dalla sua primaria modalità di apertura nei confronti del mondo: il corpo, come terreno entro cui e da cui si dipana l’esperienza nella sua totalità di pensiero e azione. Il corpo in questo si fa fertile, coltivabile, ovvero sativo (“Provocare un limone/ farlo luce sanguinante/ non è verità a stringere/ il braccio ma la pietà/ tra filamenti e fibre/ perdendosi in vena;/ ah com’è stato giallo/ esserci./ Per forza di mari/ per iniezione centrifuga/ rotolano belve di sale/ tra acquazzoni nei corpi/ ora viola ora azzurro il male/ ora verde l’eclissi mentale…/ Vivere non è mai stato così vomito)”.
Attraverso il corpo e i suoi sensi ci apriamo al mondo esterno. Ci ritroviamo persi in una marea inarrestabile di stimoli, che sedimentano in ricordi, emozioni, che si trasformano in pensieri. Ci rendono fertili e troppo umani, nauseanti. Con i quali, però, cresciamo e facciamo i conti. Sono strati di immagini in cui ci identifichiamo. L’opera, quindi, è un diario intimo che procede per metafore e simboli significanti e originali. Prima tra tutte, quella del seme che rappresenta la vita nel suo potenziale, nelle sue infinite possibilità, tra cui quella di non essere. La cifra concettuale, ripetutamente presente nei versi di Sativi, è un rovesciamento meccanico della prospettiva (“Ho sognato un gigante/ così grande che ero io/ ma ero troppo grande/ in sogno per vedermi/ Mentire sul mondo/ è nostra abitudine/ fino ad un certo disordine/ quando svolta bivio ciascuno/ Non serve niente alla parola/ basta da sé per cancellare/ tra un parlare e un non dire/ l’essenza ricominciando/ Penso di pensare/ ed è l’unica via d’uscita/ pensarsi pensati, in acque/ dischiuse vite frementi”).
La poeticità è uno sguardo attento sul reale, che trasforma geneticamente la realtà. Tornando alla metafora di Jakobson: l’olio ha un ruolo così importante che un pesciolino perde la sua iniziale denominazione e viene chiamato sardina sott’olio. Ciò che dovrebbe essere conservato nella poesia, ed è bene continuare a conservarlo come ha fatto Bux nel testo, infine, è semplicemente l’assoluta diversità di uno sguardo.
Alessandro Paglialunga
  Alcuni estratti da Antonio Bux, Sativi, Marco Saya 2017
Non è che tu t’immagini tra le fronde ed io devo vederti passare. O che anche l’anima debba ritrarre un movimento, di un osso, o la tua vera speranza. Chi siamo noi per ricordare se già il primo ricordo ci ricorda ed annienta. Noi non diventeremo questo è quasi certo, un raggio di sole o una stella. Ma siamo qui, ora e tutto ciò che guardiamo è il nostro solo specchio […]
*
A saperle vedere le finestre chiuse aperte, mentalmente ferite sotto i volti e le palpebre, tra le gambe a rompere vene, e queste righe discontinue: io sono solo, tu sei con me, gli altri a stendere veli e gli sguardi; ah, a saperlo diluire lo specchio con gli occhi fraterni, e farne altri occhi, per i fantasmi di oggi, ah sì, per poterli guardare e non toccare mai niente, o illudersi di poter sparire, sarebbe più nitido il paesaggio se trascorresse qui dentro e invece è un attimo vivere, pensare, e il ritorno
*
Lui sembrava povero ma in verità era reale, vestiva i panni smessi di chi non ne ha; lui era così: tra tutti i vuoti scelse di vivere
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pangeanews · 6 years
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“Bianchissimo (bianchissime mani) e due laghi d’azzurro gli occhi”: quando Cesare Cavalleri incontrò Pound (e polemizzò con Montale, e chiacchierava con Ungaretti…)
Per capire qualcosa della letteratura recente, occorre leggere ‘Leggere, rileggere’ (perdonate l’astioso bisticcio di parole), la rubrica che Cesare Cavalleri tiene da un bel tot su Avvenire, quotidiano su cui “scrive ininterrottamente dal primo numero del giornale, 4 dicembre 1968”. Su Avvenire, Cavalleri ha cominciato, ingaggiato da Raffaele Crovi, come critico della tivù, smettendo nel 1984 (“perché non c’era più la televisione”), poi s’è dato all’amore letterario, con la rubrica ‘Persone & parole’ (1985-2007) e ora con ‘Leggere, rileggere’. Una buona bussola per capire cosa è indispensabile leggere oggi (e cosa è bene conservare di ieri) è Letture, raccolta ampia di esperienze estetiche ed etiche di questo flâneur della letteratura, che nell’intro fa annunciare la morale a Borges, La meta es el olvido./ Yo he llegado antes (digitare su Google Traduttore per capire). Purtroppo, il tomo, edito da Ares nel 1998, si ferma ai decenni 1967-1997.
Cesare Cavalleri, classe 1936, direttore di ‘Studi Cattolici’
Giornalista dall’intelligenza al cubo, Cavalleri, classe 1936, ha fondato, a Verona, la rivista Fogli (ancora viva, vegeta e pimpante), dirige, dal 1966, il mensile di approfondimento Studi Cattolici, ed è la mente delle Edizioni Ares. Mente tagliente – negli anni Sessanta ingaggia una polemica con Eugenio Montale, per altro adoratissimo; memorabili le sottili stroncature ai libri di Roberto Calasso e le madornali bordate contro i romanzi di Umberto Eco (“Eco è in costante commozione/ammirazione verso se stesso… come quei rompiscatole che in treno incominciano a raccontare per filo e per segno quello che gli è capitato da quando hanno, o credono di avere, l’uso della ragione… senza dar peso agli sbadigli e scatarra menti dei malcapitati interlocutori che volentieri cambierebbero scompartimento”) – e animo votato alla meraviglia (si spende in generosità multipla quando legge qualcosa che lo convince davvero, senza stare a guardare il pedigree dello scrittore o del poeta), Cavalleri è lettore sopraffino, alieno ai pregiudizi. Ha ‘scoperto’ e pubblicato per primo Il cavallo rosso di Eugenio Corti, oggi giudicato tra i grandi romanzi del secolo; ha letto e pubblicato un autore complesso come Alessandro Spina e un poeta di australe semplicità come Elio Fiore. Ama alla follia Saint-John Perse, è esegeta di Rimbaud, ritiene salutare il Gruppo 63, adora Buzzati e Flaiano ma gli è parso un esordio ‘col botto’ quello di Paolo Giordano (La solitudine dei numeri primi), ha chiacchierato con Giuseppe Ungaretti e salva il Pasolini poeta (lasciando ardere Petrolio nella sua tonante inutilità). Nella “conversazione con Jacopo Guerriero”, dal titolo “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria (Els La Scuola, Brescia 2018, pp.188, euro 16,00), Cavalleri, tra i grandi, anticonformisti intellettuali di oggi, racconta la sua vita. Eccone un sunto, per sketch.
*
Ungaretti, mio dirimpettaio.
Giuseppe Ungaretti (1888-1970)
Il 1961 l’avevi trascorso a Roma. Lì avevi conosciuto Ungaretti, e in molti sanno che grado di apprezzamento gli riservi. Una cosa che mi sono sempre chiesto però è: a quell’epoca avevi già letto anche Saint-John Perse? Che Ungaretti tradusse e che, so bene, tu consideri stella polare.
No, cominciavo solo a leggerlo. Ungaretti abitava all’Eur come me, era mio dirimpettaio dall’altro lato della strada. Facevamo lunghe passeggiate insieme e più che della poesia parlavamo della vita. Mi fa molto piacere, però, portare l’attenzione sulla traduzione. Che per me è un incontro, l’incontro della grande poesia. I poeti veri sempre si condividono. Saint-John Perse, del resto, è stato tradotto da Eliot in inglese, da Hoffmansthal in tedesco. Basterebbe leggere.
Di quella traduzione con Ungaretti parlaste mai?
No. Del resto quello con lui era un incontro, ripeto, tra persone. Non se la dava mai da poeta, Ungaretti. Anche se il rovello perpetuo a tratti lo intuivi. Capivi che era sempre in cerca di un verso. Una volta eravamo a casa sua, intorno al suo tavolo rotondo, ingombro di libri… «Questa tavola si distrugge», esclamò dalla grotta della sua voce. Pareva voler tirare fuori una strofa dall’ipotesi che la tavola si stesse rovesciando.
Com’era Casa Ungaretti? Ti regalò mai dei libri?
Una casa molto semplice di arredamento casual-moderno, con molti libri. Mi regalò Un grido e paesaggi, con la dedica vergata a penna nel suo mitico inchiostro verde.
*
Il leggendario silenzio di Pound? Tutto falso
Un altro gigante che hai conosciuto di persona è stato Ezra Pound…
Di persona l’ho incontrato una sola volta, a Venezia, durante un concerto al Conservatorio Benedetto Marcello. Era il 29 marzo 1971. Riconobbi subito il poeta in platea, assorto, rannicchiato, vivo. Bianchissimo (bianchissime le mani), i capelli ventati come nelle fotografie. Rivedo tutto. Gli siede accanto Olga Rudge. Al termine, Olga applaude. Gli rassetta il cappotto, fanno per uscire. Si risiedono per il bis. Poi, a velocità sorprendente, giù per le scale, per la strada. Ha indossato un colbacco di pelo. Li seguo pochi passi dietro. Sul Ponte dell’Accademia, Olga delicatamente indugia ai ripiani, ma lui riposa appena. Il suo leggendario silenzio: tutto falso. Con Olga parla fittamente, a voce bassissima, in inglese. Il suo silenzio è per gli altri. Alle fondamenta Cabalà trovo il coraggio di avvicinarmi: Pound mi consegna una mano gelata, guardandomi dritto in viso (i suoi occhi, improvvisi, due laghi d’azzurro), dopo essersi sveltamente passato il bastone nella sinistra. Olga Rudge, orgogliosamente grata, saluta sorridendo, giustamente in credito verso tutti.
Un brevissimo incontro, uno spunto per il racconto quasi poetico che lessi al Convegno organizzato dall’Ares a Milano nel 1992, per il ventennale della morte del gigante del ventesimo secolo. Ma posso dire di conoscere Pound perché di lui ho letto tutto quanto mi è stato possibile, e vorrei che l’Abc del leggere, oltretutto nella traduzione del compianto Rodolfo Quadrelli per Garzanti, fosse adottato nelle scuole. L’Ares pubblica la collana «Poundiana», diretta da Luca Gallesi.
*
Flaiano mi piaceva molto. E decisi di scrivergli
Ennio Flaiano (1910-1972)
Allora come iniziò la frequentazione con Flaiano?
Ti racconterò molto semplicemente la storia di un’amicizia. Leggevo Flaiano sul «Corriere», mi piaceva molto, mi facevo dei volumetti di ritagli, di bricolage, di autoeditoria, che se vuoi ti farò vedere. Poi un giorno decisi di scrivergli, e lui, semplicemente, cominciò a rispondermi. Nell’epistolario di Flaiano pubblicato da Bompiani (Soltanto le parole, 1995), ci sono anche un paio di mie lettere. Piuttosto ingenue, data l’età, ma tant’è. Per farti una confidenza sul mio rapporto con lui: mi intrigava l’idea che una persona, dalla scrittura così distante, ironica, anche affilata, sapesse poi essere tanto affettuoso e gentile per corrispondenza. Con un giovane sconosciuto come me.
Poi a Roma andasti a trovarlo.
Sì, e mi regalò Il marziano a Roma, il suo più grande fiasco cui era affezionatissimo. E in effetti, bisogna riconoscerlo, teatralmente l’opera non vale molto. Ma è bellissima da leggere, piena di aforismi.
Di che cosa parlavate?
Di tutto. Del nostro tempo, dei letterati. Eravamo entrambi un po’ polemici contro gli intellettuali di allora, avevamo letto i libri di Elémire Zolla, ce l’avevamo con la volgarità della tecnica, della società dei consumi, con l’eclissi del buon gusto. In Flaiano io trovavo una vena da autentico moralista, naturaliter cristiano che, denunciando gli altri, denunciava sé stesso. Questo mi piaceva moltissimo. Denunciare e sentirsi coinvolto senza sentire la forza di tirarsi fuori dalla corrente.
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Giovanni Raboni, il grande poeta a cui ho chiesto una poesia per Natale
Giovanni Raboni (1932-2004)
Al ’68, se non erro, risale la tua amicizia con Giovanni Raboni. È vero che ti dedicò una poesia?
Eravamo colleghi all’«Avvenire», lui critico cinematografico, io televisivo. Poi se ne dovette andare per aver elogiato il film I diavoli, di Ken Russell (1971), molto anticristiano, presentato alla Mostra cinematografica di Venezia. Siamo sempre rimasti in contatto, lo considero il poeta migliore della sua generazione e non gli ho mai nascosto le mie profonde riserve per la sua situazione famigliare e ideologica. Sì, mi cita in una poesia che gli avevo chiesto per il Natale 1969, poi confluita nella raccolta Cadenza d’inganno (1975): «Aver pietà dei ricchi cercarli […] Ma adesso, adesso – e Cesare che vuole / una poesia di Natale, da me! con l’aria che tira / di peste, tersa, meravigliosa / e questi botti sparsi per la boscaglia urbana, / caccia che ricomincia, compagni / fra non molto più numerosi in prigione / che sotto l’albero acceso o il vischio appeso al cornicione…». Il 20 ottobre 1975, ringraziando per la mia recensione a Cadenza d’inganno, scrisse: «Mi sono accorto, leggendo il tuo pezzo, che in fondo tu sei proprio uno degli interlocutori invisibili di molte cose scritte (o semplicemente pensate) da me in questi anni: e non solo per avermi “commissionato” una poesia di Natale…».
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pangeanews · 6 years
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Non faccio il poeta, ho troppe bocche da sfamare. Ma voglio riscrivere la Divina Commedia: Davide Bregola ci parla di un’antologia di poesie particolare, spettacolare
C’è Stefano che dopo la lettura della poesia Lasciatemi divertire di Aldo Palazzeschi, quella che fa cuccuccurucù! ed è molto strana, dice di aver tentato la strada del lavoro di poeta. Ha smesso i panni dell’artista perché si guadagnava troppo poco e lui aveva tante bocche da sfamare. Sarà una storia vera? Fabiano invece declama versi improvvisati dopo aver ascoltato A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, Io dirò un giorno le vostre nascite latenti: A, nero corsetto villoso di mosche splendenti Che ronzano intorno a crudeli fetori di Rimbaud. Siamo al Centro Psichiatrico dell’Azienda Socio Sanitaria Territoriale di Mantova. Qui si fa laboratorio di poesia da sei mesi e io per alcuni degli ospiti sono il maestro, per altri il professore, per altri ancora il Dottor Bregola o semplicemente Davide. Non c’è una regola precisa o almeno le regole ci sono ma cerchiamo di non farci caso perché ogni volta che ci incontriamo in venti, venticinque, a volte in diciotto, altre in ventidue, leggiamo i grandi poeti italiani e stranieri senza cercare di capirli ma prendendo le loro parole come fossero pietre preziose. Emily Dickinson, Antonia Pozzi, Verlaine, Baudelaire, Dino Campana ma anche poeti viventi, purché grandi. Come facciamo a capire se i poeti letti sono grandi? Se le loro parole producono poesia dopo la lettura allora sono grandi poeti. Con i pazienti del centro ho fatto un patto: la poesia si ascolta, la poesia si può commentare, la poesia non si deve necessariamente capire. Anzi come prima regola abbiano deciso all’unanimità che non c’è nulla da capire, perché capère, etimologicamente significa prendere, tenere, e invece noi negli incontri di poesia vogliamo dissipare tutto, scrivere, ascoltare, senza afferrare nulla. Intanto accorgersi della poesia è già una scoperta importante. Quando Clementina si è accorta dei simboli nella poesia della Dickinson, ha iniziato a scrivere per simboli e la sua percezione delle cose è lievitata: Dolce è la palude, con i suoi segreti, fino all’incontro con un serpente; ed è allora che rimpiangiamo il villaggio scrive Emily nella poesia 1740, e Clementina scrive: Nella nebbia ombre che camminano con le loro gioie. I fardelli svaniscono dietro ramoscelli. Oppure Barbara si entusiasma ad ascoltare, leggere, condividere Antonia Pozzi: Gioia di cantare come te, torrente; gioia di ridere sentendo nella bocca i denti…Tra i pazienti del centro psichiatrico ci sono persone di ogni estrazione sociale, persone di varia cultura. Elisa ha studiato Scienze dell’Educazione e quando ho parlato di “Immaginazione attiva” e di “Ombra” ha capito perfettamente che eravamo nell’ambito della psicologia del profondo e di Jung. Barbara ha fatto Filosofia e si è diplomata in pianoforte al conservatorio. Mi parla del compositore Ligeti e di lezioni che seguì con lui sulla musica del vento e della sabbia. Tutto diventa spunto per scrivere poesia, così da una suggestione della “micro polifonia”, parliamo di sinestesia e onomatopea. Tra i partecipanti al laboratorio ci sono ragazzi e ragazze, uomini e donne. L’età varia dai 23 ai 55 anni. Fabio è il più giovane. A un certo punto una voce nella sua testa aveva preso il posto della sua voce interiore e non riusciva più a controllarla. Questo gli procurava paura e allucinazioni. Mario è il più anziano del gruppo, ma è sopravvissuto a droghe pesanti e a molti tentativi di suicidio. Ora gli vengono bene le poesie d’amore. Nel gruppo ci sono bipolari, depressi cronici, persone con manie di persecuzione, psicotici, altri ancora hanno allucinazioni con deliri spesso riconducibili alla religione, al misticismo. Qualcuno di loro aveva vite normali, con lavori normali, con relazioni all’apparenza normali, poi tutto si è disfatto all’improvviso e dopo vari trattamenti sanitari obbligatori sono arrivati al centro. Qualcuno sta al diurno e alle quattro di pomeriggio torna a casa. Qualcuno invece vive lì e va al secondo piano dello stabile in cui c’è il reparto. Tutto intorno infermiere, psicologi, psichiatri, educatori. Per quel che posso dico loro di ambire ad essere artisti, leggo un brano di una lettera di Rimbaud in cui il poeta parla dell’importanza di essere veggenti e dico loro di provare ad essere veggenti, poi leggiamo Rilke e i suoi consigli al giovane poeta al quale dice: “Penetrate in voi stesso”. Molti dei partecipanti all’atelier di poesia capiscono perfettamente cosa vuol dire Rimbaud e cosa cerca di suggerire Rilke, perché i pazienti psichiatrici hanno lavorato moltissimo sull’introspezione e spesso proprio questa sensibilità introspettiva è stata la causa e l’effetto delle loro malattie mentali. Fabio vuole riscrivere la Divina Commedia in endecasillabi, così come Michael e Stefano si esaltano a sentire parlare di sdrucciole, sinalefe e dialefe; si divertono a contare le sillabe di A Zacinto del Foscolo e i settenari del Petrarca. In tutti i nostri incontri ognuno scrive versi e li condivide ad alta voce con gli altri. Sono nate righe come queste: Cercai parole dallo sciabordare / delle tue sublimi imperfezioni. Ora si può leggere l’antologia dei poeti del Centro Psicosociale.
Davide Bregola
*
Per gentile concessione si pubblicano alcune poesie da ‘Poesie’ di Autori vari del Centro Diurno del Centro Psicosociale di Mantova (Il Rio Edizioni, pp.130, euro 10,00)
  Aureola
Spazio all’aureola delle stagioni parola, ma non era previsto rotolando invecchiò. Allora il cappio si strinse attorno ma fu tagliato affinché il rapporto tra uomo e Dio continuasse. Fu inutile il cerchio fu arso altrettanto fu spento benché una fiammella, l’estate rimase qualche istante ancora rigettando acqua all’uomo.
Paolo
  Senza titolo
Nascosta tra i declivi di un’esistenza pacata e schiva ritorno tra i vacui motivi delle estensioni e delle denunce volando un po’ più in su nel quadro agghiacciante delle nostre inguaribili rinunce.
Cinzia
  Invisibile
Invisibile sono ai tuoi occhi, tutto tace. Solo in lontananza tiepida la voce dei bambini; accoglie al mio orecchio un fruscio, un serpente gelido mi si attorciglia in modo lento e un dolce silenzio mi fa sentire il suo fruscio, dove la palude accoglie i miei sensi.
Clementina
L'articolo Non faccio il poeta, ho troppe bocche da sfamare. Ma voglio riscrivere la Divina Commedia: Davide Bregola ci parla di un’antologia di poesie particolare, spettacolare proviene da Pangea.
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