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#casermone
lorenzocaiazzo · 1 year
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#2023february4 #neve #casermone #rifugiolacapanna #1560m #montefalco #part6 (presso Monte Falco mt.1658 slm) https://www.instagram.com/p/CoVXK2DsQQz/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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lucadea · 2 years
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Le case alle spalle del quartiere di Marassi a Genova
Le case alle spalle del quartiere di Marassi a Genova
Le case alle spalle del quartiere di Marassi a Genova. Alle spalle del quartiere di Marassi salendo verso forte Quezzi spuntano palazzoni e case popolari. Credo che quella serie continua di case in alto si chiami il “Biscione” ma non ne sono sicuro. In basso invece potete vedere la casa madre suore N. S. del Rifugio in Monte Calvario, Brignoline. Se hai domande oppure se vuoi farmi sapere la tua…
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gcorvetti · 7 months
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Cambio routine.
Inizia la trafila giornaliera invernale cioè accendere i forni per riscaldare la casa, ebbene si mentre da voi in Italia è ancora estate qua già un paio di notti siamo andati sotto zero, anche se ora le temperature sono tornate dentro le medie stagionali. E' una rottura di palle, onestamente, però ci libera dal gas, per dirne una, visti anche i prezzi e le merdate di questi giorni. Ne ho parlato ieri recuperatevi il post. Poi il riscaldamento a legna ha i suoi vantaggi, è autonomo a differenza di quello centralizzato che è ampiamente diffuso sia nei casermoni costruiti dai russi sia nella case post URSS che ha un enorme svantaggio non lo puoi regolare, ricordo che vivevamo in un appartamento in un casermone e d'inverno stavamo in maglietta perché sparavano il riscaldamento a palla. Uno però degli svantaggi è che bisogna andare fuori a prendere la legna, non nel bosco 😁, ma nel casotto del legno, si è a 5m dalla casa, ma spesso devo fare 5/6/7 viaggi per prenderne per un paio di giorni. Poi c'è il tempo che si perde ad accendere i forni, 3 sotto, uno sopra ma a quello pensano i ragazzi.
Detto questo vado ad accendere il forno della sauna 😁.
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rosateparole · 11 months
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Il potere popolare ci ha fatto cambiar scuola. Sempre bene intenzionato, il potere popolare, toglierci la scuola e farci andare nell’edificio della scuola croata per aumentare la dose di bratstvo i jedinstvo, unità e fratellanza.
Da via Castropola nella Città vecchia, siamo scesi in via San Martino, in un casermone rettangolare e grigio che non assomigliava a niente se non a una caserma, perché appunto tale era stato. Circolavano voci che lì i fascisti avessero torturato i bevitori di olio di ricino, sempre questi benedetti fascisti italiani che mi perseguitano, sempre loro, dove ti giri, dove ti volti, han combinato guai per i quali noi dobbiamo subir le conseguenze, noi che siamo nati in questo luogo, teatro di un eterno regolamento di conti, con questo nostro mestiere di capro espiatorio. Quotidianamente ci propinano racconti che, con tutto l’orrore dell’autenticità, parlano di ogni sorta di nefandezze subite sotto il fascismo, che sputava perfino in bocca allo slavo che parlava slavo.
E noi dovevamo pagare per quelle nefandezze. Perciò dall’oggi al domani, tutti fuori dalla scuola. Andate nella scuola croata, nel rispetto del principio di unità e fratellanza. Ci andammo, anche se questo rispetto assomigliava più a uno sfratto e a un abbraccio soffocante. E, per l’occasione, i banchi della classe sbatacchiati nel trasloco sotto il sole e la noia cittadina colpita dalla peste politica, i nostri libri, Manzoni e Foscolo, buttati sul camion e squinternati, il timbro Gimnazija battuta con forte inchiostratura sul frontespizio di ogni libro a sovrapporsi e ad annullare il vecchio timbro «liceo Carducci».
La scuola, in due giorni resterà vuota. Esattamente come un uomo al quale si sia improvvisamente cancellata la memoria. Il professur Pouli, rigido e impalato come il manico di uno scopettone, i knickerbockers da ragazzino, la cravatta alla lavallière, tutto bardato Old England, felice di assomigliare agli inglesi che si aggiravano per la città, con un’aria da poeta tenne stretta un momento contro il petto la Divina Commedia – stretta come lui, antifascista, aveva tenuto la speranza e una limpida e cieca fede nel fronte popolare –, poi la lasciò cadere tra un Ariosto e un Melzi, all’improvviso, come la speranza e la fede. Improvvisamente conscio di aver scambiato troppo mulini per giganti, prima che ce ne rendessimo conto era uscito dalla biblioteca scolastica e dalla scuola per abbracciare, in Italia, un impensato migliore destino. Nei tanti anni che gli rimasero fu felice a Parma. Come il pittore Golia, che lo seguì dopo poco perché non ce la faceva più, l’espressione di chi non capisce nulla di quello che succede, il pittore dava l’impressione di essere inciampato nella Storia per puro caso.
C’è chi non sopravvive a un’esperienza devastante, e chi invece ne viene fuori. C’è chi si rialza in piedi e c’è chi viene distrutto, la gente reagisce in modo diverso. Non so da cosa dipenda, se dall’incidente in sé o dal carattere delle persone. Anche dall’età, credo.
Anna Maria Mori & Nelida Milani, Bora. Istria, il vento dell’esilio
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allecram-me · 2 years
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Quando Valerio venne a vedere per la prima volta questa casa interrotta - in cui ormai viviamo senza di lui da più di un anno - portò con sé la macchina fotografica, così da mostrarmi poi quello che all’epoca mi rifiutavo ancora di vedere dal vivo. Ricordo benissimo che non tornò con tantissimi scatti, ma quasi la metà di essi erano stati catturati in balcone, e ritraevano tutti i palazzi di fronte. La cosa mi fece sorridere un scacco perché la sua tenera incredulità era la misura dello sconvolgimento che questo bivio avrebbe portato nelle nostre vite. Vivevamo arroccati sul mare, in quel periodo, e la mattina lui si godeva l’alba dal giardino sul retro, mentre io ero molto affezionata ai tramonti. Comunque, al di là dello shock di immaginarsi a vivere in un casermone che si spaccia per parco, non sapevamo quello che ci aspettava: io ero disposta all’ottimismo, cosa così tanto insolita. Sembra proprio che io sia una frana a scegliermi le stelle.
Procedendo avanti veloce da quelle foto scattate da un titubante Valerio a quella di questa sera, in cui immortalo la recente conquista della ringhiera da parte di Pentolino, ho un solo appunto: io e i gatti maciniamo le nostre vite completamente ignari di cosa sia una tenda, ma, nonostante qui ci abiterà un numero consistente di individui, la sera sembra sempre di essere più o meno gli unici con la luce - e forse il cuore - accesi.
Che posto strano. Di sicuro anche questa bizzarra forma di solitudine ci mancherà.
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lamilanomagazine · 16 days
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Frosinone: senza patente e senza assicurazione non si ferma all'Alt dei Carabinieri
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Frosinone: senza patente e senza assicurazione non si ferma all'Alt dei Carabinieri. I Carabinieri della Sezione Radiomobile della Compagnia di Frosinone, dopo un lungo inseguimento, hanno sanzionato per guida senza patente un cittadino di Sonnino (LT) che, con la sua autovettura Alfa Romeo 166, non si era fermato all'Alt impostogli dai militari in Corso Francia a Frosinone. L'autovettura, che si aggirava con fare sospetto nella zona bassa della città, tra i complessi di edilizia popolare (Casermone), dopo aver percorso a folle velocità la Via Monte Lepini, imboccando in senso contrario alcune rotatorie, è stata bloccata in sicurezza nel comune di Giuliano di Roma. Gli accertamenti sulla persona hanno consentito di appurare che il 31enne, gravato da vari precedenti di polizia, non aveva mai conseguito la patente di guida, mentre l'autovettura è risultata essere sprovvista di assicurazione obbligatoria per cui è stata sottoposta a sequestro ed affidata in custodia a ditta del soccorso stradale.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Operazione 'Alto Impatto', polizia assedia Casermone
È legata alla sparatoria del mese scorso in pieno centro a Frosinone tra due gruppi albanesi.     Ed ha preso di mira i santuari dello spaccio nel capoluogo. Un vero e proprio assedio quello realizzato oggi dalla Polizia di Stato impiegando oltre 100 unità tra il personale della Questura di Frosinone, del Reparto Prevenzione Crimine Lazio e Campania, i Cinofili di Nettuno coadiuvati da un…
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pietroalviti · 2 years
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Frosinone, grande operazione antidroga al casermone
Frosinone, grande operazione antidroga al casermone
Una città blindata, attorno al lungo serpente degli edifici del cosiddetto casermone, nel capoluogo: polizia, carabinieri, guardia di finanza, tutti insieme per stroncare il commercio della droga in una delle zone di spaccio più conosciute a Frosinone. In azione, ci sono anche cani antidroga ed un elicottero. Il questore di Frosinone, Domenico Condello, sembra intenzionato a ripetere l’operazione…
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fabriziosbardella · 2 years
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Il generale Figliuolo a Gallarate lunedì prossimo 4 gennaio visiterà il Centro vaccinale massivo presso l’ex caserma dell’Aeronautica Militare di via Milano. #HUBvaccinale #GeneraleFigliuolo #casermone #esercito
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lorenzocaiazzo · 1 year
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#2023february4 #neve #casermone #rifugiolacapanna #1560m #montefalco #part5 (presso Monte Falco) https://www.instagram.com/p/CoVWxucsQfF/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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anniemilly182 · 5 years
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Gipsy
L’appartamento si trovava in una piazza davanti al mare, all’ultimo piano di un palazzo che l’umidità aveva scorticato.
Per fortuna, nonostante le cicatrici sulla facciata, il vento e la salsedine non lo rendevano meno attraente.
Mi colpì subito, con quella finestra a tre vetrate che ogni giorno si illumina dentro i primi squarci di sole.
È questo il punto della città dove nasce il giorno ed è qui che le cose si realizzano più in fretta.
Chi vede il mondo prima degli altri, si sente sempre a casa.
Una consapevolezza della durata di un attimo, il tempo di raggiungere il nucleo delle cose: accoglierlo e lasciarlo andare; restando con senso di pienezza in fondo all’anima.
Era esattamente ciò che provavo alla vista di quel palazzo, il casermone assolato che ospitava il mio appartamento: perché lo fosse e perché sentissi familiare quell’atmosfera, è impossibile a dirsi. Il mondo onirico ha logiche incomprensibili per l’occhio cieco della ragione. Decisi di proseguire il mio cammino, percorrendo la strada che costeggiava il mare. Sebbene quel mondo sembrasse deserto, mi imbatto in un ragazzo che forse conosco. Non mi dice nulla, si limita a guardarmi con i suoi occhi di un blu profondo: riesco a intravedere le increspature delle onde in quelle iridi assolute. Posso anche percepire la sua tristezza e senza che proferisca parola, avverto il fragore di uno scontro: una donna ha sbagliato il senso e un ragazzo giace sull’asfalto, morto. Credo che fosse un suo amico, vorrei abbracciarlo ma scompare tra le mie braccia ed io resto sola. Quanto è ostinato il bisogno di amare: ci rende schiavi di un altro mondo, creato dalla mente per il puro scopo di espiare le colpe della realtà. Cosa è reale in questo momento? Questo mare che richiama il pensiero di gente in fuga, questa città sempre uguale a sé stessa, questa immagine che vedo riflessa nello specchio e che non riconosco?
Altre forme di vita attirano la mia attenzione, sono frasi proferite con veemenza e il luogo dal quale provengono, si direbbe, essere un bar. Eccomi in un locale, poco più ampio di una stanza da letto. A renderlo tristemente angusto è soprattutto l’arredamento sciatto; unico elemento di modernità un televisore: un deus ex machina che si rivolge ai suoi fedeli, rimandando immagini e parole. Penso di non conoscere la lingua nella quale si esprimono, né loro né l’oggetto della loro venerazione. Però comprendo la rabbia che deforma i loro volti stanchi, i solchi delle rughe divengono più profondi ad ogni urlo emesso. Mi immagino un contadino lillipuziano intento ad arare quei campi emotivi e gli auguro di trarre frutti che sappiano di pietà. Qualcuno di questi anziani signori mi ricorda mio nonno, che come loro indossava un basco marrone, camminava con un giornale sotto il braccio e congiungeva le mani dietro le spalle mentre ascoltava. Inoltre, anche lui inveiva contro lo schermo parlante e professava una religione politica che mi faceva orrore, il cui alito mortifero avverto ancora oggi. Mi sforzo di riconoscerlo tra quella gente, ma non ci riesco: è il sogno sbagliato, mi starà aspettando altrove. Se potessi rincontrarlo avrei tante cose da chiedergli. “Sai, Nonno caro, mi chiedevo: ma l’Eterno, rende più saggi? Tra le braccia di Dio, hai per caso compreso, finalmente, quanto nuoce a un figlio non essere amato o peggio, pensare di non esserlo? Per caso c’è qualche Angelo dotto in psicoanalisi, che ti abbia saputo illustrare quanti e quali danni provoca un genitore incapace di pensare a qualcuno che non sia stesso e che faccia sentire tutti indegni del suo affetto? Temo che ti abbiano anche dovuto spiegare che la psicoanalisi ha una dignità scientifica tanto quanto l’ingegneria, ma non so se l’Eterno possa arrivare a tanto. In ogni caso, Nonno, ti mando il mio amore. Sai, ho imparato a perdonare gli altri e, forse, anche me stessa”.
Mentre sono tutta compresa in questi pensieri, avverto una mano che si è poggiata sulla mia spalla. Tento inutilmente di dissimulare lo spavento e capisco che qualcuno, tra gli anziani adepti, vorrebbe includermi nel dibattito: muove la sua mano, dalla direzione del televisore verso la mia, un andirivieni quasi comico, se non fosse che mi atterrisce l’essere incapace di decodificare il suo linguaggio. Anch’io mi esprimo a gesti, ma senza emettere suoni. Accenno un saluto e scappo via, seguita per qualche istante dal suo sguardo interrogativo. Una volta fuori dal bar, noto con dispiacere che non c’è più il sole a illuminare la strada vuota. Gli ultimi incontri mi hanno fatta sentire vulnerabile e sento il bisogno di tornare a quel palazzo, a quella finestra,a quella comprensione che è casa. Ma le strade, nella parvenza immutate, non mi portano dove desidero e ripercorrerle è un ‘azione senza significato. La paura che si fa spazio nel mio cuore, costringe un pensiero, prima accennato, a farsi concreto o per lo meno palese. Quella parola di tre lettere che poco fa avevo pronunciato, è diventata un bisogno, un confine necessario al mondo altrimenti troppo vasto. Dio. Ecco un’altra essenza che accende punti interrogativi, fiammelle in una cattedrale sconsacrata perché eccessivamente debole. Sono io quell’edificio illuminato a stento, fitto di ragnatele, ignorato dai fedeli e amato dai peccatori notturni. Sono io , che da bambina prima di addormentarmi pregavo ogni sera, recitando parole profonde: raccontavano di morte, vita, lacrime e sangue ed io , che ero solo una bambina, non sapevo fare altro che ripeterle. Erano commuoventi ma incomprensibili. Forse come le urla di quel bar. Adesso, invece, se uso la parola “peccato” piuttosto che “sbaglio”, le mie azioni appaiono diverse, è come se smettessero di esistere in un’uniformità grigiastra e una linea dritta iniziasse a creare delle forme. Per non parlare di come suoni meglio,” Dio ho molto peccato”. È un incipit decisamente più dignitoso rispetto al banale, “Dio ho molto sbagliato”. E pensare che ragazzi, miei coetanei, si uccidono e ammazzano in nome di Allah, mentre io rifletto sulla migliore scelta lessicale, da adottare, per quelle volte in cui mi decido a sussurrare al vuoto della mia camera, perché in preda ai sensi di colpa. Tutti ci rivolgiamo al Mistero per essere perdonati, o comunque quasi tutti. Persino io, che ho, più volte, considerato il problema morale del mio paese un’inevitabile conseguenza della sua religione, troppo indulgente. Sbagliamo per continuare a farlo e, nonostante questo, per continuare ad essere amati.
Persino nei sogni i miei interrogativi esistenziali non mi danno pace. La colpa è sempre di quei ragazzi, pazzi, che sacrificano tutto per un’idea e noi, invece, abbiamo sacrificato ogni idea pur di avere tutto. Certo che è un peccato essere qui sola, al buio, in una città senza nome, senza nessuno con cui condividere queste riflessioni. Chissà se al mio risveglio continuerò ad essere tanto introspettiva, chissà se sarò capace di custodire questi pensieri per convertirli in parole. Delle volte, è paragonabile all’abisso il foglio bianco che mi guarda e che io guardo con timore. Sembra volermi dire: “Dai, su. Volevi fare la scrittrice e allora sporcami”. Battuta degna di un soft porno per amanti della tipografia. Il punto, però, è che io resto a fissarlo. Magari abbozzo qualche riga, la rileggo e getto tutto. Ogni parola sembra incapace di esprimere quell’emozione o quella profondità di pensiero che vivo negli istanti epifanici. Momenti fugaci, troppo spesso coincidenti con la sindrome premestruale. A proposito della prosaica realtà biologica, dei crampi interrompono il vortice onirico filosofico nel quale mi trovavo e mi costringono alla realtà esterna. Vado in cucina e trovo mio padre che, come ogni mattina, ascolta il dibattito politico giornaliero. Gli do un bacio, sulla parte del cranio più colpita dal diradarsi dei capelli. Come ogni mattina. Sono nuovamente intraducibili le voci provenienti dal televisore, adesso però è giustificato dalla mia refrattarietà mattutina. Solo una battuta, esordendo nel bagliore della sua autoreferenzialità, resta sospesa, si distacca dal brusio generale e si fa ascoltare. “Bisogna ripartire dal Mediterraneo, è il futuro”. Tra i molteplici slogan ai quali siamo, nostro malgrado, avvezzi, questo mi suona diverso. Certamente, non per la sua novità intellettuale, piuttosto per l’embrione paradossale e contradditorio che custodisce. Insomma, una frase ossimorica. Se sapessi dipingere e dovessi dedicare un’immagine alla mia terra, realizzerei la piccola piazza di un centro storico. Le pietre dei suoi edifici di un giallo intenso, reso ancora più morbido dalla calura estiva. Affacciati alla finestra alcuni anziani, con le tipiche divise bianche, ennesima dimostrazione di purezza. Su un edificio, abbastanza centrale, forse il municipio, un orologio antico. È su di esso che deve indulgere lo sguardo dello spettatore. Lui, più di tutti, patisce l’aria pesante, gonfia. Le sue lancette a stento si muovono sotto il peso di quella luce così intensa. Sorge un dubbio in chi guarda: forse non è per la bidimensionalità della tela che sono immobili.
La dea pagana che emette oracoli in cambio di un canone, fa viaggiare un’altra parola, un’altra immagine. In questo caso la parola chiave è “Gipsy”: a differenza del suo corrispettivo italiano, la consonante velare è più dolce e inoltre non è sporcata dalle velleità politiche nostrane. Mi piace. In ogni anfratto che separa le sue cinque lettere, ritrovo una parte di me. Non indosso veli o cinture sonanti, la realtà fisica entro la quale mi muovo ha confini ben precisi e conosco quasi sempre l’orizzonte che osservo. Però i miei desideri, i miei istinti, tutto quello che non confido a chi mi conosce, cammina in bilico tra la forma e l’essenza, tra le linee dritte e confortevoli e gli orizzonti sconosciuti, gravidi di incognite. “Gipsy” è per me il travaglio quotidiano, che mi vede esaminare ogni centimetro della prigione di pensieri e desideri non miei. È lo sforzo di incarnare una rivoluzione pensante, capace di far emergere l’autenticità che cerco come una forsennata. È l’amore viscerale nei confronti della mia famiglia, il bisogno di proteggere chi amo da loro stessi e il desiderio di abbandonarli, per sempre, sfuggendo in maniera definitiva alle loro aspettative. È anche il senso di costrizione che provo davanti ai mille specchi che mi circondano: ognuno di essi riporta un’idea diversa che hanno gli altri di me. Nei confronti di ciascuna di quelle immagine provo rabbia ma anche frustrazione, perché non ci sono somiglianze, ma sarebbe tanto più comodo se fosse così. Sono le mani degli sconosciuti ai quali concedo il mio corpo, che mi frugano dentro e, mentre spero che mi ascoltino, mi svuotano. Nessuna di quelle mani è capace di una carezza, di trovare il mio volto. Nessuno dei loro sguardi mi fa venire voglia di restare. Eppure, per quello sterile carnevale di piacere, mi tuffo tra nuove braccia sconosciute, promettendomi che sia l’ultima volta: consapevole che non lo è mai per davvero. Anche le mie gambe, le mie braccia, i miei capelli, sono “gipsy”. Lo sono quando li odio e vorrei che non mi inchiodassero a qualcosa che non ho scelto; lo sono quando vorrei sapere contare solo sulla mia limitata e ben precisa fisicità, dimostrarmi autosufficiente come lo sono stati gli uomini che popolano il sogno di un’età dell’oro.È quel sogno ricorrente, che sopraggiunge puntuale, periodicamente. Dipinge per me un secondo Eden, un’isola meravigliosa circondata dal mare. Quel piccolo pianeta ha due soli abitanti: me e il mio bambino. Non ho altri oneri da svolgere, se non amarlo incondizionatamente. La vita in serbo per me è scandita dalla visione della sua crescita e dall’impegno nel garantire il suo libero svolgimento, assecondando la sua natura. Quando lo stringo tra le mie braccia e con un solo bacio riesco a conquistare la sua guancia, dimentico che il Mondo per il quale lo sto preparando, non esiste: perché quando c’è lui non ci siamo noi e viceversa. Segue un risveglio e la consapevolezza che quell’amore sognato ha un prezzo troppo alto e non sono sicura di volerlo pagare. Oltre quell’isola esistono città brulicanti di sconosciuti, nei cui volti mi vorrei perdere. Oltre quella cornice di pace, esiste un Mondo malato che vorrei contribuire a guarire, alle cui ingiustizie si può rimediare usando l’amore che quel bambino, mai nato, avrebbe ricevuto. La mia Gipsy è nel rifiuto di sé stessa e nella voglia di essere più simile alle altre donne, docilmente accomodate tra gli sguardi di uomini che le amano e le redini di una società che accettano per quella che è, perché loro stesse sono diventate ciò che la società domandava, garantendosi, in cambio, un tempio chiamato “Casa” e un Dio , detto anche “Futuro certo”.
Per me, solo un luogo è casa, solo lì riesco a vedere. Non so come sia fatto al suo interno, ma ricordo perfettamente la finestra a tre vetrate della mia stanza.
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infelixvoluptas · 6 years
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"A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: La Fessa. Io, invece, rispondevo: L'odore delle case dei vecchi. La domanda era: Che cosa ti piace di più veramente nella vita?" Stamattina sono tornato nella casa dove mio padre è cresciuto e dove in fondo sono cresciuto un po' anche io. Per seconda volta, da quando l'ultimo dei suoi occupanti, la nonna, se n'è andato. Nonostante i mesi, sembra che tutto sia rimasto al suo posto, come in una capsula del tempo all'ottavo piano di un casermone anni sessanta. (Credo fosse la prima volta che mi azzardavo a farmi una foto allo specchio, mi vergognavo un po' e così mi sono fermato a metà).
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paoloxl · 2 years
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Carcere di Modena: Violenze e torture da “macelleria messicana” - Osservatorio Repressione
Nelle testimonianze raccolte dalla Procura si parla di detenuti ammassati in uno stanzone, ammanettati, presi a manganellate e alcuni denudati. Tra loro persone semi coscienti per l’abuso di metadone. Era l’8 marzo 2020
di Damiano Aliprandi
Ammassati in una stanza vengono obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Emerge un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno.
Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Sono soprattutto reclusi stranieri a essere stati picchiati, tanti di loro – com’è detto -, in stato di incoscienza dovuto dall’assunzione elevata dose di droga e psicofarmaci.
Ma tra loro c’era anche Salvatore Piscitelli, l’uomo che in seguito – trasferito nella notte al carcere di Ascoli Piceno assieme agli altri – morirà dopo essere stato trasportato di urgenza in ospedale con un oggettivo ritardo rispetto alla richiesta di aiuto da parte dei suoi compagni di cella. Come già riportato da Il Dubbio, la procura di Ascoli Piceno ha presentato la richiesta di archiviazione. L’associazione Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi, ha avanzato opposizione.
E l’agente minacciò: «Adesso facciamo un altro G8!»
Ma dagli atti della vicenda Piscitelli emergono altri dettagli che, se confermati dalle indagini tuttora in corso, dipingono un vero e proprio “sistema” di abusi e torture attuato da alcuni agenti penitenziari di almeno tre istituti penitenziari diversi: oltre a quelli di Modena, anche di Bologna e di Reggio Emilia giunti come rinforzo.
E questo, sottolineiamo, riguarda la presunta mattanza avvenuta nel carcere Sant’Anna a fine rivolta. Il Dubbio ha potuto visionare in esclusiva gli atti. Sono diverse testimonianze di detenuti raccolte dalle Pm della procura modenese e tutte convergono su una vera e propria “macelleria messicana”, tanto che – come testimonia un detenuto – c’è stato un agente penitenziario, una volta entrato nella stanza del casermone, che avrebbe urlato: «Adesso facciamo un altro G8!». Il ricordo va inevitabilmente ai terribili fatti della scuola Diaz avvenuti a Genova nel 2001, quando la polizia fece irruzione e al grido «Adesso vi ammazziamo», picchiò i ragazzi del coordinamento del Genoa Social Forum.
Dopo la rivolta le violenze inaudite su circa ottanta detenuti
Ritorniamo ai fatti di Modena emersi dalla ricostruzione delle testimonianze raccolte dalla procura. L’8 marzo 2020 scoppia una violenta rivolta, prendono fuoco alcune sezioni, compreso l’ufficio di comando. Scene apocalittiche. Alcuni detenuti riescono a prendere le chiavi lasciate dagli agenti, mettendo così in salvo altri reclusi rimasti chiusi in cella. Man mano gli agenti hanno indirizzato i detenuti nel campo dicendo loro di rimanere lì, tranquillizzandoli perché non sarebbe successo niente. Dopodiché, man mano, sarebbero stati ammanettati e costretti a rimanere con la testa abbassata. Hanno attraversato due porte carraie, fino a giungere in un specie di casermone e ammassati dentro una stanza.
Dalle testimonianze raccolte in atti emerge che diversi detenuti sarebbero stati manganellati, insultati e riempiti di sputi lungo il corridoio che portava al locale. Alcuni detenuti, soprattutto stranieri, entravano nello stanzone già con la testa sanguinante. All’interno c’erano agenti penitenziari che provenivano sia da Bologna che da Reggio Emilia. Alcuni testimoni li hanno riconosciuti perché precedentemente erano stati reclusi in quei penitenziari. A tutti i detenuti ammassati nello stanzone, circa una ottantina, sono state fatte togliere le scarpe e costretti a rimanere seduti per terra.
Ed è in quel momento che diversi reclusi avrebbero ricevuto ulteriori manganellate in faccia, nei fianchi, sulle gambe. «Ad esempio c’era un ragazzo straniero – racconta alle Pm un testimone -, non so se tunisino o marocchino. Si vedeva che era in condizioni pietose, al livello di… non so cosa avesse assunto, e gli hanno dato un sacco di manganellate a questo qua, in faccia, in testa, questo ha fatto uno, due, tre, quattro metri e si è accasciato a terra».
Salvatore Piscitelli stava già male ed è stato manganellato
Altri detenuti, come dicono più testimoni ascoltati, sono stati fatti completamente spogliare con la scusa della perquisizione. In quella caserma giunse anche Salvatore Piscitelli. Secondo un altro testimone sentito dalle Pm, era già in condizioni particolari. «Quando lui è entrato già nella stanza lui tremava, tremava – racconta il detenuto –, io l’ho guardato e lui mi fa: “Mi hanno picchiato”». Testimonia che tremava così tanto, che un agente ha chiamato un’infermiera dell’ambulanza, che gli ha dato delle gocce. Un altro testimone racconta che avrebbero manganellato Piscitelli anche dentro quella famigerata stanza.
Nel trasferimento uno di loro è stato lasciato a Rimini e rianimato
Non sarebbe finita lì. Nella notte diversi detenuti sono stati fatti salire nei pullman per trasferirli nel carcere di Ascoli Piceno. Durante il tragitto, un detenuto testimonia di aver visto agenti manganellare alcuni reclusi. Diversi di loro si sentivano male, uno in particolare gli usciva la schiuma dalla bocca e per questo motivo è stato portato al carcere di Rimini, quello più vicino. Giunti sul posto lo hanno messo sull’asfalto, è venuta l’ambulanza, gli hanno fatto una siringa e lo hanno rianimato con il defibrillatore. Ricordiamo che nel tragitto c’era anche Piscitelli che, a detta di alcuni testimoni, stava già visibilmente male.
Giunti al carcere di Ascoli Piceno, l’inferno non sarebbe finito
Sempre tutti i testimoni ascoltati convergono con il fatto che la visita medica effettuata appena sono entrati, sarebbe stata fatta superficialmente. Non solo. Un detenuto testimonia che, nonostante fosse visibilmente pieno di segni dovute dalle percosse, il medico di guardia gli avrebbe soltanto chiesto: «Hai qualche patologia? Prendi farmaci particolari?». A riposta negativa, «A posto, vai!». Tutto qui. Anche Piscitelli stava male, tanto è vero – come raccontano i detenuti -, gli agenti l’avrebbero fatto scendere dal pullman prendendolo per i capelli, perché lui non riusciva a camminare da solo. Un testimone racconta che alla visita medica, Piscitelli ha lasciato bisogni fisiologici sulla sedia. Scene indegne per un Paese civile.
Le violenze sarebbero proseguite anche nel carcere di Ascoli Piceno
Come risulta dalle testimonianze raccolte dalle Pm di Modena, al carcere di Ascoli sarebbero proseguite le violenze da parte degli agenti. Nella notte, i detenuti trasferiti hanno infatti avuto il sentore che potesse accadere di nuovo. Un testimone racconta di come il suo compagno di cella, un serbo, gli ha detto di ripararsi dietro di lui nel caso di una spedizione punitiva. Tutto tace. Ma è stata la quiete prima della tempesta. Il mattino seguente, una squadra di agenti sarebbero entrati nelle celle a manganellare. In seguito, per quasi 15 giorni, avrebbero proseguito la violenza senza manganelli, ma con gli schiaffi. Per quasi un mese sono rimasti scalzi e con gli stessi vestiti e biancheria intima. Emerge una omertà che avrebbe coinvolto non solo gli agenti, ma anche altre figure penitenziarie. Solo grazie all’esposto fatto da sette detenuti, è emerso tutto questo Sistema di torture e lesioni aggravate.
Resta il dubbio: tra i morti c’era qualcuno di quelli picchiati?
Attualmente il fascicolo sulle violenze al carcere di Modena è ancora aperto. Alcuni agenti sarebbero stati identificati grazie al riconoscimento dei detenuti. Nove però sono le morti archiviate. Molti sono detenuti stranieri deceduti per overdose. Rimane il dubbio atroce: alcuni di loro sono quelli picchiati nella caserma del carcere Sant’Anna? Sappiamo che Piscitelli, per la cui morte Antigone ha fatto opposizione all’archiviazione, era tra quelli come dicono più testimoni. Su queste morti sarà investita la Corte Europea dei Diritti umani. Sulle violenze, ancora si attende l’esito delle indagini. Sullo sfondo c’è la commissione ispettiva del Dap istituita per le rivolte del 2020, ed è composta da un magistrato, tre direttori, due comandanti e due dirigenti. Darà risposte su questa ennesima mattanza che emerge dagli atti?
Da Il dubbio
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lamilanomagazine · 5 months
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Frosinone: quasi 400 le persone identificate, verificata la regolarità di circa 100 veicoli, sequestrati 100 grammi di droga e riconsegna all'ATER di un appartamento.
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Frosinone: quasi 400 le persone identificate, verificata la regolarità di circa 100 veicoli, sequestrati 100 grammi di droga e riconsegna all'ATER di un appartamento. Nella giornata di giovedì, il Questore della Provincia di Frosinone Dottor Condello ha disposto un imponente servizio operativo della Polizia di Stato per lo svolgimento di un'attività di controllo straordinario del territorio, denominata ad "Alto Impatto", che ha interessato la città di Frosinone e le zone limitrofe con la finalità di garantire maggiori livelli di sicurezza nelle aree considerate a rischio. Oltre al personale della Questura hanno operato equipaggi del Reparto Prevenzione Crimine Lazio, gli specialisti della Stradale e della Polfer, che hanno effettuato controlli nei rispettivi ambiti di competenza. Sono stati effettuati posti di controllo in diversi punti strategici della città, nell'ottica della prevenzione e del contrasto delle attività delinquenziali, attenzionando altresì le maggiori arterie viarie, spesso utilizzate come vie di fuga dopo la commissione di reati di natura predatoria. Nel corso di tale attività, personale dell' Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico della Questura ha intercettato e prontamente bloccato il conducente di una vettura che, alla vista della pattuglia della Polizia di Stato, aveva repentinamente rallentato la marcia. Dopo un immediato ed approfondito controllo, all'interno del veicolo veniva rinvenuta sostanza stupefacente, del tipo cocaina, per un quantitativo di oltre 100 grammi. La successiva perquisizione domiciliare in casa dell'uomo permetteva di rinvenire altra sostanza stupefacente e materiale utilizzato per il confezionamento delle dosi. Per la persona fermata è scattato l'arresto. I controlli hanno riguardato anche la zona denominata "Casermone", interessata da fenomeni di consumo e spaccio di sostanze stupefacenti; sul posto è stato fermato un soggetto, con a carico diversi precedenti di polizia, il quale è risultato destinatario di un ordine di esecuzione pena. Pertanto è stato tratto in arresto ed associato alla locale casa circondariale. Infine è stato liberato e riconsegnato alla legittima proprietà ATER un appartamento, occupato abusivamente da tre uomini. L'attività può essere così riassunta: quasi 400 le persone identificate, di cui una settantina con precedenti di polizia, mentre è stata verificata la regolarità di circa 100 veicoli, con l'emissione di 10 contravvenzioni al codice della strada. I risultati conseguiti sono un chiaro segnale che la Polizia di Stato è sempre pronta a vigilare sulla sicurezza dei cittadini ed è sempre in prima linea per garantirla.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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gregor-samsung · 6 years
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“ Ricordava bene: una quindicina di anni fa, intorno al '30, il governo fascista aveva deciso improvvisamente di trasformare il piccolo centro agricolo, uno dei più piccoli e insignificanti della provincia, in una specie di Littoria dell'agro ferrarese, per dirla come si diceva a quei tempi. Ed ecco infatti che i fari della macchina scoprivano qua un casermone pieno di marmi tipo l'ex Casa del Fascio di Codigoro, là un piazzale smisurato con al centro, alta sopra lo zoccolo di basalto nero che la sosteneva, una statua di travertino laziale, più in là uno stabilimento rassomigliante alla nuova stazione di Firenze, e creato, come tuttora avvertiva in cima al cancello d'ingresso una scritta perfettamente leggibile, per la lavorazione della canapa e dei suoi derivati. Era chiaro, oggi come oggi niente di tutto questo serviva più a niente. Il palazzone dall'aria imperiale; la statua del gladiatore dal deretano nudo e muscoloso, raffigurante con ogni probabilità il Fascismo in marcia; lo stabilimento destinato alla fabbricazione dei tessuti autarchici: sotto la luna l'insieme si rivelava senza più il minimo senso, pura e semplice messinscena, e la vita del paese appariva più che mai ristretta alla piccola cerchia di case contadine di una volta, raggruppate in disparte attorno alla vecchia pieve.  “
Giorgio Bassani, L'airone, Mondadori (Oscar), 1988; pp. 149-50.
[1ª ed. originale: Mondadori,1968]
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a-volte · 3 years
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Cap. 2 - Malco
Alle 4 di un banale giovedì pomeriggio Malco era in fila davanti ad una bakery nel piazza centrale di Nîs, osservava la gente che camminava e ancora non si capacitava di come potesse aver accettato di partire per una missione in quel paese così grigio, così malinconico, così lontano dall’atmosfera “romana”.  
Era partito a seguito della tanto auspicata destituzione di Slobodan Milošević e la conseguente consegna al tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia il 28 giugno 2001. Da ottobre 2001 era responsabile delle attività sul campo di una nota organizzazione umanitaria. Appena arrivato aveva seguito due progetti per la distribuzione di ‘pacchi umanitari’ ai bambini che avevano perso i genitori, poi dopo essere stato promosso a capo missione e era stato costretto a rinunciare a quelle attività operative che tanto gli davano soddisfazione per occuparsi solo degli aspetti amministrativi. In sintesi, quel lavoro sul campo che tanto lo entusiasmava e che lo aveva spinto a partire quindici anni prima si era trasformato in un grigio lavoro di compilazione di formulari per attivare nuove progetti e di monitoraggio della ricaduta dei fondi investiti.
“Pane?” la voce del banchista lo distolse dai suoi pensieri
“Si, grazie” rispose sorridendo
Il suo iPhone 6S cominciò a vibrare..
“Luciaaa.. che piacere sentirti”
“Malco caro, come stai?”
“Bene, bene … che si dice a Fregene?”
“Malco.. Carola è con te?”
“Carola? No, ovvio. Sta a casa, l’ho sentita qualche giorno fa”
“Malco, Carola non si trova.. non si trova”
Malco rimase immobile. Si portò il dito medio alla bocca e cominciò a torturarsi le unghie. 
“Ecco a lei” disse il banchista mentre poggiava il filone sul banco.
Malco esitò. Lucia continuava a parlare al telefono come anche il banchista con la pagnotta in mano.
“Sarà andata da qualche amica” disse
“Lucia, stammi bene a sentire, Carola le fa queste cose, lei parte, torna, esce.. sempre stata una donna indipendente...incasinata. Sempre fatto così. Non ti allarmare. Ora provo a chiamarla e poi ti aggiorno”
“Malco penso sia il caso che tu torni” disse Lucia
“Si. Certo. Tempo di organizzarmi e prendo il primo aereo utile”
In realtà Lucia non aveva voluto dare altri particolari al povero Malco, non aveva voluto dirgli che avevano trovato la porta di casa semi aperta, che la macchina di Carola era ancora davanti al cancello e che il suo cellulare era ancora sul comodino. 
Forse anche lei voleva aggrapparsi all’ottimismo fiducioso di Malco.  
Intanto Malco con passo veloce si avviò verso il palazzo dove abitava. La sua casa era al terzo piano di un casermone di quelli fatti dal partito comunista quando ancora comandava in Serbia. Bianco, senza balconi, severo, imponente e al centro di una piazza che dominava. 
Incrociò qualche condomino che, come sempre, andò dritto per la sua strada senza salutare. Arrivo al portone di casa che più che una casa era un ufficio: nel soggiorno due scrivanie nere con computer, una stampante e un mobile basso lungo la grande finestra alle spalle delle scrivanie. La porta sulla parete di destra dava su un salottino in stile liberty con la tv e in fondo una seconda porta per accedere alla camera. 
Dopo 20 minuti era in un taxi che lo stava portando a Belgrado da dove poi sarebbe rientrato a Roma. La macchina filava veloce e la radio del tassista di sottofondo era una colonna sonora casuale alle immagini della sua infanzia con Carola che si sovrapponevano in ordine sparso.
Troppo tempo aveva passato lontano da tutti; troppi i giorni, i mesi e gli anni così che piano piano aveva sedimentato un barriera di incomunicabilità con tutti: famiglia, amici e Carola. A forza di rimuovere, di distrarsi, aveva reciso le sue radici rendendolo un uomo libero ma forse solo.
Le voleva bene e sicuramente Carola voleva bene a lui, eppure era come se invitati ad una festa entrambi si fossero infine seduti lontano, il caos della festa, come la vita, poi aveva fatto il resto. Si volevano un gran bene e sapevano bene nel loro inconscio che limitare gli incontri e diradare le telefonate rappresentava un delicatissimo atto d’amore teso a non alimentare rimorsi vari. 
Gli dispiaceva tanto. Troppo. Non poteva accettare che le fosse successo qualcosa perché prima doveva parlare, doveva avere il tempo di scusarsi, doveva avere la possibilità di cominciare a mettere ordine nella sua vita a cominciare dalla sua famiglia. Una possibilità non era niente e piano piano di convinse che sicuramente il buon Dio gliela avrebbe concessa.
Con un sorriso tipico di chi cerca di convincersi con tutte le sue forze che alla fine il bene vince sempre, arrivò in Aeroporto dopo 2 ore circa. Puntò il banco Alitalia e prese il primo biglietto utile. 
Quando l’aereo staccò i carrelli dal terreno era già notte. 
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