Tumgik
#Milano col il mare
penelopeparis · 9 months
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Cose o chi
Hai gettato via i fiori che ti ho regalato. I tuoi fiori! Come ti ho già detto più volte , non durano. Li ho presi pensando a te. Le rose bianche i tuoi fiori preferiti. Non mi interessano i fiori. Come te lo devo dire. Non voglio affezionarmi alle cose se so che non dureranno.
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nitroglycerin-a · 2 months
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Io mi 🥴🥴🥴 ammazzz 🥴🥴🥴 non solo non sto ancora trovando lavoro anche se sono peggio del tizio delle rose sul lungo mare di Milano marittima, non solo il mio ex ieri sera mi ha scritto per dirmi che una nostra “””amica””” in comune appena ha saputo che non stavamo più insieme ci sta provando spudoratamente con lui, non solo sto vedendo i soldi piano piano calare, non solo la casa puzza, non solo ho dei brufoli mai avuti prima per l’acqua inquinata, non solo i miei genitori sentono la mia mancanza e mi dicono ogni giorno di tornare, non solo il vecchio sceneggiatore parlando dei miei disegni oggi ha scritto “pessimi” e “imbarazzanti”, non solo
Ora mi faccio la pasta col pesto perché dovrei fare la spesa ma non voglio spendere soldi grazie a tutti
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gregor-samsung · 2 months
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Mi ricordo
“ Mi ricordo che una volta la Valle d'Aosta aveva il mare. Era abitata dai Salassi (che in greco vuol dire «popolo del mare») che per le navi di passaggio avevano costruito sul Cervino un faro alto almeno come Mike Bongiorno. Adesso, con gli anni, il mare si è ritirato ed è rimasta soltanto la Dora Baltea, ma prima, al posto delle trote c'erano i delfini salmonati. I delfini più belli venivano catturati e portati a Cogne dove, invece delle acciaierie, c'era un acquario e se si girava cadeva la neve finta. Bisognava stare attenti, però, perché usciva tutta l'acqua e i delfini senza acqua muoiono, quasi come gli uomini. Mi ricordo che al porto di Courmayeur si arrivava in skilift. Dalla banchina partiva il motoscafo più alto del mondo; si saliva e poi via, ottocento chilometri di piste. Sci d'acqua, naturalmente. Mi ricordo che il Piccolo San Bernardo era un'isola e il Gran San Bernardo era un'altra isola, ma più grande ed era piena di cani da valanga che passavano le giornate a guardarsi in faccia e a dirsi: «Boh?» Per quello gli è venuta la bocca all'ingiù. Oggi risulta chiaro che i cani da valanga erano fuori luogo, ma oggi, col progresso, si sanno tante cose che una volta non si potevano capire.
Per esempio allora ci si chiedeva perché tutti i rifugi del Cai si chiamavano «Miramare» e perché un antico proverbio pugliese diceva più o meno: «Se Aosta avesse i monti sarebbe una piccola Sestrière». «Che cosa c'entrano i monti», pensava il guardapesca ributtando in mare un camoscio che gli era rimasto impigliato nella rete. Già allora i camosci erano una razza protetta. Li tenevano al Gran Paradiso assieme alle foche, due panda e qualche Duna giardinetta. Mi ricordo che i valdostani cantavano in coro un'antica canzone di montagna. «Giù pei ponti/ giù pei ponti che noi andremo/ coglieremo/ coglieremo le stelle marine/ per donarle/ per donarle alle bambine…» Mi ricordo che l'aquila faceva – abbastanza bene – il verso del gabbiano e tutt'intorno c'era un delizioso profumo di spaghetti alle vongole e di fontina. Erano i marinai che tornavano con le loro greggi di tonni. Passavano sotto l'Arco di Augusto (che allora era un ponte), baciavano le loro mogli e andavano a rifocillarsi al bar «Caa custa quel caa custa viva el battagliùn d'Aùsta». Era un nome un po' lungo per un semplice bar dove si beveva soltanto genepì e si mangiava soltanto genepesca. Per questo i marinai familiarmente lo chiamavano «Caa custa». Mi ricordo che fu quando il «Caa custa» venne venduto a Maria Josè (una nobildonna che aveva curiosamente il nome di Altafini ma lanciava i piatti come Suarez) che incominciarono a cambiare le cose. Al «Caa custa» prese piede irreversibilmente la Nouvelle Cuisine e nella zuppa di pesce comparvero i primi savoiardi. Era troppo. I valdostani chiesero aiuto a una città amica, Bergùm de Hura e al suo re, Mais, che a tappe forzate occupò Aosta e impose su tutta la Valle la polenta. I savoiardi vennero mandati in esilio e il mare si ritirò a Cascais. “
Gino & Michele, Saigon era Disneyland (in confronto), Milano, Baldini & Castoldi, 1991¹; pp. 107-108.
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kon-igi · 3 months
Note
Venerabile buongiorno. Senta, non credo mancherà molto all'apocalisse zombie. Nel caso pensavo di tornare in Sardegna. Dovessi svegliarmi con il casino per strada, dovrei uscire dalla città, buttarmi in autostrada e rubare un gommone per scendere nell'isola. Eviterei Genova per ovvi motivi, magari Portofino, così lo inculo a qualche magnaschei del Nord e mi sento meno in colpa. Pensavo di andare in qualche deposito della nettezza urbana e pigliarmi un camion che usano loro, dato che sono belli corazzati e mettermi in viaggio. Ho cibo, sigari, trecento colpi più trenta nei caricatori.
Che dici? Sardegna si, Sardegna no?
In caso no cosa suggerisci?
Il tuo piano presenta molteplici criticità che andrò a elencare in lista dettagliata:
Uscire dalla città. Durante uno zombie outbreak, lo scenario peggiore è proprio quello del cluster metropolitano, dove l'architettura urbana di una grande città si unisce al grande numero di abitanti, esitando in una concentrazione di molti infetti in poco spazio. In base alla classe dell'outbreak, il disingaggio dovrà avvenire con le seguenti modalità:
Classe 1 - pochi contagi, scambiati per tossicodipendenti in crisi di astinenza e trasmissione a personale sanitario. Fuga in macchina utilizzando autostrade e superstrade.
Classe 2 - il numero di infetti aumenta. Allerta delle forze dell'ordine e casi isolati di incidenti e limitati blocchi del traffico. Fuga in macchina evitando zone di ingorgo abituale ed utilizzando solo strade abitualmente scorrevoli.
Classe 3 - considerevole numero di infetti. Blocchi stradali, ingorghi e incidenti. Scegliere un mezzo piccolo, preventivando le vie di fuga e prediligendo strade secondarie.
Classe 4 - la città è infestata da zombie. Carcasse di macchine incidentate bloccheranno ogni strada e ci saranno incendi. A piedi, con un adeguato gruppo armato e preparato. Un mezzo consono verrà recuperato appena fuori dall'area urbana (fuoristrada, mezzo militare o delle forze di polizia).
I suddetti scenari, però, prendono solo in considerazione la modalità più consona per lo sgancio dall'unità urbana, mentre per spostamenti su lunghi tragitti un mezzo pesante (camion della nettezza urbana) ha dalla sua parte senza dubbio la relativa sicurezza del guidatore e dei passeggeri, ma dal punto di vista della manovrabilità e della sussistenza avresti a muoverti su arterie principali congestionate dal traffico o su strade secondarie parimenti intasate; la moto o, meglio, la bicicletta (perché più silenziosa) dovrebbero essere la scelta di elezione.
Sardegna e come raggiungerla. Di seguito, mappa dei principali porti del nord e del centro con relativa distanza nautica di approdo:
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La Spezia - Olbia 330 km
Livorno - Olbia 280 km
Piombino - Olbia 230 km
Porto S.Stefano - Olbia 180 km
Fiumicino - Olbia 220 km
Un buon gommone (diciamo 40 CV) raggiunge una velocità massima di 30 nodi (circa 50 km/h) con un consumo approssimativo di 20/25 litri di carburante ogni ora (variabile in base a motore 2/4 tempi, velocità, carico, vento etc) e che i serbatoi di tali motori hanno una capacità di 20-30 litri.
Quindi dovresti partire con parecchie taniche a bordo ma, soprattutto vista la distanza, in Agosto e col mare piatto.
Io so bene che tu vuoi fuggire dalla tetra Milano per ritornare nella tua icnusica terra natia ma considerando il viaggio verso l'eventuale porto e la traversata, io dico che saresti più al sicuro in un paesino sulle Alpi. Oppure da me.
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a-tarassia · 1 year
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Ovunque
Lunedì era il 2 gennaio, pioveva di quella pioggia fine e persistente che qui chiamano scarnebbia e l’aria intorno era grigia e umida, ovviamente. Io avevo intenzione di uscire, ho messo su i leggnings termici, i pantaloncini felpati, il top, la canottiera, la maglia termica, la felpa e il kway, guanti, cappello, cuffie e sono uscita a correre. Ho sudato come un lottatore di sumo perché ero overdressed and not in the good way. Non fa freddo, è umido, non mi sono regolata., mi sto adattando al clima di queste zone, dopo otto anni sarebbe anche l’ora.
La me di dieci anni fa, che avrebbe vissuto a Roma ancora per poco, non avrebbe nemmeno mai pensato di uscire a correre, figurarsi con questo tempo. Neanche la me di 9 anni fa, che viveva al mare.
Dici come ti trovi al nord che non c’è mai il sole? È vero, da che se ne possa dire, la quantità di sole che vediamo qui in pianura è decisamente una parte infima e disperata di quella che si gode in qualsiasi altra parte d’Italia e forse del mondo. Siamo al 5 di gennaio e dal 20 di dicembre ricordo solo un giorno di sole e non è il periodo peggiore di cui ho memoria. Come mi trovo? Mi trovo che boh, mi sono adattata a vivere anziché sopravvivere, esco a correre con la pioggia, fai tu, e l’altro giorno mentre correvo pensavo che forse queste condizioni meteo avverse alla mia psiche sono addirittura la marcia in più che mi distoglie dalla pigrizia che il sole mi induce, dalla vena contemplativa che il bel tempo mi attiva, dalla voglia di stendermi su una spiaggia o al sole su un prato al parco degli acquedotti, dalla stanchezza della canicola che il caldo comporta, le dormite pomeridiane dei pomeriggi assolati qui non sono cultura. Non è un merito, non è una colpa, la crescita del pil ha una correlazione negativa con il clima mite così come ce l’ha con la corruzione. Quello che ho notato qui è che alla gente va di fare le cose a prescindere dal tempo e se è bello ancora meglio, ma cambia poco, cambiano giusto le cose da fare, il tempo non è mai un deterrente, almeno nella mia cerchia non ho mai sentito dire da nessuno “non vengo perché piove e non mi va”, sinceramente piuttosto ti entrano in casa zuppi, infreddoliti, ma mai mai mi è successo di sentirmi dire “no, c’è nebbia”. Mi piace vivere al nord? A volte sì, a volte no, ci sono i pro e i contro. In pianura per esempio ci si sposta bene, puoi andare ovunque in bici, che è sempre stata una mia fissa e passione, un mio amico mi diceva sempre che a Roma ci sono più parchi e verde, è vero, ma a Milano se c’è traffico e non t va, parcheggi la macchina e a piedi in 2h sei ovunque, a Roma piuttosto muori. Qui ci sono i fiumi, i laghi, le montagne e tante città abbastanza vicine tra di loro, la vita col van o col camper è più semplice, due ore e sei in terra straniera e prendere i mezzi non è la condanna infinita di un girone infernale. Il meteo in pianura è quello che è e l’inquinamento, dove vivo io, è una piaga, così come le zanzare, la vita è più costosa, gli stipendi in media sono più alti, ma forse non abbastanza. La gente mi piace. Vivere a Roma mi piaceva? Fino ad un certo punto sì, poi non più. È bella, bellissima, meravigliosa. Se vivi in centro, certo, le periferie, invece, sono tutte uguali, qualcuna è più brutta. Il periodo in cui ero studentessa scendevo dai miei in Calabria anche per mesi interi e quando tornavo a Roma era come se avessi lì una seconda vita a cui riadattarmi, mi sentivo dispersa e confusa, senza meta, allora prendevo i mezzi e andavo in centro, mi piaceva castel sant’angelo, mi piaceva il celio, mi piaceva il cimitero inglese, mi piaceva piazza cavour, arrivarci coi mezzi mi piaceva meno e più passava il tempo meno mi era utile la bellezza più mi serviva praticità, dopo il 2010 vivere era diventato costosissmo, impossibile quasi per chi non aveva casa o un lavoro pagato bene e la vita era diventata sopravvivenza,  abitare a Roma non mi piaceva più. Tredici anni della mai vita, forse i più belli, c’ho messo un po’ a farmene una ragione e a capire che venivo prima io dei bei ricordi. Mi piaceva vivere al mare dai miei? A volte sì, a volte no. La Calabria è terra abbandonata, difficile e mancante, anche per colpa mia che me ne sono andata e non ho mai dato nulla in cambio di quello che invece i miei padri e le mie madri mi hanno sempre offerto. Bella, bellissima, selvaggia, imprendibile, l’amore della mia vita. I miei abitano al mare, sulla costa tirrenica di fronte ad uno dei panorami più belli del mondo, d’inverno si vede fino l’etna, fino stromboli e panarea, i colori sono infiniti e le nuvole disegnano oltre l’immaginazione, è terra ricca e che non chiede niente, solo il tuo sacrificio. Ci ho vissuto in tutto, in due tranche, per dieci anni. Sono calabrese nelle vene, ma non lo sono nella volontà, i miei mi hanno aperto mondi a cui non sono ancora, nonostante tutto, pronta a rinunciare e la mia terra mi sta stretta, non sono pronta a dare, sto ancora nell’immaturità di ricevere e se non riesci a dare la Calabria non perdona. Ogni volta che sono tornata l’ho fatto per curarmi e ogni volta mi ha curato, ogni volta mi ha rivelato qualcosa di me, il ciclo non è finito, son sicura che è lì che voglio tornare, ma mi piace vivere lì? Ancora no.
Ho vissuto anche dieci anni negli Stati Uniti, ma ero troppo piccola e già volevo andarmene via, NY mi puzzava di pesce marcio e la gente non era italiana. Sensazioni difficili da descrivere, non ho mai avuto velleità di tornare, almeno fino adesso, in cui mi ritrovo a volte a pensare come sarebbe tornare a vivere nella grande mela o addirittura a Los Angeles, aprirmi a quel tipo di mondi e cultura così diversa e dicotomica, non mi verrebbe mai in mente di desiderare l’Arizona ecco o l’Oklahoma, questo no, però una grande città che non mi posso permettere un po’ nello stomaco la fame mi viene.
Son tutti uguali i posti del mondo, sei tu che cambi di volta in volta, perché per quanto belli o brutti possano essere la vita che ci vai a vivere è la tua, sempre la tua, e quello dipende solo da te. Mi piace viaggiare, forse mi piaceva di più prima, mi piace esplorare, però vivere è diverso e vivere in un posto lo normalizza, lo mette al centro della gaussiana, anche vivere in uno Slum a Mumbai alla fine è questione di abitudine, lo dice bene Roberts in Shantaram e io ci credo. Ogni posto diventa il tuo posto se sei abbastanza pronta e onesta con te stessa, nessun posto sarà mai tuo invece se non riesci a completarti.
So per certo che per apprezzare qualunque posto, per affrontare qualsiasi tipo di realtà, la prima con cui devi fare pace è quella da cui vieni, è la cosa più difficile, è la più dolorosa, ma se non capisci che anche lì va bene, allora non andrà bene nessun altro posto.
C’è una pagina su Facebook che si chiama View from my window, è una bella pagina, cortese e gentile, in cui le persone sono chiamate a mandare solo una foto a testa, per non intasare e solo della vista che hanno da una finestra/balcone di casa, indicare dove abitano e al massimo un piccolo commento, gli altri non devono giudicare se non in modo cortese, la foto deve essere rigorosamente da casa, non luogo di lavoro o vacanza, fammi vedere cosa vedi tu ogni giorno da casa tua. C’è di tutto. Viste da palazzi, da villette, da cabine in montagna, da case sulla spiaggia ad Edinburgo, giardini Sudafricani, parcheggi di condomini a San Pietroburgo, strade piene zeppe di neve di paesini norvegesi, praterie del montana, montagne canadesi, il vesuvio, cortili alle bahamas, alberi di pappagalli in australia, cose assurdamente belle in posti di guerra, cose assurdamente normali in posti caraibici.
È una pagina meravigliosa che celebra la vita nel suo quotidiano e ti fa capire come davvero ovunque è ovunque, la differenza sta in altro.
Buon anno.
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rideretremando · 1 year
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Il discorso di Mattarella
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"Se volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
È Piero Calamandrei che rivolge queste parole a un gruppo di giovani studenti, a Milano, nel 1955.
Ed è qui allora, a Cuneo, nella terra delle 34 Medaglie d’oro al Valor militare e dei 174 insigniti di Medaglia d’argento, delle 228 Medaglie di bronzo per la Resistenza.
La terra dei dodicimila partigiani, dei duemila caduti in combattimento e delle duemilaseicento vittime delle stragi nazifasciste.
È qui che la Repubblica oggi celebra le sue radici, celebra la Festa della Liberazione.
Su queste montagne, in queste valli, ricche di virtù di patriottismo sin dal Risorgimento.
In questa terra che espresse, con Luigi Einaudi, il primo Presidente dell’Italia rinnovata nella Repubblica.
Rivolgo un saluto a tutti i presenti, ai Vice Presidenti del Senato e della Camera, ai Ministri della Difesa, del Turismo e degli Affari regionali. Al Capo di Stato Maggiore della Difesa. Ai parlamentari presenti.
Saluto, e ringrazio per i loro interventi, il Presidente della Regione, la Sindaca di Cuneo, il Presidente della Provincia. Un saluto ai Sindaci presenti, pregandoli di trasmetterlo a tutti i loro concittadini. Un saluto e un ringraziamento al Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza.
Stamane, con le altre autorità costituzionali, ho deposto all’Altare della Patria una corona in memoria di quanti hanno perso la vita per ridare indipendenza, unità nazionale, libertà, dignità, a un Paese dilaniato dalle guerre del fascismo, diviso e occupato dal regime sanguinario del nazismo, per ricostruire sulle macerie materiali e morali della dittatura una nuova comunità.
“La guerra continua” affermò, nella piazza di Cuneo che oggi reca il suo nome, Duccio Galimberti, il 26 luglio del 1943.
Una dichiarazione di senso ben diverso da quella del governo Badoglio.
Continua - proseguiva Galimberti - “fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana…non possiamo accodarci ad una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa a spese degli italiani”.
Un giudizio netto e rigoroso. Uno discorso straordinario per lucidità e visione del momento. Che fa comprendere appieno valore e significato della Resistenza.
E fu coerente, salendo in montagna.
Assassinato l’anno seguente dai fascisti, è una delle prime Medaglie d’oro della nuova Italia; una medaglia assegnata alla memoria.
Il “motu proprio” del decreto luogotenenziale recita: “Arrestato, fieramente riaffermava la sua fede nella vittoria del popolo italiano contro la nefanda oppressione tedesca e fascista”; ed è datato, con grande significato, “Italia occupata, 2 dicembre 1944”.
Dopo l’8 settembre il tema fu quello della riconquista della Patria e della conferma dei valori della sua gente, dopo le ingannevoli parole d’ordine del fascismo: il mito del capo; un patriottismo contrapposto al patriottismo degli altri in spregio ai valori universali che animavano, invece, il Risorgimento dei moti europei dell’800; il mito della violenza e della guerra; il mito dell’Italia dominatrice e delle avventure imperiali nel Corno d’Africa e nei Balcani. Combattere non per difendere la propria gente ma per aggredire. Non per la causa della libertà ma per togliere libertà ad altri.
La Resistenza fu anzitutto rivolta morale di patrioti contro il fascismo per affermare il riscatto nazionale.
Un moto di popolo che coinvolse la vecchia generazione degli antifascisti.
Convocò i soldati mandati a combattere al fronte e che rifiutarono di porsi sotto il comando della potenza occupante tedesca, pagando questa scelta a caro prezzo, con l’internamento in Germania e oltre 50.000 morti nei lager.
Chiamò a raccolta i giovani della generazione del viaggio attraverso il fascismo, che ne scoprivano la natura e maturavano la scelta di opporvisi. La generazione, “sbagliata” perché tradita. Giovani ai quali Concetto Marchesi, rettore dell’Ateneo di Padova si rivolse per esortarli, dopo essere stati appunto “traditi”, a “rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano”.
Fu un moto che mobilitò gli operai delle fabbriche.
Coinvolse i contadini e i montanari che, per la loro solidarietà con i partigiani combattenti, subirono le più dure rappresaglie (nel Cuneese quasi 5.000 i patrioti e oltre 4.000 i benemeriti della Resistenza riconosciuti).
Quali colpe potevano avere le popolazioni civili?
Di voler difendere le proprie vite, i propri beni? Di essere solidali con i perseguitati?
Quali quelle dei soldati? Rifiutarsi di aggiungersi ai soldati nazisti per fare violenza alla propria gente?
L’elenco delle località colpite nel Cuneese compone una dolorosa litania e suona come preghiera.
Voglio ricordarle.
Furono decorate con Medaglie d’oro, d’argento o di bronzo, o con Croci di guerra: Cuneo, l’intera Provincia, Alba, Boves, Borgo San Dalmazzo, Dronero; Clavesana, Peveragno, Cherasco, Busca, Costigliole Saluzzo, Genòla, Trinità, Venasca, Ceva, Pamparato; Mondovì, Priola, Castellino Tanaro, Garessio, Roburent, Paesana, Narzòle, Rossana, Savigliano; Barge, San Damiano Macra, Villanova Mondovì.
Alla memoria delle vittime e alle sofferenze degli abitanti la Repubblica oggi si inchina.
Questo pomeriggio mi recherò a Boves, prima città martire della Resistenza, Medaglia d’oro al Valor militare e Medaglia d’oro al Valor Civile.
Lì si scatenò quella che fu la prima strage operata dai nazisti in Italia.
Una strage che colpì la popolazione inerme e coloro che avevano tentato di evitarla: Antonio Vassallo, don Giuseppe Bernardi, ai quali è stata tributata dalla Repubblica la Medaglia d’oro al Valor civile; don Mario Ghibaudo. I due sacerdoti, recentemente proclamati beati dalla Chiesa cattolica, testimoni di fede che non vollero abbandonare il popolo loro affidato, restarono accanto alla loro gente in pericolo.
E da Boves vengono segni di un futuro ricco di speranza: la Scuola di pace fortissimamente voluta dall’Amministrazione comunale quasi quarant’anni or sono e il gemellaggio con la cittadina bavarese di Schondorf am Ammersee, luogo dove giacciono i resti del comandante del battaglione SS responsabile della feroce strage del 19 settembre 1943.
A Borgo San Dalmazzo visiterò il Memoriale della Deportazione.
Borgo San Dalmazzo, dove il binario alla stazione ferroviaria è richiamo quotidiano alla tragedia della Shoah.
Cuneo, dopo Roma e Trieste, è la terza provincia italiana per numero di deportati nei campi di sterminio in ragione dell’origine ebraica.
Accanto agli ebrei cuneesi che non riuscirono a sfuggire alla cattura, la più parte di loro era di nazionalità polacca, francese, ungherese e tedesca. Si trattava di ebrei che, dopo l’8 settembre, avevano cercato rifugio dalla Francia in Italia ma dovettero fare i conti con la Repubblica di Salò.
Profughi alla ricerca di salvezza, della vita per sé e le proprie famiglie, in fuga dalla persecuzione, dalla guerra, consegnati alla morte per il servilismo della collaborazione assicurata ai nazisti.
Dura fu la lotta per garantire la sopravvivenza dell’Italia nella catastrofe cui l’aveva condotta il fascismo. Ci aiutarono soldati di altri Paesi, divenuti amici e solidi alleati: tanti di essi sono sepolti in Italia.
A questa lotta si aggiunse una consapevolezza: la crisi suprema del Paese esigeva un momento risolutivo, per una nuova idea di comunità, dopo il fallimento della precedente.
Si trattava di trasfondere nello Stato l’anima autentica della Nazione.
Di dare vita a una nuova Italia.
Impegno e promessa realizzate in questi 75 anni di Costituzione repubblicana. Una Repubblica fondata sulla Costituzione, figlia della lotta antifascista.
Le Costituzioni nascono in momenti straordinari della vita di una comunità, sulla base dei valori che questi momenti esprimono e che ne ispirano i principi.
Le “Repubbliche” partigiane, le zone libere, nelle loro determinazioni e nel loro operare furono anticipatrici della nostra Costituzione.
È dalla Resistenza che viene la spinta a compiere scelte definitive per la stabilità delle libertà del popolo italiano e del sistema democratico, rigettando le ambiguità che avevano consentito lo stravolgimento dello Statuto albertino operato con il fascismo.
Se il decreto luogotenenziale del 2 agosto 1943 - poco dopo la svolta del 25 luglio – prevedeva, non appena ve ne fossero le condizioni, l’elezione di una nuova Camera dei Deputati, per un ripristino delle istituzioni e della legalità statutaria, fu il decreto del 25 giugno 1944 – pochi giorni dopo la costituzione del primo Governo del CLN - a indicare che dopo la liberazione del territorio nazionale sarebbe stata eletta dal popolo, a suffragio universale, un’Assemblea costituente, con il compito di redigere la nuova Costituzione. Per questo quel decreto viene definito la prima “Costituzione provvisoria”.
Seguirà poi il referendum, il 2 giugno 1946, con la Costituente e la scelta per la Repubblica.
La rottura del patto tra Nazione e monarchia, corresponsabile, quest’ultima, di avere consegnato l’Italia al fascismo, sottolineava l’approdo a un ordinamento nuovo.
La Costituzione sarebbe stata la risposta alla crisi di civiltà prodotta dal nazifascismo, stabilendo il principio della prevalenza sullo Stato della persona e delle comunità, guardando alle autonomie locali e sociali dell’Italia come a un patrimonio prezioso da preservare e sviluppare.
Una risposta fondata sulla sconfitta dei totalitarismi europei di impronta fascista e nazista per riaffermare il principio della sovranità e della dignità di ogni essere umano, sulla pretesa di collettivizzazione in una massa forzata al servizio di uno Stato in cui l’uomo appare soltanto un ingranaggio.
Il frutto del 25 aprile è la Costituzione.
Il 25 aprile è la Festa della identità italiana, ritrovata e rifondata dopo il fascismo.
È nata così una democrazia forte e matura nelle sue istituzioni e nella sua società civile, che ha permesso agli italiani di raggiungere risultati prima inimmaginabili.
E qui a Cuneo, mentre la guerra infuriava, veniva sviluppata un’idea di Costituzione che guardava avanti.
Pionieri Duccio Galimberti e Antonino Rèpaci.
Guardava a come scongiurare per il futuro i conflitti che hanno opposto gli Stati europei gli uni agli altri, per dar vita, insieme, a una Costituzione per l’Europa e a una per l’Italia. Dall’ossessione del nemico alla ricerca dell’amico, della cooperazione.
La Costituzione confederale europea si accompagnava alla proposta di una “Costituzione interna”.
Obiettivo: “liberare l’Europa dall’incubo della guerra”.
Sentiamo riecheggiare in quello che appariva allora un sogno, il testo del preambolo del Trattato sull’Unione Europea: “promuovere pace, sicurezza, progresso in Europa e nel mondo”.
Un sogno che ha saputo realizzarsi per molti aspetti in questi settant’anni. Anche se ancora manca quello di una “Costituzione per l’Europa”, nonostante i tentativi lodevoli di conseguirla.
Chiediamoci dove e come saremmo se fascismo e nazismo fossero prevalsi allora!
Nel lavoro di Galimberti e Rèpaci troviamo temi, affermazioni, che sono oggi realtà della Carta costituzionale italiana, come all’art. 46: “le differenze di razza, di nazionalità e di religione non sono di ostacolo al godimento dei diritti pubblici e privati”.
Possiamo quindi dire, a buon titolo: Cuneo, città della Costituzione!
Galimberti era stato a Torino allievo di Francesco Ruffini, uno dei docenti universitari che, rifiutando il giuramento di fedeltà al fascismo, fu costretto ad abbandonare l’insegnamento.
Accanto a Galimberti e Rèpaci, altri si misurarono con la sfida di progettare il futuro.
Silvio Trentin, in esilio dal 1926, nel suo “Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costituzionale dell’Italia”, dettato al figlio Bruno nel 1944, era sostenitore, anch’egli, dell’anteriorità dei diritti della persona rispetto allo Stato.
E Mario Alberto Rollier, con il suo “Schema di costituzione dell’unione federale europea”. Testi, entrambi, di forte ispirazione federalista.
Si tratta, nei tre casi, di esponenti di quel Partito d’Azione di cui incisiva sarà l’influenza nel corso della Resistenza e dell’avvio della vita della Repubblica.
La crisi della monarchia e quella del fascismo apparivano ormai irreversibili, tanto da indurre un gruppo di intellettuali cattolici a riunirsi a Camaldoli, a pochi giorni dal 25 luglio 1943, con l’intento di riflettere sul futuro, dando vita a una Carta di principi, nota come “Codice di Camaldoli”, che lascerà il segno nella Costituzione. Con la proposta di uno Stato che facesse propria la causa della giustizia sociale come concreta espressione del bene comune, per rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo di ogni persona umana, per rendere sostanziale l’uguaglianza fra i cittadini.
Per tornare alla “Costituzione di Duccio”, apparivano allora utopie alcune sue previsioni come quella di una “unica moneta europea”. Oggi realtà.
O quella di “un unico esercito confederale”. E il tema della difesa comune è, oggi, al centro delle preoccupazioni dell’Unione Europea, in un continente ferito dall’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina.
Sulla scia di quei “visionari” che, nel pieno della tragedia della guerra e tra le macerie, disegnavano la nuova Italia di diritti e di solidarietà, desidero sottolineare che onorano la Resistenza, e l’Italia che da essa è nata, quanti compiono il loro dovere favorendo la coesione sociale su cui si regge la nostra comunità nazionale.
Rendono onore alla Resistenza i medici e gli operatori sanitari che ogni giorno non si risparmiano per difendere la salute di tutti. Le rendono onore le donne e gli uomini che con il loro lavoro e il loro spirito di iniziativa rendono competitiva e solida l’economia italiana.
Le rendono onore quanti non si sottraggono a concorrere alle spese pubbliche secondo la propria capacità contributiva.
Il popolo del volontariato che spende parte del proprio tempo per aiutare chi ne ha bisogno.
I giovani che, nel rispetto degli altri, si impegnano per la difesa dell’ambiente.
Tutti coloro che adempiono, con coscienza, al proprio dovere pensando al futuro delle nuove generazioni rendono onore alla liberazione della Resistenza.
Signor Presidente della Regione, lei ha definito queste colline, queste montagne “geneticamente antifasciste”.
Sappiamo quanto dobbiamo al Piemonte, Regione decorata, a sua volta, con la Medaglia d’oro al merito civile
Ed è alle donne e agli uomini che hanno animato qui la battaglia per la conquista della libertà della Patria che rivolgo il mio pensiero rispettoso.
Nuto Revelli ha parlato della sua esperienza di comandante partigiano e della lotta svolta in montagna come di un vissuto di libertà: di un luogo dove era possibile assaporare il gusto della libertà prima che venisse restituita a tutto il popolo italiano.
Una terra allora non prospera, tanto da ispirargli i racconti del “mondo dei vinti”.
Una terra ricca però di valori morali.
Non c’è una famiglia che non abbia memoria di un bisnonno, di un nonno, di un congiunto, di un alpino caduto in Russia, nella sciagurata avventura voluta dal fascismo.
Non c’è famiglia che non ricordi il sacrificio della Divisione alpina “Cuneense” nella drammatica ritirata, con la Julia. Un altro esempio. Un altro monito alla dissennatezza della guerra.
Rendiamo onore alla memoria di quei caduti.
Grazie da tutta la Repubblica a Cuneo e al Cuneese, con le sue Medaglie al valore!
Come recita la lapide apposta al Municipio di questa città, nell’ottavo anniversario dell’uccisione di Galimberti, se mai avversari della libertà dovessero riaffacciarsi su queste strade troverebbero patrioti.
Come vi è scritto: “morti e vivi collo stesso impegno, popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre Resistenza”.
Viva la Festa della Liberazione!
Viva l’Italia!
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3cips · 1 year
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Il segreto di Maria
La giornata era bellissima, nonostante fosse novembre Maria prendeva il sole sdraiata nella spiaggia del Poetto, aveva appena fatto il bagno e ora si godeva i raggi del sole caldo che le scaldavano la pelle.
Si sentiva molto fortunata ad essere nata in quest’isola, ma come tutti i grandi amori certe volte sentiva il bisogno di fuggire lontano. Era stata a Milano per 1 anno e poi il lockdown l’aveva costretta a tornare.
Era felice di essere di nuovo in Sardegna, ma questa terra, bella e dannata, le faceva tornare in mente il passato, un passato che non voleva più ricordare, quel maledetto segreto che non la faceva respirare la notte, il motivo per cui era partita a Milano; per cambiare vita e non pensarci più.
Ora avrebbe dovuto nuovamente fare i conti con i fantasmi della sua vita, o forse finalmente la vita l'avrebbe lasciata libera.
Prese dalla borsa la sacca con i bottoni, li collezionava fin da quando era adolescente e portava con se sempre un sacchetto con i suoi pezzi preferiti, non sapeva perché ma questo sacchetto la metteva in pace col mondo.
Le sembrava quasi che quel sacchetto, pieno di bottoni colorati e lucenti, fosse un suo portafortuna, non si muoveva di casa senza, non si fidava, si sentiva come nuda.
Quel giorno maledetto lei lo aveva scordato a casa, altrimenti non sarebbe successo; si rimproverava sempre per questo. Da quel giorno aveva giurato a se stessa che non se ne sarebbe più separata.
Per quei pochi momenti in cui non poteva portarselo appresso (sotto la doccia o quando faceva il bagno al mare) aveva trovato un rimedio: aveva scelto i due bottoni più belli e si era fatta realizzare un girocollo, questo non lo toglieva mai.
Era stata così stupida quella volta ad uscire senza; ricorda ancora che stava per metterli in borsa ma poi era stata distratta dalla voce di Enrico e, insomma, si era dimenticata.
Enrico, il suo fidanzato. Quanto era innamorata di quel ragazzo! Per lui aveva e avrebbe fatto di tutto; certo lui era un po' particolare tanto che alla mamma non piaceva per niente. Spesso sentiva i genitori che parlavano sottovoce, allora si nascondeva e tendeva le orecchie per ascoltare; la mamma sosteneva che Enrico non le piaceva perché pensava fosse una persona ambigua. Allora papà rispondeva sempre con le stesse parole “anche a me non piace, ma se lei è felice lasciamole vivere la sua vita” e la discussione si fermava qui.
Quando soffriva per questo! Almeno il padre capiva, ma lei perché continuava a stargli addosso? Perché questo odio verso quel ragazzo, cosa le aveva fatto?
Enrico si era accorto di questo astio tanto è che aveva iniziato a non voler più andare a casa, diceva che sua madre lo metteva in soggezione, passava a prenderla ma aspettava fuori di casa. Quel giorno infatti dimenticò i bottoni perché lui era in anticipo e non voleva farlo aspettare troppo e così usci di corsa senza i suoi gioielli, tra l'altro all'epoca non aveva ancora neanche il girocollo.
Lui era fuori che aspettava. Era ubriaco fradicio e forse si era fatto pure qualche altra cosa. Parlava strascicando le parole e non si capiva cosa dicesse. Riuscì a portarlo via prima che i genitori lo vedessero in quelle condizioni, e cercò di farlo calmare e di capire cosa fosse successo.
Lui disse che dovevamo andare a casa sua, poi aggiunse, ridendo, che l’aspettava una sorpresa. Non capiva più nulla! Non entrava a casa sua da un pezzo, ogni volta trovava delle scuse per non farla entrare e Maria aveva desunto che si vergognava di quella casa popolare, piccola e mal tenuta, nel quartiere di Sant’Elia.
Quindi doveva essere veramente una bella sorpresa se dopo anni la portava da lui. Arrivati davanti all’ingresso lui le chiese di chiudere gli occhi, cosa che fece, lui apri il portoncino e la guidò verso la taverna, lo sentì che armeggiava con le chiavi e aprì. “Sorpresa!” esclamò! “ora puoi aprire gli occhi”.
La nonna era li, seduta in una poltrona al centro della stanza. Si avvicinò per salutarla ma lei non rispose, aveva gli occhi aperti ma sicuramente era sedata, cazzo era prigioniera in casa sua.
Non poteva credere ai suoi occhi! Si sentiva come dentro un film dal quale voleva uscire al più presto. Non capiva più nulla e iniziò a tremare. Guardò Enrico che sghignazzando le disse:
“Così ora la pensione è tutta mia e lei non potrà più rompermi le scatole”
Prese il cellulare per chiamare la polizia o qualcuno ma lui fu così veloce che le fece volare il cellulare. “ma che fai? Non sei contenta? L’ho fatto per te, per noi e tu sei così stupida da voler rovinare tutto”.
Lei lo guardò senza riconoscerlo, chi era questo pazzo con il quale stava da ormai qualche anno? Gli disse che dovevano chiamare qualcuno, che non potevano lasciarla li. Lo sguardo di Enrico la gelò e si precipitò verso l’uscita ormai in preda al panico.
Lui l’afferrò con violenza, la prese per i capelli e le puntò un coltello che aveva estratto dalla tasca senza che lei si accorgesse.
“Sei un’ingrata, come tutte le altre! Se vuoi andare vai pure non so che farmene di una come te! Ricordati però che se vuoi che il tuo povero fratellino diventi maggiorenne non dovrai parlare di quanto hai visto con nessuno”.
Le fece un taglio sulla guancia e aggiunse “questo ti servirà per ricordarlo ogni giorno quando ti guarderai allo specchio ” e la spinse con violenza fuori dalla porta.
Si toccò lo sfregio sul viso, erano passati 3 anni da quel tragico giorno, e esattamente due giorni dopo, il 25 febbraio,  era partita per Milano.
Era riuscita a cambiare vita ma il pensiero di quella donna rinchiusa non l’aveva mai abbandonata. Avrebbe voluto fare qualcosa ma quella ferita le ricordava che se avesse salvato la donna avrebbe sacrificato suo fratellino.
Iniziò a sfogliare distrattamente l’Unione Sarda un po’ emozionata al pensiero che il giorno dopo avrebbe iniziato a lavorare nella redazione come giornalista: perlomeno uno dei suoi sogni si stava avverando.
La sua attenzione venne rapita da uno strano articolo:
“donna di 84 anni trovata morta in casa dopo 3 anni
Incredibile storia di Giovanna, la donna di 84 anni che è stata trovata morta da ormai 3 anni nel congelatore di casa sua dove la donna viveva con il nipote.
Alcuni operai dell’ENEL recatisi nell’abitazione per la verifica di un guasto hanno fatto una macabra scoperta, il corpo di una donna di 84 anni, completamente congelato.
Il medico legale effettuata l’autopsia ha stabilito che il decesso è avvenuto 3 anni fa, esattamente il 27 febbraio 2019 per una ferita inferta nell’addome dell’anziana donna. Latitante il nipote che viveva con la donna e che ha fatto perdere le tracce da diversi giorni”
 Consuelo
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danilacobain · 1 year
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Selvatica - 40. Pronta per la serie A
Corinna non voleva tornare a Milano. Lì si sentiva come a casa, anche se non conosceva la lingua e faceva fatica a capire i discorsi. Ante era incredibile con lei, ancora più amorevole di quanto fosse a Milano. E a Milano era il ragazzo perfetto.
Non voleva tornare a Milano e doversi nascondere, difendere, tenere tutto dentro.
In quei giorni lei e Ante avevano parlato molto. Lui le aveva raccontato tanto della sua vita, la sua infanzia, la sua adolescenza. Corinna gli aveva parlato di tutto quello che era successo col padre, coi debiti. E si era sentita bene, a suo agio, come se ne stesse parlando con chi la conosceva da sempre. Percepiva di potersi fidare completamente di lui, e quando gli aveva detto che lo amava aveva compreso di non aver mai provato quel sentimento così forte prima d'ora.
Stare lontana da quel corpo pazzesco era diventato impossibile. In Croazia erano stati una cosa sola, e anche quando erano lontani c'erano i loro occhi che non potevano fare a meno di cercarsi. Non voleva tornare a Milano e rompere quell'idillio.
Seduta su una poltroncina di vimini osservava lui fare dei palleggi col pallone. Corinna chiuse gli occhi, sotto al sole nel giardino di casa di Ante. Forse avrebbe dovuto parlare con lui prima di rientrare. Mentre erano ancora lì, avvolti da quel manto di magia e bellezza, protetti dai momenti appena trascorsi insieme e dall'amore che si erano detti di provare l'uno per l'altra. Forse in quel momento lui non l'avrebbe guardata con occhi diversi e avrebbe compreso le motivazioni del suo stupido gesto. Si alzò e lo raggiunse.
«Mi insegni?»
Ante stoppò la palla con il piede e la guardò perplesso. «A fare cosa?»
«A calciare.»
I suoi occhi si illuminarono e scoppiò a ridere. Da quando lo aveva visto immerso nelle acque cristalline dell'Adriatico non poteva più fare a meno di vederci il mare in quegli occhi. Placidi e profondi, la lasciavano sempre con la voglia di restare ancora a guardarli, di restare intrappolata lì dentro per sempre.
Gli si gettò al collo. «Dai! Voglio imparare.»
Ante la baciò sulla guancia. «Signorina, siamo passati dal non guardare neanche una partita di calcio a voler imparare a giocare. Tra qualche mese ti ritrovo in panchina ad allenarmi?» Spostò il pallone davanti ai piedi di Corinna. «Va bene, vediamo che sai fare.» Si allontanò di qualche metro.
«Che devo fare?»
«Tira un calcio al pallone. Passamelo.»
Corinna colpì la palla, che andò a sbattere contro la siepe in fondo al giardino, dietro Ante.
Lui ridacchiò aggrottando la fronte. «Ma come diavolo lo hai colpito? Con la punta?»
Corinna lo guardò con aria spaesata. «Perché come avrei dovuto fare?»
Ante raccolse il pallone. «Con l'interno, tesoro. Guarda.»
La palla rotolò docile tra i piedi di Corinna. «Ok, fammi riprovare.»
Colpì il pallone che schizzò verso l'alto. Ante si piegò in due dalle risate.
«Aspetta, non ridere, fammi riprovare.»
«Sei negata, Corinna. Non sei neanche in grado di fare un passaggio.»
Ante cercò di prendere la palla ma Corinna la recuperò e la nascose dietro, allontanandosi. «Dai, fammi riprovare!»
Lui scosse la testa. «Sei negata, rassegnati. Dammi il pallone.»
«No, Ante. Sei tu che sei un pessimo insegnante.»
«Dammi la palla, ti faccio vedere io chi è pessimo.» Si avvicinò con passo deciso.
«Fammi tirare di nuovo...»
«Corinna.» Ante si avventò su di lei con impeto e la scaraventò a terra, sull'erba fresca. Cadde su un fianco e si rotolò poggiando la schiena a terra. L'odore del terriccio penetrò nelle narici quando riprese fiato.
Si portò le mani al volto. «Ante, cazzo...»
Ante torreggiava su di lei. «Ti sei fatta male? Scusami, non ho saputo dosare la forza.»
Continuò a rimanere distesa con le mani sul volto emettendo dei lamenti.
Ante si accovacciò al suo fianco. «Dove ti fa male? La schiena? Corinna per favore fammi vedere dove ti sei fatta male.» La voce di Ante si era fatta più urgente, segno che si stava preoccupando davvero. Le prese le mani e cercò di toglierle dal volto. «Corinna...»
Lei lasciò andare la pressione che stava esercitando per non fargli vedere il viso, le mani si sollevarono, scoprendo un sorriso divertito e un paio di occhi allegri.
Ante aveva la fronte aggrottata per la preoccupazione, ma non appena la vide le lasciò andare le mani e si rimise in piedi. «Vaffanculo. Vaffanculo, Corinna. Mi hai fatto perdere uno spavento. Sei brava a simulare, sei pronta per giocare in serie A.» Le tese la mano per farla alzare.
Corinna la afferrò. «Non stavo scherzando del tutto, sono caduta male»
«Ah sì? Dove ti fa male?»
Lei indicò il fianco sul quale era caduta. «Siete sempre così rudi sul campo?»
«Guarda che ti ho solo sfiorato, in campo lo siamo molto di più.»
Corinna scosse la testa e si ripulì i pantaloni. «Sei un animale.»
«Che c'è, perché fai quella faccia? Credevo ti piacesse.»
Ante si avvicinò e la schiacciò contro il suo corpo. Anche attraverso i vestiti poteva sentire la potenza di quei muscoli, la grazia con cui si gonfiavano quando li contraeva. Si stava riferendo a come facevano l'amore e alla foga di Ante in alcuni momenti.
Adorava il suo modo di fare l'amore, così focoso e dolce. I loro corpi sembravano essere stati creati per unirsi, per combaciare. Ante la completava e il suo modo rude di toccarla, di morderla e baciarla le faceva perdere la ragione ogni volta. Era sesso, puro piacere carnale, mischiato al sentimento che li legava. Era chimica dei corpi che reagivano l'uno all'altra e alchimia delle anime che sorridevano per essersi trovate.
Corinna fece scorrere le mani sulla sua schiena fino ai glutei rotondi e sodi.
«Lo sai che mi piace.»
Ante la baciò. «Sei sicura di non voler venire anche tu stasera? Perché sai, conosco un posto dove potremmo andare poi io e te da soli.»
Aveva un appuntamento a cena con i suoi vecchi amici, che Corinna aveva già conosciuto. Lei aveva pensato di lasciarlo libero, tanto comunque non avrebbe capito niente e lui aveva bisogno di stare con i suoi amici di sempre.
«Sicurissima. Goditi la serata con i tuoi amici, io starò con le tue sorelle. Mi mancheranno... anche i tuoi mi mancheranno, mi stanno trattando benissimo, mi hanno fatto sentire a casa.»
Ante sorrise. «La cosa è reciproca, te lo posso assicurare. Mamma ti adora già. Ha detto che la prossima volta che torniamo dovrai assolutamente aver imparato a parlare croato.»
Corinna sentì il cuore pieno di calore e gioia. «Allora dovrai insegnarmelo tu.»
«Da domani, appena atterrati a Milano, parleremo solo croato.»
Poggiò la fronte sul petto di Ante. «Vorrei che anche tu conoscessi mia madre.»
Lui le accarezzò la schiena. «Credevo che tu e tua madre non andaste molto d'accordo.»
Corinna sollevò la testa per guardarlo. «Perché pensi questo?»
«Perché non parli mai di lei. E io non ti ho mai chiesto nulla perché pensavo che non ti facesse piacere parlare di lei.»
La morsa dell'ansia le afferrò lo stomaco. Dirglielo in quel momento, o mai più. In quel momento o lui lo avrebbe scoperto da solo.
«Ante... devo dirti una cosa.»
«Ante!»
Il ragazzo si voltò verso la porta di ingresso dove c'era sua madre che li stava chiamando. La donna disse qualcosa e rientrò.
«È pronto da mangiare. Cosa devi dirmi?» Si incamminò verso la casa.
«Mia madre... ecco, non è come credi, noi andiamo d'accordo.»
«Ne sono contento. Allora appena rientriamo mi farebbe piacere conoscerla.»
Le diede un bacio prima di varcare la soglia della porta.
Lo avrebbe fatto, avrebbe portato Ante dalla madre in clinica. Lui l'amava, glielo aveva detto. Non sarebbe scappato, non era come tutti gli altri.
Ante era quello giusto.
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abatelunare · 2 years
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Grossi uccelli ci volavano attorno, quasi ci toccavano; il vento del loro volo ci sbatteva sulla faccia (Vittorio G. Rossi, Il granchio gioca col mare, Milano, Mondadori, 1958).
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penelopeparis · 9 months
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Ti capisco perché l’ho provato.
Concordo, non sai come ti capisco. Io voglio avere la patente di lamentarmi, non l’ho mai fatto. Ora è arrivata questa esigenza, non ho più la soglia attiva, si è rotto il galleggiante della tolleranza. Il mio corpo non regge più le stupidaggini, le frasi fatte, le cose comuni, dette a caso, le polemiche sterili, i miei 15 interventi. Ognuno di noi ha bisogno di essere onesto con se stesso. Il…
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lamilanomagazine · 3 months
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IL CALAMARO GIGANTE con Angela Finocchiaro e Bruno Stori al Teatro Manzoni di Milano
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IL CALAMARO GIGANTE con Angela Finocchiaro e Bruno Stori al Teatro Manzoni di Milano dal 13 al 25 febbraio 2024. Enfi Teatro e Teatro Nazionale di Genova presentano, dal 13 al 25 febbraio 2024 al Teatro Manzoni di Milano, Via Alessandro Manzoni, 40, 20121 Milano, lo spettacolo "IL CALAMARO GIGANTE" con Angela Finocchiaro e Bruno Stori. La vita di Angela è assurda e incomprensibile, come quella di ognuno di noi. Da ragazza tanti sogni e passioni le facevano battere il cuore, ma i binari rigidi della famiglia e della società l'hanno portata a una situazione che è come un boccone amaro incastrato in gola, e non va né su né giù. Oggi più che mai: tornava a Milano per la cena dell'ufficio, ma il rientro dei vacanzieri dal mare la blocca in coda verso Roncobilaccio. Angela maledice tutta quella gente, maledice pure il mare da cui tornano. E ha ancora la bocca aperta, quando un'onda impossibile la porta via, travolgendo e stravolgendo la sua vita. In un vortice fuori dal mondo e dallo spazio, dove si ritrova a girare insieme a un tipo strano e antiquato, Montfort, che arriva da un'altra nazione e un altro secolo, e in comune hanno solo di non sapere come sono finiti lì. Così inizia il loro viaggio, che onda dopo onda li sbatterà a vivere le avventure di donne e uomini che invece hanno avuto il coraggio di abbracciare il mare e la vita come un'unica, strabiliante meraviglia. Come Don Francesco Negri, parroco quarantenne che nel Seicento parte da Ravenna e raggiunge a piedi il Polo Nord. Come il piccolo Tommy Piccot, pescatore alle prime armi e maltrattato dai suoi colleghi più grandi, che nel momento del pericolo sarà l'unico ad avere il coraggio di affrontare il Grande Sconosciuto, e portarlo davanti agli occhi del mondo. Insieme a loro marinai delle Antille, solitarie custodi di musei di provincia che resuscitano animali morti da millenni, ragazzini sognatori vessati dai compagni di classe, nonne che a cena parlano col marito morto, ragazze che per non calpestare le formiche smettono di camminare... Vite sconosciute ma fondamentali, incredibili ma verissime, legate dall'aver creduto con tutto il cuore all'esistenza di un animale così enorme e lontano dalla normalità che per millenni lo si è considerato una leggenda: Il Calamaro Gigante. Nei loro panni, Angela e Montfort vivono le loro battaglie, si esaltano ai loro trionfi e si disperano alle tragiche rovine, in un racconto che schizza tra i secoli e i continenti ricorrendo a tutti i linguaggi offerti dalla narrazione: immagini, scenografie, musica, danza...in un abbraccio appassionato che raggiunge i cuori di ogni età, dai giovani a quelli che giovani lo sono dentro. E se nel mondo esiste il calamaro gigante, allora non c’è più un sogno che sia irrealizzabile, una battaglia inaffrontabile, un amore impossibile. Per Angela e Montfort, e per chiunque salga a bordo di questo spettacolo, che ci spinge ad andare avanti, o dovunque ci portino i venti e le correnti e le passioni, alla sorprendente, divertente, commovente scoperta delle meraviglie della Natura e quindi di noi stessi. Perché la storia più incredibile di tutte è proprio la realtà.   ANGELA FINOCCHIARO e BRUNO STORI IL CALAMARO GIGANTE dal romanzo omonimo di Fabio Genovesi adattamento di Fabio Genovesi, Angela Finocchiaro e Bruno Stori Quando: feriali ore 20,45 - domenica ore 15,30 sabato 24 febbraio ore 15,30 e 20,45 Regia Carlo Sciaccaluga Musiche Rocco Tanica e Diego Maggi con Gennaro Apicella, Silvia Biancalana, Marco Buldrassi, Simone Cammarata, Sofia Galvan Stefania Menestrina, Caterina Montanari, Francesca Santamaria Amato scene e costumi Anna Varaldo disegno luci Gaetano La Mela Video Robin Studio Ideazione creature marine Alessandro Baronio Costumi Quindi Cooperativa Sociale e di Comunità Nanina Direttore di allestimento Daniele Donatini Assistente regia Silvia Biancalana Assistente scenografa Nina Donatini BIGLIETTI Prestige € 36,50 - Poltronissima € 33,00 - Poltrona € 25,00 - Poltronissima under 26 anni € 16,00 Per acquisto: - biglietteria del Teatro - online https://www.teatromanzoni.it/acquista-online/?event=3425728 - telefonicamente 027636901 - circuito Ticketone... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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cinquecolonnemagazine · 3 months
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Luoghi d’anima
Le case, quando ci abiti, sono carnali. Muri, pavimenti, mobili, oggetti, fiori, letti d'amore e di sonno, polvere e lifting per le grandi occasioni. Sono odori, profumi, vapori, sapori, colori, calori, rumori, suoni, luci e tenebre. Sono abitudini scontate. Ti accorgi che hanno anche un'anima quando non ci respiri più, quando, nel tempo, la smemoratezza di averle vissute diventa consapevolezza di averle perse per sempre. È allora che le ripercorri. Perché una casa dentro ci vuole, come insieme di luoghi in cui si sono snodate sensazioni e tappe personali e collettive. Luoghi d'anima. La casa dei miei luoghi d'anima ha un'unica stanza da dopoguerra, col fornellino elettrico dietro un paravento, odore di latte traboccato, strati di coperte contro il freddo, un umile desco come nel libro di lettura, occhi sgranati sulle latte scintillanti dei giocattoli di Natale. E un cortiletto piantato a rose, con i petali imbocco una striminzita capretta. La bellezza radiosa di mia madre impreziosisce ogni cosa. La casa dei miei luoghi d'anima è un appartamento da primi anni della ricostruzione, piccolo perché la ripresa non è ancora boom, ma con una stanza tutta per noi, me e mia sorella, con i mobili in tek e i tessuti variopinti che sanno di modernità e di futuro, seppure da meritare col peso di cambiali mensili. Ecco il giardino di margherite, ireos, rose, muri d'edera, l'albero di nespole e l'enorme fico dove mi rifugio a leggere, il cancello sulla strada da cui sbircio quel ragazzo che passa, chissà come sarà baciarlo alla maniera che ho visto al cinema! Ho sulla pelle il caldo di quelle estati infinite, a fantasticare sul mondo oltre le sbarre, e su quello più grande oltre il mare aperto, randagia on the road come il libro americano, mentre il giradischi canta in una lingua che non conosco eppure capisco, perché linguaggio del mio tempo. La casa dei miei luoghi d'anima è il grande appartamento moderno del benessere raggiunto, luminoso di spazi e di confort. Da cui voglio fuggire, e fuggirò, perché fuori c'è il '68, che promette un mondo capovolto e disprezza gli agi borghesi, proprio ora che con sudore si sono diffusi. La casa dei miei luoghi d'anima è il buco bohémien di Milano dove aspetto la rivoluzione, la prima casa di Torino dopo che la rivoluzione c'è stata, seppure diversa da come la immaginavo: culla, lettini, giochi ovunque, due bambini che si aprono al mondo col mio stesso sguardo curioso e avido. Il ritorno al privato dopo la fine dell'utopia. La casa dei miei luoghi d'anima, l'ultima, è quella di mia madre, appannata dagli anni, appesantita dall'accumulo, rattristata dalla vecchiaia, come tutto il paese. Ma con lo stesso letto di ragazza dove ritrovarmi figlia ad ogni rientro. Illusione d'eternità. Ora che Lei non c'è più e che l'appartamento è passato di mano, mi aggiro spaesata tra le case che abito. Dovrò imparare a riconoscerne l'anima finché ancora ci respiro, a raccoglierne i ricordi prima della memoria. Foto di Flavio Ferraro per Cinque Colonne Magazine Read the full article
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silviascorcella · 5 months
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Bona Calvi: l’orafa che narra il fascino del quotidiano in miniature
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Accarezzano il sentimento della meraviglia con dolcezza e giocosità i gioielli nati dalle mani felicemente operose e dall’innamoramento per l’arte orafa di Bona Calvi: già solo a guardarli regalano il sorriso desideroso di indossarli. Ma regalano anche la conferma rassicurante che riporre la fiducia nell’artigianato come maestro di tecniche antiche e come mestiere da modellare a misura della vita contemporanea, è ancora e sempre una scelta buona e giusta.
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Ecco, Bona Calvi racchiude nella bellezza speciale dei suoi piccoli capolavori preziosi proprio queste virtù: il talento sorprendente di saper lavorare la materia metallica con finezza certosina, e con il desiderio di dare vita a creazioni che compongono un racconto semplice, popolato da forme ordinarie, animali, piante, fiori e oggetti, che abitano il nostro mondo quotidiano. Ma che Bona Calvi tramuta in miniature straordinarie che affascinano il nostro gusto in un baleno!
La storia di Bona Calvi è breve ma intensa, perché giovane ma densa di concretezza determinata e rivelazioni che hanno il sapore della fiaba: a Milano, Bona nasce nel 1989 e resta, in una sorta di fedeltà che le dà piena ragione. Perché è all’Accademia delle Belle Arti di Brera che studia scenografia per poi accorgersi, grazie al lavoro in un laboratorio specializzato in conservazione e restauro di antichi strumenti scientifici, che la dimensione vera che la anima di soddisfazione ha a che fare con le mani che lavorano i metalli e con l’intenzione di vivere del suo saper fare.
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Ed è quindi alla scuola orafa ambrosiana che salda, letteralmente, questa predilezione e vive una seconda, fondamentale illuminazione: è la tecnica antica della cera persa lo strumento ideale che le consente di modellare le sue ispirazioni in forme plastiche sospese tra sogno e realtà. Ed è nel cuore di Milano che Bona Calvi stabilisce il cuore della sua attività: nel laboratorio di di via Stampa 8, dove accade ogni fase del percorso di creazione, dal disegno del bozzetto alla modellazione paziente di ogni dettaglio anche il più sottile e minuscolo, che dalla cera si trasferisce su oro, argento e bronzo e s’impreziosisce di pietre e perle. 
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Perché quelle di Bona Calvi son autentiche micro-sculture delle realtà: o meglio, son miniature fedeli all’apparenza oggettiva, e al contempo leali all’immaginazione di Bona stessa e alla sua sensibilità generosa a soddisfare i desideri della sua clientela.
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La sua è dunque una collezione che pian piano si popola di nuovi protagonisti: che dal mare esotico, dalla lontana savana o dal parco vicino a casa diventano anelli, orecchini e ciondoli, come accade per le alici dagli occhi di pietre brillanti, la balena, il polpo e il granchio, la giraffa e l’elefante, il serpente che può abbracciare le dita o cingere il polso, il bradipo e l’orso, la rana che stringe tra le zampe una perla, il coccodrillo che la rincorre lungo la catena, le coccinelle dal corpicino di pietra colorata, i pesciolini appesi ai cerchietti degli orecchini.
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Ci sono anche gli inseparabili, come i pappagallini che si guardano vis-à-vis nell’anello aperto, o come gli oggetti che nel quotidiano funzionano a coppia: teiera e tazzina, e la bottiglia di vino col suo calice. Quelli di Bona Calvi son micro-mondi pregiati: sono gioielli che come un lessico familiare raccontano storie, quelle dell’orafa che a loro da vita, e quelle personali di coloro che li scelgono per affinità elettiva.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
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valdis-d · 9 months
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Avremo sempre Casablanca in Liguria + scazzo lacustre
Sabato 19 Agosto 2023
Un po' di cose sono successe dall'ultima volta che ho scritto. Certo, lo comincio a dire spesso ma non si può dir proprio che sto avendo una esistenza lineare, sfortunatamente o fortunatamente. Stai scrivendo dal lago, dove sei venuto dopo aver passato tre giorni da te in Liguria. Ci sono due cose di cui vorrei parlare oggi. Anzi, che vorrei registrare, affinché io possa rileggere un domani. Una al mare, una al lago.
Sono stato giù con V, la mia collega. Da quando avevo scritto, dopo una settimana circa si sono interrotti i lavori in R3 e abbiamo dovuto fermare anche noi. Dopo un'intensa battaglia dal sapore sindacale, è stato deciso per tutti di prendere qualche giorno di ferie in più, così sono sceso in Liguria e mi ha raggiunto la mia collega. Ora, non c'è stato un bacio ma è proprio l'unica cosa che è mancata. Tenersi per mano, abbracciarsi, accarezzarsi e farsi battute, tutto senza andare oltre perché " un minuto del mio divertimento non vale la tristezza di qualcun altro". Vero, ma che prezzo mi sta costando questo seppur carino detto? Mi sto torturando, senza contare che tutte le sere dormivo con l'uccello che mi toccava il mento, se così si può dire. Adesso sta decidendo se me p il suo fidanzato, e io sono a metà fra lo stupito e lo stupito. Mi piace molto, ma come siamo finiti in questo? Era solo un ballo insieme, cosa ci ha portato a questo? Sono in attesa, e non pensavo da tanti anni che qualcuno avrebbe voluto dividere questa cosa preziosa con me, che qualcuno volesse me come la cosa più preziosa, eppure ora c'è qualcuno che lo sta considerando. per 12 milioni di euro:) Cosa deciderà? Sarò io o lui? Sarebbe proprio difficile andare avanti, lavorandoci insieme, ma devo tenere in mente che questa è la maggior possibilità, perché è praticamente sposata e uno non cambia per il primo che passa. E' la più probabile delle probabilità, ma il mio cervello non lo vuole accettare. Devo cercare di tenere la barra a dritta e restare realistico. Ancora una volta mi trovo a combattere contro il mio inconscio, bambino maledetto.
Quindi sono venuto su col sorriso, sorriso che si è immediatamente spento quando sono arrivato al lago coi nostri amici inglesi certo, ma anche coi miei e mia zia. Qui, mi fa imbestialire come sembra che sia io l'adulto nella stanza e non qualcun altro. Che mi aspetto maturità dagli altri, da quelli con l'età con 70 anni per gamba, e invece vedo dei marmocchi maledetti. La strega che fa la stronza, in continuazione e infatti è sola come un cane. Quell'altro che si lagna dalla mattina alla sera per poi piagnucolare persino del fatto che la gente si lamenta di lui o che non lo si ascolta. Mia madre, che è buona a dire solo anche tu, ottusa senza voler affrontare il problema. Ogni vacanza al lago è sempre stata così e mi hanno stufato. Vogliono tornare un giorno prima? Obblighi quei due venuti dall'Inghilterra a chiudersi a Milano con una bambina di nemmeno due anni anziché qui nel verde? Perfetto, io me ne torno a casa mia e quelli si arrangiano, stronzi. Sono davvero stufo, queste cose vanno avanti da sempre e mi hanno stufato. Ne ho le palle piene, e come li vedo arrivare mi innervosisco.
Quindi questo, queste cose. Fra una settimana parto per l'Islanda. Dell'esito dell'esame di stato, ancora non ho indizi.
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unfilodaria · 1 year
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Considerazioni - 2
Quante volte vi è capitato di stare tra la gente, osservarla, vedere che si viene anche osservati, e domandarsi se quella persona ti sta guardando davvero o sei semplicemente parte dello sfondo visivo di un'occhiata a caso intorno a sé? Quanto ti senti osservato? se ti piace la sensazione? se vuoi essere visto o sparire nella massa? Mi domando a volte, in questa società in cui siamo diventati numeri, soprattutto immagino nelle grandi città (vedi la fiumana di persone che affolla una metro a Milano, Roma o Napoli... facce indistinte di cui dimenticherai i tratti dopo un secondo) osserviamo o siamo osservati. Se ci poniamo (o si pongono) la domanda che quello davanti è una persona come noi, con un vissuto, con una storia, con sentimenti o problemi più o meno enormi. Io guardo e certe domande me le pongo perché mi piace (mi piacerebbe) intuire la storia di quella persona e parlarci per conoscerla (conoscerla non farmi i fatti suoi). E trovo triste che diventa sempre più complicato. difficile e pieno di diffidenza conoscere persone. Ci limitiamo sempre di più ad una cerchia ristretta, al più quei pochi colleghi/compagni di lavoro con cui finisci col condividere 1/3 della tua giornata. Ma restano pur sempre conoscenze superficiali "Ciao, buongiorno, come stai? prendi un caffè?" E in tutto questo le relazioni umane, quelle vere, dove sono andate a finire? Anche quando decidi, come sto facendo, di uscire dal guscio casalingo, la tana in cui hai finito per infognarti, e ci stai tra la gente, in un cinema, in un teatro, ad un concerto, in un bar, hai la netta sensazione che la tua bolla di invisibilità ti segue come le barriere mentali che ti impediscono di avvicinarti ad un'altra bolla e scambiare due parole. E quando lo si arriva a fare sono al più parole di circostanze tra un misto di timidezza e diffidenza. Per chi è solo, come me, tutto questo diventa fortemente limitante e invalidante, perché per quanto tu faccia sforzi per metterti in gioco, resti nell'ombra, resti immobile, anche perché il tuo aspetto non ti aiuta e diventi ancora più un elemento dello sfondo indifferenziato del campo visivo altrui. E alla fine che faccio? mi sono iscritto anch'io ad uno di quei siti per incontri (tristazzuolo assai) con un senso di impaccio e di fastidio non indifferente. Ma provo, vuoi vedere che succede qualcosa? anche perché gli spazi social "magicamente" abbattono la barriera visiva e si finisce col parlare più di quanto faresti con l'usciere dell'ufficio o con la signora della porta accanto, senza peraltro conoscere la loro storia. La sensazione di essere isole galleggianti in un mare di nulla resta fortissima. Ogni tanto ci si scontra con qualcosa, con qualcuno, ci si illude che possa partire una conoscenza ma alla fine ti ritrovi al solito trivio: sesso mercenario (e non mi interessa affatto), gente che cerca l'evasione dalla solita routine quotidiana, gente che ti vede ma non ti osserva e passa oltre. Sconsolante e triste tutto ciò.
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Ann Veronica Janssens all’Hangar Bicocca di Milano
Che bello fare l’artista! Che bello, con uno spazio a disposizione come l’Hangar, e non solo lo spazio, anche l’organizzazione, i soldi per fare quello che vuoi. Tutto è concepito in grande, si montano pareti, spazi chiusi, luminarie di tutti i tipi, schermi della dimensione che ti pare, getti di vapore, suoni; puoi salire a venti e passa metri d’altezza ad appendere le tue fantasie, come cospargere il pavimento di quanto ti pare. Perfino Melotti, all’ingresso, il timido, il minuto, fantasioso scultore della delicatezza del filo d’ottone saldato, l’introduttore della musica nell’arte visiva, perfino lui all’Hangar s’abbandona al monumentale (le lunghe strisce di cortens non stanno tutte ritte, tre o quattro son cadute in avanti. Ma non per caso: come cadute nell’erba curata del giardino, per permettere ai fari dell’illuminazione di avere il loro effetto – ma io mi permetto il sospetto: sarà veramente tutto suo o un suo disegno tradotto gigante ad usum delphini?)
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Che bello fare l’artista all’Hangar! Ne esco arricchito?
Beh, niente di nuovo sotto il sole, sotto  la sua eclissi, sotto il mare che riflette la luna, nella nebbia artificiale che impedisce lo spettacolo della partita di calcio allo stadio. Niente di nuovo sotto l’immensa parete stracarica, ma ordinatamente, di foto in BN della stessa dimensione: è la vita, amico! Sono la vita, la fila di macchine trascorrenti nella monotonia di un’autostrada, sono la vita i ciottoli arrotondati dal mare e sparsi sul pavimento. Perfino il senso di grande solitudine degli spazi interstellari, la penetrazione telescopica nello sciame di stelle della Galassia, la luna attraversata dalle nostre nuvole; gli scherzi luminosi sugli schermi televisivi sono la vita. C’è del lavoro a mettere insieme tutto ciò con la perfezione e la pulizia che li fa godere tutti uno accanto all’altro, c’è grande professionalità: tanto di cappello, maestra!
Ripeto, niente di nuovo. Ma forse proprio perciò e per questa pulizia, questa purezza, bello, lontano dalla decomposizione e dalla merdanzia quotidiana che la vita odierna ci dispensa a iosa; se abbiamo un attimo per fermarci a contemplare, se la vita ci consente di “staccare”, di vincere l’ossessione di dover pensare alla pagnotta, alla cattiveria e furbizia umane, quando per un attimo ti è consentito di dimenticare la morte (è possibile?) Tutto molto pulito, perfino la putrella a terra, tutto lucido e naturalmente anche i vetri e gli specchi sparsi un po’ dovunque a riflettere il fascino buio dell’antica Pirelli. Che la signora abbia sensibilità visiva da vendere nessun dubbio, basta pensare al grande pannello tutto crespato, appeso in alto di fronte alle luci naturali laterali, alle cortine che la filtrano davanti agli ingressi sul giardino, ai piccoli prismi piazzati sui vetri: il gioco dimensionale  fra il mastodontico e il cristallo è il pane di ogni opera che si rispetti e quelle di Ann  Veronica si rispettano. Non c’è riempimento, non siamo sopraffatti, tutto è calibrato e studiato al millimetro, lo spazio non è ingombrato.
E’ molto oggi. A.V. riesce addirittura a superare certi effetti alla Turrell, a giocare col vuoto meglio anche del primo Kapoor; in un lavoro, uno dei migliori, si sente addirittura l’influenza di Beuys: in un grande schermo un vecchio (l’archistar Oscar Niemayer) fuma il toscanello in loop davanti alla sua biblioteca, è austero, meditativo (pensa alla morte? è probabile, è molto vecchio e se ne sbatte di tutto). Ma nessun plagio: l’insieme è autenticamente della Janssens, la sua misura, la sua pulizia, il suo equilibrio visivo sono rari.
Benissimo. E la novità, quella che ogni artista deve al suo pubblico? L’epoca è distratta, stupida, piena di sé e ignorante: va rieducata a guardare, a fermarsi di fronte all’immensità dell’universo; questa gli serve da lezione: la bestia più crudele e più intelligente della terra forse cala la cresta. E’ molto, d’accordo, e giustifica la ricchezza degli spazi e dei mezzi messi a disposizione: una delle mostre più pulite e spettacolari dell’Hangar. Onore al merito.
Ma l’hangar? il suono delle vecchie presse dell’antica officina, il rumore dei carroponti, delle fiamme ossidriche, dei carrelli trasportatori  dei panni intimi di tutti accumulati  da Boltanski non molti anni fa? Dove sono finiti nel buio dei capannoni mascherati da una pittura impeccabile? Dove il lavoro, dove le tracce dello sporco, della morchia sulle mani che il lavoro ci procura tutti i sacrosanti giorni? Dove è finita la memoria?  In contrappunto le torri di Kiefer ondeggiavano precarie e nell’aria delle immense capriate d’acciaio  i semi aerei dei pioppi erano penetrati a ricordare la natura della polluzione spermatica, vegetale, filoanemonica, leggera, casuale, imprevista, bianca, luminosa.
Vado a cercarla fuori. Ma prima dell’uscita sono passato in una stanzetta 2x2: un’unica piccola foto di un bosco con accanto, dentro una cornice semplice semplice, uno sgorbio a matita, neanche un punto interrogativo. Bellissimo, autentico: la poesia è passata di lì. Ho trasalito, il suo brivido mi ha scosso: l’arte non ha bisogno di grandi spazi, di teatri dello spettacolo, deve essere anche negli angoli più insignificanti e miserabili: è frutto di un attimo, non ti appartiene, non appartiene a nessuno.
L’arte, disse, è parte della storia privata molto prima che della storia dell’arte propriamente detta, l’arte, disse, è la storia privata… e la matrice della storia privata è la storia segreta (Roberto Bolaño)
FDL
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