Che cosa la Cgil non ha capito del Jobs Act e del lavoro in Italia
I quesiti del referendum promosso da Landini e compagni, la lettura errata della realtà del paese da parte del sindacato “antagonista”, la battaglia radicalmente diversa della Cisl
Nella Gazzetta ufficiale del 13 aprile 2024 sono riportati i quattro annunci di richiesta di referendum abrogativi presentati dalla Cgil alla Suprema Corte di Cassazione.
Il quesito contro il Jobs Act
Il primo, diventato velocemente il simbolo comunicativo della campagna di raccolta firme attivata dal sindacato per proseguire l’iter di approvazione, concerne l’abrogazione del contratto a tutele crescenti regolato dal Jobs Act. Si tratta, indubbiamente, di una delle più rilevanti novità della riforma varata nel 2015 dal governo Renzi (che si compone di una legge delega, otto decreti delegati e diversi correttivi e collegati, quindi è ben più complessa): questa scelta ha perciò giustificato il ricorso allo slogan “referendum contro il Jobs Act”.
Più forzata la sintesi del “ritorno all’articolo 18”: invero si verificherebbe il ripristino per tutti i lavoratori impiegati in aziende con più di 15 dipendenti del regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi previsti non dall’originale articolo 18 della legge 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori), ma dalla versione modificata nel 2012 dalla riforma Fornero, ove è certamente più forte la tutela reintegratoria rispetto al Jobs Act, ma comunque non prevista per tutte le fattispecie di illegittimo licenziamento (per esempio non interviene in caso di licenziamento economico).
Il quesito sui licenziamenti illegittimi
Il secondo quesito interessa esclusivamente i lavoratori che operano nelle imprese al di sotto dei quindici dipendenti: la Cgil propone l’eliminazione del tetto massimo delle sei mensilità e del tetto alle maggiorazioni per i lavoratori con una certa anzianità in caso di licenziamenti illegittimi, lasciando perciò maggiore libertà al giudice nella individuazione della indennità.
Il quesito sui contratti a termine
La terza proposta intende impedire di stipulare un contratto a termine acausale superiore a dodici mesi, nonché estende l’ambito applicativo del regime di causalità anche alle ipotesi di rinnovo o proroga del contratto a termine che implicano una durata complessiva inferiore o uguale a un anno. È a questo quesito che si riferisce la Cgil quando sui media parla (assai forzatamente) di “superamento della precarietà”.
Il quesito su sicurezza e subappalti
L’ultima proposta concerne la sicurezza sul lavoro negli appalti e prevede la responsabilità diretta del committente ultimo anche in caso di subappalto, di modo che sia più accurata la scelta dei fornitori.
Prossimi obiettivi e scadenze
Perché i quesiti possano essere effettivamente rivolti agli elettori, la Cgil dovrà raccogliere 500 mila firme certificate entro 3 mesi dalla prima vidima, quindi pressappoco entro la metà di luglio. Non c’è ragione di credere che l’obiettivo non sia raggiunto e superato. Entro il 30 settembre le firme dovranno essere consegnate in Corte di Cassazione, che avrà a disposizione massimo tre mesi per la verifica e la vidima. A quel punto sarà la Corte costituzionale a convocare entro il 20 gennaio 2025 l’udienza sul giudizio di ammissibilità dei quesiti e ad esprimersi a questo riguardo entro il 10 febbraio 2025. Se i quesiti saranno confermati (non è scontato: nel 2017 non tutti quelli presentati dalla stessa Cgil furono accettati), la consultazione popolare si svolgerà nella primavera del 2025.
Il falso problema della “quantità” di lavoro
Accanto alla fredda cronaca tecnica, si permettano alcune valutazioni di merito.
La prima concerne la coerenza “storica” dei quesiti, la loro capacità di leggere le difficoltà del diritto del lavoro.
Come chiarito da tutti gli osservatori statistici nazionali e internazionali (si veda, solo perché più recente, il Rapporto Istat 2024), in Italia oggi non c’è alcun problema di occupazione e disoccupazione, ossia di “quantità” del lavoro. Mai nella sua storia si erano conteggiati nel nostro paese quasi 24 milioni di occupati. Il Jobs Act, quindi, non ha determinato un impoverimento delle opportunità di lavoro. Allorquando, per ragioni politiche o giuridiche, non si volesse assegnargli meriti particolari, comunque non si potrebbe rivolgergli particolari colpe in termini di quantità del lavoro. Paradossalmente la Cgil fa lo stesso errore del governo: entrambi si concentrano sull’incremento della occupazione (la prima negli slogan associati al referendum, il secondo con il generoso pacchetto di incentivi a tempo previsti nel cosiddetto decreto Primo Maggio), quando questa non è oggi il problema del mercato del lavoro italiano.
L’equivoco della precarietà
Il quesito sul contratto a termine, invece, mette al centro dell’azione sindacale la “qualità del lavoro”, sempre e solo intesa come una dimensione che dipende dalla tipologia contrattuale utilizzata. Ebbene, i dati Istat certificano che la crescita dell’occupazione degli ultimi anni non è spinta dall’incremento dei contratti a termine e dei part-time, entrambi in costante diminuzione e in media con le percentuali europee. Anche in questo caso, quindi, è fuori bersaglio la proposta tecnica (può invece raggiungere lo scopo la strategia politica, ma è tutt’altro discorso).
Il nodo dei salari poveri e come scioglierlo
Quel che invece è segnalato dai numeri come il problema di oggi è la (scarsa) ricchezza dei salari, che in Italia sono cresciuti negli anni assai meno che nel resto d’Europa, troppo poco rispetto alla crescita del costo della vita. Per alzare le retribuzioni medie e mediane (cosa ben diversa dall’intervento di legge sul salario minimo, altra infatuazione recente della Cgil) occorrono innovazione (politica industriale e sostegno alle imprese), competenze sempre più evolute dei lavoratori e degli imprenditori (centralità della formazione) e, soprattutto, maggiore forza della contrattazione a livello aziendale, dove la ricchezza viene prodotta e, a quanto pare guardando i numeri, troppo poco redistribuita a chi ha partecipato al suo conseguimento.
Per questo la Cisl ha scommesso tutto sulla “partecipazione”: partecipazione dei lavoratori alle decisioni in azienda perché la competitività non sia a scapito dei lavoratori; partecipazione diretta ai risultati aziendali mediante la distribuzione degli utili o di quote di capitale; partecipazione organizzativa per il miglioramento di prodotti e processi al fine di incrementare i margini da spartire; partecipazione consultiva obbligatoria perché siano noti i dati sulle performance dell’azienda e nessuno possa nascondere eventuali “extra-profitti”.
La differenza tra Cgil e Cisl
Ecco allora la seconda osservazione, che concerne la differenza di concezione e di azione tra Cgil e Cisl. Entrambe hanno deciso di chiedere ai cittadini italiani di sottoscrivere le proprie proposte: prima la Cisl con la raccolta di oltre 400 mila firme utili alla presentazione della legge di iniziativa popolare in materia di partecipazione che entro l’estate sarà discussa e votata alla Camera dei deputati; poi la Cgil, che conta di superare le 500 mila firme necessarie perché possano essere votati nella prossima primavera i quattro quesiti abrogativi proposti.
La prima azione è construens: la Cisl, che non a caso è figlia di una tradizione di riformismo cattolico, non intende regolare i conti del passato, ma proporre qualcosa per il futuro, coerente con una chiave di lettura del presente (la necessità di alzare i salari medi dei lavoratori). La seconda azione è invece destruens: la Cgil, che per statuto è sindacato antagonista e politico, propone un ritorno al passato, sfidando una legge approvata dieci anni prima del referendum che intende abrogarla, in tutt’altra epoca storica (pre-Covid, pre-inflazione, pre-governo di centrodestra, eccetera).
Sono entrambe azioni legittime, utili a dimostrare che il sindacato non è morto, ma è anzi uno dei corpi sociali ancora più attivi e popolari (quale partito raccoglierebbe questo numero di firme in pochi mesi?). Ciò detto, è molto diverso provare a progettare un futuro nuovo o combattere per la restaurazione del passato.
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