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#raccolta poetica
dedoholistic · 5 months
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Il Salotto Virtuale di Maria Teresa De Donato su Mobmagazine presenta:
“Rinascerò in Tibet” di Samar Darkpa
(Raccolta poetica - Fiori D’Asia Editrice)
Recensione di Maria Teresa De Donato
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cartacei · 6 months
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Dopo Bruno Galluccio e Aldo Nove questa di Judith è la terza perla del 2023.
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Recensioni a "Carte nel buio" (work in progress)
Recensioni alla raccolta “Carte nel buio” (ed. nugae 2.0, 2024), elenco parziale: Nota a “Carte nel buio”, di Franco Innella (ultimo aggiornamento: 21/05/2024) Per ordinare il libro: QUI! ♦
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sciatu · 3 months
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Autoritratti dei pittori siciliani Daniele Schmidt, Pippo Rizzo, Gagliardo, Alfonso Amorelli, Bruno Caruso, Giuseppe Migneco, Lia Pasqualino Noto, Martinelli, Saro Mirabella, Ugo Attardi Verso l’inizio degli anni ’50, Salvatore Salvia De Stefano ebbe l’idea di collezionare gli autoritratti degli allora pittori viventi. Chiese aiuto ad amici galleristi e pittori per poter convincere i pittori che non conosceva a dipingere un loro autoritratto secondo il loro stile e la loro poetica. Il problema era che Salvia chiedeva questo autoritratto in un cartoncino di 15 per 18 centimetri di lato, quindi minuscolo e, per chi era abituato a grandi tele e opere ad ampio respiro, quasi limitativo. Non di meno, essendo un’opera minimale, la realizzazione degli autoritratti era sempre rimandata. Alla fine comunque Salvatore Salvia riuscì a raccogliere un buon numero di dipinti, ognuno ritratto umano ed artistico dell’autore. Una raccolta che passava da grandi pittori come Guttuso o Alliata a pittori minori ma pur sempre isolani nel tratto e nelle sembianze. Dove sia questa raccolta, non ve lo dire. Non appare in nessun museo o raccolta d’arte. C’è solo un piccolo libro che ne parla. Anche Salvatore Salvia è scomparso nel nulla tanto che neanche Wikipedia lo cita e di tutta la sua raccolta di “cose siciliane” non si sa più nulla. Alle volte l’amore non sopravvive a chi ama, anche se il soggetto di quest’amore immenso e totale, la Sicilia, resta è ancora madre di artisti e di grandi, sconosciuti, amanti dell’arte.
Self-portraits of the Sicilian painters Daniele Schmidt, Pippo Rizzo, Gagliardo, Alfonso Amorelli, Bruno Caruso, Giuseppe Migneco, Lia Pasqualino Noto, Martinelli, Saro Mirabella, Ugo Attardi Towards the beginning of the 1950s, Salvatore Salvia De Stefano had the idea of collecting the self-portraits of the then living Sicilian painters. He asked for help from gallery owner and painter friends to be able to convince painters he didn't know to paint a self-portrait of them according to their style and poetics. The problem was that Salvia asked for this self-portrait in a cardboard measuring 15 by 18 centimeters on each side, therefore tiny and, for those used to large canvases and wide-ranging works, almost restrictive. Nonetheless, being a minimal work, the creation of the self-portraits was always postponed. In the end, however, Salvatore Salvia managed to collect a good number of paintings, each a human and artistic portrait of the author. A collection that ranged from great painters such as Guttuso or Alliata to minor but still Sicilian painters in terms of style and appearance. Where this collection is, I won't tell you. It does not appear in any museum or art collection. There is only one small book that talks about it. Salvatore Salvia also disappeared into thin air, so much so that not even Wikipedia mentions him and nothing is known about his entire collection of "Sicilian things". Sometimes love does not survive those who love, even if the subject of this immense and total love, Sicily, still remains and is the mother of artists and great, unknown, art lovers.
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horacio-oliveira-74 · 3 months
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KAKINOMOTO NO HITOMARO
IL ROMBO DEL TUONO
Il rombo del tuono
nel cielo nuvoloso
forse pioverà.
E, quando accadrà resterai con me?
Il rombo del tuono
nel cielo nuvoloso
e anche se non piovesse
resterò con te.
(da Man'yōshū, Vol. 11, versi 2513 e 2514)
.
Il giardino delle parole è un breve film di animazione giapponese - o “anime” – realizzato da Makoto Shinkai nel 2013. A legare inizio e fine della storia – l’amicizia tra uno studente quindicenne e una donna ventisettenne che si incontrano in un giardino giapponese nei giorni di pioggia – c’è questo doppio tanka di Kakinomoto no Hitomaro, tratto dal Man'yōshū, ovvero la Raccolta delle diecimila foglie, antologia poetica compilata nella seconda metà dell’VIII secolo: una classica domanda e risposta in cui ci si dichiara amore eterno.
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susieporta · 10 months
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ESSERE BENE
Essere bene
è quello che sei, a partire
dalla meraviglia dell'uovo infranto
dagli angeli con la coda.
Essere bene
ti ha fatto gustare un gelato,
ti ha fatto vedere la neve
ti ha fatto vedere il miracolo
dell'acqua che esce dagli occhi.
Fanno pena veramente
quelli che ancora si affidano
alla cattiveria per farsi notare.
Essere bene è partire
sempre da terra
con umile gentilezza, sapere
che anche il cielo si arrangia
e nessuna nuvola rimane al suo posto.
Essere bene non è divertirsi
non è sfuggire il dolore,
e stare nella carne
e in quello che c'è fuori,
poco importa che sia l'intero
universo o un piccolo fiore.
Essere bene ci trattiene
non ci lascia fuggire,
apre buchi nei muri,
solleva muri contro i buchi.
Essere bene ci fa essere vento,
e deserto quieto, notte stellata
qui tra le mia braccia
e il soffio di una voce,
la tua voce che arriccia un nome
e lo fa diventare un cuore.
P.s.
ESSERE BENE
ho la suggestione che diventi il titolo della nuova raccolta poetica che esce a gennaio per Bompiani.
Ditemi se vi piace.
Avevo anche pensato a
Il libro della gratitudine
e prima ancora a un titolo semplicissimo:
Grazie.
Franco Arminio
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millelenzuola · 2 months
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Ritrovamenti della bellissima raccolta poetica di Jacques Prévert intitolata "Poesie d'amore."
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io-rimango · 1 year
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“E non mi presto a un
aggiustamento qualsiasi.
Preferisco lasciare la fionda
nel petto, mentre ti saluto
dal treno di ritorno.
Ché il niente, lo sai,
sazia più del poco”.
(Giusy Pullara dalla raccolta poetica «Cuori scaduti»)
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thebeautycove · 8 months
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ETAT LIBRE D'ORANGE - SOUS LE PONT MIRABEAU - Eau de Parfum - Novità 2023 -
P+P what a terrific alchemy. Poems + Perfumes. Is there anything better than that to shake your S+S? Senses and Soul reply right away.
.
Che stupefacente alchimia quando le fragranze scuotono la curiosità e sono ganci di riflessione su quanto si è appreso nella vita, soprattutto sui testi scolastici, sulle buone letture fatte nel tempo, su quanto certe esperienze si siano poi trasformate in una trama fitta di passione e condivisione.
Ritrovare Guillame Apollinaire in questa nuova fragranza di Etat Libre d'Orange - Sous le Pont Mirabeau - è stato come aprire un varco di luce nella memoria.
Apollinaire è uno dei grandi della poesia moderna, coniò il termine 'esprit nouveau' dando significato alle avanguardie artistiche francesi d'inizio 900.
La sua poesia multisensoriale vive nella sostanza del ricordo, affrancata dai confini del tempo, ne contrasta la forza dissipatrice per divenire incorruttibile.
Nei versi della sua celeberrima ‘Le Pont Mirabeau’, cui la fragranza si ispira, scorre la malinconia per un amore perduto, la nostalgia di un tempo che non conosce futuro e quella speranza violenta e timida che fu cara a Baudelaire.
E questa sensazione di fluire, del moto perpetuo e sincopato delle acque della Senna traspare da rigorosi accordi acquatici e minerali.
La sensazione in apertura è di freschezza acidula brumosa rubata alle luci dell'imbrunire, di sentori terrosi e metallici sostenuti dalla forza calma dei legni, sandalo e cedro.
Sono aromi sospesi e lenti, meditativi nel solenne evaporare dell'incenso, nel prolungato riverbero ozonato, rischiarati dagli accenti erbacei delle foglie di violetta, dalla poetica rima dell'ambra grigia.
E ancora, come a voler trattenere in circolo le sensazioni di attesa e speranza, riemergono i legni, più confortanti e magnetici nel loro levarsi dal fraseggio distensivo di vaniglia e muschi.
É indossare una poesia.
Creata da Mathieu Nardin.
Eau de Parfum 100 ml. In selezionati p.v.
©thebeautycove   @igbeautycove
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IL PONTE MIRABEAU Sotto il ponte Mirabeau scorre la Senna E i nostri amor Che io me ne sovvenga La gioia mai mancò dopo il dolor Venga la notte rintocchi l’ora I giorni se ne vanno io non ancora Le mani nelle mani restando faccia a faccia Lasciam che giù Sotto l’arcata delle nostre braccia D’eterni sguardi passi l’onda lassa Venga la notte rintocchi l’ora I giorni se ne vanno io non ancora L’amore se ne va come va la corrente L’amore va Come la vita è lenta E come la Speranza è violenta Venga la notte rintocchi l’ora I giorni se ne vanno io non ancora Giornate e settimane il tempo corre Né più il passato Né più l’amore torna Sotto il ponte Mirabeau la Senna scorre Venga la notte rintocchi l’ora I giorni se ne vanno io non ancora
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Il ponte Mirabeau deve parte della sua fama a questa celeberrima poesia di Apollinaire. Costruito nel biennio1895/97 ha una struttura a tre arcate in acciaio e collega la riva sinistra del 15°arrondissement alla destra del 16°. Quattro imponenti sculture in bronzo, poste alla base dei pilastri di sostegno, rappresentano l'abbondanza, la navigazione, il commercio e la città di Parigi. E' uno dei ponti più romantici della Ville Lumière, da sempre cantato e celebrato da artisti e letterati.
Elogio in fragranza al poeta Guillaume Apollinaire, che coniò il termine “esprit nouveau” per rappresentare l’avanguardia dei tempi moderni. Apollinaire aveva in se la genialità dell'innovatore, fu un visionario nell'approcciare le nuove correnti artistiche e il primo a riconoscere la valenza della pittura metafisica.
Il ponte Mirabeau è una delle sue poesie più belle, tratta dalla raccolta Alcools del 1913, in cui l'autore applica ai versi i principi della pittura cubista, le liriche non servono uno schema, non presentano un soggetto ricorrente ma, soprattutto, sono libere e non costrette in spazi limitati dalla punteggiatura.
Il ponte ha per Apollinaire una profonda valenza simbolica, è metafora del sentimento amoroso, luogo che induce a riflettere su sentimenti e tempo. Malinconia e visione onirica si fondono palesando il tratto distintivo dello stile del poeta, la sua poesia non è solo parola, è anche tattile, udibile, percepibile con i cinque sensi, qui sta la sua straordinarietà.
C'è il riferimento alla Senna, all’acqua che scorre veloce come il tempo, alle cose smarrite in esso, all'amore perduto per la pittrice Marie Laurencin, il ricordo e la nostalgia, la consapevolezza di ciò che non potrà tornare, l' abisso di solitudine e malinconia. Tutto passa, la giovinezza e la felicità spazzate via per sempre e la citazione alla 'speranza violenta' di Baudelaire è più che appropriata, poichè la tristezza ha per lui lo stesso significato, di violenza e timidezza congiunte.
E se il tema del tempo è cruciale in quest'opera, la protagonista assoluta è la poesia stessa. Tutto ciò che resiste all’azione distruttrice e implacabile del tempo è il dono di queste parole. Il dolore della separazione viene lenito dalla bellezza, dallo splendore del verbo poetico, che possiede la stessa funzione salvifica della memoria.
©thebeautycove
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carmy77 · 10 months
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Elenco vincitori
Concorso di Poesie, Filastrocche, Racconti e Fiabe
“Libera la fantasia” 5^ Edizione
A) Sezione Poesie e Filastrocche a tema fantasy
“Carmelo, il sedano fragola, Penelope la ragna e Riccardo, il riccio bugiardo” filastrocche inedite di Cecilia Turino – Frattaminore (NA)
“ Amore su petali di rosa” raccolta edita di poesie di Barbara Baka – Carapelle (FG)
“C’erano una volta sette nani” filastrocca inedita di Danila Pesce – Savona (SV)
Menzione Speciale a:
“Poesie, Filastrocche, Raccontini per grandi e piccini” libro edito di filastrocche e racconti brevi di Rita Giovanna Cavicchi – Castiglione dei Pepoli (BO)
Segnalazione di merito a:
“ Nonna e Paura” filastrocca inedita di Valerio Falgari – Curno (BG)
“Dimora fiabesca” raccolta edita di poesie di Maria Cristina Biasoli – Molinella (RO)
B) Poesie e Filastrocche a tema libero
“Ricomincio da t(r)e” raccolta di poesie in fase di pubblicazione di Mario Tommasini – Roma (RM)
“Alla periferia del vento” poesia inedita di Stefano Baldinu – S. Pietro in Casale (BO)
“Per voi” poesia inedita di Christian Testa – Villanterio (PV)
Menzione Speciale a:
“Filastroccando – Poesie e filastrocche di Nonnogino” raccolta inedita di poesie e filastrocche di Luigino De Francesco – Torino (TO)
Segnalazione di merito a:
“Unni a biddizza cunforta (Dove la bellezza consola)” poesia in dialetto siciliano tradotta in italiano di Lucia Zappalà -  Istrana  (TV)
  Premi Speciali
   Premio Assoluto della Critica a:
“Note dimenticate nella notte” raccolta poetica inedita di Francesco Ambrosio -  Frattamaggiore (NA)
  Premio Speciale Miglior Giovane Autore a:
“Unica salvezza” poesia inedita di Serena Cola – Meldola (FC)
     Premio Speciale per l’Operato Socio – Culturale a:
Angelo Canino, scrittore (Acri – CS) distintosi per quanto costruito artisticamente e culturalmente negli anni, vincendo tantissimi premi letterari e aderendo in varie manifestazioni di spessore. Poesia scelta come migliore dalla Giuria: “ Ppe cchilli terri (Per quei terreni)” opera inedita in dialetto calabrese tradotta in italiano.
    Premio Speciale della Giuria a:
Lucia Barabino, scrittrice (San Francesco al Campo – TO) per la sua
straordinaria capacità creativa e la sua estrema bravura mista a sensibilità nello scrivere testi per grandi e piccini. Testo scelto come migliore dalla Giuria: “L’albero nel bosco” filastrocca inedita.
“Kerstonville, segreti di contea” romanzo inedito di Silvia Turello – Siderno (RC)
C) Sezione Racconti e Fiabe a tema fantasy
“Sara e i mille mila” fiaba edita di Gabriele Missaglia – Dizzasco (CO)
“Ascoltate la biblioteca” racconto inedito di Gabriele Andreani – Pesaro (PU)
“Agata delle farfalle” fiaba inedita di Clara Guareschi – Varallo (VC)
Menzione speciale a:
“Misha l’orsetto magico” fiaba inedita di Giovanni Saia – La Spezia (SP)
  Segnalazione di merito a:
“Diario di un tirannosauro vegetariano” racconto fantasy inedito di Gabriele Di Fazio – Marino (RM)
D) Sezione Racconti e Romanzi a tema libero
“La rosa sott’acqua – Storia di una vita negata” racconto inedito di Cristina Manzo – Lecce (LE)
“La rosa bianca di Izmir – Oltre il velo della paura ” romanzo edito di Anna D’Auria – Gragnano (NA)
“Raggio di luce” romanzo edito di Matteo Molino – Milano (MI)
Menzione speciale a:
“Augustus Darius” romanzo inedito di Angelo Dario Garziano – Mazzarino (CL)
Segnalazione di merito a:
“La ragazza e il cavaliere” romanzo inedito di Cristina Mora – Luserna San Giovanni (TO)
   Premio Finalisti
“Cassandra e Isabeau” racconto inedito di Alessandra Peretti – Amandola (FM)
“L’arte di Howth (Tratto da una storia vera)” racconto inedito di Anna Ferriero – Torre del Greco (NA)
“Le avventure di Rapetta” raccolta inedita di racconti di Paola Ercole – Roma (RM)
“Il marziano Baffi Blu” filastrocca inedita di Barbara Barducco – Rivarossa (TO)
“La mia follia” monologo teatrale inedito di Rodolfo Andrei – Roma (RM)
“Il peso della solitudine” raccolta poetica di Roberta Matassa – Bari (BA)
“Anche l’ospedale è bello...se si muta in un castello” filastrocca inedita di Sergio Giovannetti – Vinci (FI)
“Il brutto anatroccolo (Favola rap) favola inedita in versi di Veruska Vertuani – Aprilia (LT)
“Era notte a Roma” racconto edito di Laura Marcucci – Roma (RM)
“La strega presuntuosa” filastrocca inedita di Caterina Giannini – Roma (RM)
“Immensa” racconto inedito di Chiara Mari – Losanna Svizzera (VD)
“Il Natale delle fiabe” filastrocca inedita di Patrizia Birtolo – Giussano (MB)
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carmenvicinanza · 11 months
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Alejandra Pizarnik
https://www.unadonnalgiorno.it/alejandra-pizarnik/
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Credo che nelle mie poesie ci siano parole che ripeto incessantemente, senza tregua, senza pietà: quelle dell’infanzia, quelle delle paure, quelle della morte, quelle della notte, dei corpi. Scrivere una poesia è riparare la ferita fondamentale, lo squarcio.
Alejandra Pizarnik, poeta e traduttrice, è stata una delle voci più intense e originali del Novecento argentino.
Chiusa in articolati labirinti, coraggiosa nel delirio, accesa, ha vissuto senza sostegni, consegnandosi cruenta, fino a soccomberne, scrivendo fino all’ultimo istante. Ha tentato di placare, attraverso una passione ossessiva per la lettura e la scrittura, un vuoto interiore, fatto di inquietudine e disagio.
Bisessuale, dipendente dai farmaci, ha incarnato lo spirito libero, vissuto e sentito senza filtri, vulnerabile soprattutto di fronte a se stessa.
La poesia ha rappresentato, per lei, la vita negata. La sua ricerca di “perfezione poetica” era in contrasto con ciò che viveva, perennemente incompiuto.
Nata a Buenos Aires, in Argentina, il 29 aprile 1936, in una famiglia di ebrei russi, durante l’infanzia ha sofferto di parecchi disturbi fisici e un senso di inadeguatezza e estraneità che l’hanno portata a fare uso di anfetamine. La ricerca di identità è stata un’importante causa del suo complesso e disperato approccio all’esistenza che l’ha accompagnata per tutta la vita.
Ha studiato Lettere e Filosofia e, in seguito, Pittura con Juan Battle Planas.
Ha vissuto a Parigi dal 1960 al 1964, dove ha studiato storia delle religioni alla Sorbonne e lavorato per alcune case editrici e collaborato con diverse riviste letterarie.
I suoi primi maestri sono stati gli esponenti del surrealismo, sebbene avesse anche una notevole fascinazione per l’esistenzialismo e la psicoanalisi.
Ha tradotto autori come Antonin Artaud, Aimé Césaire, Yves Bonnefoy e altri.
La Ville Lumière è stata un rifugio letterario ed emotivo, il luogo dove ha conosciuto importanti intellettuali come Simone de Beauvoir, Georges Bataille, Italo Calvino, Ivonne Bordelois e il poeta messicano Octavio Paz, che scrisse il prologo ad Árbol de Diana, la sua quarta raccolta di poesie.
Nel 1962 ha conosciuto la poetessa italiana Cristina Campo, per cui provava una profonda attrazione e con cui si è scambiata poesie e lettere fino al 1970. A lei ha dedicato la poesia Anelli di cenere.
Il rientro in Argentina produsse i suoi principali testi quali I lavori e le notti, Estrazione della pietra della pazzia e L’inferno musicale.
La sua unica opera in prosa è stata La contessa crudele (o sanguinaria), del 1969. Un’inquietante profezia dello sterminio che, di lì a poco, ha violentato la gioventù del suo paese e fatto scempio della sua innocenza.
Nello stesso anno è stata a New York per ricevere la borsa di studi Guggenheim, tornandone frastornata dalla “ferocia insostenibile” della città. Dopo due anni ha vinto anche la borsa di studio Fulbright.
Per un periodo ha vissuto con la sua compagna, la fotografa Martha Isabel Moia.
Dopo un altro breve e deludente soggiorno in Francia, è tornata in Argentina, dove è iniziato un processo di chiusura e disgregazione, acuito dalla dipendenza dai farmaci e culminato in due tentativi di suicidio e un lungo internamento in una clinica psichiatrica.
È morta a Buenos Aires il 25 settembre 1972, dopo aver ingerito cinquanta pastiglie di barbiturici, mentre era in permesso dalla clinica. Aveva 36 anni.
Dopo la sua morte, l’amico e scrittore argentino Julio Cortázar le ha dedicato la poesia Aquí Alejandra.
Negli anni, sono stati pubblicati i suoi diari e altre opere rimaste inedite, a testimonianza del fatto che non è mai stata dimenticata e che la sua scrittura è ancora oggi molto apprezzata e letta.
Se c’è una ragione per la quale scrivo, è perché qualcuno mi salvi da me stessa.
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dedoholistic · 5 months
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Il Salotto Virtuale di Maria Teresa De Donato su Mobmagazine presenta:
“I Fiori dell’Impero – di Cao Shui” ǀ Recensione di Maria Teresa De Donato
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magicnightfall · 1 year
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ONCE UPON A MIDNIGHT DREARY, WHILE I PONDERED, WEAK AND WEARY
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Mezzanotte. C’è un orario più suggestivo? È un varco, la soglia tra ciò che è stato e ciò che sarà; l’ora in cui termina l’incantesimo della fata madrina di Cenerentola; l’ora dei baci di cui il Quartetto Cetra metteva in guardia; l’ora in cui si attiva l’assicurazione dell’auto e quella dopo la quale è consigliabile non dar da mangiare ai gremlin, ed è l’ora che se c’è qualche evento che ti interessa non sai di preciso in quale giorno scriverlo in agenda. Tutte cose che sarebbero prive della stessa suggestione se accadessero, che ne so, alle ore dieci, ore due, un quarto alle tre, tour jeté, doppia piroetta, contropiroetta, pas de deux, figura della teiera, caricamento finale ed eccola che vola!
La mezzanotte è anche l’ora in cui Edgar Allan Poe meditava stanco e affaticato sopra un raro codice obliato, e si può dire che Taylor Swift abbia fatto più o meno la stessa cosa, ma coi gatti sul letto in luogo del corvo appollaiato sul busto di Atena.
Per sua stessa definizione, Midnights, il suo decimo album, è infatti “una raccolta di musica scritta nel cuore della notte, un viaggio tra terrori e dolci sogni. I pavimenti su cui camminiamo avanti indietro e i demoni che affrontiamo.”
Un “concept album”, insomma, che ha ad oggetto quel che la tiene sveglia la notte, tra dubbi, sensi di colpa, desideri di rivalsa, tragedie, amore e sguardi speranzosi al futuro.
Direi a buon diritto una ponderazione, di chi, insonne, cerca se stesso e spera di trovarsi allo scoccare delle dodici. Speculazioni, perfino, di cosa avrebbe potuto e dovuto essere, in un ricorso alle ipotesi che si trova non solo nel titolo della sesta traccia dell’edizione 3am, Would’ve, Could’ve, Should’ve, ma anche nei ritornelli di Bigger Than The Whole Sky.
L’album raccoglie riflessioni che originano in vari periodi della sua vita, remoti e recenti, e musicalmente e testualmente è pieno di richiami (qualcuno più palese di altri) alle ere passate (su tutti: quel’”I remember”, seppur distorto, di Question…? è lo stesso di Out Of The Woods), come se una sorta di filo invisibile legasse tutte queste canzoni a quelle precedenti. 
In effetti, la prima cosa che ha attirato la mia attenzione è stato il sound, nuovo ma al contempo in buona misura familiare, un sound che per forza di cose ha trovato una sua originalità e individualità con il progredire degli ascolti, ma che di primo acchito mi ha fatto pensare a 1989 e a Lover. 
D’altronde, per quanto Taylor sia solita sperimentare, non si può dire che vi sia mai stata una cesura così netta o cambi di rotta così drastici da disancorarla dalla sua consolidata poetica. La sua carriera potrebbe dirsi un albero che per quanto presenti ramificazioni e innesti e grovigli, comunque per forza poggia su un tronco portante, a sua volta radicato a un concetto di base; se vogliamo un vero e proprio fulcro: l’attingere al proprio vissuto, mettendo in scena il personale con una notevole dose di schiettezza, nell’incessante ricerca della catarsi. E non è, questo, un mero marchio di fabbrica della Taylor cantautrice: è proprio la sua filigrana, sia che si tratti della Taylor “campagnola” del debutto o di quella accademicadellacrusca del duo folklore/evermore.
Sennonché la catarsi, pur nascendo nell’intimità di una singola persona, smette quasi subito di essere purificazione individuale e sublima in universale, diventando patrimonio di chiunque le sue canzoni le ascolti, che abbia o no vissuto esperienze analoghe o almeno assimilabili. A volte — perlomeno è così per me — è semplicemente il suo modo di vedere le cose o di interpretare la vita che mi fa partire per la tangente e mi consente di ragionare sulle mie questioni, che con le sue sono affini tanto quanto un pesce è affine a una bicicletta. Per esempio io, a forza di ascoltare it’s time go e a farmi certi piantoni nel parcheggio, ho raggiunto l’illuminazione come Buddha (ancora non c’era l’inflazione energetica) e ho trovato il coraggio di cancellarmi dall’albo degli avvocati. No, per dire.
In questo caso specifico è stata You’re On Your Own, Kid a mandarmi il cervello in ebollizione, e chissà quale altre drastiche decisioni mi attendono in futuro “solo perché me l’ha detto Taylor Swift”. Madò, manco fossi entrata in Scientology.
Ora, fatte queste dovute premesse, direi che è il caso di tuffarsi senza ulteriori indugi nella mia personalissima esegesi di ‘sto fracco di canzoni (ventuno, mortaccisua, qua c’è gente che ha stipendi da guadagnare e telefilm da guardare), continuando una tradizione che ha compiuto dieci anni proprio questo ottobre, inaugurata col tomone su Red.
Ma vi devo avvertire: non vi piacerà proprio tutto tutto quello che troverete scritto qui di seguito. Perciò accendete le torce e affilate i forconi, e in caso venitemi a cercare che facciamo a botte sulle divergenze dogmatiche che ci separano. Prima, però, dear reader(s), beccatevi
il Tomone 7.0.™ MIDNIGHTS BECOME MY AFTERNOONS
Lavender Haze
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Zoë Kravitz, Mark Spears, Jahaan Sweet, Sam Dew]
“Lavender haze” è un’espressione degli anni ’50 del Novecento usata per descrivere l’essere innamorati. E uno dice, vabbè, sticazzi. E infatti non è tanto questo ad avermi colpito, ma che sia andata a pescarla da un telefilm, Mad Man. È un po’ come se io scrivessi una canzone e la chiamassi “Scrocchiazzeppi”, che è una parola che ho sentito in Distretto di Polizia.
Di tutto il cucuzzaro, questa è tra le canzoni che mi piacciono di meno, anche se in effetti farei prima a elencare quelle che mi piacciono. Ecco, si doveva dire e si è detto.
Ignoro addirittura quante volte abbia dovuto ascoltarla per scriverci sopra due righe visto che la trovo così poco memorabile che ogni volta che arrivavo alla fine non mi ricordavo nemmeno di averla fatta iniziare, e dovevo — Iddio me ne scampi e liberi — sorbirmela daccapo (poffare! Volano parole mordaci!).
Di più: è la traccia di apertura, su cui grava la responsabilità di fare strada a tutte quelle che seguono, è quella che indirizza il primo (quantunque acerbo) giudizio sul resto del disco. Ecco, a me quel primo giudizio veicolato da Lavender Haze è stato di noia tendente a "maccheèstammerda" "mmh, bruttino". Sì, per carità, un pregiudizio che ha avuto modo di evolvere e in parte ribaltarsi man mano che ho approfondito gli ascolti, ma di cui Lavender Haze è abbastanza responsabile. È pur vero che se come traccia di apertura ci fosse stata Midnight Rain avrei tirato il disco dalla finestra ancora prima di arrivare alla numero due.
Tematicamente, la canzone riprende concetti che già presenti in reputation: i versi “I’ve been under scrutiny / You handle it beautifully” e “They're bringing up my history / But you weren't even listening” sono speculari a “My baby's fly like a jet stream / High above the whole scene” di Call It What You Want e “And here's to my baby / He ain't reading what they call me lately” di This Is Why We Can’t Have Nice Things, e in essi emerge tutta la gratitudine di avere al proprio fianco una persona che se ne frega del delirio che le ruota intorno, tra media ossessionati, haters squinternati e fan sciroccati.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 4 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I'm damned if I do give a damn what people say” Maroon
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Dal (color) lavanda si passa al rosso. Rectius: a cinquanta sfumature di rosso (su per giù). Alcune sono menzionate per il tramite di aggettivi: rosé (rosato, qui sostantivato a indicare il vino), burgundy (borgogna), scarlet (scarlatto), maroon (granata); altre invece a mezzo di sostantivi indicanti cose che hanno in comune il colore nelle sue gradazioni: blood (sangue), rust (ruggine), carnations (garofani), roses (rose), rubies (rubini).
Il rosso è un colore caro alla poetica swiftiana, a partire dall’album eponimo, Red, ed è il colore che per eccellenza individua la passione, quello che rappresenta un sentimento acceso, dirompente, eclatante, sia nel bene sia nel male. E infatti in quell’album le sue esperienze e l’amore vengono raccontati con aggettivi perentori (burning, sad, beautiful, tragic, happy, free, confused, lonely, treacherous, reckless). Se mi passate la metafora starwarsiana, la Taylor del 2012 era un Sith che viveva di assoluti.
In questa canzone, invece, quel che colpisce sono le tonalità con cui il sentimento è descritto: si abbandonano i termini categorici e si ammette e riconosce che l’amore vive diversi gradi di intensità: dalla leggerezza del rosato al parossismo dello scarlatto, dal livido del borgogna alla ricchezza del rubino, e tutto il resto del cucuzzaro che passa in mezzo. E può accadere, come qui è accaduto, che quei colori affievoliscano insieme al sentimento stesso: un po’ come il sangue, che dapprima sgorga rosso intenso ma poi si ossida e diventa marrone. Qui non soltanto ci viene esplicitamente detto che la relazione è in qualche modo finita (“And I lost you”; “And I wake with your memory over me”) ma ci viene anche visivamente suggerito con l’eloquente immagine della ruggine sui telefoni (tanto a livello cromatico, un bruno rossastro non certo vivido, quanto a livello squisitamente simbolico, di corrosione e indice di poca “manutenzione”). Anche i garofani scambiati per rose potrebbero essere sintomatici di qualche problema: sebbene entrambi i fiori rappresentino e significhino l’amore in vario modo, di certo confonderli tra loro potrebbe voler alludere a qualche sorta di inganno, o di equivoco, o di illusione. Peraltro, “Garofani rossi per te / ho comprato stasera” suona proprio male.
#AlcoholicCount: 2 (rosé, wine)
#CurseWordsCount: 5 (cheap-ass, shit, fuckin’ x2)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And I wake with your memory over me / That's a real fuckin' legacy, legacy” Anti-hero
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Nelle narrazioni, l’antieroe è un personaggio archetipico frequentemente confuso con l’antagonista, il cattivo, qualcuno che svolge la sua funzione narrativa in aperta opposizione all’eroe (colui che muove la storia), ostacolandone i tentativi di quello di raggiungere gli obiettivi che si è dato. Normalmente l’antagonista si pone in contrasto con le caratteristiche e le istanze positive che fanno capo a quest’ultimo, in una sorta di dialettica hegeliana. 
Ecco, l’antieroe non è nulla di tutto questo: non è l’opposto dell’eroe ma un suo tipo particolare, in un rapporto di genus e species. Christopher Vogler, nel suo “Il viaggio dell’eroe” (Dino Audino Editore, 2017, pag. 43) suddivide l’archetipo in due categorie: da una parte, “personaggi che si comportano come eroi convenzionali ma hanno una forte impronta cinica”; dall’altra personaggi tragici, “figure centrali di una storia che potrebbero non piacere e non essere ammirate e le cui azioni potrebbero persino essere biasimate”. In particolare, questi ultimi “non sconfiggono i loro demoni interiori e ne sono colpiti e distrutti”.
L’“anti-hero” con cui si identifica Taylor in questa canzone rientra evidentemente nella seconda categoria: l’invecchiare senza contestualmente maturare (“I have this thing where I get older, but just never wiser”), il complottare (“my scheming”), il darsi alla macchia con le persone (“All of the people I've ghosted stand there in the room”), il narcisismo dissimulato e travestito da altruismo (“Did you hear my covert narcissism / I disguise as altruism like some kind of congressman?”), sono tutti comportamenti o difetti che ben si attagliano all’archetipo di cui si sta cantando. Peraltro, se Vogler ritiene che questo archetipo sia spesso incapace di vincere i propri demoni, ecco che in qualche modo Taylor conferma la teoria quando mette in bocca ai propri immaginari parenti la frase “She's laughing up at us from hell!”. E sì, per quanto le lamentele dei familiari delusi dal de cuius durante la lettura del testamento lascino il tempo che trovano, la possibilità — anche solo remota — che sia finita all’inferno non depone certo a favore di qualcuno che abbia superato i propri difetti.
L’antieroe è, anche per questo, una figura con la quale si tende a empatizzare. Ritengo che il picco dell’empatia qui avvenga nella seconda strofa: con pochi versi suggestivi e visivamente evocativi — un “mostro” impossibile da uccidere e troppo grande (direi nel senso di “impegnativo”) da frequentare, che dalla collina barcolla in direzione della città pronto a distruggere tutto sul suo cammino — ci viene spiegato cosa si prova a perdere il controllo della propria immagine e di come l’idea che gli altri (i media soprattutto) hanno di lei prende il sopravvento e travolge (o rischi di travolgere) tutto quanto: la sua vita, la sua relazione, le sue amicizie, la sua stessa personalità.
Questa canzone per me vince il jackpot. È la mia preferita a mani basse, bassissime. Così basse che posso quasi dare il cinque a Taylor all’inferno.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 1
#FavLyrics: “I have this thing where I get older, but just never wiser / Midnights become my afternoons” Snow On The Beach feat. Lana Del Rey
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Lana Del Rey]
Servizio catering Del Rey & co., disponibili per compleanni, cerimonie civili e religiose e cene aziendali. No, perché è un po’ così che mi immagino il contributo di Lana Del Rey a questa canzone: l’aver portato i cappuccini in studio di registrazione. Ochèi, ochèi, in realtà la si nota (con delle belle cuffie) nell’armonizzazione delle due voci, impalpabile e fuggevole… come neve sulla spiaggia.
La canzone racconta di un innamoramento simultaneo di due persone, un’esperienza ritenuta bizzarra ma bellissima come quando nevica al mare (evento atmosferico voluto dalla lobby dei ristoratori marittimi che così possono appendere la foto sulla parete vicino a quella col vip della tv che era entrato per usare il bagno una volta), descritto con l’uso sapiente di uno stesso verbo — to fall — che ha due significati: cadere (la neve, appunto) ma anche innamorarsi.
Ora, devo ammettere che su questa canzone non riesco a decidermi: non la trovo necessariamente brutta, al più noiosa, ma in ogni caso — sia che piaccia sia che non piaccia — penso che saremo tutti concordi nell’ammettere che abbia il peggior bridge di sempre, ancora peggiore di quello di Cuernavaca, Messico, che è crollato il giorno dell’inaugurazione facendo precipitare nel fiume sindaco e giornalisti. ¡Ay, caramba! 
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 3 (fuckin’)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Life is emotionally abusive” You're On Your Own, Kid
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Anti-hero è la mia preferita ma vince su questa davvero di pochissime lunghezze; perfino con la moviola sarebbe difficile stabilirne il primato.
You're On Your Own, Kid è un ottimo esempio per spiegare quello che intendevo nell’introduzione, quando dicevo che non importa quanto le mie esperienze di vita c’entrino un cactus con le sue, perché bene o male c’è sempre, in uno dei suoi versi, qualcosa che mi illumina sulla via di Damasco. Per esempio, che c’entro io con lo struggermi romanticamente per qualcuno che non mi nota (“I wait patiently / he's gonna notice me / It's okay, we're the best of friends), o a cui non frega proprio nulla (“Just to learn that you never cared”), o coi disturbi del comportamento alimentare (“I search the party of better bodies”; “I hosted parties and starved my body”)? Zero, zip, zilch, nada, niente. Eppure questa canzone mi fa partire per la tangente, perché quell’“you’re on your own, kid” mi apre un intero universo di consapevolezza che va ben oltre la narrazione della sua vita che fa nella canzone.
Anche nel suo discorso per la sua laurea honoris causa all’New York University (io me sò laureata a quella de Macerata, altro che Grande Mela, e ho pure dovuto studiarci sopra, vedete che siamo proprio agli antipodi?) aveva utilizzato questa stessa espressione. Lì prendeva le mosse da un discorso di venti minuti (tra i più belli che abbia mai ascoltato) rivolto a chi aveva appena raggiunto quel traguardo davanti al quale si spalanca quella vita adulta di cui finalmente si può prendere le redini (per quanto spaventoso possa essere): “The scary news is, you’re own your own, now. But the cool news is, you’re own your own, now!”.
Qui la medesima saggezza origina da un luogo diverso, e sebbene parta da altre premesse, altre esperienze, altri presupposti, in ogni caso è carica della medesima accezione positiva che echeggia nel discorso di laurea. Il brano, che attraversa emozioni come la speranza (nelle prime due strofe) e la disillusione (in tutto il resto eccettuato il finale), da ultimo lascia cadere il velo di Maya di schopenhaueriana memoria e arriva a una realizzazione potentissima (“And I saw something they can't take away”) che ribalta il significato — di sconforto dato dal sentirsi soli e abbandonati, di non avere altro che se stessi nel senso più negativo possibile — di tutti quegli “you’re own your own, kid” cantati fino a quel momento: è un invito a essere demiurghi del proprio destino, una volta capito che in qualcosa di perso può celarsi qualcosa di guadagnato, o che in un capitolo che si chiude si nasconde la possibilità di un rinnovamento positivo (“'Cause there were pages turned with the bridges burned / Everything you lose is a step you take”). E, quel che è più importante, non c’è motivo di avere paura perché… sei per conto tuo. 
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “From sprinkler splashes to fireplace ashes / I called a taxi to take me there / I search the party of better bodies / Just to learn that my dreams aren't rare” Midnight Rain
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Midnight Rain ha lo stesso problema di Lavender Haze: non ha nulla che me la renda memorabile. A differenza dell’altra, però, che almeno è orecchiabile, questa per me è lacunosa anche in quel dipartimento. Manca senza dubbio di un climax (e il paragone con You're On Your Own, Kid, che la precede, è inevitabile) e sebbene parecchie altre canzoni in questo album non siano necessariamente dirompenti nei bridge e nelle variazioni, questa qui è monotona e incolore nella sua interezza. E non è nemmeno anticlimatica, perché l’anticlimax implicherebbe una digradazione da un punto alto a uno più basso, cosa possibile solo se c’è effettivamente un punto alto da cui scendere: qui è elettroencefalogramma piatto dall’inizio alla fine. Onestamente non credo che mi capiterà di ascoltarla anche solo un’altra volta in un futuro prossimo, in uno remoto e in tutti i futuri che stanno in mezzo.
(Taccio sulla voce distorta perché a questo punto sarebbe come sparare sulla Croce Rossa).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 1 (il mio, e questa canzone è l’arma del delitto)
#FavLyrics: “My town was a wasteland / Full of cages, full of fences / Pageant queens and big pretenders” Question...?
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Questa canzone parla di due persone precedentemente coinvolte in una relazione amorosa che hanno preso strade diverse; ma una delle due (e ti pare che non era la gattara) è ferma a rimuginare e chiede all’altro se con la sua nuova fiamma abbia già vissuto quanto vissuto con lei.
Oltre all’“I remember” di Out Of The Woods, c’è un verso (“Painted all my nights / A color I have searched for since”) che richiama quanto già espresso in uno di illicit affairs (“You showed me colors you know I can't see with anyone else”).
#AlcoholicCount: inquantificabile (one drink after another)
#CurseWordsCount: 3 (fuckin’ x2, dickhead)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Painted all my nights / A color I have searched for since” Vigilante Shit
[Taylor Swift]
Una canzone dalle vibes fortemente noir, tanto nel testo e nel modo in cui è cantato (lento, deliberato), quanto nella melodia. E visto che me l’hanno inopinatamente cancellata, fingerò che valga come terza stagione di Why Women Kill.
Il brano ricorda per forza di cose no body, no crime, dove Taylor si era incaricata di farsi giustizia da sé — e infatti qui dice che è “on my vigilante shit again”. Tuttavia, se là era giudice, giuria e, soprattutto, boia, qui si limita alla delazione: tanto all’FBI, a cui vengono spifferati crimini da colletto bianco dell’uomo di cui intende vendicarsi, quanto alla moglie di quest’ultimo, la quale, al termine di un bel divorzio, alla fine si becca casa, figli e Mercedes.
In effetti, sembra anche — e forse lo è davvero — il prosieguo e la conclusione di mad woman: lì infatti si dichiara che, nonostante la società disapprovi le donne arrabbiate, non si dimenticheranno i torti subiti e prima o poi si reagirà (“Does a scorpion sting when fighting back? / They strike to kill and you know I will”; “My cannons all firing at your yacht / They say «move on» / But you know I won’t”; “And you'll poke that bear 'til her claws come out”). E in Vigilante Shit, spiffera di qua e spiffera di là, si è senz’altro agito. Di più, in entrambe le canzoni si menziona una moglie tradita (probabilmente sempre la stessa, e vien da pensare a quella di Scooter Braun, peraltro con un giudizio pendente a suo carico per qualche imbroglio su dei fondi di investimento). Insomma, due più due fa quattro e i conti tornano perfino a me che al liceo sono uscita con tre in matematica. 
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 4 (shit)
#MurderCount: nessuno, ma dice che potrebbe provare, e pertanto risponderebbe di delitto tentato qualora compisse atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, se l’azione non si compie e o l’evento non si verifica.
#FavLyrics: “And I don't dress for villains / Or for innocents / I’m on my vigilante shit again” Bejeweled
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
«Cosa? Che cosa? È un’ora che ti aspetto! Non è possibile, tu non sei al lavoro! Ma come non vieni? Ah sì? E io sai cosa ti dico? Adesso esco e vado col primo che incontro!» «Buonaseeera!»
L’avreste mai detto che lo spot del 2001 della Fiat Punto avrebbe anticipato una canzone di Taylor Swift? Qui siamo ben oltre le previsioni fatte dai Simpson; persino Nostradamus e Beda il Venerabile impallidiscono in confronto.
Perché proprio come la ragazza della pubblicità, anche Taylor lamenta un evidente mancanza di interesse da parte del suo “baby boy”: di più, si rende proprio conto di non essere una priorità per l’altra persona (“Putting someone first only works when you're in their top five”; “Don't put me in the basement / When I want the penthouse of your heart”), mentre per lei è l’esatto contrario (“Did all the extra credit then got graded on a curve”; “I made you my world / Have you heard?”). 
Soprattutto, capisce anche che è ingiusto lasciarsi offuscare quando in realtà si dovrebbe brillare (“And I miss you / But I miss sparkling”), perché brillante è proprio ciò che si è (“What's a girl gonna do? / A diamond's gotta shine”; “Best believe I'm still bejeweled / When I walk in the room / I can still make the whole place shimmer”). Una dichiarazione ontologica, quella, già presente in All Too Well (10 Minute Version) (Taylor's Version) (From The Vault) (“The idea you had of me, who was she? / A never-needy, ever-lovely jewel whose shine reflects on you”) e in mirrorball (“Drunk as they watch my shattered edges glisten”).
E allora sai cosa? E allora sticazzi, “I’m going out tonight” e, a seconda di come mi gira, deciderò se ricordarmi o no di te (“And when I meet the band / They ask, ‘Do you have a man?’ / I could still say, ‘I don't remember’” — e da uno smaliziato ma piuttosto innocente “non mi ricordo” al ben più drastico e già rodato “ho scordato che tu sia mai esistito” il passo è breve).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Sapphire tears on my face / Sadness became my whole sky” Labyrinth
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Taylor, gattara pazza de mi corazón, perché, perché ancora con ‘sta voce distorta che me pare quando te se scaricavano le batterie del walkman?
Ora, se sia per caso o per complotto non lo saprei dire, ma tutto quello che ho detto per Midnight Rain vale anche per questa canzone, e anche qui ogni volta che arrivo alla fine mi viene da pensare “Bene, e quindi? Finisce così? Addirittura quattro minuti per non dire assolutamente niente?”. 
Questa, però, nonostante tutto mi piaciucchia, di sicuro più di Midnight Rain, ma ogni volta che penso “Ochèi, forse l’ho giudicata male, in effetti è bellina” arriva quella orribile distorsione che pare che a parlare sia un pentito di mafia a cui hanno camuffato la voce per non farlo riconoscere dai sicari del boss ed ecco che se ne va il beneficio del dubbio.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I thought the plane was going down / How'd you turn it right around?” Karma
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Mark Spears, Jahaan Sweet, Keanu Torres]
Stavo lì a sforzarmi di ricordare se abbia mai visto il karma in azione in prima persona e mi sono ricordata di quando una macchina sulla strada per Macerata (che è tremenda, tutta curve e saliscendi e trattori che vanno a due ed è un attimo che finisci dentro a un campo) correva e sorpassava come chi ha appena mangiato il pesce crudo a Gubbio e cerca disperatamente di raggiungere il cesso più vicino, salvo poi venir fermata dai Carabinieri che stavano appostati in fondo alla discesa. Non so se conti come allineamento karmico, però è stato un momento piuttosto soddisfacente.
A naso, credo che TS non abbia scritto questa canzone in riferimento ai sorpassi selvaggi, ma d’altronde, come dicevo, io e lei abbiamo esperienze di vita ben poco paragonabili. Il concetto di base che tratta la canzone — vedere con soddisfazione che chi ha seminato vento finalmente raccoglie tempesta — però, arriva forte e chiaro. 
L’idea del karma non è estranea a Taylor, che già lo menzionava espressamente in Look What You Made Do: “The world moves on, another day, another drama, drama / But not for me, not for me, all I think about is karma”. In questo brano, però, non lo si cita soltanto di sfuggita ma lo si sviscera, in quello che è e in quello che rappresenta. Intanto, lo si descrive attraverso una lunga serie di metafore: un fidanzato, un dio, una brezza, un pensiero rilassante (immagino che infonda una certa tranquillità la convinzione che prima o poi chi ci ha fatto un torto verrà ripagato con la sua stessa moneta), un tuono, una regina e finanche un gatto che le fa le fusa in grembo; e ancora con un paio di similitudini: un acrobata e un cacciatore di taglie.
Volendo, anche Vigilante Shit si può interpretare in senso karmico (perché il cattivo ha avuto quel che si meritava), tuttavia lì c’è un invito a essere concreta parte attiva nel ripristino dell’equilibrio universale (“Don’t get sad, get even”), che mal si concilia con l’idea stessa di karma, basata sull’attesa passiva — ci viene solo richiesto di comportarci rettamente — dell’agire di qualche forza arcana.
Comunque, dal modo in cui si parla del karma in questa canzone, è evidente che lo si ritiene un’entità dai feeenomenali poteri cosmici (tanto che tra i sostantivi che lo descrivono troviamo “dio”, “regina” e “tuono”), implacabile persino (“Karma's on your scent like a bounty hunter / Karma's gonna track you down / Step by step from town to town”), e appunto sarebbe bene evitare di trovarsi sul suo cammino e prenderlo dritto in faccia come un 38 barrato qualsiasi. Ecco perché Taylor dice di tenere pulito il suo lato della strada (“And I keep my side of the street clean”): cioè si comporta in modo che il karma non abbia nulla da rimproverarle. Che è la versione un po’ più igienica del cospargere di sangue d’agnello lo stipite della porta così che l’angelo sterminatore passi oltre e vada a uccidere i primogeniti di qualcun altro. Perché se ci pensate, se pure regolarmente le piove un bel po’ di merda addosso (penso, tra le altre cose, alla famigerata telefonata tagliata e cucita da Kim Kardashian, o a tutta la questione dei diritti dei master), alla fine, poffare!, si scopre sempre che erano gli altri nel torto, non lei. Perché loro, a differenza sua, non sanno cosa voglia dire tenere le strade pulite (“You wouldn't know what I mean”). Mi domando: c’è mica qualche Comune disposto a farla assessora con delega alla nettezza urbana?
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Ask me what I learned from all those years / Ask me what I earned from all those tears / Ask me why so many fade but I'm still here” Sweet Nothing
[Taylor Swift, William Bowery]
Contro il logorio della vita moderna o ti fai un Cinar o ti metti al tuo fianco una persona che da te non pretende altro che uno “sweet nothing”, qualcuno che mentre gli altri fuori sgomitano e spingono se ne sta in cucina a canticchiare.
Quello che più colpisce di questo brano è il bridge, costruito tutto sull’allitterazione delle lettere d, s, r, t (“Industry disruptors and soul deconstructors / And smooth-talking hucksters out glad-handing each other”) suoni di per sé piuttosto duri ma che con la voce delicata di Taylor fanno un bel contrasto, e sembrano quasi una dolce filastrocca. 
Il bridge prosegue poi con “And the voices that implore / «You should be doing more»” , e potrebbe riferirsi alla vita di Taylor posta sotto il costante scrutinio degli altri in quanto personaggio pubblico, della serie che se dovesse fare una donazione a un rifugio per pinguini vittime di incidenti stradali ci sarà sempre qualcuno che si chiederà perché mai non abbia fatto una donazione anche al centro di recupero per dromedari afflitti da ludopatia.
In generale, per chi non è un personaggio pubblico, in ogni caso è facile interpretare quei versi, come anche il ritornello, nell’ottica di un mondo in cui tutti sono in competizione e cercano di prevaricare, in cui lo “sweet nothing” viene demonizzato, con conseguente senso di colpa se non sei produttivo quanto gli altri (“«You should be doing more»”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Industry disrupters and soul deconstructors / And smooth-talking hucksters / Out glad-handing each other / And the voices that implore / «You should be doing more»" Mastermind
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
“Precisamente tra diciotto anni i pianeti si allineeranno senza affanni…” “Ahi, in versi, ahi.” “Di tempo per agire ne avrai a iosa; sguinzaglia i titani, la tua banda mostruosa.”
Una volta anche a me è successo di trovarmi nella stessa stanza con una persona che dici “wow” per via di un raro allineamento planetario, solo che non era una stanza ma un autobus urbano a Milano, e non era per un raro allineamento planetario ma per un ordinario ritardo mostruoso del Frecciarossa su cui avevo viaggiato. Uh, e la persona che dici “wow” era Emanuela Pacotto, e racconterò questa storia fin sul letto di morte, mio ma anche di chiunque altro (con mia madre, sull’autobus con me che “Ma chi conosci a Milano? Era una tua amica di scuola forense?”).
Questa canzone riprende la confessione che Taylor ha già fatto in Anti-hero di essere una persona che pianifica ogni mossa, ogni dettaglio, che nulla di quello che accade e la riguarda è accidentale ma frutto di qualche suo machiavellico complotto. Un po’ la Flintheart Glomgold de noantri, ma senza l’accento scozzese.
Mastermind è la traccia di chiusura dell’album e, come quella di apertura, è sciapa allo stesso modo. È simpatica, ochèi, e parecchio orecchiabile, ma di sicuro nulla di più di questo.
#AlcoholicCount: 2 (liquor, cocktails)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “No one wanted to play with me as a little kid / So I've been scheming like a criminal ever since” Hits Different [Target deluxe edition]
[Taylor Swift, Aaron Dessner, Jack Antonoff]
Come Ponzio Pilato, anche Taylor “se ne lava le mani”, salvo poi trascorrere i successivi tre minuti e cinquanta secondi a rimuginarci sopra. “Moving on was always easy / for me to do”, dice. Seee, lallero. Tuttavia questa è una delle canzoni più riuscite di tutto il cucuzzaro mezzanottiano — accattivante, con un bridge travolgente, orecchiabile all’ennesima potenza — quindi chi si lamenta; al più mi lamento che non l’abbiano inserita nell’edizione standard. È frequente che le sue canzoni deluxe siano dei gran pezzoni, basti pensare a Ours, Wonderland, the lakes, right where you left me, it’s time to go; tuttavia gli album di cui quelle sono il complemento (Speak Now, 1989, folklore ed evermore) sono già perfetti così come sono, mentre Midnights avrebbe tratto giovamento da scelte più oculate in termini di tracce: dentro questa e via Snow On The Beach, per esempio, o via Midnight Rain (in realtà Midnight Rain via proprio in generale da ogni piano dell’esistenza). 
#AlcoholicCount:  0
#CurseWordsCount: 5 (shit x3; asshole)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Oh my, love is a lie / Shit my friends say to get me by / It hits different / It hits different this time” The Great War [3am edition]
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
And today we're all brothers Tonight we're all friends A moment of peace in a war that never ends Today we're all brothers We drink and unite Now Christmas has arrived and the snow turns the ground white - Sabaton, “Christmas Truce”
Io sono fissata con la storia, la amo quanto amo i gatti, persino i romanzi che leggo devono essere ambientati almeno dagli anni ’50 del Novecento in giù, altrimenti non mi diverto. E non succederà mai, e dico mai, ne sono consapevole, ma se per caso dovesse accadere che Taylor scriva una canzone che parli effettivamente di un evento storico, uno qualsiasi, cadrei morta stecchita all’istante. Mmmh, Didn’t They? conta? Vabbè. Per ora, comunque, mi dovrò fare una ragione che questa canzone rimandi solo col titolo (o forse no? *wink wink nudge nudge*) alla prima guerra mondiale e non ne racconti in effetti gli accadimenti, come a suo tempo me la sono fatta per la “corsa all’oro” in evermore che era tutt’altra cosa rispetto quella del Klondike di Zio Paperone e di Jack London; ma d’altronde ho due interi album dei Sabaton che soddisfano il mio bisogno di avere musicata la Grande Guerra (Alexa, play “Versailles”).
Ora, questa traccia di apertura dell’edizione 3am fa impallidire Lavender Haze, e non posso fare a meno di pensare a quanto avrebbe potuto cambiare l’intera percezione iniziale che ho avuto di Midnigths se questo brano fosse stato presente all’inizio dell’edizione standard, e invece ecco qua come stiamo, con il mio post più critico di un suo album da dieci anni a questa parte.
Ed è curioso che sia proprio Lavender Haze a tornare in causa, e non tanto perché con The Great War condivide l’essere una traccia di apertura (solo che una è bella e un’altra no), ma perché tematicamente sono in netto contrasto: la prima racconta di quella fase della relazione amorosa in cui tutto è meraviglioso, nella seconda invece la relazione si è trasformata in una guerra e Taylor attinge da un vocabolario specifico, utilizzando termini tipicamente associati ai conflitti e alla morte: la tomba (“Spineless in my tomb of silence”) e anche la cripta (“Screaming from the crypt”), la caduta dei vessilli del nemico (“Tore your banners down”) lo spargimento di sangue (“All that bloodshed”), le bombe (“the bombs were closer”), i soldati caduti (“Soldier down on that icy ground”), le truppe (“So I called off the troops”). 
Sebbene siano numerose nelle sue canzoni le occorrenze per “war”, guerra (la si trova in Innocent, Safe & Sound, Clean, You Are In Love, ivy e long story short), ad oggi in un solo altro caso Taylor aveva fatto uso metaforico dell’immaginario bellico: nelle prime due strofe e nei ritornelli di epiphany. The Great War, invece, è metafora dall’inizio alla fine, proprio come è Miss Americana & The Heartbreak Prince, e per questo è efficacissima nel pennellare un quadro terribile, ben lontano da quella sensazione di pacata contentezza di Lavender Haze.
Ma come tutte le guerre reali, anche quelle metaforiche a un certo punto terminano. La prima guerra mondiale con l’armistizio di Compiègne, quella swiftiana con la realizzazione che il proseguire delle ostilità avrebbe condotto alla perdita definitiva dell’altra persona (“So I called off the troops / That was the night I nearly lost you / I really thought I'd lost you”).
Giunge quindi il momento, come d’altronde è successo anche nella realtà, in cui si giura che non si permetterà mai più che qualcosa di simile accada ancora (“It was war, it wasn't fair / And we will never go back to that”). Se non fosse che la storia è, o dovrebbe essere, magistra vitae: sappiamo bene come “la guerra che porrà fine a tutte le guerre” in questo abbia miseramente fallito e, anzi, le condizioni della resa tedesca e la depressione che ne conseguì portarono infine al collasso della Repubblica di Weimar e all’ascesa del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, con a capo Adolf Hitler, e non serve ricordare cosa sia accaduto dopo. Insomma, visti i precedenti, io comunque andrei cauta nel dire che non si arriverà mai più a una guerra (quand’anche metaforica) simile. Certo, se servisse ad avere un’altra canzone così allora daje Taylor, spara a tutti gli arciduchi che vuoi.
Dicevo che il riferimento alla Grande Guerra potrebbe trovarsi non solo nel titolo. Nell’ultima strofa, infatti, si menziona il papavero (“Place a poppy in my hair”): ora, non so se sia una buffa coincidenza o sia stato inserito consapevolmente (e in questo caso chapeau, anche perché mmmh, di tutti i fiori proprio a quello mi va a pensare?), ma il papavero riveste un ruolo importante nell’iconografia del primo conflitto mondiale. Compare per la prima volta in senso simbolico nella poesia “In Flanders Field”, scritta nel 1915 dal tenente colonnello canadese John McCrae in ricordo di un commilitone caduto nella seconda battaglia di Ypres, in Belgio: “In Flanders fields, the poppies blow”; “We shall not sleep, though poppies grow”. La poesia acquisì ben presto una tale popolarità da ispirare il “remembrance poppy”, un papavero artificiale da appuntare agli abiti che, al termine della prima guerra mondiale, servì a onorare i caduti inglesi e americani, e tutt’ora lo si usa come simbolo commemorativo nelle nazioni del Commonwealth nelle cerimonie del “Giorno della memoria”, che cade l’11 novembre. Vedi a forza di ascoltare i Sabaton la roba che si impara? Alexa, play “In Flanders Field”.
#AlcoholicCount:  0
#CurseWordsCount:  0
#MurderCount: in questa canzone nessuno, ma la prima guerra mondiale ha causato almeno sedici milioni di morti.
#FavLyrics: “All that bloodshed, crimson clover / Uh-huh, the bombs were closer / My hand was the one you reached for / All throughout the Great War” Bigger Than The Whole Sky [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
La peculiarità di questa canzone è quella di essere plasmabile, di adattarsi alla singola, unica, specifica esperienza di chi la ascolta. È una tela bianca, di cui Taylor, che ci ha messo in mano i pennelli, ha solo definito il fulcro: il dolore, la perdita. A cosa si riferisca questo dolore, in cosa consista questa perdita, tuttavia, sta a noi stabilirlo in base al nostro vissuto, lei non ce lo dice. Per questo c’è chi ci ha visto la narrazione di un aborto spontaneo, chi la fine di una relazione (ma per me sarebbe una banalizzazione eccessiva), chi addirittura la perdita della propria identità.
Quale che sia il caso specifico di cui Taylor ha scritto — magari non necessariamente in riferimento a una sua esperienza ma, come nel caso di happiness, a quella di qualcuno a lei vicino — la canzone origina da un retroterra luttuoso secondo me piuttosto evidente. È un racconto tragico, e lo si intuisce già dal primo verso, con la parola “aftermath” — che per definizione riguarda l’indomani di un disastro o di una calamità — posta alla fine della frase a garanzia di maggior enfasi. È accaduto qualcosa di così devastante da averla lasciata senza parole (“No words appear before me in the aftermath”); lei, che, be’, con le parole ci campa. E la tragedia è così totalizzante che la tristezza va a informare ogni singola cosa che Taylor tocca (“Every single thing I touch becomes sick with sadness”).
La seconda strofa, invece, accosta due diverse — e contrastanti — idee di “consequenzialità”: il battito d’ali di una farfalla in Asia (che secondo la teoria del caos porterebbe un tornado in un’altra parte del mondo) e il non aver pregato. In entrambi i casi c’è un rapporto di causa ed effetto, ma se la prima circostanza menzionata esula dal controllo, e per questo ha un respiro “assolutorio” perché nessuno avrebbe potuto farci nulla, la seconda invece si tramuta in devastante senso di colpa. Certo, pregare Dio conduce allo stesso risultato di assoluta inconcludenza che pregare Superman, Topo Gigio, tutte le evoluzioni di Eevee o non pregare affatto, quindi è irragionevole farsi logorare dal rimorso di essere stati manchevoli. Eppure qualcuno potrebbe dire “Ho fatto anche quello. Non è servito a un cazzo [ma va!], ma almeno posso dire di averle provate tutte e non posso rimproverarmi di niente”. Per esempio, in Soon You’ll Get Better dice “Desperate people find faith, so now I pray to Jesus too” perché oh, vedi mai, alla fine cosa mi costa? Qui, invece, ci si rimprovera eccome, forse perché incolparci di una nostra supposta mancanza, qualcosa che se ci fosse stata avrebbe fatto la differenza, allontana da noi l’idea spaventosa che la vita sfugge a ogni nostro tentativo di domarla o di indirizzarla, e che la tragedia che ci ha colpiti sia solo il frutto di un mero tiro di dadi del destino.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Every single thing I touch becomes sick with sadness / ‘Cause it's all over now, all out to sea” Paris [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Avete presente quando in Blank Space mezzo internet aveva capito che un verso facesse “All the lonely Starbucks lovers” anziché “Got a long list of ex-lovers”? Ecco, io qua irrimediabilmente sento “We were in some wharehouse” anziché “We were somewhere else” e mi sfuggiva la ragione per cui avrebbe dovuto trovarsi in un magazzino. Insomma, avrei capito se la canzone si fosse intitolata, che ne so, “Brembate di Sopra”, ma siccome si intitola “Paris” i conti proprio non mi tornavano.
Un’altra cosa che non mi torna, ma stavolta sul serio, è il vino economico, di cui anche in Maroon: perché, con tutti i soldi che ha, questa me beve il Tavernello?
#AlcoholicCount: 5 (wine x2, champagne x3)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Sit quiet by my side in the shade / And not the kind that's thrown / I mean, the kind under where a tree has grown” High Infidelity [3am edition]
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Fedeltà: qualcosa che puoi ricercare in un cane, in un Carabiniere, eventualmente in un cane Carabiniere ma anche in un Carabiniere cane (il primo in senso cinofilo, l’altro in senso cialtrone), in un marine, in un impianto stereo e nella tessera punti del supermercato, ma non in una canzone di Taylor Swift. Infatti la fedeltà, o, meglio, la sua carenza, è un tema che è già stato sviluppato — vuoi in modo approfondito, vuoi soltanto en passant — in parecchi suoi brani: dalla ormai remotissima Should’ve Said No fino ad arrivare al blocco indie di august; betty; illicit affairs; mad woman; no body, no crime; ivy, passando per Better Than Revenge e Girl At Home.
High Infidelity, come già illicit affairs, è esplicita del tema fin dal titolo, ma se in illicit affairs è evidente il senso di colpa che permea l’intera canzone per un comportamento che si sa sbagliato, qui il tradimento invece è vissuto come qualcosa di inevitabile in una relazione ormai danneggiata (“Lock broken / Slur spoken / Wound open”; “Your picket fence is sharp as knives”), salvifico addirittura (“Do I really have to tell you how he brought me back to life?”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: nei fatti nessuno, però potrebbe essere un campanello d’allarme il fatto che rifletta sui modi in cui si può uccidere una persona amata, quindi la gattara potrebbe essere destinataria di una misura di sicurezza praeter delictum.
#FavLyrics: “You know there's many different ways that you can kill the one you love / The slowest way is never loving them enough” Glitch [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Sam Dew, Mark Anthony Spears]
Questa canzone sconfessa quanto detto in Mastermind: se là l’amore sbocciato era frutto di una macchinazione, qui invece è il risultato di un errore imprevedibile del sistema TS, di un comportamento anomalo del programma (“We were supposed to be just friends”; “I was supposed to sweat you out”; “I think there's been a glitch”). In questo senso, quindi, è simile a Paper Rings quando dice “I hate accidents except when we went from friends to this”.
Comunque, te guarda la vita quanto è balorda: io quest’estate, per un glitch del sistema, nella domanda di partecipazione a un concorso pubblico mi sono vista sparire il campo compilato relativo al possesso della laurea, titolo che dava due punti secchi, il che ha portato, cinque giorni prima dell’orale, all’invio di una pec impanicata a mezzanotte (almeno io e TS triboliamo agli stessi orari) in cui dimostravo in tutti i modi la sussistenza del requisito (“Ce l’ho la laurea, ce l’ho, me ne sono pentita ma ce l’hoooo”); quest’altra, invece, per un glitch del sistema, trova l’amore. Come disse Scarlet Witch, it doesn’t seem fair.
(comunque poi i punti me li hanno riconosciuti) (e da quella graduatoria poi sono stata pure assunta)
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “In search of glorious happenings of happenstance on someone else's playground” Would’ve, Could’ve, Should’ve [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Il proverbiale senno di poi di cui sono piene le fosse, che ai comuni mortali consente una ponderazione sulle scelte passate, e a Taylor Swift pure, ma a lei, in aggiunta, consente anche di scrivere canzoni che definire spettacolari è dire poco. Io, purtroppo, faccio parte della prima categoria, perché sennò sai quante hit avrei sfornato sul senno di poi dell’aver fatto giurisprudenza.
Con questa canzone andiamo lontano, lontanissimo nel tempo, a qualcosina meno di tre lustri fa, perché a quel “nineteen” i nostri sensi di ragno si allertano e la mente corre subito a Dear John (“Don't you think nineteen's too young to be played / By your dark twisted games?”) e a quella relazione sbilanciata e manipolatoria. Da una parte, infatti, abbiamo lei, ancora troppo giovane (“a child”, “nineteen”) e di conseguenza ancora priva degli strumenti per difendersi; dall’altra lui, un “grown man” che ha omesso di prendersi la responsabilità dei suoi comportamenti (“[…] did it matter / If you got to wash your hands?”).
Ora, se vogliamo, anche in Dear John c’è un embrionale senno di poi (“I should’ve known”), ma lì le vicende sono ancora troppo fresche per poterle esaminare con il dovuto distacco, cosa che è invece possibile fare in Would’ve, Could’ve, Should’ve, stanti i molti anni passati. Si badi, e in effetti trattandosi di Taylor sarebbe strano il contrario, che “analisi distaccata” è diversa da “asettica”, perché la canzone è vibrante di emozione, di trasporto, di passione (nel senso proprio etimologico, dal latino pati, cioè “patire, soffrire”). Infatti, nonostante il tempo trascorso, vediamo bene come quel rapporto ancora la perseguiti (“The tomb won’t close”; “I regret you all the time”; “I can't let this go / I fight with you in my sleep / The wound won't close”, “If clarity's in death, then why won't this die?”), ma non perché ne abbia nostalgia o si sia pentita del fatto che sia naufragato, ma perché l’ha resa una persona diversa e a lei manca quella che era prima (“I miss who I used to be”), e le manca un’adolescenza che non le ridarà più nessuno (“Give me back my girlhood, it was mine first”).
Il bridge di questa canzone (Snow On The Beach, te possino ciaccà, prendi appunti) è il mio preferito di tutto l’album (forse addirittura nella mia top five di tutta la sua discografia) e introduce un’ulteriore variazione che mi fa altrettanto impazzire. Strutturalmente quindi manca la solita alternanza standard tra strofe, ritornelli, bridge, ritornello, e lo stesso bridge in questo brano svolge la doppia funzione di “collegamento” e di chiusura, con la sua ripetizione due volte di seguito nel finale. La parte migliore, peraltro, è il modo in cui dapprima prende velocità e poi a un tratto si frena (quando arriva a “Stained glass windows in my mind” e “I keep on waiting for a sign”) per ricominciare veloce. L’equivalente musicale delle montagne russe. Tra l’altro mi ha ricordato a una cover di “Whiskey In The Jar”che ho ascoltato tanti anni fa in un pub a Lisbona: il ragazzo che cantava faceva più o meno lo stesso giochetto, aumentando e diminuendo la velocità del ritornello e, inutile dirlo, quella è una delle cover più riuscite che abbia mai ascoltato in vita mia.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “God rest my soul / I miss who I used to be / The tomb won't close / Stained glass windows in my mind / I regret you all the time” Dear Reader [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Come già Snow On The Beach, anche Dear Reader mi lascia combattuta, perché pure questa non la ritengo necessariamente brutta, ma mi annoia allo stesso modo. Rispetto all’altra, tuttavia, a livello di testo ci sono cose interessanti, con alcuni versi latori di verità universali che può essere utile tenere a mente (“If it feels like a trap/ You're already in one”; “Bend when you can / Snap when you have to”; “You don't have to answer / Just 'cause they asked you”), un po’ come già in marjorie. Il problema più che altro risiede nella parte finale, totalmente sbrodolata nell’esecuzione, che infatti appare disordinata (e di nuovo la voce distorta, diocrisantemo, io giuro che la denuncio).
#AlcoholicCount: 4 (my fourth drink)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Never take advice from someone who's falling apart" IT MUST BE EXHAUSTING ALWAYS ROOTING FOR THE ANTI-HERO
Una premessa e due confessioni: è sempre affascinante trascorrere un po’ di tempo a cercare di capire cosa passi nel cervello di Taylor Swift, ma scrivere questo post è stata una gran fatica. Per prima cosa, perché da qualche anno a questa parte faccio fatica in ogni aspetto della vita; poi perché mi ero intrippata a vedere The Crown e per un mese è stato il mio solo e unico interesse; poi ancora per mancanza di tempo, mica come quando dovevo trovare il modo di passare quelle cinque ore di scuola forense ogni lunedì (avendo fatto voto di non ascoltare una singola parola di lezione, ma obbligata a frequentare pena invalidamento del semestre di pratica); infine, e presumo sia la ragione principale, le altre suonano più come scuse: perché quest’album, come il cheddar a Kuzco, no me gusta.
O, comunque, non del tutto.
Forse, più esattamente, la sensazione che mi dà questo disco l’ha spiegata bene uno degli sceneggiatori cialtroni di Occhi del Cuore, prima di intortare René con il monologo sulla locura: “per funzionare funziona, ma rischi di non convincere”.
Ecco, allora: Midnights non mi convince.
Al primo ascolto l’ho bocciato interamente, con solo Anti-hero e You're On Your Own, Kid a tenere in piedi la baracca. E ne sono rimasta sorpresa come restano sorpresi i vicini di casa alla notizia dell’inquilino del piano di sotto che ha sventrato come un gamberetto l’intera famiglia usando il coltello a mandorla del Grana Padano: “Salutava sempre, ferst riacscion sciòk”.
Ma è comunque Taylor Swift, perciò gli ho dato il beneficio del dubbio: forse il problema non era che fosse un album poco ispirato, ma ero io dell’umore sbagliato per apprezzarlo in modo adeguato (venivo da un periodo di merda, e ora mi trovo in una benvenuta fase di tregua tra quello e il prossimo periodo di merda che di sicuro mi aspetta dietro l’angolo): un “It’s me, hi, I’m the problem, it’s me” da manuale. Insomma, ero più che disposta ad andare a Canossa. Ebbene, trascorso poco più di un mese, credo che — per prendere in prestito una frase da happiness — siano vere entrambe le cose.
Peraltro ho anche avuto modo di notare una certa polarizzazione nelle opinioni, e non mi pare ci sia stato il consenso generalizzato e unanime che hanno avuto folklore ed evermore. Non che ciò sia dirimente, sintomatico o rappresentativo di alcunché ma, e torno a parlare per me, confesso ogni assenza di folgorazione: né all’inizio (come con Speak Now, Red, 1989 e folklore), né durante, né dopo (come con evermore); nessuna discesa su di me della fiammella della Verità come lo Spirito Santo il giorno di Pentecoste o quello che diavolo era, che io al catechismo prestavo meno attenzione che a scuola forense.
Per quanto Midnights presenti tante belle canzoni (qualcuna molto più che solo bella), in realtà mi è difficile immaginarlo svettare in una discografia che contiene titoli come Speak Now, Red, 1989, reputation, folklore ed evermore, ognuno in qualche misura iconico, se non proprio autorevole; due cose che secondo me è incapace di essere Midnights. Se fosse un cartello stradale non sarebbe uno stop ma un semplice dare precedenza: qualcosa che ti fa rallentare ma non necessariamente fermare, e quando vedi che la strada è libera pigi sull’acceleratore, già concentrato sui segnali che verranno e dimentico di quelli che hai superato.
Ho spulciato la Treccani per cercare un termine che descriva la sensazione che mi dà Midnights, e quel termine è “anodino”: “senza carattere, insignificante; o che non prende posizione decisa, che non esprime un parere netto”. È proprio quella mancanza di decisione che mi perseguita. Perché nonostante sia un “concept album”, il cui filo conduttore sono le notti insonni passate a rimuginare sull’esistenza, in ogni caso l’esecuzione mi pare frammentata e il tema disorganico, con tanti picchi, senza dubbio, ma anche altrettante banalità.
L’edizione “standard”, che di base è il vero Midnitghs, suona atipicamente ordinaria, scialba addirittura; non sono nemmeno sicura che lo si potrebbe considerare un buon album di debutto se fosse di un qualsiasi artista a caso, ma di certo per essere il decimo di Taylor Swift è ben poco persuasivo. Raga, sia chiaro, chiarissimo: è più che concesso, a ‘sta pora crista, di non fare gol a ogni tiro in porta, va bene pure se ogni tanto prende la traversa o spara la palla sulle tribune, perché se esiste qualcuno, in tutto il mondo mondiale, che si è guadagnato il diritto di non dover dimostrare più niente a nessuno, quel qualcuno è proprio lei.
Magari, toh, lei e Alberto Angela. Ma soprattutto lei.
Quanto all’edizione 3am, con le sue The Great War, Bigger Than The Whole Sky, High Infidelity, Would’ve, Could’ve, Should’ve da una parte e Paris, Glitch, Dear Reader dall’altra sembra mantenere l’equilibrio tra pezzi riusciti e no, anche se in proporzione e per mera questione di quantità, rispetto alla standard qui i pezzi davvero riusciti sono di più. Ed è anche questo il problema: mi resta difficile considerare Midnights come un unicum e non come due entità separate, di cui una che funziona meglio dell’altra.
E tutte le belle canzoni che pure ci sono paiono non servire un disegno unitario — l’album, appunto, col suo tema dichiarato — ma restano splendide in modo fine a se stesse, un arcipelago di isolotti con palmizi rigogliosi e lambiti da acque cristalline ma senza un istmo di terra che li unisca, o almeno un traghetto della Grimaldi Lines che li colleghi.
Potreste obiettare, e forse in parte avreste anche ragione, che non potrebbe essere altrimenti, non trattandosi di un concept album duro e puro che racconta una singola storia a capitoli come un romanzo in musica (come quelli dei Rhapsody of Fire, che hanno dato vita a vere e proprie saghe fantasy, o quelli degli Avantasia dei primi anni), e nemmeno un concept album che è espressione del modo di vedere il mondo del suo protagonista fittizio (come American Idiot dei Green Day), ma di un concept album che si sviluppa soltanto intorno a un’idea di base, a un tema e non a una trama, le cui canzoni restano slegate per forza di cose (per di più raccontando randomici pezzi di vita sparsi negli anni). Ora, anche i due album dei Sabaton a cui accennavo (The Great War e The War To End All Wars), che raccontano la prima guerra mondiale, sono composti di tanti tasselli separati — una canzone parla del Barone Rosso, una di Lawrence d’Arabia, una della tregua di Natale, un’altra ancora del trattato di Versailles e via dicendo. Ecco, nonostante ciò, entrambi gli album appaiono coesi, unitari, focalizzati, armonici. Invece Midnights mi pare disgregato.
Sbaglierò di poco se preconizzo qui e ora che, una volta placatasi la normale e fisiologica eccitazione che è corollario immancabile di ogni nuovo album di TS, Midnights passerà decisamente in sordina. Ma mi importa? In realtà no, perché potrebbe fare un album di soli borborigmi e ci sarà lo stesso almeno un paio di canzoni per cui griderò al capolavoro, di cui mi farò portavoce indefessa della loro necessarietà in riguardo al progresso della civiltà umana, e per quelle due canzoni varrà comunque la pena di star dietro, sempre e comunque, nei secoli dei secoli, a Taylor Swift.
P.S. se, stante questa mia intemerata, ci sarà qualcuno, in questo fandom di sbullonati, che mi augurerà di non trovare il biglietto per il concerto o mi accuserà di lesa maestà, ecco, io a quel qualcuno dirò: “A proposito di maestà, bravo che me l’hai ricordato, è ora di farsi un tè e di bingiare daccapo The Crown. Toodle-oo!”)
***
Per chi di voi si fosse sintonizzato soltanto adesso, ecco gli altri tomoni:
Red dead revolution
‘Cause she’s still preoccupied with 19… 19… 1989
(Frankly, me dear, I do and I don’t give a damn about my bad) reputation
(If you wanna be my) lover
That’s all folk(lore)
Quoth the raven, “evermore”
Cicero pro domo sua: giacché ho perorato la mia causa di scribacchina, ne approfitto per segnalare anche i miei due romanzi: Zugzwang - Il dilemma del pistolero e il suo sequel Sicilian Defense, editi da Nativi Digitali Edizioni. Tra i personaggi principali c’è una ragazza bionda, ma non è Taylor Swift.
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lucianopagano · 1 year
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I sensi della volgarità. La volgarità dei sensi. Su «Lingua volgare» di Paola Maritati
«Lingua volgare» verrà presentato per la prima volta a Lecce il 21 aprile prossimo, alle ore 19, presso la Biblioteca Bernardini di Lecce.
Si tratta del libro d’esordio, il primo libro di Paola Maritati, di cui cerco di dare, una mia opinione e spiegazione, a partire dal titolo. Interpreto la scelta di «Lingua volgare» in due modi, il primo è inerente al fatto che qui ci si riferisce a una lingua “diretta”, “sconcia”, volgare appunto, afferente a un linguaggio che noi utilizziamo quotidianamente quando vogliamo essere il più diretti possibile. Quindi queste poesie sono poesie che nascono da situazioni reali e le affrontano in maniera esplicita, diretta.
«Lingua volgare», in battuta parallela, è anche un richiamo alla lingua delle origini. Quando Dante Alighieri decide di realizzare le sue opere dove si parla di lingua, dove si affronta la tematica della scrittura in lingua volgare, decide di utilizzare la lingua volgare e fa diventare questa scelta una scelta politica. La Commedia è scritta in volgare, è l’opera a cui lui crede di affidare il suo messaggio per i posteri, l'opera percepita da lui stesso come più importante. Non è la stessa scelta che è stata fatta per esempio da Petrarca che ha scritto in latino molta della sua scrittura anche poetica («Africa», «De Vita Solitaria», «Secretum»).
Dante fa questo passo in avanti, che è quello di scrivere la Divina Commedia in volgare, ed è anche con lo spirito di questo esperimento dantesco che va colto il riferimento di questo titolo, «Lingua volgare», la raccolta di poesie ideata e scritta da Paola Maritati, uscita numero quarantuno della collana di poesia di Musicaos Editore. È quindi un'esordiente con uno sguardo alla contemporaneità e allo stesso tempo rivolta alle origini. Un altro discorso della lingua volgare è un richiamo allo stesso canzoniere di Francesco Petrarca, che si intitolava «Rerum Vulgarium Fragmenta», cioè ‘frammenti di cose scritte in volgare’, o ‘frammenti di cose volgari’, perché lo stesso Petrarca riteneva che le poesie, il «Canzoniere» a cui lui ha lavorato per tutto il corso della sua vita, fossero in realtà una raccolta di cose e meno importanti rispetto alla sua scrittura poetica, filosofica, trattatistica in latino. Il fatto quindi di utilizzare questo aggettivo “volgare” come per riferirsi a qualcosa di poco importante, perché l’utilizzo dell’aggettivo volgare “all'origine”, significa esplicitare “immediatamente comprensibile”.
“Immediatamente comprensibile”, lingua volgare perché “lingua del volgo”, quindi quando Dante scrive in lingua volgare scrive la lingua del volgo, del popolo, e quando Petrarca decide di definire le sue poesie “rerum vulgarium”, sa che sta utilizzando il linguaggio del volgo, sappiamo bene a posteriori quanto questo linguaggio del volgo nella scrittura di Petrarca e nella scrittura di Dante abbia fondato la letteratura e la lingua italiana.
Nella lingua italiana è avvenuta una cosa, grazie a Dante e grazie a Petrarca, straordinaria, ovvero sia la lingua italiana al contrario delle altre letterature, ha raggiunto il suo apice, il suo picco, all'inizio della propria storia. Difficilmente riusciremo a raggiungere i vertici raggiunti dalla poesia di Petrarca, che ha tracciato una strada “lirica” nella produzione della letteratura italiana, e allo stesso modo da Dante, che ha approntato una strada poetico lirica di poesia che parla anche della quotidianità, della politica, che affronta i fatti accaduti nella cronaca trasfigurandoli in un pensiero politico, filosofico e religioso. Queste due linee date da Petrarca e da Dante sono nate in una lingua volgare decisa, fortemente voluta; è quella che poi ha "vinto", ed era questa linea poetica che racconta la lirica dell’io, quindi quella petrarchesca, insieme a poesie che raccontano le cose quotidiane, la politica, le cose che accadono nella società.
L’illustrazione di copertina di «Lingua volgare» è opera di Andrea Moriero, raffigura un pesce, ha le pinne, anche se somiglia un po’ a un uroboro che si morde la coda. Mordendosi compie un cerchio al cui interno ci sono le corde di una lira, un antico strumento musicale per cantare qualcosa che in teoria non è cantabile, quella lingua sommersa dei pesci che non emettono suoni. Questa raccolta, «Lingua volgare» di Paola Maritati, ha la coerenza interna di un canzoniere, per lingua e tematiche.
«Lingua volgare» è la raccolta poetica esemplare dello stupore che genera la realtà e diviene verso in una scrittura dalla cifra stilistica tracotante, dal discorrere ripido. L’esordio poetico di Paola Maritati si muove in un terreno polisemantico dove la tenzone è accesa, brillante, tra poesia aulica e verso sconcio, nella ricerca continua di un punto di equilibrio in una forma che fa suoi alcuni modi della poesia italiana delle origini, per arrivare a spingersi in zone ipermoderne, invettive. «Le persone che hanno molta immaginazione naturalmente sono spinte a parlare ad alta voce», scriveva Pietro Verri, «… vi è però un che di scurrile in questo modo di esprimersi». 
Qui c’è una voce alta, dal tono “in levare”, che delinea personaggi archetipici, protagonisti di filastrocche per adulti e rime del disincanto, dove gli hashtag sono segnavia e allo stesso tempo indizi di smarrimento, tendono la mano nella costruzione di un filo rosso che coniuga modalità antiche e moderne, per poi ritrarsi lasciandoci un quadro organico, coerente. «Lingua volgare» è poesia che ci riporta all’istante immediato di una vita «qui e ora», con una radicalità da medioevo contemporaneo, sacro e profano, tra trivialità e ironia, sarcasmo e irrisione, con echi poetici dai Limerick, Rodolfo Wilcock e «Carmina Burana».
Luciano Pagano
§
LXIV. GLOBALIZZAZIONE LUNARE
Mi piace pensare alla globalizzazione lunare
come alla prima forma, quella vera,
che unica sarebbe dovuta restare.
Luna,
s o g n o p o p o l a r e
ovunque uguale e disponibile da ammirare,
a portata di occhi,
di tutti i tipi
grandi piccoli poveri e ricchi.
Luna globale,
l ’ o r i g i n a l e.
Neanche nei migliori negozi te la puoi comprare.
Che cazzo ci siamo globalizzati a fare
#noglobal #luna #globalizzazionelunare #originales #scrivocomeparlo
§
Paola Maritati, nata nel 1985 a Galatina, vive a Nardò. Laureata in scenografia teatrale e cinematografica all’Accademia di Belle Arti di Lecce, lavora nel teatro come scenografa, costumista e progettista teatrale. Firma progetti in campo sociale e artistico, collabora con varie cooperative impegnandosi maggiormente sui problemi legati all’immigrazione e alla lotta di genere sul territorio Pugliese. Appassionata d’arte, politica e fantascienza, attualmente lavora presso l’Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce come Social Media Manager. Ha due figli, Cosimo e Alice.
“Lingua volgare”, Paola Maritati (Musicaos Editore, Collana Poesia, 41) | formato 12,7x20,3cm, pagina 182, prezzo €15,00, ISBN 9791280202796
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scogito · 2 years
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«Nell'ombra non v'è luce che la luce non adombri». (Gabriella Scali)
Io di poesia non capisco niente. So solo quando mi piace e quando non mi piace, e di solito la dinamica coincide con quanta capacità hanno i versi di rendermi davanti agli occhi una realtà che non saprei vedere da sola. Anche quando andavo al liceo mi limitavo a leggerla e studiarla mi dava spesso fastidio, perché era come se mi costringessero a comprenderla in forma statica, come se ci fosse un libretto di istruzioni. A che serve l’arte se si inquadra in uno spazio “sicuro” devo ancora scoprirlo.
Fatto sta che invece mia sorella di poesie ne scrive, ha iniziato da piccola, si è vinta una coppa e poi ha smesso. Penso che la sua penna non abbia tracciato nulla per un bel po’ perché la vita l’ha dovuta portare prima a quel punto di osservazione, rapace e appassionato, di chi vede la realtà dietro la nube più ovvia. È stata interrotta in tante piccole tracce di sé, fino a raccogliersi e ricominciare. Si arriva sempre a destinazione anche se non capiamo che razza di Navigatore abbia lo Spirito. Comunque, un anno fa le parole l’hanno riportata all’ordine e tra un verso e l’altro ha recentemente collaborato con una casa editrice con cui ha pubblicato una raccolta.
A me la sua poesia piace perché non la saprei scrivere. È composta da voli pindarici di concetto e da molteplici strati di senso. Non porta la mano di chi si improvvisa poeta e per questo va al di là di sé. È contemporaneamente qui e là, con la capacità salda e sentita di soffiare sempre qualche tipo di profumo. Nonostante il mondo.
Ne parlo volentieri qui dentro, dove riporto spesso personalità che danno un contributo costruttivo alla bellezza dimenticata e che, parenti oppure no, meritano una citazione.
Due estratti e un inedito:
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Per altre letture:
I Poeti di Via Margutta qui
Collana poetica Vie qui o qui.
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fashionbooksmilano · 2 years
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Sonia Delaunay  Alfabeto
con una raccolta di filastrocche popolari italiane
Babalibri, Milano 2010, 64 pagine, 25 x 28 cm., ISBN  9788883622281
euro 22,50
email if you want to buy :[email protected]
Non è solo un magnifico alfabeto illustrato ma un vero e proprio libro d’arte. Sonia Delaunay, pittrice in bilico tra belle arti e arti applicate, vicina al futurismo e alle avanguardie storiche del secolo scorso, nel 1970 con un entusiasmo incantatorio «dipinse» questo libro. Fu una sorpresa e un regalo all’infanzia, perché pochi sono gli artisti che comunicano la loro vera poetica al mondo dei bambini. Il successo fu enorme e ora lo riproponiamo nella versione originale, con le filastrocche popolari italiane che accompagnano lettera per lettera, le lettere dell’alfabeto. Ventisei icone che avevano anticipato il tratto grafico della pop art.
19/09/22
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