Tumgik
#ma passa troppo tempo e a un certo punto non ho nemmeno più interesse a fare quell’acquisto
deathshallbenomore · 2 years
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con i suoi libri bellissimi e i suoi prezzi allucinanti iperborea ha devastato le mie finanze*
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dianacalypso · 4 years
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Quello che le signorine non dicono
QUELLO CHE LE SIGNORINE  NON DICONO   Signori e signore,  a voi tutti che vi apprestate a leggere codesta narrazione, basti sapere che vi trovate davanti ad un esempio di stream of consciousness mai, ripeto mai, visto prima.  Alla faccia di Joyce o della sua amica Virginia. Con i loro sproloqui infiniti e incomprensibili. Anche noi italiani abbiamo il sacrosanto diritto di trasferire i nostri pensieri più inconsueti ed ingarbugliati su carta. Perbacco! E più essi saranno assurdi più il risultato si avvicinerà, metaforicamente, al casino da cui siamo circondati ogni giorno della nostra vita. Ma, al contrario di tali ed illustri antenati e proprio perché latini d’origine, all’ombra di una maestosa grammatica a cui, da sempre, siamo legati: giuro solennemente che rispetterò la punteggiatura. Anzi, la sfrutterò al massimo; punto e virgola compresi. E pure gli a capo. Anche a caso. Appunto. Tanto per non mettere in crisi la vostra cara Pazienza (con la maiuscola perché è una delle personalità che più stimo al mondo). Tuttavia non potranno mancare i tipici voli pindalici che caratterizzano un testo di questo tipo. Non spaventatevi, dunque, se non capirete perché dal palo si passa in frasca e dalla frasca si passa ad Apelle figlio di Apollo che fece una palla di pelle di pollo. Perché il bello di questo contenuto è proprio il suo essere diversamente sensato.  Il suo volere rendere pubbliche certe cose che spesso, il genere di mia appartenenza (e non solo) ha tentato inutilmente di nascondere. Ho deciso infatti di raccontare l’irracontabile, di esplicitare l’indicibile. Ho visto e sentito cose che voi uomini non potreste nemmeno immaginare... Blade Runner è una di queste. Se siete deboli di stomaco abbandonate questa lettura, qui servono persone con i tipici controcalzini; gente di bocca buona e dalle poche pretese. Persone capaci di ridere di sé e degli altri ma soprattutto capaci di ridere della vita in generale. E di questo mondo straordinariamente buffonesco, dalle sfumature assolutamente imprevedibili. Detto ciò, vi auguro ogni bene sperando comunque di non sconvolgere, in alcun modo, le vostre menti innocenti. Perché il mio intento non è e non sarà altro se non quello di divertire. Appunto e a capo.            
2   Odio il latino! Voglio dire, che senso ha fare esami di latino nel ventunesimo secolo? Che senso può avere leggere in metrica versi scritti più di duemila anni fa basandosi su pure e semplici supposizioni? É inconcepibile! E non ha neppure senso l'esame per cui sto studiando da più di un mese! Dovrebbero inserirlo come materia facoltativa, senza valutazioni finali. Se fosse da studiare per il puro piacere di farlo forse lo studierei con più interesse. Forse. In ogni caso credo che nessuno studente al mondo sia in grado di superarmi in quanto a figure al gusto di melanzana fritta. Detengo un primato ineguagliabile! Dopo due anni di esami quasi perfetti mi sono ritrovata ad essere stata cacciata, miserevolmente, dall'orale di Letteratura Latina nella maniera più vergognosa possibile. Quella mattina avevo provato il tutto per tutto; avevo preparato in quindici giorni un esame per cui, gli studenti normali, di tempo ne impiegavano almeno in quadruplo. Conseguenza logica; non sapevo una mazza. Il tutto si doveva basare sulla semplice, e oramai sacrosanta, legge dell'improvvisazione. Ricordo solo le labbra della professoressa che mi interrogava: erano rosso scuro e innaturalmente canottate per la sua non-giovane età. E dire che, sotto molti punti di vista, ero anche stata fortunata: mi interrogò su Ovidio, il più semplice dei tre autori che dovevo portare. Solo che... Non sapevo nemmeno da che parte cominciare! Quando agli esami mi faccio prendere dal panico sono solita sparare menate atomiche. Sono in grado di parlare per ore senza avere la minima idea di cosa io stessa stia dicendo. Quel giorno credo proprio di aver fatto così: «A quale declinazione appartiene questo sostantivo?». «Terza?». «Ma guardi la desinenza, quale caso è?». «Finisce per 'i'». «E quindi?». «La terza non è...quindi...la prima?». «Signorina, se finisce per 'i' quale caso è?». «Per capire il caso devo leggere meglio il contesto della frase...un attimo solo...» «...» «Quindi?». «Mah, non saprei potrebbe essere un ablativo?». «Un ablativo?». Continuammo così per, più o meno, venti minuti. E devo dire che la professoressa avrebbe dovuto ricevere un premio Pulitzer solo per la pazienza. Parlare con me quella mattina equivaleva a intrattenere una conversazione con un pony impegnato nella venerabile arte del tai chi. Io, personalmente, non avevo idea di quello che stavo dicendo. La mia mente continuava a ripetermi in maniera quasi autistica - voglio un diciotto, voglio un diciotto, voglio un diciotto - Cosicché fui anche sorpresa quando la professoressa mi bloccò, sconvolta, per dirmi: «Senta ma lei sta facendo una confusione incredibile! É così tanto confusa da essere riuscita a confondere anche me! Non sono più in grado di andare avanti, le garantisco che non mi era 3   mai capitata una cosa del genere. Lei ha assoluto bisogno di tornare qui quando si sarà calmata e avrà schiarito le idee...». Cos'era quello?  Un rifiuto?  Mi stava forse bocciando? Il mio orgoglio non poteva di certo accettare un simile affronto! «Ma lei non mi ha nemmeno chiesto le altre traduzioni...La Letteratura....provi a chiedermi quella!». Nello stesso istante in cui avevo parlato sapevo di aver sganciato una bomba atomica: Letteratura o non Letteratura quella mattina non sapevo proprio niente! «Ma se lei è insufficiente su questa parte, per me, non può essere sufficiente sulle altre… Avevo anche scelto un verso estremamente semplice». «Ma... Nemmeno diciotto?». Se ci ripenso, ora, mi viene da ridere: ho supplicato per avere un diciotto ben consapevole che la mia magnifica prestazione avesse raggiunto più o meno la barriera del dieci... «Nemmeno diciotto!? Non ha saputo distinguere nemmeno un ablativo della terza da un genitivo della seconda classe! Queste sono cose elementari...». «...» «Ma l'anno scorso lei che voto aveva ottenuto nella Lingua Latina?». «Venticinque...». «Ma l'ha dato con noi quell'esame?». A quel punto i suoi canotti si erano pericolosamente increspati come a dire: impossibile, un'ignorante del genere non può avere passato quell'esame con noi! IGNORANTE DA IGNORO (IN – NOSCO o qualcosa del genere = non sapere o non conoscere). Tiè, vedi dove te lo metto il latino? E comunque sì, quell'esame l'avevo dato con voi!  E avevo preso venticinque perché quella volta avevo studiato sul serio. E perché la suddetta professoressa aveva più senso dell'umorismo rispetto alle tue stupide labbra rosse pompate all’inverosimile! Dopotutto a che cavolfiore mi serve questo stupido latino nella vita? Vabbé. Adesso mi tocca di ristudiarlo e imparare pure a memoria le traduzioni così da non dover nemmeno pensare a niente mentre mi interrogano. Tanto tra non pensare a niente e pensare a caso non ci sono poi tante differenze. Peccato però; pensare a caso mi viene estremamente più naturale rispetto a non pensare a nulla.   Strano a dirsi ma, quella non è stata la figura peggiore che abbia mai fatto ad un esame; il mio numero migliore risale infatti alla terza media. Sono sempre stata una bambina prodigio. Sin dall’infanzia…  Avvenne il primo giorno d'esame, durante lo scritto d'Italiano. Erano ancora i bei tempi in cui agli studenti veniva richiesto cosa pensassero o provassero LORO. Non cosa pensassero o provassero persone super specialisticamente erudite e acculturate i cui pensieri muoiono accartocciati in stupidi ritagli di saggi o articoli. Ero abbastanza tranquilla quella mattina, in genere nei temi andavo molto bene. Scrivere mi è naturale; come bere acqua ogni mattina. 4   Infatti, sono estremamente stitica. Non bevo mai acqua fino all'ora di pranzo, generalmente. La dottoressa mi ha detto che i miei reni un giorno di questi imploderanno provocando un’onda d’urto pari all’effetto Doopler proprio perché bevo sì e no mezzo litro al giorno... Comunque, quella mattina mia madre si era svegliata presto apposta per comprarmi una bella pasta alla crema. Queste sono le cose in assoluto che amo di più degli esami e dei momenti difficili: le mamme e i papà che ti comprano cose dolci sperando di poter alleviare la tua ansia e la tua sofferenza psico-patologica. Santi genitori! Peccato che quella pasta mi sia stata dannatamente fatale.   Mi trovavo nella nostra aula insieme a tutti i miei compagni di classe. Ognuno era chino sul proprio banco, impegnato nell'arte dello scrivere. Mi sentivo fiduciosa perché il titolo del tema riguardava il mio futuro e, visto che non avrei mai più rivisto nessuno dei miei prof, potevo scrivere tutto quello che mi passava per la mente! Anche, soprattutto, cose mai pensate. Bugie ed invenzioni.  Tanto chi avrebbe potuto provare il contrario? Erano ancora i tempi in cui pensare al futuro apriva uno spiraglio meraviglioso nell’orizzonte della vita, uno sguardo sull’infinito e sulla certezza della gloria eterna.  Oh quanto eravamo scioccamente felici a quei tempi! Come al solito ero stata velocissima a battere giù la brutta copia e dovevo apprestarmi a trascrivere tutto sul foglio protocollo. Possibilmente in bella calligrafia. Pensavo che quel giorno sarebbe stato ricordato per le figuracce dei miei compagni di classe, non per la mia. A Max era squillato il cellulare mentre il commissario parlava, e una musica stupida da bimbominchia aveva continuato ad aleggiare per la classe per dieci minuti prima che il proprietario se ne accorgesse. Mentre Elio non si era presentato alla prova e quando i professori, preoccupatissimi, lo avevano chiamato lui aveva semplicemente risposto: «Ah, ma è oggi l'esame? Non doveva esserci tra una settimana?». Ma ci credete se vi dico che io sono riuscita a fare peggio di questi due? Avete presente quelle figure di menta (per non esser troppo volgare) supermega atomiche? Bene, allora state a sentire questa! Avevo appena finito quella cavolo di brutta copia, mi sono guardata attorno e ho notato che tutti erano immersi nel loro lavoro. Mi sentivo le mani e le braccia stanche per la tensione. Così ho fatto quello che tutti fanno quando cercano un nanosecondo di relax. Ho steso le braccia in avanti fino a sentire i muscoli tirare per il piacere, dopo di ché ho spalancato la bocca per sbadigliare. Un bello sbadiglio ristoratore. Peccato solo che non sia uscito uno sbadiglio ma un rutto. Un rutto. Un rutto enorme. Il rutto più grande che io avessi mai sentito in vita mia. Così rumoroso da staccare le cartine geografiche dalle pareti, da ridare l'udito ai sordi, da modificare l'asse terrestre. Ecco, direi che quella, esattamente quella, sia stata la figuraccia più grande che io abbia mai 5   fatto in tutta la mia vita. In quel preciso istante ho sentito cinquanta paia di occhi e visi increduli girarsi verso di me, a rallentatore. Stile matrix. Purtroppo però, io non potevo scegliere quale pastiglia ingerire per svegliarmi da quell'incubo. Morfeo era in vacanza. Ricordo di essere rimasta immobile per vari minuti, le mani ancora tese in avanti e la bocca spalancata per lo stupore. Ricordo che il professore minacciò di annullare il mio scritto ma ricordo anche che, alla consegna, non si trattenne dal sorridere appena mi vide. Ora provate anche solo ad immaginare quale sia la mia reputazione da queste parti; sono passati otto anni da quel terribile incidente. Ma almeno ho imparato che prima di ogni esame è sempre meglio fare una colazione molto leggera.   E andiamoooo! Ho passato quello stupido esame! Con quella stupida prof dalle labbra a canotto! Dire che io sia predestinata agli strozzini non ha limite, per tutto il resto c'è mastercard! Comunque sono felice come una pasqua perché adesso, ogni singolo esame sarà una passeggiata a confronto! «Allora signorina, lei ha ancora delle gravi lacune nella grammatica...» «Eh, purtroppo...» «Però ha saputo quasi tutta la Letteratura...» «Infatti...» «Quindi non le posso dare un voto troppo alto...» «Oh, non c'è problema, non si preoccupi...» «Allora le metto un 19!». Alla faccia del voto non troppo alto! Attenzione che potrebbe rischiare di farmi avere una borsa di studio per Honolulu da tanto è gonfiato sto voto! Che meretrice! Vabbè che non mi aspettavo un 27 ma cavoli, 19 lo si dà all'ape maya che non sà fare il miele! Io c’avevo messo l'anima per fare quell'esame! Vabbè, non esageriamo...Ma sapete cosa vi dico? Chissenefregaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa! libertè, eguialitè, fraternitè e, come direbbe Albanese; in tu culu a te! Per fortuna che esiste Ryanair a salvarmi da questo “male di vivere” come avrebbero detto i miei cari amici Leo e Ugo! (Scusatemi la finezza letteraria...) Comunque, trovare voli economicamente improponibili è una delle mie tante qualità, a parte quella di ruttare agli esami di stato, naturalmente. Siamo andate a Parigi con sei euro, a Bruxelles con 14 e a Malta con 66.  Infatti, a Malta, non avevo prenotato io. Le cose fatte da me si vedono subito: sono quelle fatte peggio perché sono le meno dispendiose. Faccio di tutto per pagare poco. Sono disposta a digiunare per giorni, in vacanza, pur di non spendere! Anche perché così, sono convinta, di dare più valore alle cose che faccio: volete mettere una pizza mangiata quotidianamente ad una pizza mangiata dopo quattro mesi? Tutto acquista molto più valore! 6   Come quella volta che abbiamo inventato un inter-rail ITALIANO. Avevamo appena compiuto diciotto anni. E diciotto anni significava prime vacanze senza genitori, le prime VERE vacanze della nostra vita organizzate completamente da noi! Dal momento che però i nostri genitori, molto saggiamente, non potevano concepire un viaggio all'estero come prima esperienza; siamo comunque riuscite ad ottenere una settimana in giro per l'Italia. Ripensandoci adesso, più che una visita nelle città più belle del nostro Paese, si è trattato di una gara di resistenza fisica sui treni. L'itinerario è stato all'incirca questo:il mio minuscolo paesello d’origine - Bologna, BolognaMestre, Mestre-Venezia, Venezia-Firenze, Firenze- Pisa poi di nuovo Firenze ed infine Roma, tre giorni della sola, intramontabile, incredibile e meravigliosa Roma. Naturalmente avevamo selezionato tutto con estrema cura. Guardammo i tragitti più economici e scegliemmo tutte le opzioni 'barbone style'. Con la conseguenza che, a prezzi bassissimi, compimmo viaggi di una lunghezza INFINITA su rottami che trenitalia spero abbia bandito dal mercato… Ci divertimmo un mondo a trasportare i nostri trolley in giro per le stazioni e a giocare a risiko formato-da-viaggio sui pochi intercity che eravamo riuscite a permetterci. Oh insomma. Alla nostra età cosa pretendete? Spendere significa due cose: 1) Sbandierare a destra e manca soldi non tuoi ma guadagnati faticosamente dai tuoi genitori. 2) Utilizzare con estrema, e ripeto la parola ESTREMA, riluttanza i soldi penosamente guadagnati d'estate con la raccolta delle pere. Sì, me ne rendo conto, può sembrare terribile. A voi borghesi di città che leggete sta roba sembrerà di parlare della schiavitù ai tempi del colera o del cotton-fioc… Ma le pere esistono ancora. Ebbene sì.  Mentre non hanno ancora inventato una macchina in grado di raccoglierle senza distruggerle. Siamo nel ventunesimo secolo; non esiste una macchina per raccogliere le pere ma esiste l’iphone.  Vabbè, i misteri della vita! Inoltre, dalle nostre parti i filari sono lunghi chilometri. Ve lo posso garantire. Oh, non potete immaginare quanto sia PIACEVOLE recarsi per otto ore, sotto il sole d'Agosto a sradicare quei frutti bastardi. E se c'è un frutto bastardo, quello è proprio il pir! Innanzitutto ti costringe a vestirti quasi come ad una sfilata di Dolce e Gabbana versione ‘sono molto transgender e lo dò pure a vedere’ che tu lo voglia o meno.  Cappello di paglia alla Sampey, stivaloni di gomma di quattro numeri superiori al tuo (se no non c’è gusto), camicia lunga cinque per tre metri e rigorosamente abbottonata sino al collo, guanti di stoffa a presa uomo-ragno e per finire pantaloni alla zuava abbinati a calze di lana lunghe copri-pelo. Perché si sa che durante il periodo della raccolta delle pere tutto è lecito e quindi le donne non si stanno a fare il mazzo per una depilazione perfetta…  Più pelo per tutti!  Vero è che se non ti vestissi a tal modo, dopo una sola giornata di lavoro, ti ritroveresti con le braccia e le gambe completamente escoriate e graffiate dai rami. 7   Questo tipico vestiario implica, naturalmente, il fatto che appena giungi alle tre del pomeriggio sul luogo del delitto: tu stai colando. Letteralmente! E non hai neppure cominciato! Ma coli a prescindere! Litri di sali ed acqua (detti anche sudorazione) ti scendono dappertutto ma questo è solo l'inizio! Perché cosa può esserci di meglio di essere madidi di sudore se non sentire addosso quella deliziosa polverina bianca e tutti quei veleni pulviscolari appiccicarsi sulla tua pelle? Oh, vi garantisco che se c'è una cosa che mi fa schifo è la condizione disperata della mia pelle quando raccolgo la frutta: arrossata, gonfia, lucida e bagnata e ripiena di schifezze di tutti i tipi. Uno spettacolo della natura! Da pulizia del viso eterna per la pura gioia delle estetiste! Senza dire nulla sull'odore che ti lasciano quelle maledette. Un odore infimo che impregna ogni vestiario che porti! Puoi provare a lavare gli abiti ogni volta che vorrai ma il risultato sarà sempre lo stesso! Quello schifoso odore non si toglie, è come un marchio di fabbrica. E anche se ti lavi fino a farti sanguinare la pelle e usi vestiti puliti, finisce che te lo senti addosso comunque! Al diavolo! Non farò mai la contadina! Anche se so che sarà il mio futuro certo e sicuro. Se studi Lettere nel ventunesimo secolo e per giunta in Italia cos'altro puoi aspettarti dal tuo futuro? Ma, come al solito ho divagato! Stavamo parlando del nostro primo viaggio in Italia: semplicemente meraviglioso! Venezia; na chicca! Se non fosse stato per l'hotel ad una stella, oltretutto il più costoso che aravamo riuscite a permetterci (ben 20 euro a notte)! Il problema risiedeva nel bagno e nel fatto che non ci fosse il condizionatore.  Risultato: durante la notte ci siamo sciolte dal sudore tanto che una delle mie colleghe ha dovuto alzarsi, bagnarsi completamente i capelli lunghi sott'acqua e cercare di dormire così sul cuscino per non morire di caldo. Non vi dico il disagio psichico e morale. Inoltre vista la conformazione del bagno e lo studio attento che l'architetto-geometra aveva dedicato ad esso era matematicamente e geometricamente impossibile riuscire a sedersi sul water senza incastrare le proprie ginocchia contro la doccia, per cui vi lascio immaginare tutte le possibili posizioni che eravamo costrette a prendere durante quei difficoltosi momenti. La scimmia alata, il babbuino volante, la gondola storta... E non chiedetemi del bidet! Come ben saprete solo nell'Italia che-se-lo-può-permettere esiste questa meravigliosa invenzione. Motivo per cui mi chiedo spesso come mai molti decidano di spostarsi all'estero quando il bidet lo abbiamo praticamente solo noi! Anche se la parola mi sembra di suono francese... I francesi manco ce l'hanno! Boh, certe volte non capisco le priorità delle persone... Mi piace ripetere che la gente è scema, forse perché lo diceva una canzone o forse perché così sopravvaluto un attimino me stessa sradicandomi dal mio perverso abisso di sottostima. LA GENTE É SCEMA! Ogni riferimento della suddetta frase è certamente casuale, per maggiori informazioni leggere attentamente il foglietto illustrativo. Non somministrare ai bambini al di sotto dei 8   dieci anni di età.   Firenze, beh si sa...É semplicemente magnifica.  Tutto in essa è pieno di storia, cultura e… Dante. Il toscano te lo ritrovi a destra e a sinistra, di traverso e in obliquo. Quasi la città rivendicasse il predominio sul suo oramai perduto esule che tanti danari avrebbe potuto fruttare se solo non se lo fosse lasciato sfuggire con tale ignominia. Si sono pure inventati la chiesetta di Beatrice, dove le pie donne possono ancora rifugiarsi per lasciare vani e vacui biglietti amorosi riferiti alle loro tristi storie d’amore. E la gente continua a lasciare poemi e aforismi da latte alle ginocchia!  Una visita l’abbiamo fatta.  Era d’obbligo.  Soprattutto quando hai al seguito trepidanti donzelle innamorate. Vale la stessa legge per Verona quando ti ritrovi (volente o nolente) ad attraversare il murales vivente di quella che era una volta la casa di Giulietta, come la finissima trovata della foto alla tetta destra della suddetta ragazza oramai corrosa dalle mani di famelici e allupati turisti. Sono certe piccole etichette alle quali ti devi quietamente adeguare. Essendo però molto pudica e non amando i petti femminili (a me basta il mio e sinceramente non abbisogno della visione di altri) ho preferito fare la foto con la statua mentre le ficcavo placidamente un dito nel naso.  Credo di essere entrata a far parte di un sostenuto gruppo di album di famiglia giapponesi con tutte le foto che mi sono state scattate in quel momento di inusitata gloria. Ma torniamo a Florence… L’emozione più grande rimane sempre quella di visitare la chiesa di Santa Croce con tutti i grandi personaggi che vi si sono rifugiati a dormire un sonno eterno. Ogni volta che entro non posso fare a meno di pensare alle parole di Foscolo nei Sepocri, e sentire sulla mia stessa pelle il valore di quei versi, il patrimonio di un'Italia lasciata lì a morire nella sua magnifica placidità.  Naturalmente siamo entrate alla funzione per non pagare il biglietto. Pagare per entrare in una chiesa è antitetico.  Trovo non ci sia niente di più ingiusto, anche perché Jesus stesso non avrebbe mai permesso una tale follia. Rendere un luogo di culto elitario è il contrario del messaggio evangelico, esattamente l'opposto. Perché così non accogli, al massimo allontani i fedeli. Questa fa parte di una delle tante stranezze della Chiesa fatta di uomini e regole.  Stranezze che non concepirò mai, nonostante abbia fatto la chirichetta per molti anni fissando in maniera torva tutti gli abitanti del mio paese dal mio alto scranno. Come le bancarelle dentro San Pietro che vendono souvenirs...  Mamma mia come ci starebbe che improvvisamente arrivasse Jesus e cacciasse tutti via a colpi di frusta urlando: “ La mia casa non è un mercato!”. Ci mancano solo i vu cumprà in giro a vendere rosari luminosi versione discoteca e santini fosforescenti. Tanto per trasformare definitivamente quello che è l’inno alla semplicità e all’umiltà in una banale legge di mercato. Comunque, tornando al nostro viaggio in terra fiorentina, ci sono alcune cose che non dimenticherò mai: l'uomo morto (o così ci pareva) davanti all'Ospedale degli innocenti, il barbone urlante che voleva venderci marijuna, gli studenti erasmus che ci invitavano a festini notturni: 9   “ Hei girls, come with us there is a wonderfull party tonight!” “ No thankyou” “ But why? It would be funny for you!” “ We are tired so we went home” A parte l'indecenza del mio inglese privo di connessione tra tempi verbali, un'altra cosa bellissima che accomuna le città d'arte italiane è proprio quella di non parlare mai l'Italiano.  É molto più facile ritrovarsi a parlare Inglese con stranieri che Italiano con Italiani.  Le nostre città sono invase da stranieri! E poi si ostinano a dire che l'Italia non potrebbe vivere di solo turismo… Ci vuole solo uno scemo a pensarlo!  A noi basterebbe tenere tutto sotto controllo, pulito e ben gestito. Un po' di pubblicità intelligente, qualche evento d’eccellenza e via! Ogni regione avrebbe da mostrare al mondo tantissimo. Credo. Tranne quelle regioni conosciute solo da pastori e antichi cultori della legge del malocchio e della jettatura. D’altronde si sa: Cristo si è fermato ad Eboli.   Un'altra cosa che rende altamente romantica la città di Firenze sono le centinaia di simpatici venditori ambulanti che si accampano sul corso principale della città, pieno di negozi chic e gente per bene, a vendere il loro cani elettronici e saltellanti...  Quale poesia vedere questi soggetti afferrare i loro grandi sacchi pieni di borse di Valentino, Prima Classe e Armani e scappare via come omozigoti di Bolt appena un carabiniere assonnato spunta all'angolo... Pura poesia. Queste cose non le ho raccontate a mia nonna, lei era di Prato.  Se gliele dicessi probabilmente le verrebbe un infarto. La sua cara Firenze depravata e oltraggiata: quale scandalo!  Per non parlare di Prato!  La nuova China town Italiana! Tutti i negozianti del paese vanno nei magazzini di Prato a comprare. La concorrenza è micidiale… Meglio una maglia a due euro che a duecento. Tanto a fabbricarla sono sempre gli stessi paesi del terzo mondo. La differenza sta solo nel nome di chi la vende. E nell’intelligenza di chi la compra.   Dopo Firenze è stata la volta di Pisa. Credo che da questo momento mi caricherò gli insulti di tutti i suoi cittadini ma...  L'ho trovata veramente insulsa. Non ho altre parole per descrivere questa città. Nel senso che Pisa e Piazza dei Miracoli sembravano due luoghi completamente separati e indipendenti. Piazza dei Miracoli è semplicemente stupenda, geometricamente perfetta e biancalmente marmorea (certe libertà sintattiche ce le possiamo permettere solo noi autori).  Poi è inutile che vi spieghi il divertimento che si prova a fare le foto mentre si finge di tenere in piedi la torre: con le dita, coi piedi, col le mani, coi glutei...  La prima cosa che si vede arrivando sono proprio le centinaia di persone intente a sorreggere quella torre. Tanto che all’inizio non capisci nemmeno perché tutta quella gente si accalchi in posizioni assurde con le mani a sorreggere aria tanto da sembrare nella germania nazistica di Hitler. Poi, però, superato lo smarrimento iniziale vedi la torre e ti chiedi: “ Ma come diavolo fa a stare su?”. 10   Essa sfida ogni senso di gravità, ogni logica umana e divina mentre fiera e altezzosa si erge nel cielo…Storta come la mente di certe persone… Però, diciamocelo, il resto della città è assolutamente scamuffo, scontato. Proprio banale. Non me ne vogliano i Pisani, io abito in un paese sotto il livello del mare, di duemila abitanti a dir tanto il cui unico evento di una certa rilevanza è la nebbia che lo ricopre dal mese di ottobre sino al mese di marzo. Un paesino così piccolo che le persone sembrano inglobate in esso, prigioniere di una routine apatica, racchiuse nelle loro false e fragili sicurezze. Insomma, non è che sia meglio di Pisa. Ma almeno noi abbiamo un po’ di verde qua e là che lascia respiro. Abbiamo la poesia della campagna e gli odori della natura, letame compreso. Mentre Pisa, come tutte le grandi città, si avvicina molto al modello di Milano: edifici alti, grigi e asfittici costruiti da poveri geometri privati, sin dall’infanzia, del senso d’immaginazione. Basta, devo costringermi a zittirmi.  Non me ne vogliano i Pisani e i miei compaesani. La torre è fantastica. La sua pendenza è evidentemente segno di genio e follia e non può che ispirare fascino e ammirazione. Metafora incarnata del nostro Bel paese: bellezza e sfacelo. Ad ognuno il suo. Almeno voi avete quella, dalle mie parti l’unico monumento degno di essere riconosciuto è quello dei caduti. Viva la vita! Foscolo si è appena rivoltato nella sua tomba marmorea in Santa Croce.   Ma poi, per fortuna, c’è sempre Roma, Roma e ancora Roma. Com’ è possibile dire che non sia bella?  Com’ è possibile anche solo provare a paragonarla a Parigi o simili capitali europee? Roma è tutto.  É l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, lo splendore e il devasto, il vecchio e il nuovo, il passato e il presente, la sapienza e l’ignoranza… Quando giri per Roma ti pervade una stranissima sensazione: ti senti sempre a casa. In ogni momento, in ogni stagione, l’italiano a Roma si sente a casa. Sono fiera di Roma. E dei romanacci. Madre cara, quali accenti possono eguagliare quello romano de roma? Solo il Toscano. Ecco, mettetemi davanti un toscano, fatelo parlare a vanvera… Potrebbe essere l’uomo più brutto, ignorante, perverso del mondo…Ma se parla toscano: lo amo a prescindere. Sarà quella loro aspirazione di acche che ficcano a caso, quel loro modo di accompagnare al tono di voce gesti enfatici. Ma come puoi non amarli? Come? Ma tornando alla grande città cos’altro potrei dire se non che il nostro percorso si stava concludendo in maniera esemplare?  Non ci lavavamo mai.  E avevamo diciotto anni. Immaginate la puzza. 11   Solevo attraversare Piazza di Spagna e Piazza del Popolo col mio roll-on, di quelli delicatamente profumati, e davanti allo sguardo attonito della folla circostante me ne spalmavo sulle ascelle sudate una quantità indefinita ripetendo: «Meglio profumare per finta che puzzare per davvero». Bei momenti, quelli. In cui gli aforismi ti uscivano spontanei. Senza doverli per forza circoscrivere a facebook per imprigionarli in qualche pagina web con la speranza chi i ‘mi piace’ superino l’indifferenza e la disattenzione del mondo virtuale. Eravamo ancora vergini di queste diavolerie, ed eravamo felici lo stesso. Non te ne fregava assolutamente nulla dell’opinione pubblica. Anche perché non sapevi nemmeno cosa fosse l’opinione pubblica. Non che adesso, a ventidue anni, abbia capito cosa sia…O me ne freghi qualcosa. Tanto ormai con le piattaforme virtuali ci stiamo rovinando; the big brother is watching you. Constantly watching you. Siamo controllati, pedinati, perseguitati dal mostro del web che carpisce ogni singola informazione che noi caproni carichiamo.  Loro sanno tutto, ti offrono tutto. Non puoi nascondere nulla: né il tuo passato, né il tuo presente e tantomeno il tuo futuro. É una cosa che, a ben pensarci, spaventa moltissimo. Certa gente si rovina per quel sito maledetto. Che gioia immensa. E dire che, sotto moltissimi punti di vista, è la piattaforma più utile del mondo: puoi messaggiare e chattare gratis, inviare foto e video, tenerti aggiornato sulle news del mondo e dei tuoi amici e seguire tutti gli eventi che ti capitano nelle vicinanze. Anche io lo uso. Non sono il tipo di persona che perde preziosissimi strali di vita per visitare profili e farsi i mazzi degli altri, però per le mail gratis e per gli eventi mi torna estremamente utile. Anche lì basta darsi una misura di sicurezza: diventare dipendenti della tecnologia è terribilmente semplice.  In un batter d’occhio ti ritrovi ad essere completamente isolato dal resto del mondo, più interessato a ciò che si svolge lì dentro che a quello che si svolge attorno a te. Sono dei pali in faccia continui. E non solo in senso metaforico. C’è gente che c’ha perso tutti i denti davanti! Diventi così tanto di compagnia che i tuoi amici smettono di rivolgerti la parola; tanto quando sei con loro messaggi come se ti avessero fatto una puntura nevrotica alle dita della mano. Che te frega del mondo che ti sta intorno? Dei legami che avevi acquisito con così tanta fatica? Delle persone che hanno bisogno della tua comprensione e delle tue attenzioni per parlarti di qualcosa di serio? Ma, come sempre, sto uscendo dal melone.   Torniamo al sentirsi appena maggiorenni, liberi da ogni possibile legame o costrizione. Tutto quello che vedevi davanti a te era il mondo, in tutta la sua sconfinata bellezza e, naturalmente: i soldi che finivano presto.  Maledettamente presto. Quei bastardi dalle bancarelline pieni di souvenir se ne stanno lì ad aspettarti, con occhi famelici. English? Spanish? Deutchland? Quando capiscono che sei italiano vedono metà delle loro possibilità di fotterti andare in 12   fumo. Quel giorno volevo comperare una statua. Non un David in dimensioni naturali e marmo, anche perché nel trolley non ci sarebbe mai entrato… E, inoltre, visto il fisico da paura, non sarebbe arrivato a casa vivo: la bava corrode ogni cosa. No, desideravo acquistare una piccola riproduzione di Apollo e Dafne. Ne avevo vista un’immagine sulla mia guida Romana ed ero rimasta affascinata da quell’opera. Mi sentivo immedesimata nella scena: la donna sfuggente che pur di non concedersi al marpione di turno decide di rinunciare alla sua vita umana per divenire albero. Oh come sarebbe bello essere piante! Oppure aria, acqua o fuoco…O qualsiasi elemento naturale… Non avere sentimenti e librarsi nel nulla, nella più completa libertà di spirito e vita. Senza oggi e senza domani. Senza piaceri e dispiaceri. Senza scelte da prendere. Se fossi albero sarei salice. Perché è l’unico albero fatto all’incontrario.  E io mi sento molto contraria. In tutti i sensi. Comunque il tipo aveva subito capito la mia propensione per quel modellino: «Hey, sono 50 euro per quella statuetta…Sei spagnola?» «No, sono Italiana…» «Ah, allora visto che sei italiana sono solo 25 euro…». « No, è troppo…Ho un badget basso». «A quanto la vuoi?». « Dieci euro». « Scherzi? Da dieci euro a cinquanta?!». « Oh, io i soldi me li sono guadagnati a pere». « Pere…?». «Pere!». «…» «Non nel senso che mi faccio le pere…Nel senso che le raccolgo…». «Oh senti, il minimo che ti posso fare sono 15…». «14?» « Ragazzina, se te lo vendo a 14, per essere chiaro sappi che non ci guadagno nulla perché è il prezzo a cui l’ho comprata da magazzino…». Beh, io ci provo sempre. La comprai. La legge immortale di: ”Più di dieci euro, no grazie!”. Era andata a farsi benedire. Qualche pazzia bisognerà pure commetterla nella vita… Fu uno degli acquisti più felici della mia giovane esistenza. Ancora non sapevo che quella statua sarebbe diventata oggetto di studio per il mio esame di maturità. Il problema però divenne un altro. Prima dell’acquisto, nel portafoglio, mi erano rimasti quindici euro utili alla sopravvivenza dell'ultimo giorno e mezzo. Ora avevo una statua, due giornate intere da affrontare, ma nessuna traccia di cibo. Odio andare a prestito di soldi, quindi non dissi nulla alle mie compagne di avventura anche se loro furono molto gentili a tentare di offrirmi un lauto pasto quando io mi rifiutavo categoricamente di mangiare. 13   Fui però assai fortunata, trovai, nei meandri del mio zaino un meraviglioso sacchettino ripieno di prugne essiccate. Me lo aveva consegnato mio padre prima della partenza. Prima di qualsiasi viaggio mi lascia sempre qualcosa di assurdo da portare con me, e lo fa con quella faccina felice a cui proprio non posso dire di no. Mia madre è più concreta; dopo l’inter-rail italiano, sapute le mie disavventure, consegna di nascosto una banconota da cinquanta euro nelle mani sicure di una delle mie tante compagne di viaggio. Per accertarsi che io non muoia di fame.   Passai la serata osservando la barcaccia del Bernini mentre smangiucchiavo quintali di prugne. Il delirio si manifestò il giorno seguente. Il nostro treno doveva partire da Roma e condurci a Bologna in 4 ore di viaggio circa. Se non cinque. Ricordo benissimo come a Firenze incominciai a percepire la fastidiosa sensazione dello sfintere che premeva per evacuare sostanze possibilmente tossiche dal mio organismo… Il viaggio sino a Bologna fu un incubo.  Freddo sudore mi colava dalla fronte mentre tentavo disperatamente di tenere serrate le chiappe per non farne fuoriuscire nulla.  Galeotto fu il Mcdonald. E lo sarebbe stato ancor più se ora non abbisognasse di quegli stupidi scontrini razzisti che non permettono ai comuni mortali di entrare alla toilette se stanno male: solo chi compera hamburger pieni di grassi e succulente calorie, infatti, può accedervi. Peggio di una laurea ad honorem. Il problema era che, per quanto sia riconosciuta in tutto l'universo l'economicità del Mac, io non avevo soldi. E dire che non avevo niente di niente è poco. Non arrivavo nemmeno a 80 centesimi per permettermi uno snack alle macchinette della stazione. Questo sì che ti fa sentire giovane e cittadino italiano allo stesso tempo. In pochi secondi realizzi la cognizione profonda del male. Fortunatamente le mie amiche erano ricche e pure affamate. I loro vassoi ripieni di crocchette ed happy meal (perché si sa che alla fine i ragazzi e le ragazze rimangono affettivamente legati ai giocattoli del Mac) mi permisero di accedere ai wc dorati. Con quel pass la mia avventura si concluse nel migliore dei modi. Per farvi capire l’urgenza della cosa vi dico solo che feci appena in tempo a chiudere la porta del bagno… Analizzate con attenzione la frase e troverete le protagoniste di questo mio ultimo paragrafo. Ah, i poteri reconditi della scrittura e del linguaggio!   Mi aspettavano ancora lunghe ore di viaggio. Difatti, mentre le mie instancabili compagne avrebbero proseguito il loro percorso verso la madre patria io sarei dovuta salire su un treno diretto a Trento per raggiungere i miei genitori sul lago di Molveno. Altre quattro ore, questa volta nel relax più completo. Avevo perso ogni stimolo alla fame. Osservavo placidamente il profilo delle alpi che si innalzavano sempre più mentre un grigio cielo Settembrino mi ricordava l’inizio imminente della scuola.   Sospiro a pensare a quei tempi, a pensare ai banchi che tanto odiavo a quelle mura fasciste e 14   schifose. Ma che senso aveva alzare la mano per chiedere di andare in bagno? Cosa ci costringeva ad andare alla lavagna solo perché un prof lo richiedeva? Quale abominio peggiore poteva esserci nell’essere interrogati davanti a tutta la classe con l’unico e preciso obiettivo di farti perdere la poca fiducia in te stesso che possedevi? Ora che sono all’università assaporo la bellezza della libertà. La bellezza di potermi alzare quando mi pare e piace, uscire dall’aula solo perché ho voglia di litri di caffè, stare seduta in mezzo a centinaia di ragazzi e ragazze provenienti da tutto il globo. Sentirmi, in sostanza, completamente padrona di me stessa e della mia personale istruzione.   Oh Bologna, quale amore mi lega a te! Lo sporco dei tuoi muri incrostati, depravati, ridipinti e di nuovo riempiti di oscenità. La sfilza di punkabbestia appoggiati ai muri coi loro cani colossali che cagano ovunque sotto i portici, con birre in mano e sguardi inebetiti (questo vale sia per i cani che per i padroni). E poi quella confusione totale, quei colori, quella fauna umana prodotto di giovani ormoni pieni di idee, di lotte per un futuro che sembra così infame e distante… Ah, l’università, quale meraviglia! E quali persone! Studenti incredibilmente in gamba, pieni di idee ed iniziative vogliosi di cambiare il futuro… Professori, mentori incredibili dai preziosi insegnamenti di vita celati dietro a quelle antiche pagine ripiene di storia e cultura che costituiscono la nostra Letteratura. Oh Bologna! Peccato solo che esistano taluni tipi di esami…   Come quella volta che, completamente inebetite, io e la mia compagna di studi decidemmo di tentare Storia Greca. Le intenzioni erano le migliori: colmare l’immensa lacuna che affliggeva le nostre giovani menti. E scoprire, finalmente, quanto l’omosessualità avesse influenzato gli ateniesi rispetto agli spartani. E, soprattutto, capire se Leonida avesse o meno la tartaruga perfetta come quella di Trecento. Ma queste cose non le sapemmo mai. In compenso ci dettero da studiare tre manuali: uno sul concetto di Democrazia, una storia di tutti i maggiori pensatori e storici greci del tempo e per finire Lui. L’immenso, ineguagliabile, orrendamente enorme MUSTI. 850 Non so se avete capito bene… 8 5 0 Ottocentocinquanta Eighty Hundred and fifty. Pagine. Lo ammetto, stavo per farlo, stavo per chiamare il telefono azzurro. Poi però mi sono ricordata di essere maggiorenne, così ho optato per Striscia la Notizia. Almeno, loro, mi avrebbero ascoltata e magari avrebbero combattuto per i miei diritti di studentessa. Oppure mi avrebbero regalato un tapiro d'oro! Ho sempre sognato di avere un tapiro originale! Insomma, Storia Greca si è rivelata un'autentica palla. Anche perché se fosse stato un racconto avvincente del tipo: la distruzione di Micene, la traduzione del lineare A e del lineare B (anche se uno dei due credo sia ancora in fase di 15   studio), i miti e la realtà riguardo Odisseo e i suoi viaggi, le lotte ideologiche tra Sparta e Atene con le diverse modalità di governo, le conquiste di Alessandro il Macedone e le sue storie più torbide, le scappatelle della regina Cleopatra… Insomma, forse avrei gustato di più un tomo del genere. E invece no. Date, date, date e…date. Nomi, nomi, nomi e…nomi. Ma vi sembra possibile? E neanche fossero stati nomi semplici da ricordare! Poliperconte, Efialte, Fidia, Nicia, Cleone, Demostene, Alcibiade, Pericle, Tucidide, e Stavacca. Ma gettatevi da soli nel baratro di Sparta! Ma vi pare possibile una cosa del genere? Avevo scelto di studiare Lettere solo perché speravo di incontrare personaggi veramente fuori dal comune; gente fumata di brutto, rastoni pazzeschi, canne ovunque, pensatori di sinistra e cose simili… E invece, al corso di storia greca, mi sono ritrovata in questa enorme classe piena di nerd. Nerd pazzeschi. Avete presente i ventenni con la riga da una parte? Con le scarpe nere lucidate a nuovo? La valigetta ventiquattro ore e l’occhiale da vista anti-sesso? Esattamente. Ora provate a immaginare me e i miei compagni di corso più affiatati in mezzo a loro. Secondo voi ho seguito/capito una sola delle parole della prof? No, bravi. Ero troppo impegnata a sfottere i nerd che continuamente alzavano la mano chiedendo se le terre di Tolomeo primo erano state conquistate da Seneca o Ovidio secondo il parere di tal dei tali cugino di Romolo e bisnipote di Ponzio il pelato. Ma vi pare? Non mi sorprende che all’orale la prof mi abbia scanzonata davanti ai suoi adepti che ridevano di me e della mia ignoranza alle mie spalle. Credo che quella sia stata una delle interrogazioni più spiacevoli della mia intera esistenza… Dopo Latino, naturalmente. Arrivavo con un notevole ed imprevisto 28 dagli assistenti. La prof, dopotutto, fu clemente.  Dopo avermi sbeffeggiata, presa in giro e disprezzata pubblicamente davanti ad i suoi accoliti mi ha abbassato solo di tre voti il risultato. Sono uscita vittoriosa, dopotutto. Sparlare a caso funziona sempre. Anche se a volte ti rendi proprio conto che inventare non basta… Se la vì. Opa Italian Style.   Ah Parigi… La città più topa d’Europa. Non so di preciso perché decidemmo di farlo.  Era forse il fatto di frequentare il primo anno di università a farci sentire onnipotenti. Ebbi la fortuna di fare un incontro interessantissimo con una pagina web molto attraente: si chiamava RYANAIR. Non sapevo ancora che sarebbe diventata la risposta ad ogni mia domanda e bisogno. Un sabato sera, io e la mia migliore amica non sapevamo bene che fare, così cominciammo a visitare i voli a caso prese dalla smania di partire e andarcene via. 16   Tendenzialmente utilizzo una tecnica infallibile per scegliere i voli: vado in base al prezzo. Come quando sono in un ristorante, io non leggo mai le pietanze, io leggo la lista dei prezzi. Poco importa se poi mi ritrovo a chiedere al cameriere un bicchiere di plastica vuoto, acqua gasata o mezza porzione di bruschetta.  Mi rendo benissimo conto che questa sia una forma avanzata di paturnia socio-psicologica acuta che mi porterà, un giorno di questi, a vivere rinchiusa in uno sgabuzzino senza cibo né acqua e solo soldi da tutte le parti. Versione zio paperone povero-in-canna. O forse sarà proprio la crisi economica a salvarmi, chissà, magari!  Almeno avrebbe un risvolto positivo per la mia blanda prospettiva di vita. Immagino che Freud si divertirebbe un mondo a trovare le cause infime e preistoriche di questo mio disagio personale. Tanto, gira che ti rigira, la colpa è sempre dei genitori! Tanto meglio per i pazienti che sembrano sempre i vincitori e le vittime in questo modo!   Anche in quel caso, comunque, vinse la tirchiaggine. Apparve a noi come in sogno: Parigi a dodici euro. Sei euro andata. Sei euro ritorno. Dodici euro totali. Poi non dite che sono na schiappa in matematica… Io e la mia amica ci guardammo, un attimo dopo la visa di suo padre scheggiava in rete. Maledette tasse della ryan che ti fanno pagare 12 euro sulla carta di credito! Ma non ci saremmo fermate, non per 24 euro di viaggio a Parigi. Quella notte stessa dovevamo decidere in quante saremmo partite, così mandai un messaggio ad alcune compagne fidate: «Ti va di venire a Parigi per 24 euro? Rispondi sì o no entro stanotte». Erano le dieci di sera. Quando la Vitto mi rispose semplicemente: «Ci sono». Decisi che l’avrei amata per sempre e incondizionatamente. Veramente tanta, ma tanta stima. Ci sono amicizie che non si comprano, per tutto il resto c’è Ryanair.   Qualche mese dopo eravamo in volo, tre fanciulle completamente sprovvedute alla scoperta d’Europa. Possedevamo una guida precisissima, avevamo trovato l’ostello più economico di tutta Parigi ed eravamo pronte ad ingoiare il mondo. Di traverso, quasi come un flauto. Sull’aereo io mi sedetti un poco distante dalle altre e feci la conoscenza di una critica d’arte avvezza a viaggiare tra Bologna e Parigi. Esistono queste persone che ti magnetizzano. Le cui storie sono assolutamente incredibili. E tu continui a chiederti se parlino seriamente o si stiano inventando tutto. In entrambi casi le stimo profondamente. E credo in ogni loro singola parola. È lo stesso principio immortale di voler credere all’esistenza di Babbo Natale, della Befana e della Fatina dei denti. Insomma, se per tanti anni te ne hanno parlato, se hanno fatto film o scritto libri su di loro, se i tuoi genitori te ne hanno confermato l’esistenza perché non crederci? Devono per forza esistere. Punto e basta. Smettere di credere a certe cose sarebbe un po’ come morire o invecchiare spaventosamente. Non sono ancora pronta né per l’una né per l’altra cosa. 17   Comunque, Marie Victoire apparteneva a questa stravagante categoria, affascinata dalla nostra ingenuità e fanciullezza ci parlò del suo lavoro, del suo percorso universitario e delle sue esperienze come insegnante di storia dell’arte. La bava pendeva dalle nostre labbra.  Era una donna assolutamente affascinante. Arrivammo in un aeroporto imboscatissimo fuori Parigi di almeno un’ora. La tattica della ryan è infatti quella di guadagnare qualche soldino in più costringendoti a prendere le loro navette per raggiungere un luogo plausibile nel giro di poco. E per poco si intende, minimo-minimo, un’ora e mezza di corriera. Solo per farvi capire dove la ryan è solita sistemare i suoi magnifici areoporti. Ma io non la vedo mai come una cosa negativa, in questo modo ti è consentito di gustarti il paesaggio esterno alle città, vedere le periferie e le frazioni. Insomma, avere uno sguardo più ampio sul territorio. Bisogna sempre trovare il risvolto positivo nella vita! Marie ci indicò la via e si sedette di fianco a noi per tutto il resto del percorso. Arrivammo a Parigi a mezzanotte.  Non bisogna stupirsi, la ryan è una compagnia seria: visto che si risparmia sulla dose di carburante almeno che facciano gli orari a caso come piacciono a loro! Se no non ci sarebbe gusto. Arrivammo alle dodici, dicevo. Alle undici e trenta chiudeva la metro. Chiudette, ebbe chiuso, era stata chiusa, fu stata chiusa. Azzo. (Non vorrei mai esser troppo scurrile o questo diventerebbe un racconto vietato ai minori di diciotto). In ogni caso eravamo fottute; il nostro ostello era a Republique mentre noi, attualmente, ci trovavamo esattamente dal lato opposto degli Champs Elysee. Doppio azzo. Ma Jesus, che ci ama di un amore infinito, non aveva messo sul nostro cammino Marie Victoire senza uno scopo. Scoprimmo che il suo appartamento si trovava vicino al nostro. « Ragazze attraversiamo gli Champs Elysee di notte!» «…» « E’ una cosa che ho sempre sognato di fare ma da sola non mi sono mai attentata…». L’esaltazione era alle stelle, lo spirito di Indiana Jones si impossessò di noi. E ad esso si unì pure quello di Dora l’esploratrice.  Partimmo. Chiamai l’ostello e informai del ritardo, mi chiese a che ora saremmo arrivate.  Alle due, risposi.   Ci incamminammo alla scoperta dei viali notturni. Le luci dei negozi erano tutte accese e i commessi stavano cambiando le vetrine. Boh, loro lo fanno all’una di notte, non chiedetemi perché.  La strada e i marciapiedi intanto si stavano lentamente e uniformemente ricoprendo di barboni. Ammetto che rimasi assai impressionata. Non avevo mai visto una quantità tale di barboni ma soprattutto un atteggiamento così 18   svaccato.  Si lasciavano cadere a terra privi di sensi per dormire sul nulla. Nemmeno un abbozzo di coperta o straccio, cuscino o cartone.  Per terra come Dio li aveva pasciuti. Mah. A parte questo e il rumore sordo e snervante dei mini-trolley delle mie compagne (io uso sempre e solo lo zaino, i trolley mi danno da fare) in giro non vi era nessuno a parte noi, i barboni e i topi. Fu una serata indimenticabile e piena di simpatici incontri. Il primo avvenne nella magnifica Place de la Concorde da cui si poteva ammirare la Tour Eiffel in tutta la sua incredibile magnificenza. Un piccolo esemplare di roditore, che poi tanto piccolo non era, correva felice per la piazza cercando di confondersi con l’acciottolato. Lo osservammo sorridendo, consapevoli che la sua presenza era dovuta al fatto di avere la Senna di fianco. Proseguimmo il nostro cammino. Marie ci fece costeggiare i giardini delle Tulerie e ci portò di fronte al Louvre. Stavamo appunto costeggiando il Louvre quando, passando accanto a numerosi negozi dalle luci accese, vidi con la coda dell’occhio un rapido movimento. Era un Mcdonald. E quelli erano una cinquina di topastri. Mcdonald e topi. Topi e Mcdonald. Gridai per attirare l’attenzione delle mie amiche e insieme osservammo esterrefatte codesta scena teatrale. Adesso avevamo finalmente capito a cosa si riferisse Ratatuille e perché fosse stato ambientato proprio in Francia. I cuochi del Mac sono dei topi! Quel locale era pieno di topi! Lo sconcerto ci accompagnò durante tutto il restante tragitto.  La Walt Disney aveva forse altre sorprese da svelare a noi povere imbecilli così stolte da aver creduto che i cartoni non rappresentassero la realtà? Ne vedemmo poi altri, tipici topastri da rifiuti che scartabellavano in mezzo alle cartacce dandosi a turno coi vagabondi. A metà percorso facemmo una pausa e prendemmo una birra in un locale bombato di centauri allupati. Musica dal vivo compresa. Non c’era una donna in tutto il locale. Credo fermamente che Marie lo scelse apposta per svezzare tre ragazzine innocenti e caste come noi. Fu abbastanza imbarazzante ma anche molto divertente. Non riuscii a finire la mia pinta. La birra mi riempie terribilmente. Non vale la stessa regola per tutto il resto del mondo alcolico. Arrivammo all’ostello alle tre del mattino, stanche ma felici. Salutammo Marie sperando, un giorno, di poterla rivedere e ci coricammo pronte all’avventura francese. Non vedemmo più nemmeno un topo. L’unica cosa che ce li ricordava costantemente erano le zaffate di fogna che salivano dai tombini e ci prendevano improvvisamente alla sprovvista. Aria di Francia. 19   Eau de Merd.   Del resto del viaggio ho ricordi meravigliosi: il museo d’Orsey, l’Orangerie e il Pompideau. Uno più bello dell’altro. Da piangere. Sia per la bellezza che per la gratuità della cosa. Entravamo alle casse coi soldi in mano, i commessi ci guardavo ed esclamavano, quasi con gioia: «Your ticket is free». Free. Che bella parola, non trovate? Peccato non esista anche in Italia!  E pensare che nel resto d’Europa se hai sotto i venticinque anni puoi non pagare una mazza! Questo si che è un incentivo serio alla cultura e alla fruizione dell’arte! Mica come andare agli Uffizi che, a parte il fatto che sono leggermente noiosi se non si esclude qualche sporadico capolavoro e la stanza di Botticelli, io, studentessa di Lettere e Scienze della disoccupazione non ho nemmeno un’agevolazione e mi tocca di pagare dieci euro per vedere centinaia di quadri simili l’uno all’altro. Ma vi pare? Vabbé, per fortuna che esistono gli stranieri. Almeno loro sono più furbi. Così ho potuto osservare con attenzione alcune tra le opere più belle del mondo: l’assenzio di De Gas, il ballo al Moulin de la Gallette di Renoir, le ninfee di Monet, quella vacca maiala dell’Olympia di Manet e poi lei, l’opera più bella e innovativa di tutti i secoli: l’orinatoio di Duchamps.  Quale genio poteva concepire una cosa del genere?! Lo scardinamento di ogni valore artistico, la messa in discussione di cosa sia l'arte stessa, la realizzazione di arte come status mentale al di là dell'opera stessa. Innovazione e provocazione più totale. Spero di poter raggiungere tale finezza psichica, un giorno.   Comunque, di Parigi mi sono piaciute tantissime cose come mangiare una crepes alla nutella a Montmartre osservando gli artisti di strada alle prese con funambolie pazzesche. E visitare la piazzetta dei pittori e dei disegnatori di caricature. Ho trovato deliziosa anche la zona dei locali a luci rosse, zona Mouline Rouge e Folie de Pigalle.  Ho cercato disperatamente qualche indumento indecente per una mia cara amica. C’erano dei copri-capezzoli troppo fighi, a forma di cuore con i pon-pon.  Stavo per acquistarli, prima di leggere il costo: sei euro. Madre cara, con sei euro potevo permettermi almeno tre pranzi! Era un acquisto impossibile per i miei standard. Un’altra meraviglia di Parigi sono i cornetti caldi per la colazione, hanno un gusto soffice e burroso e sono completamente diversi dalle nostre paste. Lo stesso vale per i pic-nic al parco fatti di baguette e prodotti tipici francesi. Quello fu uno dei pranzi più belli della nostra vita.  Tutto selettivamente comprato al supermercato nella zona dei prodotti francesi e bretoni Doc. Bella, davvero bella città.  Peccato solo che l’Italia le dia dieci a zero a prescindere. Anche perché metà degli architetti e delle opere là presenti sono italiane. Vabbè, alla fine siam tanto vicini tra noi che un minimo di corrispondenza amorosa era necessario vi fosse. 20   In una sola cosa pecca l’Italia: dalle nostre parti non esistano assolutamente cimiteri come quelli parigini.  Io davvero non lo credevo possibile. Quando la mia cara amica mi disse: «Che ne dite di passare la mattina al cimitero di Pere Lanchaise?». Inizialmente pensai scherzasse. Vuoi per il fatto che abitiamo in un paesello che, ad un cimitero, ci assomiglia maledettamente oppure perché trovavo, e trovo tutt’ora, che i cimiteri siano veramente dei luoghi cupi e noiosi di una nostalgia assoluta (tranne quando leggo Foscolo, perché appena lo faccio mi esalto ed ogni giardino del silenzio diventa per me una nuova casa materna ed accogliente).  Beh, evidentemente non ero mai stata a Pere Lanchaise.  Fu la visita più appassionante di tutta la nostra vacanza. Ricordo che quella mattina faceva caldo e il sole splendeva alto nel cielo.  Non vi era alcuna presenza umana. Vivente si intende… Entrammo attraverso un enorme cancello e notammo una cartina che mostrava le varie sepolture di alcuni dei personaggi più illustri di tutta Francia e non solo: Delacroix, Gericault, Modigliani, Oscar Wilde, Jim Morrison, Gustave Doré e moltissimi altri. Ricordo che rimasi completamente attonita per due motivazioni: innanzitutto non scorgevo, volgendo la testa a destra e manca, alcuna fine di quell’enorme non-luogo.  Enormi viali dipartivano in ogni direzione mostrando strani percorsi che si addentravano nel folto di boschetti, fontanelle e lapidi di ogni tipologia e dimensione. In secondo luogo, chi mai avrebbe creduto che un tale posto avesse racchiuso la salma eterna di cotali ed illustri personaggi? Ognuna di noi scelse le lapidi da visitare, inventammo un gioco; senza utilizzare la cartina avremmo dovuto individuare i personaggi famosi e farne la conta.  Vinceva chi ne trovava di più. Ci venne la brillante idea di dividerci, dal casino che facevano i trolley delle mie compagne sull’acciottolato credetti, scioccamente, che non le avrei mai potute perderle d’udito.  Ma, evidentemente avevo fortemente sottovalutato le dimensioni di quel luogo. Ognuna di noi si addentrò in una differente zona del cimitero e la caccia ebbe inizio. Inutile dire che vinsi io. Barai miseramente, perdendomi più di una volta e trovando un’altra mappa da cui segnai le posizioni dei personaggi che più mi interessavano… E, soprattutto, la porta d’uscita visto che prevedevo non sarebbe stato semplice fare ritorno al punto di partenza…E non è piacevole rimanere rinchiusi in un luogo da dove non potresti più tornare vivo. Mamma mia, gelo.   Ricordo benissimo le strane sensazioni che mi pervadevano mentre attraversavo questi luoghi immensi. Era evidente che vi era una gara in corso e non tra me e le mie compagne di viaggio, ma tra i residenti della zona. Ogni tomba faceva a gara con l’altra per la magnificenza, l’originalità e le dimensioni. Piramidi, sfingi, enormi cherubini, mausolei, templi greci, finti altari ed are, navi, case vere e proprie: tutto era un’ostentazione di gloria e potenza.  Tutto era decadenza più completa. Grosse crepe attraversavano le lapidi da parte a parte, il muschio cresceva ovunque devastando quelle opere architettoniche. E tutto questo mentre enormi corvi neri come la pece gracchiavano posandosi placidamente su di esse. 21   Non nego, nella mia solitudine di vagabonda che quel giorno sentii, più di una volta, lunghi brividi attraversare la mia schiena. Sembrava tutto così assurdamente irreale. Così fuori dal mondo. Mi sentivo proprio entrata in uno dei romanzi di Edgar Allan Poe, quei tipici romanzi che ognuno di noi comincia a leggere senza finirli mai. Perché ti assale un’ansia ma un’ansia di quelle che non te le levi più di torno… Un’angoscia tale da dover riparare i danni cerebrali con letture facili e tranquille come: Impariamo a riconoscere gli animali, Dora l'esploratrice 2 la vendetta e cose simili… Ma dovevamo sbrigarci, quello era l’ultimo giorno a Parigi ed andava sfruttato con la tipica giornata ‘a caso’ per le vie più oscure della città.   E sarebbe stato tutto meravigliosamente perfetto se non mi fosse accaduta una cosa assurdamente priva di senso; proprio quel giorno, mi spuntò la coda. Una coda vera e propria! O almeno questa era la spiacevole sensazione di compressione che percepivo nella zona lombare. All’inizio non vi detti peso. Calcolai che la pressione dello zaino enorme sulla zona finale della mia colonna vertebrale e la cintura tarocca di Louis Vuitton (se si va in Francia non si scherza su codeste cose) avessero provocato sulla mia pelle un qualche spiacevole arrossamento. Ma, man mano che camminavo e prendevo coscienza del mio dolore, mi rendevo conto che quello strano fastidio era interno e non esterno. Pensai allora che fosse un enorme brufolo. Si sa bene che quei maledetti hanno la spiacevole abitudine di spuntare nei momenti più errati e nei luoghi più oscuri. Notai che certe posizioni, da seduta, erano per me impraticabili. Ma resistetti, nella totale speranza che tutto sarebbe scomparso. Ho la tendenza ad essere altamente superficiale in una quantità più che ampiamente elevata di situazioni. Tornata a casa però, nella mia Italia, quella spiacevole sensazione non dava segni di voler cessare.  Davanti all’enorme specchio del bagno cercai disperatamente risposta ai miei interrogativi e, in effetti, proprio al limitare della mia colonna, all’imbocco col deretano, vidi che qualcosa di strano stava spuntando. Il panico si impossessò di me. Che mi stesse sul serio crescendo una coda? Che mi stessi trasformando in Dragon Ball versione prima serie? Quella notte mi rigirai nel letto disperata, tentando con ogni forza di costringermi a dormire, piansi a lungo senza trovare soluzioni. Il dolore stava diventando sempre più insopportabile. È esattamente quel tipico dolore crudele che parte in sordina, poco meno di un fastidio per poi aggravare lentamente, con una costanza ed una forza impareggiabili. Davvero sembrava che l’osso tentasse ad ogni modo di uscire dal mio corpo, spaccando la pelle e devastando i miei muscoli, organi e tessuti nervosi. Durai fino alle tre del mattino, continuando a ripetermi che, dopo una bella dormita, tutto si sarebbe sistemato. Ma così non fu. Dovetti rinunciare al mio stoico e integerrimo comportamento. 22   Piangente e disperata uscii dalla mia camera e tentai di trovare conforto in cucina, con un cuscino, e sulla sedia. Raggomitolata in tutte le posizioni possibili e immaginabili, con la speranza che il dolore sarebbe prima o poi cessato. Per fortuna esistono le mamme.   Le mamme possiedono un sesto senso: il mammito. Il mammito è un radar potentissimo che capta ogni più piccolo e insignificante segnale trasmettendolo al cervello-madre. É un collegamento privilegiato tra madre e figli. Lo si acquisisce come punto bonus dopo l’avanzamento di nove livelli di dolore durante il periodo del parto. Un po’ come Super Mario. Mia madre percepì nell’immediato il mio disagio e ben presto la ritrovai in cucina al mio fianco. Si arrabbiò per il fatto che non le avessi raccontato nulla e mi riempì di niflam. Visto che non sono abituata agli anti-infiammatori perché non ne prendo mai, la mia mamma è ancora abituata ad usare il niflam per bambini. Ma in effetti ci sta. Contando che l’effetto lo fa sul serio. O forse è per il fatto che io sono rimasta una bamboccia? Mah, essere o non essere. Questo è il problema. Di lì a pochi minuti il dolore si attenuò sino a scomparire. Ma mia madre fu irremovibile. Dovevamo andare dalla dottoressa. Sentii un tuffo al cuore. Dalla dottoressa?   Da pochi anni ero passata dal mio pediatra di fiducia a questa dottoressa. Era una donna estremamente pignola e attenta. Se ti sbucciavi un dito lei ti faceva spogliare e passava un’ora, sessanta minuti contati, a perlustrare ogni più piccola parte del tuo corpo, ogni più piccolo tuo difetto, ogni più insignificante discrepanza. La prima volta che mi vide fece uscire mia madre per farmi le tipiche domande imbarazzanti: «Sei mai stata incinta?» «No!» « Fumi o bevi alcol?» « … Per bere alcol intente in maniera continuativa? Perché ogni tanto nei week-end io e i miei amici beviamo alcolici…» «No, no tranquilla. Intendo solo il consumo regolare di alcol» «Allora no, tranne il lambrusco la domenica dal nonno ma non mi sono mai ubriacata in vita mia» (ero ancora una persona perbene a quei tempi). «Hai mai fatto uso di sostanze stupefacenti?» «No!».  I miei no, nel frattempo, erano saliti di grado e di intensità a manifestare il mio stupore a domande che trovavo totalmente insensate e altamente frustranti per l’integrità morale della mia giovane persona. Oh insomma!  Io sono una brava ragazza e di sani principi! Possiedo un alto valore etico e insegno pure catechismo ai ragazzi delle medie! Ma lei voleva insistere: «Tu sei di quel paesello nella bassa, ed è risaputo che in quel luogo il tasso di droga è molto elevato. Moltissimi ragazzi ne fanno uso e lo spaccio è il più alto di tutta la zona. Davvero non 23   ti sei mai drogata?». «Ma no!» L’interrogatorio incominciava a darmi sui nervi. La dottoressa mi chiese se avevo le mie cose, gli agrumi di scisciglia come amavo chiamarli, ed io assentii. Mi disse allora che non poteva controllare là sotto e mi consegnò un foglio per la palpazione al seno da fare almeno una volta al mese davanti allo specchio per individuare noduli e cose simili. Naturalmente mi chiese di tornare apposta un giorno in cui non avessi avuto mestruazioni per dare una controllatina lì sotto. Naturalmente, ogni volta che feci ritorno da lei, ero nel periodo di ciclo a prescindere e, il foglio con le palpazioni finì in un cassetto che non riaprii mai più. Ora, non fraintendetemi, so benissimo che la prevenzione è fondamentale soprattutto per noi donne e per certe parti del nostro corpo. Ma possedevo e possiedo tutt’ora quella sciocca e giovanile sensazione che la mia vita sia più o meno tendente all’infinito e al concetto di eterno. È la tipica malattia che tutti, prima o poi, attraversano nella loro breve esistenza. O, almeno, tutti quelli che si sentono invincibili, nel pieno delle loro forze fisiche e mentali e che non hanno mai avuto troppi problemi nella vita. Io faccio parte di questa categoria, me ne vergogno un poco perché so benissimo quanta gente stia male e mi stia maledicendo proprio in questo preciso istante. Mortacci mia. Ma se dicessi il contrario, beh mentirei. Ma tornando alla mia personal doctoress… Mi fece un intervista sulle morti di tutti i miei parenti e finito il questionario mi disse: «Tu hai un novanta percento di possibilità di morire di tumore, quando avrai venticinque anni voglio che cominci a fare la colonscopia per tenerti monitorata. Purtroppo le morti per tumore colpiscono soggetti sempre più giovani». E andiamo! Allora vedi che alla fine anche a noi crolla il concetto di infinito.   Questa serie di pensieri mi affastellava la mente ogni volta che pensavo alla mia dottoressa. E via che col vento! Fu tutto quello che riuscii a pensare mentre salivo in macchina. Pochi minuti dopo la dottoressa frugava nel mio deretano: « E’ una cisti…Una cisti interna che tu possedevi sin dalla nascita e si sta manifestando solo ora. Ti fa molto male perché si trova in una posizione estremamente scomoda e preme per uscire perché si deve liberare dal pus…» « Quindi è come una specie di brufolo gigante?» « Molto più profonda, non si sa mai dove finiscano le sue radici. In genere i chirurghi tendono ad inciderle per toglierle ma non si ha mai la completa certezza di togliere tutte le radici e quindi potrebbe rinascerne un’altra al suo posto» - « Cara, ti prendo immediatamente appuntamento al pronto soccorso e devi farti visitare da un chirurgo per vedere se ti convenga toglierla o meno. Le cisti sono una cosa primordiale che si ha dalla nascita, alcune sono esterne e rimangono lì per sempre senza fare molti danni, altre invece sono sottopelle e fanno molto male quando tentano di esplodere. Dentro puoi trovare di tutto; tessuti embrionali, unghie, capelli e addirittura denti. Parti di organuli e strani embrioni scarto della placenta di tua madre.» Ammetto che mi stava per venire il vomito. L’idea di evacuare pus ripieno di denti e capelli non era il massimo. 24   Prendemmo immediatamente appuntamento all’ospedale e fui visitata dal chirurgo. Proprio la notte prima la cisti si era aperta e per lunghi minuti aveva sgorgato liquidi marroni e puzzolenti, nessuna traccia di denti ed unghie, fortunatamente. Quella sera avevo messo tutto il mio impegno per sgorgare quella schifosa sostanza lontana dal mio corpo, l’avevo disinfettata con cura e, devo ammettere, che fui molto soddisfatta del risultato.  La cisti era sgonfia e vuota. Quando il chirurgo mi scrutò il deretano decretò che ero stata brava perché avevo fatto uscire tutto il liquido. Mi consegnò una crema e una terapia fatta di acqua calda alternata a garze disinfettanti dopo di che mi chiese cosa avessi intenzione di fare. Avevo solo due alternative: la prima era tentare l’operazione, sperare che i chirurghi mi prelevassero la zona totale senza tralasciare alcuna radice e ritrovarmi così a giugno con un secondo buco nel culo che andava ogni giorno medicato con garze e riempito di prodotti emollienti e caldi non senza una certa sofferenza. La seconda alternativa era fare finta di niente vivendo con la consapevolezza che un giorno o l’altro forse un dolore simile si sarebbe nuovamente manifestato e altro pus sarebbe sgorgato. E questo poteva accadere un’ora dopo come due mesi  o vent’anni dopo. Come sempre, scelsi la superficiale via del silenzio e del menefreghismo. Mi tenni la mia cisti, tanto da quando l’avevo sgorgata non mi dava più fastidio, e decisi di non rischiare un’operazione che mi avrebbe tenuta a letto per dei mesi con un buco enorme nel culo e senza la certezza che si sarebbe effettivamente sistemata la cosa. Ora a distanza di quattro anni devo dire che feci la giusta scelta. La cisti riposa in pace e non mi ha dato nessun problema, almeno sino a questo momento.   Comunque non so come la viviate voi ma io ho un bruttissimo rapporto con i miei limiti fisici. Odio andare all’ospedale o dal dottore perché in me non va qualcosa. Lo odio profondamente. Mi sento limitata, frustrata e umiliata. E ciò non si addice al mio temperamento violento e aggressivo perché, in quanto donna, io mi sento un super-uomo.  So che può sembrare insensato, ma so anche che siete in grado di capirmi benissimo… Godo di una splendida salute, corro e salto e pratico qualsiasi sport, non riesco a stare ferma non soffro praticamente mai e mi sento sempre più viva e forte ogni giorno che passa. Forse proprio per questo non sono abituata a sentirmi vulnerabile e reagisco malissimo. Come quella volta che mio padre mi fece trovare un pacchetto di integratori alimentari per colazione, dicendo: « Io e tua madre abbiamo visto che sei molto stanca e il tuo rendimento scolastico è calato. Il farmacista ti ha consigliato di prendere questi una volta ogni tre giorni…». Piansi tutta la mattina. Mi sentivo debole e inutile.  Una femminuccia sciocca e fragile che abbisognava di medicinali per andare avanti. Come quelle mie compagne di classe che tenevano astucci pieni di tachipirine, aspirine, boscofen o robe simili.  Che schifo! Ma che schifo essere uomini malaticci e vulnerabili.  E che schifo essere donne e perdere sangue ovunque e in continuazione.   Ricordo ancora quella mattina. 25   Avevo il ciclo da un paio di anni o forse meno. Non mi ero ancora abituata totalmente all’idea di indossare una sorta di pannolino rigido che bloccava le mie circonvoluzioni e mi faceva sentire a disagio con me stessa e con gli altri. Conosciuto nel resto del mondo come; assorbente. Quella mattina mi svegliai perché percepivo una strana sensazione sotto di me. La mia stanza era buia anche se le luci filtravano dal corridoio, segno che il resto della famiglia era già in piedi. Era estate. Mi ricordai di avere le mie cose e che forse quella strana sensazione era dovuta al fatto di aver strabordato in maniera eccessiva. Sbuffai perché non era la prima volta. Per quanto di notte io sia abituata ad usare doppio-assorbente purtroppo mi capita spesso di macchiare le mutande, il pigiama e a volte persino il letto. Sarà che, durante la notte, mi capita di ballare la salsa e la merenga a ritmo forsennato fino alla perdita più completa di sensi. Fatto sta che allungai la mano per monitorare la situazione. Come avevo immaginato la sensazione di bagnato non era una mia invenzione. Mi ero macchiata. Accesi la luce per controllare l’entità del danno. E per un attimo persi quasi conoscenza. Ciò che mi si presentò davanti andava al di là di ogni immaginazione. Avete presente una scena da vampiri? Di quelle dove il sangue scorre ovunque in stile Quentin Tarantino?  Ebbene, sembrava proprio che il caro Quentin avesse deciso di girare un film proprio da quelle parti! Litri di sangue occupavano il mio letto, un lago di rosso profondo trapassava la mia trapunta, il materasso fino a scendere nel legno della struttura. Avevo perso così tanto sangue da non capire come potessi essere ancora viva e, soprattutto, come fosse possibile che io stessi così assurdamente bene. Il radar-mammito si mise subito all’opera. Mia madre inizialmente mi sgridò, poi si rese conto dell'apocalittico mar rosso e consigliò di andare immediatamente a farmi visitare. Poi però, stupitasi della mia buona salute, si fece convincere dalla sottoscritta a rimandare ogni esagerato allarme per aspettare semplicemente che il flusso si attenuasse da solo. Quando andai in bagno controllai la situazione del mio caro mandarino (termine coniato successivamente ad agrumi di scisciglia: li usavamo alle medie per confondere i maschi) e rimasi orripilata nel constatare che l’assorbente era così esageratamente pieno di sangue in ogni centimetro cubo da rendere possibile la sopravvivenza ad un intera famiglia di sanguisughe. Bisnipoti compresi. Passai tutta la giornata in uno stato di confusione totale; dovevo riuscire a connettere le mie perdite assurdamente abbondanti, che peraltro continuavano imperterrite, col fatto che fisicamente mi sentivo benissimo. Questo mi spaventava più di tutto il resto.  Pensavo proprio che mi stesse accadendo qualcosa di terribile. La notte successiva, con ogni previdenza, mia madre mi stese una magnifica cerata sotto il corpo affermando che una volta poteva accadere un eccesso di perdita ma che se fosse avvenuto anche la mattina seguente mi avrebbe portata in ospedale senza un ‘ma’. 26   The day after tomorrow accesi la lampadina piena di speranza. Ma le mie speranze vennero immediatamente deluse; fortunatamente la cerata aveva bloccato il trapasso esagerato di quel Niagara in piena ma essa stessa si era immolata come candido agnello al sacrificio.  Una carneficina. Questa volta le preghiere non valsero a nulla, mia madre mi voleva dal ginecologo e subito. Per me si trattava di un vero e proprio affronto. Già andare in ospedale non era una cosa che io desiderassi con tutta l’anima e se dobbiamo aggiungere a questo il fatto che uno sconosciuto vada a frugare laddove io stessa non conosco nemmeno la conformazione del mio apparato genitale… Beh, mi pareva una cosa semplicemente sconveniente.  Fortunatamente l’uomo in questione non frugò da nessuna parte ma si limitò ad osservare attentamente le mie mutande comprese di assorbente e di tutte le schifezze che esso poteva contenere…   Ecco, io non capirò giammai chi decida di darsi alla medicina...Ma si può? Voglio dire, quale persona sana di mente vorrebbe trovarsi ad avere a che fare con schifezze immonde, porcherie inguardabili e pazienti psicolabilmente assurdi? Per non parlare dei rischi di contagio e, soprattutto, dell'altissimo grado di responsabilità. Eppure ai test, le file sono immense. Tutti, almeno una volta, devono provare il test di medicina. É un must. Se non lo fai sei out.  Oh, va bene. Si sscludano, naturalmente, le buone anime che lo fanno per vera passione, per sani principi morali ed etici o per sogni nel cassetto... Ma tutto il resto? Voglio dire, io i miei ottanta euro di test li spenderei per qualcosina di meglio. Tipo due giorni alle terme. E senza farmi il mazzo a studiare malattie epidermiche da vomito acuto. Poi, sia chiaro, ognuno viaggia per conto suo in questo tunnel illuminato ma, a volte, mi pare gironzoli una certa superficialità anche in queste materie... Insomma, non tutti nascono medici. Uno può essere bravissimo a scuola senza per forza tentare la carriera in medicina. Ci vuole uno stomaco di due metri di spessore per lavorare e vivere in certi ambienti. Insomma, la secchiona che sviene se vede un pochino di sangue non può permettersi di studiare chirurgia. Ci vuole pochissimo buonsenso. Se no, addio sanità. Quella mentale pure! Wella, alla faccia delle digressioni storico-culturali. Scusate, mi ripiglio e ritorno al mio assorbente.   Al ginecologo bastò uno sguardo per affermare che era normale avere tali scompensi dovuti agli ormoni in circolo. Mi somministrò una cura fatta di svacco e relax davanti alla tele e qualche pastiglia. Dopo un giorno il flusso smise la sua corsa alle rapide e, per ripicca, il mese dopo non si fece nemmeno vedere. Sinceramente, non me ne ebbi molto a male.   Comunque, non so a voi, ma a me questa cosa pesa un sacco. Ma proprio me la porto dietro come un fardello. Proprio non me ne capacito: quale colpa ho avuto io a nascer donna?  Sebbene dentro di me mi senta fortemente uomo, noto comunque tutta la fragilità fisica e 27   sociale dell’esser nata donna. E dire che mi è anche andata bene… Pensate se fossi nata nel terzo mondo dove le donne sono violentate, picchiate e usate senza alcun rispetto, dove l’ignoranza le rende paurose dal potersi e volersi ribellare e dove la loro condizione è di poco superiore a quella degli animali. Quei paesi dove minuscole bambine subiscono operazioni disdicevoli e talvolta mortali pur di non concedere loro nemmeno il piacere sessuale. Le stesse bambine che, ai limiti e in faccia alla pedofilia, vengono vendute dalle famiglie a uomini vecchi e pieni di soldi i cui lombi pendono pieni di brama e viagra. Quei mondi in cui il velo è la tua unica protezione e salvezza dove niente è permesso e niente mai lo sarà. Perché la legge e la società sono contro di te sempre e comunque. Ma possiamo anche avvicinarci alle nostre parti. Noi donne non possiamo uscire sole, di sera e notte nemmeno a pensarci.  Tra poco ci sarà impossibile uscire anche in pieno mattino. Ogni santo giorno ascolto il tg. Ogni santo giorno il marito uccide la moglie. Talvolta anche i figli. Migliaia, milioni di giovani impotenti davanti alla violenza fisica, psicologica e carnale. In un mondo in cui invece di insegnare all’uomo a trattenere e bloccare i propri istinti animali, si insegna alle donne come difendersi da essi. Ammetto che questa frase l’ho copiata da qualche parte.  Quasi sicuramente facebook. Ma era troppo bella per poterla lasciare a marcire su qualche bacheca sconosciuta.   É inutile, mi sale un nazismo incredibile (nel senso metaforico della cosa, non vorrei offendere alcuna etnia) se penso a tutti i soprusi che avvengono, sono avvenuti nel passato e che, purtroppo, continueranno ad avvenire. La nostra fragilità mi spaventa. Mi spaventa il fatto di dover vivere con la paura del prossimo, del non potermi mai fidare di nessuno, del non poter essere libera di andare dove voglio e quando voglio.   Ma poi… vogliamo poi parlare della SCOMODITA’ di nascer donna? Io e le mie amiche abbiamo avuto lunghe discussioni ed amabili dibattiti su questo punto… Ma alla fine, le mie ragioni, vincono sempre su tutto. Anche perché solo un portatore sano di deficienza potrebbe affermare il contrario, cioè che sia meglio nascer donna. Ma fatemi il piacere! A parte il fatto della fragilità e della minor forza fisica, che già mi danno da fare parecchio ma, nonostante tutto, potrei anche passarci sopra… Noi nasciamo col preciso scopo di soffrire. E sopportare, all’evenienza, tutto ciò che viene. Prendete, per esempio, il ciclo mestruale. Giusto per stare in tema e non passare di palo in frasca. Ogni singolo mese della nostra breve ed intensa esistenza, precisissime (a chi più a chi meno) quelle luride bastarde vengono a farti cucù. E tu, sorridendo le aspetti mentre gli ormoni sfrigolano sotto la tua pelle trasformandoti in  una sorta di mostro preistorico.  Ognuna, d’altronde, reagisce alla sua maniera:c’è chi si gonfia come un pallone, chi si ritrova a 28   trattenere o rilasciare più liquidi e solidi del dovuto, chi si arrossisce come un aragosta, chi si trasforma in un covo di pus e acne vivente, chi si ritrova i capelli effetto olio-al-tegamino, chi puzza peggio di una scatola di gorgonzola lasciata a marcire, chi si ritrova con un alito così piacevole da staccare l’intonaco dalla parete.  Insomma, il fisico diventa un vero e proprio cesso. Le donne col ciclo sono cessissime. E questo lo sanno bene. Lo percepiscono al cento per cento. Il disagio le schiavizza mentre tentano disperatamente di coprire le imperfezioni, spruzzarsi profumo ovunque, mangiare solo cibi sani e nascondersi sotto maglie e pantaloni che andrebbero bene solo ad un montone di quattrocento libbre e mezzo. Ma fossero solo questi i problemi! Vogliamo parlare del danno fisico? Molte donne soffrono come maiali privati della loro razione di cotechino. Urlano nelle loro stanze digrignando i denti, quasi l’utero si stesse contorcendo a formare una scultura di palloncini. Alcune sono costrette a stare a letto distese per almeno un giorno, prive di ogni forza locomotrice. Depravate della loro stessa femminilità. Altre, coraggiosamente, si dirigono a scuola o a lavoro tentando di trattenere gli spasimi di dolore. E qui i medicinali piovono da ogni dove. Una sola parola campeggia nell’aria ed è riconosciuta in tutte le lingue e in tutte le salse: BUSCOFEN, BUSCOFEN, BUSCOFEEEEEEEEEEEEEEEEN Lasciate ogni speranza o voi che siete senza buscofen. Quella magica pastiglia è in grado di alleviare il putiferio ormonale che avviene là dentro e di placare la sete di sangue e dolore. Mal di schiena, mal di pancia, mal di testa. Tutto è male! Va là mio caro Leopardi, ti garantisco che se tu fossi nato donna non avresti retto un singolo giorno della tua vita.  Saresti crepato prima di nascere, solo all’idea del dolore che avresti provato. E naufragar mi è dolce, in questo sangue.   Dico tutto questo riportando racconti veritieri e spaventevoli di anni di pijama e drinko party durante i quali codeste cose sono state pazientemente registrate e dattiloscritte. Anche perché io, a parte la mia sconvolgente avventura, non ho mai provato nulla di simile. Non perché sia un uomo o un transgender e quindi immune a tutto questo. Ma semplicemente perché non soffro. Sono una delle poche graziate a cui è stato concesso il benemerito di non patire dolori mestruali.  Per questo ringrazio Jesus ogni giorno, per questo sono grata a mia madre. Per quanto lei, da giovane, soffrisse molto. Però anche questa fortuna può avere i suoi lati negativi: non è esattamente piacevole scoprire all’improvviso e senza alcuna previsione del tempo che le tue mutande si sono improvvisamente colorate di rosso. Che, per quanto il rosso possa andare di moda, è risaputo che è sconveniente lasciare tracce in giro per le signorine. Riguardo a questo punto, avrei molti aneddoti da raccontare ma li riserverò ad un prossimo libraccio se mi darete il beneplacito di continuare nella mia missione di paladina del genere umano: maschile e femminile. 29   E, soprattutto, se vi sarete divertiti a leggere questa sorta di zibaldone di strani pensieri ed idee… Sia chiaro che il mio unico intento era quello di divertire e se per caso non vi fosse dispiaciuto affatto, vogliate bene a chi l’ha scritto, e anche un pochino a chi l’ha raccomodato.  Ma se invece fossi riuscita ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta! Ops, mi sa di averla già sentita da qualche parte. Vabbè. Tipico lapsus in fabula.   Ma torniamo al dolore: l’essenza dell’essere donna. Perché non abbiamo ancora parlato dei danni psicologici.  Avete mai notato quanto siano suscettibili, altalenanti ed imprevedibili le donne? Bene. Sappiate che se già di loro lo sono, col ciclo è peggio, molto peggio. È una sorta di furore indomito che le guida e le costringe a diventare belve. L’innata consapevolezza dell’ingiustizia di perdere sangue le fa reagire a tal modo. Vero che ogni tanto risulta essere una scusa utile, sinché gli uomini ci credono: « Scusami, ma sono in ciclo…» « Non posso, oggi è il primo giorno di ciclo….» « Non mi sento molto bene, sai, ho le mie cose…» E poi quanti problemi a livello di disagio e paure. Paura di macchiare sempre e ovunque. Paura di indossare pantaloni chiari nel periodo sbagliato. Perché dovete sapere che nonostante l’esistenza degli assorbenti, questi piccoli incidenti possono capitare benissimo. L’assorbente dovrebbe essere stato inventato apposta per trattenere ogni sporcizia ed impurità ogni monte, mare o fiume, eppure non sempre riesce nel suo intento. Con le ali e senza ali, interno o esterno, piccolo o extra-large, con la scritta ‘ho sete di sangue’ o meno…insomma ne esistono di tutti i tipi colori e profumi (perché si sa che oltre a perdere sangue quella sostanza viscida puzza pure! Tipo di ferro arrugginito). Una donna ha ampia scelta in tema di mandarini. Per questo esiste l’intelligente scissione tra quelle che sono arance, mandaranci e mandarini. Però è comunque scomodo averli. Estremamente scomodo. Vanno cambiati ogni quattro ore (se come no), quando si riempiono e sei in giro non sai mai come fare. Poi i bagni pubblici non ti danno la sicurezza che ti da il tuo bagno di casa, la sua intimità, la sua logica spaziale… Ti pulisci con le salviette intime fighe, ti guardi attorno alla ricerca disperata del pattume apposito per quei cosi schifosi e pieni di germi e: lo zodiaco ti sale alle stelle! Perché proprio non esiste un cavolo di pattume che possa nascondere l’orrore che hai prodotto! Vogliamo poi aggiungere un dato puramente economico? Costano un fracasso! Spendere soldi, da adulta, per dei sottospecie di pannolini!  Non vi pare un controsenso? Ma non vi rendete conto dello schifo?  E poi, vi pare possibile che anche nel mondo degli assorbenti esistano le ingiustizie? Ci sono gli assorbenti per ricche e quelli per povere. Gli Eeee sono quelli per ricche, quelli in lattice che costano cinque euro a pacchetto. Te li metti e rimani un attimo schifata dalla consistenza viscida, poi ti ci abitui fino a quando, all’improvviso, ti viene un panico da paura:   30   «Ommioddio ma ce l’ho o mi si è tolto?» Solo perché è così comodo che non lo senti nemmeno più addosso. Ma ci sono anche gli assorbenti da poverelle, quelli rigidi che non si piegano neanche se ci sbatti un cinghiale sopra. Quelli con le ali così dure da scartavetrarti la parte interna della coscia mentre cammini, tanto da dilaniarti la gamba e rovinarti cinque centimetri cubici di intro-coscia. Inoltre sono anche incontinenti, bastano due gocce che sembra un assassinio. Se quella famosa notte ne avessi indossato una così scarso probabilmente avrei macchiato anche i muri e i mobili della mia stanza. Tipico effetto schizzo. Ecco, se qualche coraggioso uomo era arrivato a leggere fin qui, credo sia collassato in questo preciso istante. Amen, selezione naturale. Ne rimarrà solo uno. E probabilmente si tratterà di Highlander. Peccato solo che, quella notte, non avessi con me un Eeee.  Sono fermamente convinta che avrebbe accumulato così tanto sangue da raggiungere le dimensioni di un pallone da calcio, pur di non strabordare e dimostrare di essere un assorbente griffato. Un assorbente da vip.   Un’altra cosa che denota il disagio femminile durante le mestruazioni è il fatto, appunto, di non essere mai sicura della resistenza del tuo personale assorbente, tanto che, ogni volta che ti alzi, hai già l’amica pronta e fidata che sa come fare: un cenno, un gesto col capo, un sorriso di incoraggiamento…  Io in genere vado sullo schietto: « Vai tra, non sei sporca» « Tranquilla, non hai strabordato» É proprio una malattia, una fissa. Se ti capita, anche solo una volta, di macchiare pantaloni, sedile della macchina o sedie da lì in poi è finita. Non ti fiderai mai più totalmente del tuo assorbente di fiducia. E il vostro rapporto si distruggerà sino a lasciarvi col complesso di Edipo per le macchie di sangue. Ma non è finita qui… Vogliamo parlare del rapporto donna-assorbente-acqua. Che sia la piscina, che sia il mare, che siano le terme…Le mestruazioni sono la morte! Perché sta pur certa che: per quanto tu abbia prenotato le vacanze entro una data precisa consultando prima il tuo lovecycles, per quanto tu abbia fatto la danza della pioggia per quel compleanno in piscina, per quanto tu ti sia impegnata a depilarti per 45 giorni di fila…Le mestruazioni lo sanno. Lo sanno da prima. Lo hanno sempre saputo. Lo dice anche il Liga. Anzi, ti vengono esattamente quando sentono pronunciare la parola acqua. A quel punto non ti rimangono molte possibilità: o ti recludi in casa a piangere disperando del tuo stato di salute e del mondo contro di te, oppure te ne sbatti e ti infili quindici assorbenti  con sopra ventisette paia di quei pantaloncini tattici che tanto piacciono alle lesbiche oppure ci provi, ti chiudi in bagno e ti impegni con tutta te stessa e tenti di infilarti uno di quegli schifosi assorbenti interni. 31   Quelle piccole ed innocenti supposte bianche. Ricordando, però, di tener ben fuori il cordino di salvataggio. Se no è la morte. Ci ho provato anche io una volta. A Malta. Saha. E’ l’unica parola in maltese di cui io abbia un vago ricordo. Significa una cosa tipo ‘arrivederci’ o ‘ciao’. Ricordo che sopra le istruzioni veniva spiegato esattamente come e dove infilare quel coso, perché si sa che noi donne, in quanto ad orifizi, abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ricordo molto bene che una parola in particolare campeggiava sopra l’elenco interminabile di istruzioni RILASSATEVI. Come cazzarola faccio ad essere rilassata quando mi devo infilare uno di quei cosi per di là? Con la paura che mi faccia un male boia o che, sbagliando direzione, perda la mia virtù? Lo ammetto. Non ne ebbi il coraggio. Per di più, proprio nel momento di massima concentrazione, quando stavo per completare l’opera mi squillò violentemente il telefono. Per la paura feci uno scatto di quaranta metri e il piccolo missilino bianco volò per tutto il bagno fino a cadere per terra, riempiendosi di germi e disprezzo. Sembrava un piccolo cadavere, così, a terra, tutto macchiato di sangue rappreso. Ma che schifo! Mi faceva quasi pena…   Oltretutto con il fatto del ciclo non ti fanno nemmeno donare il sangue come possono invece fare gli uomini. Già il fatto che loro possano salvare più vite umane di noi mi fa salire la bile. Ma è anche vero che quello stesso sangue lo usiamo noi per dare la vita in altro modo. Quindi alla fine, forse da questo punto di vista, siamo alla pari. Senza contare il fatto che gli infarti, con tutto il riciclo di sangue che abbiamo noi ragazze, si manifestano soprattutto nella categoria maschile. Proprio per questo loro ristagno di sostanze globulari che noi invece smaltiamo durante il ciclo. Doveva per forza esserci un lato piacevole nella faccenda, uno che sia uno. Se no avrei chiamato Pangloss e Candido a darmi un giusto motivo per vivere. Per fortuna sono nata positivista anche io. Non si vede?   Ma andiamo avanti con la carrellata di giustizie ed ingiustizie. Vogliamo parlare del parto? Di quei nove mesi in cui la pancia ti si gonfia come un porcellino d’india mentre voglie assurde corrompono il tuo stomaco e la fisicità scompare completamente nonostante anni di palestra? Ti danno fastidio gli odori, cambiano i gusti e devi stare attenta a quello che mangi. La nausea ti assale all’improvviso. Per non parlare del momento clou. Prima ti si aprono le acque. Che detta così ti immagini Mosè che divarica le acque nel tuo utero. Nessuno però ha mai specificato che oltre ad accadere in maniera totalmente improvvisa e continuativa queste acque sono un mix schifoso di liquidi contenuti nella placenta e cose maleodoranti… E quel coso che hai nella pancia, quell’essere che abita dentro di te vivo di una sua vita, quella 32   creatura che si muove e ti calcia e ti picchia perché assolutamente non vuole venirci a stare in un mondo così…Beh, quell’esserino deve essere espulso in una qualche maniera. Ora, potete pensare che avere un bambino sia una cosa bellissima. E lo penso anche io. O meglio, lo penserò. Tra cinque anni, quando avrò finito l’università e avrò una disoccupazione stabile nonché abbastanza voglia e tempo per pensare a crearmi una famiglia tutta mia. Ma per ora lasciatemi indagare tutti i dettagli più orrendi, più scioccanti e devastanti del partorire un bambino.   La creatura deve uscire e tu la senti che scalcia tanto da sembrare Balottelli in nazionale. Che in panchina non ci sta nemmeno se gli permetti di togliersi la maglia ed esultare come un toro da monta. Corri all’ospedale e i dolori aumentano a dismisura tanto che, nei sei sicura, prima o poi ci morirai. Dicono che un uomo, per provare anche solo lontanamente il dolore del parto, dovrebbe ardere vivo e, forse così, capirebbe la condizione femminile. Vabbè. Non è un caso, d’altronde, che gli uomini con la febbre a 37, anche i più pompati e dandy si lamentino come femminucce e, sdraiati sui divani, mezzi moribondi, richiedano un servizio completo di cinque stelle alle dolci mammine e fidanzatine di turno. Bleah. Ma intanto quella creatura deve uscire. Possiamo tralasciare tutti i rischi che una madre incorre durante un parto.  Basti pensare che fino a non molti anni fa era ancora una delle cause di mortalità più elevate. E in alcuni paesi lo è tutt’ora. E siamo nel duemilaetredici. Nell’epopea dello sviluppo e della tecnologia all’avanguardia. E si muore ancora di parto. Non che non sia scontato, dal momento che quando non usi precauzioni, non hai nemmeno mai sentito parlare di educazione sessuale e come un animaletto produci figli a palate sciancandoti l’utero…Beh, forse è normale che in certi paesi il parto sia ancora così pericoloso. E che, in certi casi estremi, andrebbe mandato un aereo di quelli da pompieri in grado di caricare quintali di liquidi a sterilizzare metà del genere umano. Così forse i bambini smetterebbero di nascere per morire.   In ogni caso spesso i bambini non vengono fuori dal lato giusto, oppure il tuo buco già smisuratamente sbragato non risulta abbastanza grande per farci passare il marmocchio. Allora vai di forbici e di incisioni. Vai di cesareo e cicatrici a destra e manca, punti di qua e di là. Mi sono informata accuratamente, ho chiesto a delle mie amiche neo-mamme per avere la conferma: in quel momento hai le doglie e soffri così tanto che non ti rendi nemmeno conto di quello che ti stanno facendo. Potrebbero tagliarti per sbaglio tutto l’inguine e bucarti la pancia da parte a parte che non percepiresti nulla comunque. Potrebbero addirittura usare la pelle là sotto per costruire piccoli origami di carne, tanto non capiresti la differenza. Senza contare le figure di merda incredibili che sei costretta a fare. Di merda sì, in tutti i sensi. 33   Perché è risaputo che se non ti sei fatta fare un bel clisterino prima e il tuo intestino non è candido come una rosa a mazzodì ecco che, dallo sforzo di dare alla luce il pargolo, esce anche qualche altro ricordino. Scusate ma, d’altronde siamo fatti così. Come diceva la sigla di quel vecchio cartone animato. Tutti si deve cagare. E, il fatto che si nasca in mezzo alla merda è pura e semplice metafora di vita. Merdaviglioso.   Ma non solo si parla di dolore nel parto. Nel parto si parla anche di perdita di identità femminile. Perché le donne si trasformano durante l’espulsione del clone umano. Si tramutano in bestie. Gridano, digrignano i denti, graffiano e tirano pugni. I loro volti madidi di sudore esplodono di vene ovunque, gli occhi sono iniettati di sangue, i capelli unti per lo sforzo. Belve irriconoscibili. Non a caso si dice che l’uomo, assistendo al parto, perda ogni minimo appetito sessuale. E io dico: scema tu che ti fai accompagnare dal marito. Io non vorrei mai mi si vedesse in cotali disgraziate condizioni mentre sbraito come un maiale e mando a fancuore ogni singolo membro dello staff medico lì presente. Già il fatto di dover mostrare la mia virtù a tre o quattro persone sconosciute mi dà da fare. Ci manca solo che debba diventare uno show televisivo per la mia famiglia. Comunque. Sperando che tutto sia andato bene quell’esserino lascia finalmente il tuo corpo. E tu piangi di felicità perché non ne potevi proprio più e lo fissi intensamente chiedendoti come sia possibile che tu abbia dato alla luce una cosina così fragile ma così viva. Che poi, diciamocelo. I bambini sono veramente bruttini appena nati. Degli sgorbi sporchi di sangue e schifezze placentose. Però sono frutto del tuo dolore, della tua fatica, della tua sofferenza e… del tuo amore. L’unico problema è che: non è finita qui. Tu speri di esserti guadagnata la sessione di pausa del tipo: ho sofferto come una cane, sono completamente sbragata ovunque e ho passato gli ultimi nove mesi della mia vita a calcolare se ero più grossa io o il dirigibile del mio vicino di casa… E invece no! Non finisce mai perché l’ultima cosa schifosissima che accade alla donna partoriente e quella di vedersi tirare fuori dall’utero quarantasette metri quadrati di placenta. Questa sostanza nauseabonda e organica verrà poi monitorata pezzo per pezzo per controllare che sia tutta intera e nessuna parte sia rimasta incastrata nel tuo organismo (il che sarebbe altamente pericoloso) e come una mappa verrà dispiegata su te a mostrarti tutto lo schifo che in quei nove mesi sei riuscita a produrre. Complimenti! A te il premio come migliore produttrice di agglomerati umani. Da vomito.   Ecco, io ho la capacità di rendere orrenda anche la cosa più bella del mondo. Perché si sa che quando partorisci del male, del dolore e della sofferenza non te ne sbatte niente. Perché tu hai appena dato alla luce una creatura, la tua creatura. E per quanto sia bruttina la ami.  La ami più di te stessa.   34   Perché è frutto del tuo amore e di quello dell’uomo che ami. Perché, in un certo senso, l’hai fatta tu. L’hai desiderata tanto e ora la tua vita sembra avere più senso di prima, sembra essere più concreta. Proprio per questo gli uomini, sotto questo punto di vista, si sentiranno sempre inferiori. Nel senso che, come disse un simpatico sociologo al Festival della Filosofia, l’uomo sente il bisogno di dimostrare la propria mascolinità proprio a causa del fatto che non ha uno scopo preciso e ben definito come la donna. Mentre la donna ha lo scopo di dare la vita, procreare ed educare i figli, l’uomo non sa bene quale sia il suo ruolo e si sente inutile. Perché, in fondo in fondo, vorrebbe rimanere anche lui incinto. Vorrebbe un bel pancione tutto per sé. Ma questo non è possibile, ed egli si ritrova quindi a lottare per i suoi diritti di protettore e paladino della famiglia. Con la consapevolezza che, purtroppo, quel legame affettivo e sanguigno che lega madre a figlio non sarà mai lo stesso che lega il padre al figlio. Se la vì. Lo avrebbe detto anche Marie Victoire. La nostra compare franco-italofona. Alla fine soffrire ha quindi i suoi risvolti positivi. E la sua piccola rivincita sul genere maschile.   Se dovessi continuare ad elencare tutte le motivazioni che rendono impossibile un confronto uomo-donna alla pari non mi fermerei più. Di conseguenza, ho deciso saggiamente di circoscrivere la mia ricerca personale (costruita su 22 anni di esperienza tra mondo e ovile di casa) a pochi ma saggi elementi. Cos’è un’altra cosa che mette in crisi le donne e che fa loro perdere ore ed ore di tempo, se non giorni e settimane? La depilazione, of course. Non assumete quell’aria perplessa di chi pensa: Ma cosa vuoi che sia? Una lamettata e sei a posto… E, voi maschiacci non pensate nemmeno per un attimo: Vabbè cosa dovremmo dire noi con le nostre barbe da spiluccare ad ogni canto del gallo? Che i galli io li ho vicini a casa, mai una volta che cantassero sul serio al sorgere del sole…Vorrei proprio sapere chi sono quei geni che vanno in giro a raccontare certe cose… Beh, in ogni eventualità, se siete pirla mica è colpa mia. Nessuno vi ha mai obbligati a radervi ogni giorno. E poi l’uomo peloso fa molto di più. Quindi smettete di rendere mascelle mandibolate della consistenza del culetto di un neonato: le donne vogliono il pelo! Le donne amano gli uomini virili.  Anche perché se no rischiano sul serio di superarvi in quanto a pelliccia corporea. Vi è molta superficialità riguardo a codesto argomento: non ci si rende conto di quanto la depilazione sia un procedimento assai serio.   Ora, immaginate assieme a me: una bella ragazza che mangia un gelato, seduta su una panchina, con addosso un bellissimo abitino floreale, è estate. In lontananza scorge una sua cara amica a passeggio col cane e alza la mano per salutarla e avvicinarla. Sotto le ascelle: filari di pere. Con fiori e frutti compresi. Ci si potrebbero fare le treccine africane. Ammettetelo, la poesia è rovinata. Ma andiamo avanti, una bella donna davanti a voi in banca, è in fila e la vedete solo da dietro, 35   ha un buon profumo addosso che pervade l’ambiente ogni volta che muove i capelli ricci e perfetti con le mani ben curate. La donna si gira e, nonostante il sorriso smagliante e il volto allegro i vostri occhi non fanno altro che vedere quello: il monosopracciglio enorme. Per non parlare dei baffi; neri ed ispidi. Potrebbe fare a gara con Babbo Natale. Se li tingesse. Frida Khalo e Babbo Natale in uno. Avreste retto tale visione? Siate sinceri. Ma non finisce qui. Una coppia di fidanzati in macchina. La situazione si scalda e iniziano le carezze provocanti: lei stringe la schiena di lui avvolgendolo appassionatamente. Lui allunga una mano sul collo del piede e sale verso l’alto per toccarle le cosce. Della mano non rimane altro che un moncherino. Il resto si è scartavetrato e distrutto tentando di passare le zone impervie e pericolose tra caviglia, polpaccio, ginocchia e coscia. I peli risultano così invincibilmente potenti da distruggere almeno due strati di tessuto epidermico della mano del povero ragazzo. Ammettetelo: è l’anti-sesso per eccellenza. Ma il peggio lo si assapora al mare o in piscina.   Quelle donne che non si accorgono di avere delle scimmie attaccate al fondo schiena o nella zona del ‘dietro-coscia-tanto-sai-che-non-ti-vedo’ e, ancora peggio, i cespuglietti che spuntano dalla zona inguinale ad indicare che l’aiuola di Grignani non è stata accuratamente tagliata. Allora, non ditemi che passereste sopra a tutte queste cose. Non fate i finti galantuomini. Se a noi donne danno fastidio codesti pali di cemento, non immagino quanto possan dare fastidio a voi uomini. Anni fa era diverso. Anni fa Sophia Loren poteva alzare le sue belle ascelle piene di peli neri e vantarsene pure. Anni fa non esisteva nemmeno il concetto della depilazione. Ma oggi, nel mondo in cui l’unica cosa veramente importante è l’apparenza, tutti ci sottomettiamo alla legge della depilazione e la cosa assurda è che, a noi per prime da fastidio il pelo fuori posto. Ci hanno plagiati. Ci hanno corrotto le meningi. Per fortuna che esistono metodi, nel ventunesimo secolo, assolutamente efficaci e privi di dolore: la ceretta e il silk-epil. Ecco, appunto. Ora, per spiegarvi l’effetto di questi due fenomenali aggeggi potrei raccontarvela così: avete presente quando cadete per terra, vi fate una profonda ferita e perdete sangue? Ecco, immaginate di adagiare un cucchiaio di sale sulla ferita, spalmare con dolcezza il contenuto e chiamare una goat a leccarvelo. Meglio le torture cinesi della goccia sul cranio. In any case. (Perché dovrò pur essere internazionale per venire incontro a tutti gli erasmus che leggeranno questo manuale. A meno che non siano già impegnati in uno dei loro festini, naturalmente). Noi donne siamo abituate ad assuefarci di dolore e quindi, o che si faccia in casa, o dall’estetista l’importante è sradicare ogni forma di arbusto dalla nostra candida pelle. Con cattiveria, viene meglio. 36   Io se uso la ceretta urlo. Se uso il silk-epil canto, e stono pure.  Se no non c’è gusto. Le giornate di depilazione seria sono poche poiché mi piace assai, durante l’inverno, creare una vera e propria coltre di peli umani sul mio corpo. Che mi scaldi e mi protegga dagli agenti atmosferici. In certi periodi dell’anno assomiglio spaventosamente all’uomo di Neanderthal. Comunque,generalmente, decido di devolvere la mia giornata allo sradicamento totale delle sequoia adventure solo un paio di volte all’anno. Perché proprio è una pigrizia mentale la mia, più ci penso meno lo voglio fare. Anche perché, come minimo, so già che potrebbe impegnarmi dalle quattro alle cinque ore lavorative. La ceretta la uso poco, solo se necessario e nelle parti che più difficilmente espongo al pubblico. Come la scapola sinistra, la ventitreesima vertebra a partire dall'alto e i talloni. Il silk-epil, invece, lo faccio una volta ogni due settimane ma non supero mai la linea gotica del sopra-ginocchio. Non a caso tutte le gonne che uso d’inverno sono proprio studiate per non mostrare la peluria superiore.  Da vedere è una meraviglia, sembrano proprio due emisferi: uno illuminato dal sole e ben definito, l’altro così ripieno di peli da sembrare un buco nero. Ah, quale armonia di colori! Infine, lo ammetto, uso anche la lametta. É che proprio non riesco a trovare altre soluzioni sotto le ascelle. Mi mancano il coraggio e la determinazione. Ho amiche così insensibili al dolore da riuscire a passarsi il silk-epil lì sotto, nell'inguine e sui baffetti mentre cucinano con un piede parlando al telefono  con l'altro, e lo fanno senza accorgersene!Tanta ma tanta stima, sul serio. Io proprio, ci ho provato ma fa troppo male, mi sanguinano pure i bulbi. E allora penso; vabbè che devo essere liscia ma mica posso morire dissanguata! Immagino già il mio necrologio: morta a soli vent'anni per copioso dissanguamento sotto le ascelle, probabile causa: tentativo di suicidio dovuto alla perdita di rasoio. Ora, provate ad immaginare la situazione delle mie ascelle: crescono degli alberi con 27 doppie-punte (o rami se vogliamo mantenere la metafora), duri come il cemento armato e neri come la morte. Praticamente invincibili. Inoltre si espandono mese dopo mese. Spero solo che non arrivino, un giorno o l’altro, a trapassarmi la spalla o le magliette distruggendo ogni cosa troveranno sul loro cammino. Peggio del leviatano.   Insomma depilarsi è spiacevole, scomodo e richiede pure una masnada di tempo. Meglio sradicarsi tutto col laser in una volta sola. Molto più semplice. Se poi ripenso agli shock infantili dovuti alla mia pubertà, c’è da star male… Ricordo che incominciai a sviluppare i primi peletti (anche sotto le esene, come le chiama mio padre) alla veneranda età di dieci anni. Un decado. Me ne vergognavo moltissimo poiché, delle mie amiche, ero una delle uniche ad averli così evidenti e provocatori. E penso, oltretutto, che sia l’unica motivazione seria per cui una mora potrebbe seriamente rimpiangere di non essere bionda naturale. Lo sanno tutti che le bionde non hanno bisogno di depilarsi! Beate loro! I miei compagni di classe cominciarono a prendermi in giro e a chiamarmi scimmia o ‘la pelosa’ un epiteto terribile per una giovane fanciulla della mia età. Ne soffrivo molto, anche perché sapevo che mia madre mi aveva proibito, categoricamente, di 37   utilizzare la lametta o qualsiasi aggeggio simile prima di compiere tredici anni. A quel tempo ne avevo dieci. E peli neri sbucavano dalle mie ascelle fregandosene del colore lattiginoso della mia pelle. O della mia giovane età. Avrei dovuto aspettare almeno tre anni prima di poter agire in una qualche maniera. Nel frattempo, dovevo giocare d’astuzia: mentre ammiravo donne più mature indossare canotte inguinali con ascelle pure e limpide, io smisi di usare qualsiasi tipo di canotta e mi sacrificai alla causa delle t-shirt maschili. Quelle con le maniche così lunghe da arrivare fino al gomito senza troppi fronzoli. Le estati passarono così abbastanza incolumi. Lo stesso non fu per i saggi di danza classica. Come facessi a praticare uno sport tale proprio non lo so. Considerando che ho la leggerezza di un elefante in calore e la grazia di un pinguino monco direi che guardare i nostri spettacoli sia stato un vero e proprio spasso per i nostri genitori. Al di là di ciò, i costumi dei saggi finali erano sempre, rigorosamente, smanicati. Oltre che sempre, spaventosamente imbarazzanti. Ciò, comunque, significava ascelle al vento. Ascelle davanti ad un pubblico di centinaia di persone. Ascelle che si alzavano, piene di peli, a mostrare la gloria di madre natura. Ricordo ancora i miei pianti disperati:  « Mamma ti prego, solo per questo saggio…Lasciami usare quel tenero e piccolo rasoio se no tutto il pubblico vedrà i miei peli!» «Assolutamente no, non si vede un bel niente…Sei tu che esageri sempre!» « Mamma ma nessuna mia amica ha i peli! Solo io! Non posso ballare così davanti a tutti…» « Ti ho detto che prima dei tredici anni non ti depilerai! Hai tutta la vita per farlo e ti stancherai pure…quindi più tardi inizi meglio è per te!» « Mamma, ma sono nella fila davanti!» Le mie preghiere non valsero a nulla. Le battaglie con mia madre sono sempre state battaglie perse in partenza. Quella donna è troppo intelligente e cocciuta per poter esser fregata. Alla fine ballai insieme ai miei peli, ondeggiando sinuosamente come loro. Nel momento in cui dovetti alzare le braccia al cielo davanti chiusi gli occhi sperando fortemente che le luci avrebbero confuso l’effetto dei peli per ombre strane. Col senno del poi capisco la scelta di mia madre, anche se per anni non la perdonai. Quando hai dodici anni ti sembra davvero che il mondo ce l’abbia con te e che il tuo corpo sia la cosa più brutta del mondo. Un sozzo bubbone d’un livido paonazzo, appunto.   Ma vogliamo poi parlare delle fisse alimentari? Del fisico perfetto da super-modella? Del taglio di capelli che deve sempre assolutamente essere perfetto. A prescindere. Ricordo benissimo quando iniziai le scuole superiori, io povera campagnola di provincia buttata in una città enorme e sconosciuta, piena zeppa di malviventi e drogati. Traffico e congestioni nasali. Io nei miei abiti assurdi.  Ma come ha potuto mia madre permettermi di uscire in cotali condizioni fuori di casa? Zampe di elefante, magliette con l’ombelico scoperto, frangette copri-occhi improbabili? 38   Ma avevo lo specchio a casa mia? Ma lo vedevo che i colori che portavo addosso erano inconcepibili anche per Kandinsky e le sue tavole astratte? Mah, l’adolescenza. Lì sì che fu un trauma per una provincialotta di periferia come me scoprire che esisteva la perfezione del genere femminile. Quelle ragazze sempre belle e profumate. Sempre ordinate e alla moda. Con i capelli e il trucco perfetti. Sempre. La mia non era invidia, era pura e completa ammirazione del genere femminile e dei suoi disperati tentativi di dimostrarsi irraggiungibile, superiore e perfetto. Fisici spettacolari, ore ed ore di spinning e gag per togliere quel chilo invisibile in più. Pomatine anti-cellulite e buccia di arancia.  Beveroni alle verdure per regolarità intestinale e molto altro… Mi sentivo proprio su un altro pianeta. Mi sembrava di aver vissuto da sempre in un luogo sconosciuto al mondo moderno. Dove i miei compaesani, a confronto, appartenevano molto di più al regno dello scimpanzé. Io, che non percepivo altro che i miei enormi foruncoli gialli e rossi, la puzza delle mie ascelle di adolescente in crescita, il disagio del prurito che i vestiti provocavano sulla mia pelle, la pancia gonfia di schifezze e tutto il devasto di sentirsi proprio nella piena stagione ormonale. Mi chiedevo: come? Com’era possibile che, nonostante avessi la loro stessa età, questi problemi non le riguardassero? Com’era possibile che non avessero un imperfezione che fosse una sul viso? O meglio, riformulo la domanda: Dove trovavano quei correttori e quelle abcd cream che coprivano così bene lo schifo mascherato là sotto? E quei capelli! Che rabbia! Pioggia, aria, vento e neve: sempre perfetti! I miei sono sempre stati informi, privi di senso, spessi, enormi e così tanti da non contenerne…Non riuscivo a gestirli… E loro invece, sempre perfette. Tanta stima, ma veramente tanta stima. Perché solo noi donne, anche se inferiori e sciatte, sappiamo o possiamo concepire quanto e quale lavoro vi sia dietro a cotanta perfezione… Ore ed ore di studi. Rinunce, soldi e tutto per accontentare un canone televisivo. Il tutto per accontentare noi stessi e la smania di essere e risultare perfetti. Sempre e comunque.   Io sono nata sbagliata. La canzone degli articolo 31 mi ha accompagnata durante tutta la mia adolescenza. Sono sbagliata perché penso già come una novantenne da quando ho dodici anni. A cosa serve sbattersi per essere perfette? Da chi ti devi fa guardà? Sii felice del fatto che hai tutto e non ti manca niente, cura te stessa e il tuo corpo senza dargli maggior valore di quanto non ne abbia. Lascia le diete da insetto stecco a chi pesa quaranta tonnellate e tu mangia e godine pure! Fai sport per tenerti in forma e sfogare i tuo eccessi d’adrenalina! Fuma e bevi poco. Se riesci niente. 39   E non aspettarti che il principe azzurro ti scelga per l’aspetto. Se lo fa è un coglione. Un coglione azzurro. Come quelli dei puffi, quindi pure piccoli. Mamma mia, quanto sono volgare. Non sono così scurrile generalmente, ma non so perché qui mi sento libera di esserlo. Insomma: vivi! Non rischiare di diventare uno stampino del mondo moderno! Avrei voluto urlarlo a certe persone che si portavano dietro la loro perfezione. Avrei voluto gridarlo al mondo. Ma ero timida. Lo ero. Poi si cresce e, per fortuna, si cambia. E anche tanto.   Anche perché la fase del disagio passa: l’acne diminuisce per gradi celsius, la puzza svanisce e finalmente puoi permetterti di comprare i primi veri e propri profumi seri quelli con le pubblicità prive di senso. Mi son sempre chiesta perché le pubblicità più insensate fossero quelle dei profumi. Mah?  Mambo number five. Comunque, oltre a questi fattori, incominci anche ad acquisire la consapevolezza del tuo fisico e del tuo corpo. Saper gestire i materiali e i calori e trovarti a tuo agio con quello che indossi. L’effluvio ormonale si attenua e rimane cheto e sottomesso alla tua razionalità. Insomma, diventi grande. Un processo meraviglioso. E tutti i ‘grandi’ sanno che la perfezione è irraggiungibile. E lo capiscono benissimo!  Prendi, per esempio quelle tipe che si fanno rifare ogni centimetro pubico della faccia, o quelle che si fanno restringere lo stomaco…Oppure quelle che si fanno rifare il davanzale, compreso di fiori, o che si fanno affettare altrove chili di manzo in eccesso…E, il colmo dei colmi, quelle che si fanno ‘reimpiantare’ la verginità. Come se avere l’imene intatto determinasse il tuo stato di zoccolaggine. Non a caso, l’eminente Paris Hilton è una di queste… Insomma, sono tutte dimostrazioni più che evidenti di come le persone mature e adulte capiscano l’irraggiungibilità della perfezione, l’evidenza del declino, la bellezza del fiore che sfiorisce. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. Insomma, magari Fabrizione non lo aveva inteso per codesto argomento. Ma ci sta. Whatever. La ricerca della supremazia estetica non nasce oggi, anche se è proprio nello status moderno che sta trovando i suoi più numerosi adepti. Gente che muore per la ricerca della perfezione. Essa nacque dall’inizio dei tempi. Dai corpetti stretti fino alla morte per rottura di costole e diaframma. Dai vestiti enormi ed ingombranti del settecento. Bellissimi da vedere sì. Ma provare ad indossarne uno equivale ad appendersi in vita un’incudine presa direttamente nel negozio di Willy il Coyote. E a quei tempi, con quei cosi enormi, ci dovevano pure ballare! Quando già passare per le porte risultava un’impresa assai ardua. Per non parlare delle gheiscia e dei piedini da fata ricavati da scarpine distruggi e deformadita che ti sformano il piede fino a trasformarlo in una poltiglia informe. 40   Insomma, tutto questo per dire che nascere donna è un obrobrio. Uno schifo. Lo è sempre stato, e probabilmente, sempre lo sarà. No alternative. Se aggiungiamo a questo il fatto che le donne vengono anche più facilmente bollate degli uomini abbiam anche l’amarena sulla torta. Che, se avessi detto ciliegina sarei stata troppo scontata: «Ah, le donne non sanno guidare». «Le donne mancano di pragmaticità». «Le donne sono tutte delle zoccole». E via con i luoghi comuni. Mamma mia, il termine stalinismo non lo amo, ma dire che mi stia salendo rende l’idea della rabbia furente che potrebbe creare una vera e propria carneficina? Oibò. Oedì. Ma le cose stanno cambiando. Eccome.   Darwin la chiama evoluzione. Spirito di sopravvivenza e di adattamento all’ambiente. Al di là di provenire dalle scimmie o meno (io non provengo da una scimmia, se a voi come soluzione piace allora scimmie siate!) io lo chiamo; Segno dei tempi che passano. É un dato di fatto. Tutti lo sanno e ne fanno accenno. Ma nessuno osa parlarne sul serio. Tutti lo vedono, lo sentono e lo percepiscono.  Molti, i più anziani, fanno finta di niente.  E i più piccoli nemmeno se ne rendono conto, perché la vivono sulla loro pelle questa mutazione. Insomma, parliamoci chiaro. Al di là di tutte le barriere che un tempo potevano esserci e ora non vi sono più: è più che evidente che gli uomini si stanno trasformando in donne e viceversa. É un fattore evolutivo assolutamente logico, scontato, segno del cambiamento dei tempi e passato attraverso orgogliose lotte per la libertà e la parità dei sessi.  Dal 68’ in poi nulla è stato più lo stesso. O almeno questo è ciò che sento continuamente dire dalle bocche dei miei prof sessantottini. Il fatto che le donne abbiano ora gli stessi diritti degli uomini e le stesse possibilità le rende immensamente più indipendenti, slegate dal concetto ormai obsoleto di protezione, dipendenza dal coniuge, procreazione e via dicendo. Una donna sola, un tempo, veniva marchiata col timbro della colpa e della vergogna. Perdeva di dignità e rispetto. Ora è normale che le donne siano sole, single. Ora è normale starsene per i cavoli propri. Come gli scorpioni a merenda. E mentre il potere e la forza, sia fisica che mentale, delle donne accresce sempre di più…Quella degli uomini diminuisce poco a poco. Essi si trasformano in creature molto più insicure, impaurite e assai meno avvezze allo sforzo fisico e mentale. Questa è una vera e propria lotta di gender. La donna gareggia per la sua mascolinità, per i propri caratteri androgini. Basta vedere la moda del ventunesimo secolo: i vestiti non esistono più. Al loro posto ci sono calzoni a vita alta, camice e gilettini, giacche a maniche lunghe e accessori che un tempo erano segno incrollabile e supremo del genere maschile. 41   Ora a portare la gonna sono i maschietti. E non solo in Scozia. Ma un po’ ovunque. Prendete un esempio pratico e vicino a noi; me e mio fratello. Stessa corriera, stesso orario di partenza per la scuola. Lui si sveglia un’ora prima, di quest’ora cinquantacinque minuti trascorrono nel bagno. Lui e il bagno. Cinquantacinque minuti. La corriera la prende sempre per un pelo. Io mi sveglio quindici minuti prima della partenza del mezzo. Cinque minuti in bagno, contati. Arrivo in tempo per miracolo tutte le mattine. I miei genitori, tutt’ora, si chiedono dove e perché abbiano sbagliato.   Ma questo è solo uno dei tanti esempi.  Non a caso, oggi, si preferisce un partner del proprio sesso. Perché si ha, in un qualche modo, paura dell’altro sesso. Della diversità. Ci si sente più vicini ai propri simili. E così, le donne sempre più maschie, preferiscono la compagnia di altre donne. Mentre gli uomini, sempre più insicuri, trovano la sicurezza in un maschio più virtuoso. Tutto cambia. Tutto scorre. Panta rei. Un giorno o l’altro avverrà un ritorno alla natura. Ma totalmente diverso da quello di partenza. Finalmente Platone, da lassù, avrà l’occasione di vedere ciò che aveva sempre predetto nei suoi scritti: gli ermafroditi. Uomini e donne si mescoleranno tra loro a tal punto, da mutare il loro carattere genetico e diventare, così, organismi viventi da entrambi i sessi. In grado di autoprodursi. Non ci sarà più bisogno della ricerca dell’anima gemella perché ognuno basterà a sé stesso. Quattro braccia, quattro gambe, e due diversi apparati genitali assieme. Oh madre. Se ci penso sul serio, mi sconvolgo. Eppure la direzione del mondo è proprio questa, l’evoluzione sarà lenta ma infallibile. Necessaria. Se poi Platone non sbaglia, oltre a vedere cotanti esseri girare per il mondo, ci sarà da morire dal ridere su COME essi lo gireranno questo pianeta. Ruotando. Ebbene sì. Avete presente le ruote? Quelle circonvoluzioni che fanno le bambine nei parchi per mobilitare le loro abilità ginniche? Quelle che metà del genere umano non è mai riuscita a fare perché duri come paletti anglosassoni? Ebbene, gli antichi pensavano che le tante braccia e gambe degli ermafroditi non fossero state prodotte a caso, ma per garantire movimenti molto più rapidi e veloci di qualsiasi essere umano.  E quale movimento potrà mai essere più ampio e libero se non quello che sfrutta sia la potenza delle braccia che delle gambe? 42   Ahahahah. Oddio, sto immaginando la scena. Per le strade della città ruotano uomini-donne coi capelli al vento, magari mentre cantano. Si precipitano, sempre ruotando, nei negozi, si appendono le sportine ai piedi e se ne tornano a casa. Come facciano poi a far le scale non chiedetemelo. Questo è un punto che Platone ha saggiamente deciso di lasciare in bianco. Come le mie crocette ai test di chimica e matematica: risposta sbagliata equivaleva a meno zero e venticinque. Risposta bianca a nulla. Generalmente le mie verifiche risultavano spesso vergini. Così al massimo prendevo zero ma non vi andavo sotto!   Vi starete chiedendo, come forse vi chiedete da qualche tempo, perché io abbia raccontato cotali cose e anche così sconcertanti. Forse era perché avevo bisogno di sfogare certi pensieri e di rendervi partecipi di queste mie meravigliose scoperte. O forse perché, avendo rotto le balle di fieno ai miei amici per troppo tempo, adesso ho finalmente deciso di condividere con voi, oh sconosciuti, queste mie esperienze di vita. La cosa mi ha divertito moltissimo, ma davvero tanto. Anzi, man mano che rileggo queste paginette me la rido da sola. E forse vorrei che fosse proprio questo lo scopo di questo lavoro, se così posso definire una cosa che mi aggrada assai. Il lasciare un sorriso, il donare una felicità sciocca e forse momentanea al genere femminile, soprattutto, ma anche a quello maschile. L’offrire un menù diverso dal solito. Meno scontato. A prezzo pieno. Che forse, a certuni di voi, quelli più educati e pacati risulterà un tantino esagerato, volgare di modi e di tempi. Forse a molti letterati sembrerà carta straccia, scritto con i peli del naso. Alcuni magari lo giudicheranno anche provocatorio ed offensivo per la veemenza con cui sono stati trattati taluni argomenti. Ma la verità era che a me interessava soltanto divertirvi.  Avete presente quando arriva quel momento, nella vita, in ognuno di noi si chiede: ma io al mondo che ci sto a fare? Qual è il mio scopo? Qual è il mio fine? Ebbene io mi sono risposta mentre scrivevo.  Perché mentre lo facevo, e pure mi divertivo, incominciavo ad assaporare la bellezza e il senso della vita. Perché tutto quello che mi interessa davvero è far ridere gli altri, quelli che mi stanno intorno. Farli stare bene, farli volare con la mente il più lontano possibile. Staccarli da questa omologazione, da questa indifferenza e da questa patina opaca e narcolettica che invade le nostre menti. La gioia. Questa è la risposta a questo scritto. O il tentativo fallito di una pazza. E spero tanto, nel mio piccolo, di avervene portata almeno un pochino. Di essere riuscita a condividerla con voi. Perché ci siamo rotti dei racconti tristi, dei libri in cui anche le rilegature tentano il suicidio. Vi posso garantire che è molto ma molto più facile scrivere un libro quando si è arrabbiati col mondo, avviliti e confusi.
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frasidicartavelina · 5 years
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Quando spezzi un’anima a metà
Oggi, 2 Aprile
Ho cominciato a scrivere, a raccontare di me perché sento che solo così potrò affrontare tutta realtà, la verità. Sono qui seduta sul pavimento di camera mia, con il computer sulle ginocchia, pronta a fare i conti con me stessa. Ho finito la simulazione di seconda prova con due ore di anticipo e per una volta mi sono sentita realizzata, confesso ho scritto tante cose sbagliate ma ero e lo sono tuttora convinta di aver dato il meglio, e poi infondo è solo una simulazione.
Ti chiederai che cos’ho da raccontare di così importante? Bene, ora comincia il viaggio.
Fine novembre, 2018
Esattamente 10 giorno dopo mi hai riscritto con una scusa inutile, mi hai stupita, tu che mi cerchi ma sai non ci ho fatto caso. È cominciato tutto quella sera, assurdo, da quel messaggio, stupido, quasi inutile, ci siamo scritti giorni e giorni. Tu che mi dici che c’è una ragazza io contenta per te, io che ti dico che non va bene nulla con il mio ragazzo, ma fossero quelle le cose importanti, parlavamo di stupidate, con frasi frecciatina ci raccontavamo di noi, delle nostre giornate. Quanta poca attenzione ci ho posto, quel modo che io sottovalutavo, ribadivo a me stessa ‘è solo un amico’; come no.. i giorni passano, come al solito, solo che c’eri tu e io ti rispondevo solo quando ero da sola. Chissà perché.
8 Dicembre 2018
Dopo due anni abbiamo finalmente deciso di vederci, dopo che la tua super bionda ha deciso di lasciarti da solo su due piedi tu piombi da me a chiedermi se mi va di fare un giro. E perché no? Organizzo tutto in modo tale che mia madre non scopra che usciamo, il tuo ritardo abnorme quasi mi fa saltare il piano ma c’è il mio amore, di quel tempo che mi regge il gioco. Sorrido ancora se ci penso, a noi due. Così strano è stato vederti, dopo due anni, nessun cambiamento anzi tu eri sorpreso a vedermi, come se fosse la prima volta che mi vedevi, in effetti dopo due anni e poco più era così. Direzione paesino carino, tu guidi io che cambio canzoni, ma tutto di una naturalezza inimmaginabile. Io che chiedo di te e tu che ti stupisci del mio interesse, dico un’amica ti chiede di te, di come ti vada. Un pomeriggio come tanti se non fosse stato per le domande scomode, per tutte le varie frecciatine e l’invito a cena che ho declinato causa fidanzato che mi aspettava da un’ora sotto casa. Non mi è piaciuto, quel giorno mi hai fatta sentire strana, come fuori posto. Mi hai talmente scossa che alla sera pensavo a te, il mio ragazzo non mi interessava. Il mio problema di aver dato peso alle parole mi ha fregato ancora una volta. Accipicchia a me e maledetto che mi hai fregata.
Esattamente una settimana dopo io lascio il mio ragazzo tu che fai? Mi dici che se ho bisogno di parlare mi chiami o usciamo, io ero già fuori con le amiche a divertirmi. La mia storia era arrivata al capolinea ma non perché eri arrivato tu, mi hai solo aiutato a capire che avevo bisogno di altro.
23 Dicembre 2018
Come previsto, usciamo. Si va a comprare i regali per natale insieme, indeciso se portarmi fuori a cena o meno alla fine ceniamo insieme. Mia madre che pensa che sono fuori con le mie amiche e invece no, sono con te a cercare di capire a che punto vuoi arrivare. Mi guardi il culo, mi scruti come se ti stessi analizzando, ed era così sì, mi offri la cena e ti soffochi quasi appena accenno che io a te ci tengo. Un’uscita come tante altre direte, ed è vero, non è successo nulla di che, se non cose che solo io e lui sapremo e che forse solo io ricorderò, come uno scherzo beffardo del destino.
Ci sentivamo ogni giorno, che voi ci crediate o meno ogni giorno ci si sentiva. Dopo capodanno, dopo che lui insisteva nel trovarsi usciamo. E ora la vita, aveva deciso di farmi un bruttissimo scherzo, e anche lui ne era complice.
3 Gennaio 2019
Finalmente, direte. Il tutto parte come al solito lui che viene a prendermi a casa, io che scelgo la meta e la musica. Ad essere sinceri si intravedeva già che lui era titubante, ma io non ci facevo caso, lo ritenevo solo una possibile persona con cui uscire, mi era stato vicino insomma, nulla di chè, di certo non credevo in un reale interesse nei miei confronti. Lui che mi dice che ha chiuso con l’altra ragazza, e io che penso? A nulla se non, vediamo qual è il tuo prossimo passo. Giretto in un altro paesino carino, l’uscita che mi è meno piaciuta, forse perché lo stavo già iniziando a capire che tutto quello che mi stava capitando sarebbe stata la più grande fregatura. Come due anni fa, quando mi piaceva. Ebbene sì signori, io ero follemente persa di lui, chissà che aveva di così particolare, mica me lo ricordo. La serata si conclude andando a vedere le stelle. Il freddo che faceva, e proprio lì chiusi in macchina, uno accanto all’altro lui mi prese la mano, la strinse, come se volesse dire io ci sono, la strinse così forte che mi scaldò il cuore. Giuro io ero immobile, mi stavo assaporando la pelle d’oca, mi stavo gustando la soddisfazione. Ebbene sì, vi chiederete e dopo? E dopo mi baciò, mi baciò in modo semplice, in quel momento capii che non lo sentiva, certo ero sbalordita perché non me lo aspettavo anche se lo avevo pensato 2 minuti prima, assurdo. Ma lui non sentiva quello che sentivo io, non era un gesto sentito. Nemmeno a negarlo, mi mandò un messaggio in cui diceva di averlo sforzato e che comunque ce la saremmo vissuta con calma. Niente di strano, direte, se non fosse che mi ha baciata anche quando sono scesa dalla macchina, mi ha chiesto se andavo via con lui la mattina seguente, mi ha riempita di parole come ci sei sempre stata, che è verità assoluta, che mi ha abbracciata, che mi ha fatto scoppiare l’anima, mi ha fatta sentire in un altro posto, che ha scavalcato quel muro che nemmeno io riuscivo a superare. Come mi è entrato lui nell’anima nessuno l’ha fatto mai, come ho abbassato la guardia con lui non l’ho fatto mai, avessi solo ascoltato il mio sesto senso.
Dopo una settimana circa mi scarica, con un semplice sento solo attrazione fisica, fosse quello il problema. Confesso dopo quella sera avevo pensato di interessargli, come non pensarci? Ma il culmine di questa storia arriva ora con lui che prima mi accusa di essermi costruita castelli con successivo vittimismo informandomi che è uno stronzo incallito ed egoista e ci sono altri ragazzi che mi faranno stare bene e che persone come lui devono essere lasciate perdere. Un discorso degno di premio della dialettica se non fosse che ogni singola parola era una bugia, se non fosse che io, ragazza, donna, dalle palle , ho speso una settimana per farlo ragionare e fargli capire che si stava sbagliando, che tutto era partito da lui e l’unica cosa che doveva fare era quella di assumersi le sue responsabilità. Maturità a parte la sottoscritta ci ha perso troppo tempo, non contenta ha deciso di andare fino in fondo.
Passano i mesi, ci si sente a stento, quasi come se fossimo sconosciuti, si litiga di più ci si parla di meno. Due mesi dopo, lo rivedo, mentre si allena, assurdo, come il caso mi fotta ogni volta. Gli mando un messaggio e lui con una serenità di quelle ‘sei qualcuno di importante per me’ chiede se voglio un passaggio, la fortuna ha voluto che fossi già a casa. Non contenta, gli lancio una frecciatina e lui mi risponde dicendomi che nel weekend ci saremmo visti. Punto a mio favore penso, per una volta ha abbassato l’orgoglio. Non ci sentiamo quasi mai per tutta la settimana se non che arriva venerdì e con un messaggio, dicendomi che non gli sembra il caso, che mi rispetta e che non vuole ferirmi preferisce non uscire. Lasciami sulle spine e poi rifiutami che scateni un terremoto. Terremoto fu, litighiamo, e con vari riferimenti a un interesse reciproco mi dice che io e lui a litigare faccia a faccia non riusciremmo mai. Tento, come mia ultima volta, anche se non fu così, di vederlo, lui mi rifiuta dicendomi che ha parenti. Incasso il colpo ma lui sembra aver cambiato atteggiamento ma ciò non cambia nulla, qualche messaggio e poi ognuno ritorna agli affari suoi. Entrambi d’accordo decidiamo di uscire la domenica. Vado incontro alla disfatta di me stessa, per sempre.
17 Marzo
Usciamo, all’inizio un imbarazzo da parte sua e le mie continue frecciatine perché chi non avrebbe voluto tirargli uno schiaffo e chiedergli che gli passa per la testa? Ma la realtà è che nemmeno lui sa che cosa vuole, non lo sapeva e non lo saprà mai. Si dilunga in discorsi raccontandomi di lui, privilegiandomi con qualche aneddoto, lo becco a guardarmi più di qualche volta, sempre di nascosto. Mi dice frasi che fanno pensare a un ennesimo interesse, ti penso, ma come va con i ragazzi e varie inutili frasi a cui la sottoscritta non facevano nessuno effetto se non schifo. La perla è stata il ci vediamo ci sentiamo andiamo dove vuoi e facciamo qualche guida insieme prima di fare l’esame di patente. Come no. Dopo avergli spiattellato in faccia per l’ennesima volta che deve prendersi le sue responsabilità, dopo averlo massacrato, giustamente, era il minimo. Mi ha sottovalutata, già. Non ci sentimmo più se non per me che gli provai a scrivere, sbagliai sì ma testarda come sono dovevo provarci, non volevo avere rimorsi. Inutili furono le persone che mi dissero che dovevo lasciar perdere, io ci provai comunque perdendo e ritrovando me stessa.
Vi dico, non rincorrete nessuno, no fatelo nemmeno se siete i più testardi. Sprecate forze, la parte migliore di voi per persone che non vi meritano, persone che sono riuscite a strapparvi il sorriso, che vi hanno fatto sentire inutili. Chi ti riempie di tante parole , ricordatelo, non sa mai bene ciò che vuole. E non dipende dal carattere, dal’età, se tu vuoi qualcosa te la vai a prendere. Non importa se tu ritieni che ci sia qualcosa, non importa quanto tu ci spera, se quella cosa deve essere tua, lo sarà. Lo potrò ringraziare, lo so già perché mi ha fatto capire che di persone come lui io non ne ho bisogno, nonostante i bei momenti che ricordo con un sorriso, nonostante le passioni in comune che mi hanno fatto pensare che lui era quello giusto, il modo con cui mi sfiorava, chi se lo scorda più. Sono però consapevole che merito di meglio, merito chi mi porterebbe in capo al mondo, merito una persona a cui piaccia fuggire, dal mondo con me e non da un futuro noi, non merito chi deve essere convinto per stare con me, non merito chi se ne approfitta della mia rara gentilezza, del mio essere empatica, del mio altruismo, della mia testardaggine, del mio modo di amare. Perché io sono così, io ci scommetto su di te, se tu mi dimostri che ne vali la pena io ci scommetto, mi gioco fino al’ ultima carta e la mia carta, l’ultima, la più importante, era proprio me stessa. Non l’avevo giocata mai, chissà che hai fatto per convincermi, e le notti passate a chiedermi come potevi farmi questo, a me, che sono sempre stata presente anche quando tu stesso ti voltavi le spalle, come hai fatto, tu, a non apprezzare la sincerità, come hai fatto a mollare tutto. Egoismo o meno, non meriti nulla, non meriti nemmeno di trovare la persona che ti sfiori l’anima, non meriti di trovare un amore incondizionato, di quelli che non te li scorderai mai. Tu prendi tutto e poi scappi via,lasciando un vuoto enorme. Sono cambiata, sono più forte, sono più me stessa tu rimani il solito stronzo senza anima. Riderò a vederti morire dentro quando non potrai più parlarmi, quando io non mi metterò più in gioco per scorticarmi l’anima, per scoprirti il cuore, quando tornerai da me e con una scusa mi dirai ‘ci facciamo un giro questo weekend’.
Tutto è bene quel che non è mai cominciato, io da oggi in poi vivo però.
@frasidicartavelina
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ellenicgoldenboy · 6 years
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«Eccoti, LUMACA.»
Guarda quella chitarra come se fosse un compito di aritmanzia (il fatto che abbia scartato al volo la materia, l`anno prima, la dice lunga) e la sfiora appena, con delicatezza, come se avesse paura di romperla. «Al mercatino, uno del sesto se ne voleva sbarazzare per pochi spicci così ne ho approfittato. Secondo te, è in condizioni?» Domanda, porgendola verso il ragazzo con entrambe le mani, con una buona dose di attenzione e rispetto, neanche fosse una reliquia di qualche genere. «Nel caso.. cioè, per.. imparare, ecco.» Aggiunge, lasciando lo sguardo sul compagno, illuminato da un allegro sorriso mentre lo scruta fare le sue valutazioni, di cui ha evidente una altissima opinione. Rimane con le mani appoggiate sulle ginocchia, in attesa quasi agitata del responso.
«EHI EHI! Non sono una lumaca, è che sono troppo popolare, povero me!» Si da arie da grand uomo, sventolandosi con la mano prima di scoppiare a ridere.  «AH? Allora ti piacerebbe imparare davvero? Sarebbe thunderissimo!» Gli sorride entusiasta, aggrappato a un trasporto creato dalla simpatia che sembra aver sviluppato nei confronti del rosso oro. Mette la chitarra sopra le gambe, afferra il manico con la sinistra e il corpo con la destra così da provare le corde. Storce un po` il naso e rialza lo sguardo su di lui, una piacevole mezzaluna a condirne le labbra. «Si può suonare, deve solo essere accordata un po`. Posso farlo io se vuoi.» Si offre senza insistere ulteriormente, mantenendo lo sguardo su di lui per una manciata di secondi prima di portarlo tempestivamente di nuovo sullo strumento, concentrandosi sulle chiavi. «Sai, saper suonare è una cosa fighissima. Ci passi il tempo ed è una cosa che piace sempre a tutti, avere qualcuno che sa suonare in un gruppo.» Espira quasi pesantemente, rabbuendosi per un piccolo istante. «Che musica ti piace?» Di nuovo sorridente, continua a provare le corde della chitarra in modo da accordarla a dovere. «Oh, sei fortunato, non devi nemmeno cambiare le corde! Con qualche adesivo sembrerà quasi nuova.»
«Visto che tu sei troppo popolare, suppongo dovrò trovare un insegnante più disponibile!» Il tono è teatralmente serio mentre enfatizza quel "troppo" imitando il tono di Alika e assumendo un`aria offesa falsa come una banconata da 1 galeone. «Se ti va di farlo, magari! E potresti spiegarmi come farlo, la prossima volta.» Facilissimo, insomma. Il tono lascia trasparire un`ondata di entusiasmo, mentre si raddrizza col busto e prende un sospiro d`acqua fresca, la destra che passa a ravvivare i ricci in un gesto - dicasi tic - quasi meccanico. Inclina appena la testa, mordendosi appena il labbro inferiore, rendendolo più rosso di quanto già non spicchi sulla carnagione chiara del ragazzo. «Alika, che cos`era quello?» Domanda, senza pensarci due volte. «Problemi con la band in erba?» Aggiunge; il tono è più basso, dolce, come se temesse che il proprio classico tono di voce - allegro e incisivo, possa in qualche modo farlo fuggire. Si stringe nelle spalle, c`è un sorriso sulle labbra, dolce ma trattenuto. «Non disdegno nulla, credo. La musica è musica, se mi fa venire voglia di battere il ritmo o canticchiarla, ovvero sempre, mi piace.» Conclude, lanciandogli un`occhiata interrogativa e aspettandosi, palesemente, una risposta alla medesima domanda.
Anche solo per gioco o semplice piacere. Lui aggrotta le sopracciglia e si finge offeso, mano destra al petto e naso all`insù. «Staresti FORSE insinuando che Alika Diamandis sia una persona che non trova tempo per i suoi amici? Ver-go-gna!» La stessa mano viene poi agitata in direzione del ragazzo senza volontà di dargli addosso. «Se ti trovassi un altro con cui imparare sarei offeso fino ai MAGO! No, che dico. La fine dell`accademia. Ecco quanto.» Accorda la chitarra con cura, un po` per amore personale, un po` perché ci tiene che sia messa al meglio per il suo nuovo propietario. «E` una gran rottura di bolidi, enorme. Però effettivamente ti toccherà imparare anche questo. Hai dei plettri? Io ne ho in più, se vuoi.» Un imbarazzo insensato nell`offrire una cosa stupida come dei plettri che, per un istante, lo obbliga a guardare altrove salvo poi accorgersi della sua stessa stupidità, tornando sull`altro. Solo che lo fissa, bocca appena schiusa come imbambolato, e vorrebbe guardare altrove di nuovo ma sa che non può. Si concentra quindi sulla chitarra e sul cacciare quella piccola espressione che, comunque, viene notata. Arrossisce di botto sulle orecchie, incespicando fra le sue parole per un paio di secondi prima di riuscire a parlare come il mago che è. «Oh, no, vedi, nel senso. Sai. E` che» Quasi, come il mago che è. Sospira e si morde il labbro, indeciso sul da farsi. Non ama esporre i propri problemi e alcuni non può certo esporli ora. «Ho litigato con Grantaire ma ... Spero si risolverà tutto e ci sono problemi con la squadra, sai. L`altra settimana hanno litigato malissimo e Colt ha dato un pugno a Gus e Mabh ha urlato ed è stato WOH.» Tutt`altro che positivo. «E ho paura che la band non duri e che la squadra non sia come me l`aspettavo o come mio padre mi ha sempre detto che sono.» Si stringe nelle spalle quasi volesse rimpicciolirsi, osservando, in qualche modo, il grifondoro dal basso. Scuote la testa energicamente immediatamente dopo però, sorridendo a Jeremy con una spallata amichevole. «Non preoccuparti però, se chiacchiero qui con te non ci penso troppo.» Cosa vera, in fin dei conti. Fra la chitarra e la compagnia sembra stare alla grande, a parte quel piccolo frangente. «Beh, questa è una cosa buona, sai. Che ti piaccia tutto.» Gli sorride, mostrandogli un interesse palese nella sua opinione. «Così non parti con pregiudizi su nulla. Anche a me piace un po` tutto, diciamo che non vado pazzo per le boyband però.» Ridacchia, lanciandogli un`occhiata criptica ma lontana dall`essere negativa. «L`aternative pop e rock sono i miei preferiti. Oh, e il rap.» Gusti strani per un aspetto che urla 2D, per lo più. Gli sorride morbidamente, passandogli la chitarra e prendedosi un attimo di silenzio, senza ragione.
Sembra prendersi una manciata di secondi per riflettere su quanto esposto dal ragazzo di fronte. Alza il capo al cielo, distrattamente. «Beh, suppongo abbia ragione, in effetti.» Arriva a conclusione, abbassando lo sguardo, nuovamente allegro e illuminato da un sorriso, sul compagno. Non ricorda chi sia Aoide ma se gli passa per la mente di chiederlo, il pensiero fugge rapidamente come è arrivato. «Solfeggio?» Domanda, di nuovo quell`espressione perplessa che lo fa sembrare anche più infantile di quanto già non facciano i tratti del volto, ancora dolci. Assumendo una certa serietà, inarca un sopracciglio, tutt`altro che convinto dalla recita del tassorosso. Lo scruta per qualche secondo, come soppesando se credere o meno alle sue forti affermazioni. «Ok, va bene, mi hai convinto e non mi troverò un altro.» Alza la destra puntandogli l`indice davanti al muso, la serietà fatta persona con tanto di sguardo assottigliato e vagamente minaccioso (ma dove?). «Ma devi essere un maestro mooolto paziente.» Addolcisce lo sguardo, lasciando che il sorriso ormai non più trattenuto spunti sulle labbra rosse - la destra scivola di nuovo in grembo, insieme all`altra. «No, niente plettro. E` già tanto che il tipo» Si corregge. «Che il tipo-a si sia degnato di lasciarmi la custodia!» Allude con un impercettibile cenno del capo ad un involucro morbido appoggiato accanto alla tracolla. Persino uno distratto come Jeremy si accorge dei repentini cambi di espressione del tassorosso e per quanto gli sia estraneo, riconosce anche dell`imbarazzo, che però non sa ricollegare a cosa sia dovuto. Gli lascia il tempo di parlare, senza interferire, limitandosi ad ascoltarlo. Quando sembra aver concluso, si prende qualche secondo prima di prendere parola. «Mi dispiace, davvero. Immagino che dovrete parlare e chiarire, quanto prima.» Accenna un sorriso, gettandosi indietro con la schiena per raddrizzarla e puntellando le mani a terra per sostenersi. «La squadra, come la band..» Fa spallucce. «Capisci, le persone non sempre vanno d`accordo e a volte tu non puoi farci nulla. Alcuni avranno dei motivi che potresti non sapere. Io non so mai se l`allenamento si farà o se Lot avrà litigato con Stan o gli altri.» Dato di fatto e visto per esperienza: che poi ognuno ha situazioni diverse è un altro discorso. «Per la band, è lo stesso. Il punto è: se tu ci credi, e tieni duro, gli altri faranno altrettanto.» Si tira su, andando a prendere con estrema attenzione la chitarra, cercando di metterla nella stessa posizione in cui l`ha tenuta il ragazzo un attimo prima, sbagliando inconsapevolmente il lato (ovvero tenendo il manico con la mano sinistra). Abbassa lo sguardo sulla chitarra, mordendosi il labbro. «Mi dispiace se ti ho messo a disagio con questa storia. Però.. insomma, puoi contare su di me.» Non c`è traccia di imbarazzo nel suo tono, si rivolge ad Alika con la stessa serenità con cui affermerebbe una qualsiasi verità. Alza gli occhi sui suoi, rivolgendogli un sorriso dolce.
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edmondapisani · 6 years
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Lungo o corto? L’eterna lotta sulla lunghezza dell’articolo giunge al termine
Ci hai fatto caso che alcuni film riescono a farti passare la voglia di guardarli dopo solo 20 minuti, mentre altri ti fanno stare sulle spine per quasi due ore?
Questo mi ha fatto riflettere: qual è la lunghezza giusta di un film?
Dopo mesi di ritiro mistico su un picco sperduto, direi che un film deve durare abbastanza per portare a casa la pagnotta! Quando un film è considerato troppo lungo è solitamente perché la trama non è avvincente o il ritmo della storia è troppo flemmatico.
Giusto Sherlock?
Beh, stessa cosa vale per gli articoli.
Gli articoli che scrivi devono essere lunghi abbastanza per portare a casa il risultato
Il nostro cervello è abituato ad incasellare tutto, a etichettare qualsiasi cosa, altrimenti esce matto.
Lo so cosa stai pensando: “Dammi un limite minimo di parole Angelo, altrimenti sclero!”.
Mio caro amico of the jaguar, il punto non è la lunghezza – come dice sempre Rocco – ma come lo usi!
Il cervello vuole informazioni complete e impazzisce se ci sono pochi dettagli o , peggio ancora, incompleti. A proposito ti consiglio di leggerti un bell’articolo sull’effetto Zeigarnik e di come reagiamo alle cose incomplete.
Ma prima torniamo a noi…
Gli articoli su questo blog variano parecchio: alcuni sono di 500 parole mentre altri arrivano anche a 3000. Non li scrivo di certo in base ad un limite di termini imposto da qualche divinità, ma al tema trattato nell’articolo stesso. Cerca di seguire questa regola e ti troverai sempre bene.
Ci sono solo un paio di casi dove il conteggio delle parole usate in un articolo è importante…
Qui la lunghezza conta veramente
1. Ottimizzare i contenuti per i motori di ricerca Google & co. amano siti con i contenuti pieni di informazioni uniche e di qualità. Quindi se la posizione del tuo sito tra i risultati (SERP) di Google per te conta parecchio – e dovrebbe visto che se sei invisibile non hai traffico – allora devi sempre tenere presente le linee guida imposte dai motori di ricerca che consigliano un minimo di 300 parole ottimizzate per ogni contenuto del tuo sito.
Se riesci a spingerti oltre arrivando a 500 è ancora meglio.
D’altronde pensa a questo: Google con il suo algoritmo cerca di replicare l’interazione tra persone e quindi più parole usi per descrivere un determinato tema, meglio uscirà fuori il significato di quello che vuoi dire. Tutto questo ti permetterà di avere una comunicazione efficace.
Guarda queste due frasi usate per descrivere un piatto…
a. “Mi sono mangiato un piatto di pasta alla carbonara, molto buono.”
b. “Mi sono mangiato un piatto di pasta alla carbonara fatto con uova biologiche di un giallo intenso, prese da un allevamento locale. Poi ho aggiunto il guanciale, finemente tagliato e fatto scaldare a dovere per scioglierne il grasso così da insaporire il piatto. E gli spaghetti? Fatti rigorosamente a mano come da tradizione. Spettacolare!”
Ti ha fatto venire l’acquolina è?
Come vedi, il punto non è solo far contenti i motori di ricerca con articoli del genere ma anche e soprattutto i lettori che apprezzeranno sicuramente maggiori dettagli sul tema.
Senza andare troppo in fondo alle pratiche migliori dell’SEO, ti basti sapere che maggiori sono i dettagli e le parole chiave inserite nell’articolo, maggiori sono le possibilità di salire nelle classifiche per più termini e quindi ricevere traffico per varie query come:
ricetta pasta alla carbonara
guanciale o pancetta per la pasta alla carbonara?
che tipo di pasta devo usare per la carbonara?
e via così…
2. Riviste, giornali e altre pubblicazioni Se scrivi un articolo per una rivista o pubblicazioni simili, dovrai per forza di cose fare a meno di molte parole che avresti potuto usare sul tuo sito o nella tua newsletter. Questo perché il tuo pezzo dovrà riempire determinati spazi sulla rivista (senza straripare).
A parte queste situazioni, assicurati soltanto che il tuo articolo sia lungo abbastanza per portare a casa la pagnotta. Ma ricordati anche che un ottimo articolo condivide molto con un ottimo film.
I componenti per scrivere un ottimo articolo
1. Struttura Un articolo ha bisogno di una struttura ben fatta, il che vuol dire che il tema trattato deve scorrere.
Non puoi saltare da una parta all’altra sperando che il lettore ti segua… altrimenti diventerà come uno di quei film pieni di ‘flashback’.
Non va bene nei film, figurati nel marketing!
Ma come fai ad essere sicuro che il tuo articolo abbia una struttura decente? Devi dedicare del tempo nella creazione di una lista di sotto tematiche che hai deciso di trattare nell’articolo (prima ancora di iniziare a scrivere). Questo ti aiuterà nella creazione di un contenuto che scorre come un pattinatore sul ghiaccio.
Io lo faccio per ogni articolo che scrivo; questo mi salva dal finire in vicoli ciechi durante la discussione.
Prendiamo per esempio un articolo che ho scritto sull’importanza dei colori nel marketing.
La struttura creata punto per punto prima di iniziarne lo sviluppo era la seguente:
Importanza dei colori nel marketing
Differenze tra i vari colori
Quando usare un determinato colore
Il peso in base alla scelta cromatica
Il gusto in base al colore
2. Ritmo Il tuo articolo deve avere un certo ritmo. Da un lato non vuoi insistere troppo su un punto ma non vuoi nemmeno essere troppo striminzito tanto da non far capire a nessuno di cosa tu stia parlando. Come detto prima, preparare una lista delle sotto tematiche che andrai a trattare nell’articolo ti aiuterà a risolvere questo dramma.
3. “Angolazioni” Nei film non c’è sempre la stessa inquadratura per tutta la loro durata. Si passa da primi piani a panoramiche, riprese in interna, esterna…
La storia è sempre divisa in piccole parti per tenere alto il tuo interesse.
Lo stesso principio viene applicato nella scrittura degli articoli e la tecnica usata per far sì che questo avvenga è quella dei sottotitoli.
Basta guardare quanti sottotitoli ho usato in questo articolo per farti continuare a leggere con attenzione. Questo rende tutto più interessante che leggere un lungo, smisurato articolo senza interruzioni!
4. I tuoi gusti e quelli degli altri A me non piacciono i film horror. Nemmeno quelli troppo fantasiosi come Il signore degli Anelli o Star Trek.
Preferisco i porno. Semplici e diretti.
(dai scherzo…)
Anche tu avrai un genere preferito, o no?
Quando si legge, accade la stessa cosa: ci sono topic che ci piacciono più di altri. Bene, quando scrivi, ricordati di usare parole e un linguaggio che i tuoi lettori preferiscono.
Molto spesso mi capita di incrociare professionisti che usano paroloni derivanti dal gergo della loro nicchia di mercato che però non vengono capite dai lettori. Queste cose, invece di attirare clienti, li respingono!
L’imprenditore pensa che usando frasi lunghe, aiuti a farli sembrare più esperti…in verità questo li rende complicati, a volte anche noiosi.
Usare un linguaggio vicino al potenziale cliente è importantissimo.
Parliamoci chiaro: non hai mai sentito nessuno lamentarsi di una cosa troppo facile da capire, o no? Beh, nemmeno io!
5. Modificare i contenuti I film che sono una filippica infinita sono noiosi. Stessa cosa vale per gli articoli. L’errore numero uno che fanno gli scrittori novelli è quello di riempire gli articoli di parole irrilevanti e che non danno nessun valore aggiunto.
Diceva il saggio: Dopo che hai scritto un articolo, lascialo da parte per una giornata. Lascia marinare i tuoi pensieri. Guardalo a mente fresca il giorno dopo e scalda il dito dedicato al bottone “cancella”. Modifica e cancella tutte quelle frasi di cui non hai bisogno.
Anche nel cinema si usa fare dei tagli dopo aver filmato le scene. Quello che vediamo seduti davanti ai popcorn non è altro che un insieme delle migliori scene. Questo è ciò che rende un film – e un articolo – accattivante.
Per concludere
Non c’è una lunghezza giusta e una sbagliata. Il tuo articolo deve portare a casa il risultato – e la pagnotta.
Per far sì che questo accada, crea una lista dei topic da trattare nell’articolo; questo ti aiuterà a creare una struttura con la quale portare avanti il processo di scrittura senza intoppi.
Suddividi l’articolo usando titoli secondari e ricordati di usare un linguaggio che il tuo pubblico capisce.
Per ultimo, rileggi l’articolo che hai scritto e sbarazzati delle parole inutili come farebbe l’assassino con il corpo della vittima. Vedrai che i tuoi lettori non avranno il tempo di finire i popcorn!
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ipotesi-controversa · 7 years
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ed è tardi, molto tardi, ma non riesco a dormire
Il problema qui è il mio non avere bisogno di niente, insomma Giulia, sii realista per una volta in vita tua, sai perfettamente di cosa avresti bisogno ma rifiuti categoricamente anche solo l’idea di poter provare veramente interesse per una cosa così banale e fallace.
Sai di cosa avresti bisogno, ognuno di noi lo sa, ma perché scappare, perché continuare a scappare sempre più lontano? Correre fa bene, ma scappare farà altrettanto bene? C’è chi sostiene che la cosa positiva sia rimanere, rimanere dove?
La mia vita non sembra altro che un pozzo senza un vero e proprio fondo, ed io non ci trovo la luna riflessa da nessuna parte, io non ho la mia luna, dove cazzo la trovo?
La mia vita sembra una stampante senza cartucce, una stampante che stampa fogli completamente bianchi, chi cazzo si è fottuto il mio toner? La mia vita sembra uno scatolone dopo il trasloco. Tutto completamente rotto. Senza forma. Privo di contenuto. Questa forma di assenza mi spaventa. Non capisco. Io faccio fatica a comprendere quale sia il problema. Il mio accovacciarmi attaccata alla finestra in cerca di qualcosa che sembra non arrivare mai, e un’aspettativa tanto bastarda quanto il tempo che passa via e scaccia via i ricordi. Un’aspettativa che fotte tutto quello che c’è intorno e l’incapacità di fidarsi delle parole di qualcuno, e non so perché tendo a chiudermi così, ma dio la paura come mi paralizza. Sì, fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, fino a che punto però? Quanto si può vivere così? Non per sempre. Ed io voglio essere sempre così libera di scappare quando più mi piace, nel bel mezzo della vita di qualcuno, scappare senza meta, senza lasciare tracce della mia esistenza, volatilizzarmi nel nulla mentre il giorno muore, diventare aria e provare quella sensazione di eterno, momento etereo, felicità del piccolo momento della fuga che trascina una chiusura di legami non duraturi. Voglio essere io la variabile indipendente di qualcuno. Non devo dipendere da nulla, perchè dipendere fa soffrire, troppo. Devo solamente trovare qualcuno tanto disponibile da voler essere la mia variabile dipendente, qualcuno che possa dipendere da me, ed io potrei anche impegnarmi a non andarmene, ma non subito. Perché non penso alla fuga ora, ma io lo so che da me si va soltanto via, ed io non voglio essere la persona che viene abbandonata, semmai quella che abbandona, perché fortunato è colui o colei che riesce ad abbandonare la condizione che lo abbandona. È un fottutissimo ragionamento egoistico il mio, lo so, ma non riesco a pensare diversamente la mia vita, sto diventando talmente brava che non me preoccupo più, sto continuando la mia corsa cercando di non aggrapparmi a nulla che realmente non mi piaccia, non ha alcun senso affezionarsi a qualcosa senza valore, non ha senso farlo adesso, e sento di non volerlo fare, dunque non mi affezionerò, lo so, mi conosco, non subito per lo meno. E non mi fiderò di qualcuno che crede di poter essere la mia variabile dipendente, perché questa è la mia unica condizione, io devo sentirmi libera, ed in un certo modo anche l’altra persona, ma quella libertà che dipende sempre dalla libertà dell’altro. Essere la variabile indipendente di qualcuno significa sentirsi liberi ma anche indispensabili per la vita dell’altra persona. Ecco, io sento che nulla è davvero indispensabile. Non ora e non so se arriverò mai a pensare “Giulia, questa persona riesce a tenerti in pugno, senza saresti persa”.
Non esiste nessuno di tanto bravo e tanto valente da farmi pensare ciò, e non è l’incapacità dell’altro, ma è una mia incapacità. Io non mi sento legata a nulla, nemmeno ad un ricordo. Dipendere significa non riuscire a vivere senza qualcosa, e beh, io ho vissuto sempre abbastanza bene la mia vita pur non dipendendo da nessuno. È una bella sensazione. La libertà andrebbe insegnata, tutti dovremmo vivere così. Essere liberi fa crescere quando si è immaturi, si impara a non credere a tutto ciò che ci viene messo davanti agli occhi giusto per il gusto di farlo, giusto per il gusto di affidarsi a qualcuno che sembra più capace di noi.
Arriverà un giorno dove mi sentirò realmente legata a qualcuno o qualcosa?
“Rispondimi Giulia, ti prego, ne ho bisogno, rispondimi perché questo tuo silenzio mi sta facendo dipendere da te e questa cosa poco mi piace.”
Ecco, una cosa che fa dipendere qualcuno da qualcun altro è il silenzio. Il silenzio intrappola parole e persone in reti inesistenti di parole che uccidono, silenziosamente. Il silenzio è il peggior nemico di qualcuno che come me lo teme. Perché esiste il silenzio? Cosa ci porta al silenzio? E non esiste cosa peggiore che sentirsi soli in due, due corpi vicini divorati dalla stessa solitudine, perché il silenzio nasce da esigenze simili, avere due esigenze differenti porta al dibattito, avere due esigenze uguali nella loro profondità ma differenti nelle loro sembianze può solo che portare al silenzio in quanto che una delle due persone vorrà sempre prevalere sull’altra, magari anche inconsciamente ma vorrà prevalere, impossibile negarlo. Ecco perché gli opposti si attraggono ma non possono amare i propri simili, sarebbe distruttivo, ed io devo solo capire chi sto amando. E devo anche sperare che sia una persona totalmente opposta al mio essere così irrequieto e irascibile. Devo ancora comprendere cosa ne sarà di me, e di tutto ciò che mi circonda per non soffrire dopo, nella remota ma possibile opportunità che la persona che ho accanto mi faccia pensare di poter essere la mia variabile dipendente.
Ecco. Ecco il perché della variabile dipendente, diversità. Tutto torna per quanto illogico nella testa di un’altra persona possa sembrare, tutto torna. Se cercassi una persona forte e determinata come me nel voler essere la variabile indipendente, sarei letteralmente fottuta per il discorso delle esigenze uguali che comportano i più atroci silenzi. Ed io non posso sopportare il silenzio di una persona, mi ucciderebbe ed io non sono disposta a farmi uccidere se non per mia volontà, ed il silenzio non è un buon modo per morire. il silenzio nella morte equivale ad essere totalmente dimenticati, ed io ho paura di essere dimenticata, io che cerco di vivere la mia vita con un macchina fotografica sempre al collo per paura di dimenticare, come potrei accettare che un silenzio faccia da terra sopra la mia esistenza? Non potrei.
Una dipendenza forse ce l’ho. La mia pregiatissima macchina fotografica, l’unica cosa da cui dipendo. Certe volte gli occhi non bastano a sufficienza, non sono buoni abbastanza da ricordare i particolari più intimi di una situazione, come ad esempio di un paesaggio le mille foglie per terra d’autunno, a distanza di anni, i nostri occhi cancellerebbero questo piccolissimo particolare, ed io non voglio. Ciò che immortalo con gli occhi è tutto ciò che penso di essere abile a ricordare, tutto ciò che invece, so di non poter trattenere dentro alle sole pupille lo sigillo in un pezzo di carta lucida, cosicché rimanga immutato nel tempo, incancellabile negli anni, che come un ruscello lavano via i ricordi ripulendo la memoria dalle cose più belle per noi.
Un po’ come a distanza di anni ho trovato le mie fotografie nella casa in campagna; i miei genitori molto probabilmente avevano paura di non ricordare una particolare espressione del mio volto o la felicità del mio viso seduta in braccio della nonna sull’ altalena verde in giardino, o la posizione di quando con la faccia furba mi sedevo in braccio al nonno a guardare la formula uno, se chiudo gli occhi io giurerei di sentire ancora i rumore delle macchine sfrecciare proprio davanti ai miei occhi da bimba, o molto probabilmente avevano pensato di lasciare una traccia di quegli anni per cui io nel tempo, riguardandole avrei sorriso, e sicuramente mi sarebbe venuto un brivido che mi avrebbe scosso.Come dimenticare anche solo per un momento il cappellino rosso messo al contrario e il sapore della marmellata della nonna? Beh, per quello non serve una fotografia. Si può dimenticare tutto ma non il modo in cui una persona ci ha sorriso o ci ha toccato o ci ha guardato almeno una volta, si può dimenticare tutto ma no  i profumi ed i sapori che ancora a distanza di anni sembrano così famigliari. Fare un tuffo nel passato e sorridere della sensazione surreale che si prova ad entrare nei propri ricordi.
Come dimenticare un posto che almeno una volta nella nostra vita ci ha reso eternamente felici? Intendo un posto dove la mente correva nelle difficoltà per andarsi ad aggrappare a qualcosa di bello e significativo di tanto forte da tenerci a galla. Ognuno ha una data, una ricordo, una persona che ci tende un braccio nella cosiddetta “selva oscura” dantesca che ognuno di noi nel mezzo del cammin di sua vita conosce. Io ad esempio, l’appiglio dei ricordi felici è la casa in campagna dei nonni. I centrini della tavola della cucina, lo schiaccia mosche rosso del nonno sul tavolo bianco in giardino, la formula uno e lo sfrecciare veloce delle macchine, l’altalena del giardino, la nonna che mi prendeva in braccio perché ero talmente piccola da non arrivare nemmeno al lavandino per lavarmi le mani, i panini con la marmellata, il profumo buono delle lenzuola della nonna, e la sua voce un po’ rauca, ed i suoi capelli nero corvino, la carnagione olivastra e le sue mani esili come quelle della mia mamma, e poi il nonno, così diverso dalla nonna, basso, buffo, sempre meno serio della nonna, scherzoso. E la pancia da nonno che se adesso ci penso mi viene in mente la frase “un uomo senza pancia è come un cielo senza stelle” ed un sorriso.
Queste cose rimarranno immutate nella mia mente, non scapperanno perché ormai sono intrappolate li e da lì no  possono correre via in alcun modo. Ma può esistere qualcuno così abile da giurarmi che come alcuni dei miei ricordi non scapperà?
Come faccio a fidarmi di qualcuno o di qualcosa dal nulla? E se riponessi male la mia fiducia?
“si lo so Giulia, bisogna provarci, ma se poi tutto fallisse? Cosa rimarrebbe? Nulla. Sono disposta a rimanere a mani vuote dopo aver conosciuto la felicità della vita condivisa con qualcuno? Quanto sono disposta a cambiare per la persona che mi ritrovo davanti? Quanto sono disposta a sopportare della sua vita, quanto sono disposta a tollerare della sua libertà? Non è facile, ok. L’ho messo in conto, ma se poi non mi andasse bene? La mia condizione necessaria è essere la variabile indipendente, avere la mia libertà, fuggire, quando più mi piace senza lasciare biglietti di addio strappalacrime che non rientrano affatto nel mio modo di essere. Giulia, magari questo modo di ragionare è totalmente una merda, lo sai vero? Chi cazzo potrebbe sopportare queste condizioni? Quanto sei disposta a cambiare se vedessi che le cose potrebbero non andare come vuoi tu?”  il cambiamento prevede l’aver riconosciuto che il modus operandi portato avanti sta per fallire, “io sarò in grado di riconoscere il fallimento o aspetterò di essere rimasta a mani vuote?” cambiare per qualcuno significa sacrificarsi, mettere da parte pezzi di essere per far felice l’altra persona, bene, io questo sono disposta a farlo, ma bisogna volerlo in due, bisogna trovare basi d’accordo, le due variabili devo raggiungere compromessi, che nel caso non venissero rispettati porterebbero disaccordi e dissapori. Porre la propria felicità prima di quella di un altro, e non sentirsi deluso se l’altra persona si comporta nella stessa identica maniera, la felicità deve essere prima individuale. Cambiare per qualcuno significa volerlo davvero, è impossibile sacrificarsi per qualcuno solo per il gusto di farlo, bisogna aver riconosciuto che effettivamente ci sia davvero qualcosa che non va, in quanto che non penso che saremmo disposti a cambiare se penseremo di agire nel modo più corretto. Coerenza. Occorre tanta coerenza e niente aspettative. “quanto sei disposta a concedere pezzi della tua vita e quanto sei disposta a concederti senza aspettarti nulla in cambio?” se ami non te ne curi troppo di questa domanda, ma ti farà effettivamente stare bene?
Rischiare. “quanto sono disposta a rischiare?” ora nulla. Devo trovare qualcosa per cui valga veramente rischiare tutto, mettere la propria vita all’asta, vincerla al doppio e giocarsela su un tavolo a poker sperando di aver la mano vincente per non farsela fottere al gioco.
Essere talmente brava da andare avanti e lasciare indietro tutto ciò che non ha alcuna importanza, non prendersi gioco delle persone e vivere nella maniera più indipendente possibile. Vivere dove possiamo essere felici, e perdersi nel vuoto dell’altra persona. Cercare un vuoto complementare al proprio, cercare un vuoto a cui badare con cura, e domandarsi se davvero ne sia valsa la pena giurarsi eterno amore davanti ad un prete, davanti a dio inginocchiati con due fedi al dito. E se il matrimonio non è ciò che può darci tutto ciò di cui  abbiamo bisogno? Ed è possibile maturare questo pensiero in una sola notte di rabbia giusto per ferire l’altro come per dirgli “visto che realmente non mi renderebbe migliore sposarti?”. E se fossimo destinati a sentirci soli? “Giulia ma io non ho ancora capito se la tua solitudine ti piace o ti fa letteralmente schifo? Che potresti dirmelo che io non ce la faccio più a combattere con te che cambi idea ogni tre secondi, che sei lunatica come molte altre ma complicata come poche, che potresti aiutarmi a capirci qualcosa nel casino che sei, che io ce la metto davvero tutta per cercare di capire nel migliore dei modi ma tu continui sempre a fuggire ed io non ce la faccio più a correrti dietro, che non ho abbastanza fiato e per giunta sono parecchio dolorante, quindi ti pregherei di svelarmi le tue prossime mosse, perché sono abbastanza stremata, che tu non ci crederai, come sempre, ma tu mi hai tolto tutte le energie, dammi tregua.” Tregua. Giustamente bisogna concedere una tregua ma io non sono disposta ad aspettare qualcuno, io non aspetto, io vado avanti, corro, mi piace farlo, mi rende ancora più libera di quello che sono, è uno sfogo, una sorta di pianto liberatorio, un pianto senza lacrime, una Giulia forte, il mood Green Day cazzuto quanto basta per far paura e procedere senza voltarsi, senza rimorsi né rimpianti inutili che fanno solamente vivere male. “sono sempre più convinta che chi vuole si deve adattare a me, senza ne se ne ma, giusto o sbagliato che sia, non riesco io ad adattarmi a nulla, lo so per esperienza quindi non ci provo nemmeno, sarà un  ragionamento stupido. E adesso Ade dormi, è tardi.”
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merrowloghain · 4 years
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La guarda muoversi tra i tavoli, restando con lo sguardo verso la sala quando Clodia va a prendere posto dinnanzi a sè, come a sottolineare che no, non stava fissando lei. Una volta che la bevanda però giunge sul tavolo, le mani si allungherebbero per far sporgere da quelle maniche larghe e lunghe del maglione blu, le bianche dita affusolate, catturando il vetro del boccale tra i palmi, in un gesto di palese ricerca di calore. Lo guardo si punta verso il basso, rimirando quella burrobirra che lei nemmeno voleva. Un po` come si ritrova ad essere li con lei, con quella strana sensazione indefinita alla bocca dello stomaco. Lo sguardo viene calamitato da quella sfera rossa posata sul piattino, ascoltando la domanda che le viene posta, prima di rispondere al secondo dire con un allungare di mano verso di lei. Sembra per un istante che stia andando a cercare le sue dita, quelle che afferrano la forchetta che userebbe per mangiare la torta, fermandosi però qualche centimetro prima, per afferrare il bastoncino bianco del leccalecca, e tirarlo via dalla sua posizione. E qualora non ci fossero proteste, andrebbe ad infilarselo in bocca in silenzio, alzando soltanto adesso lo sguardo nel cercare il suo « Stavo vedendo se conoscevo qualcuno qua dentro, che mi potesse comprare una bottiglia di Whisky Incendiario. » lapidaria nel dirlo, mentre si passerebbe il dolce da una guancia all`altra, il bastoncino che premerebbe appena sulle labbra carnose. «Sei una stro**a, lo sai?» il tono è neutro mentre lo dice, il capo che si inclina appena di lato «Mi hai fatto stare uno schifo.» è schietta, diretta e sincera. Il viso però che non lascia presagire nessun picco di rabbia, uguale sfumatura nel tono, dove forse si può scorgere vagamente una piccola nota d`amarezza.
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Non guarda i suoi movimenti preoccupata nel sistemarsi e nel portarsi davanti la torta. Vede però il movimento della sua mano e la destra della corvonero si ferma esitante inquadrando il lecca lecca che viene portato via. Sorride appena facendo il primo boccone e solo allora alza il viso verso di lei «Almeno un po’ di zuccheri li mangi» tono ironico, faccia un po’ da schiaffi, ma torna quasi subito seria. Aspetta qualche secondo prima di commentare su quello che stava facendo «E’ pericoloso far entrare l’alcol da fuori…» sottintendendo tante cose «che te ne fai?» chiede sempre in tono totalmente neutro. Sorride alle sue due ultime affermazioni alle quali risponde semplicemente con un «lo so» che s’inclina in un tono più basso come se fosse davvero dispiaciuta anche se stesse cercando di nasconderlo. Posa la forchetta sul piattino, la torta è a metà, inclina il viso a destra e alza di nuovo gli occhi azzurri su di lei «Se ti avessi continuato a baciare solo perchè mi andava sarei stata migliore?» le domanda a bruciapelo appoggiando a sua volta i gomiti sul tavolino.
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Sbuffa, tornando con lo sguardo verso la sala, in nessun punto in particolare, il rumore del lecca lecca che passa tra i denti e le dita che tamburellano morbidamente contro il vetro caldo della Burrobirra «Mi piacciono solo i lecca lecca sanguinolenti.» il tono è sempre piatto, anche se la coincidenza che tra tutti i dolci lei stesse mangiando proprio qualcosa di simile, è rimarchevole «E la torta di mele. Con la cannella.» aggiunge, ed in quel momento, forse perchè l`ha citata, il profumo della Loghain sembra farsi più presente, con quella nota di pepe nero, e la suddetta cannella a fare da sfondo. Fa spallucce, continuando a fissare il niente mentre le risponde «Infatti, quello era il problema numero due. Ma mi piace pensare a step, altrimenti ogni cosa sembra impossibile in partenza e quindi tutto sarebbe vano.» il cervello della Loghain in pillole. Gli occhi scivolano lateralmente, ad inquadrare il proprio boccale, la schiuma che nonostante il tempo che passa, resta bella presente e soffice «Voglio prendermi una sbronza epocale.» la sincerità che per quanto cruda sembra una lama «Con un`amica.» aggiunge semplicemente. Non sembra avere troppo interesse in lei, finchè si avventurano ancora in quei discorsi leggeri, almeno finchè quelle due sillabe basse non vengono pronunciate. Iridi grigie che si sollevano sul volto dell`altra, a cercare le sue, altrettanto chiare, senza dire nemmeno una parola. A quella domanda, le labbra si stringono, imprigionando lo stecchino bianco al centro di quella bocca rosea. Sembra pensarci un momento, prima di portare la mancina ad afferrare il lecca lecca e a farlo uscire dalla sua alcova, con un piccolo schiocco umido «Più sincera.» piccola pausa «Migliore o peggiore, qui non è in discussione. Io non giudico. Non l`ho mai fatto e non comincerò adesso.» ed il modo in cui la fissa, sembra farsi nuovamente intenso, come se non riuscisse ad evitarlo minimamente. Ne rimira velocemente i tratti, prima di tornare ancora una volta a cercare quegli occhi grandi ed azzurri «Si può sapere tu, cosa vuoi?» al di là di tutto? La sinistra che fa rotolare distrattamente la sfera rossa sulle labbra, la destra che picchietta con le unghie contro il vetro.
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«Me lo ricorderò» annuncia riguardo ai suoi gusti in fatto di dolci, mentre continua a mangiare la torta, un boccone alla volta. (...) Afferra il boccale con la destra, non al manico ma direttamente alla parete di vetro prima di portarlo alle labbra e bere un piccolo sorso. Si lecca i baffi di burrobirra. Al”più sincera” alza gli occhi al cielo, ma è un movimento voluto perchè sta appena sorridendo. «grazie della tua astensione dal giudizio» le risponde ironica afferrando di nuovo la forchetta e facendo un altro boccone. Non evita il suo sguardo, limitandosi a fissarla a sua volta tornando seria. «Non voglio…» sospira «vorrei farti del male a caso» visto che glielo ha già fatto, ma è sincera, non è una frase buttata lì per niente. Infilza l’ultimo boccone di torta e se lo infila in bocca masticandolo a bocca chiusa. Solo quando lo ha deglutito, senza spostare lo sguardo da lei aggiunge «Tu cosa vuoi invece?» e specifica «esattamente» perchè che volesse baciarla era evidente.
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E` vagamente ironica nel tono, come se lentamente si stesse sciogliendo, alla velocità che ha una farfalla nell`uscire dalla sua crisalide. «Ci.. pensi tu?» aggrotta la fronte «A fare cosa? A comprarmelo od a contrabbandarlo dentro il castello?» di nuovo quel sopracciglio sinistro inarcato, in un tono vagamente sprezzante e cospiratorio «Suggerimenti?» sia mai che si dica che la Loghain è un mulo cocciuto che non ascolta niente e nessuno. Beh, once in a blue moon, almeno. La guarda sorridere, aspettando che quegli occhi scendano da quel movimento per poterli incontrare nuovamente, come se li stesse aspettando da tempo immemore. Le guarda le labbra dopo quel sorso di burrobirra, pronunciando «Non ho bisogno di farlo. Di giudicarti. Non ce n`è motivo, per quello che è successo.» ancora spallucce, a voler sottolineare che forse, la sta facendo troppo grossa. La vede farsi seria però, ed è in quel momento in cui prende un profondo e lento respiro. L`ascolta, gli occhi dal taglio felino che precipitano per qualche attimo sul suo boccale, con fare meditabondo. Deglutisce e si prende qualche secondo in più prima di replicare, ritornando sul suo viso con l`attenzione «Boh, te.» e cosa questo voglia dire, è palese che nemmeno lei lo sappia «Non ho pensato ai dettagli, non..non ha senso pensarci.» scuote il capo, ed è una chiara nota d`amarezza che spicca su tutto il resto, nella sua voce «Tanto queste cose durano poco.» queste cose..cosa? La sinistra torna a far rientrare il lecca lecca nella bocca, la sfera che si sposta sulla sinistra a gonfiare vagamente la guancia «Non credo mi piacciano le ragazze.» ammette con calma «Ma mi è piaciuto baciare, TE.» e calca sulla parola con calma, evidenziandola con uno sguardo che non lascia dubbi «E ci sono talmente poche belle in questa vita che..mi sembra..» sbuffa «mi sembra assurdo rinunciarci, per cosa?» fa una piccola pausa e poi torna a fissarla, levandosi la caramella dalla bocca ed appoggiando l`avambraccio corrispondente sul legno «Dimmi per cosa.» perchè lei è palese che non lo sappia.
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«A comprarlo» spiega alzando gli occhi dal boccale e posandoli su di lei «e a trasfigurare la bottiglia» lei può fare entrambe le cose «poi te lo porti dentro tu» conclude «così perdete altri punti» conclude divertita di nuovo con la faccia da schiaffi. Quando le chiede i suggerimenti sospira «qualche anno fa avevo iniziato a fare il sidro, nei sotterranei» le racconta «non è whisky perchè per farlo ci vuole un procedimento rumoroso e pericoloso, ma è comunque qualcosa» alza le spalle «se è però solo per una sbronza non conviene granchè» conclude. Sorseggia la burrobirra lentamente guardandola dal bordo del boccale prima che il discorso diventi più serio. I suoi occhi incontrano quelli di Merrow e rimangono ironici per tutto il tempo che si parla di giudizio. Che la stia facendo grossa o no non era certo per il suo giudizio che si stava preoccupando. Di nuovo inclina il capo alla sua risposta, ma alza un sopracciglio dubbiosa perchè anche lei si sta chiedendo cosa duri poco. Stringe appena le labbra alla sua affermazione sul fatto che non crede le piacciano le ragazze, ma che le piaccia lei, eppure non commenta tornando a tuffare gli occhi azzurri nella burrobirra.«non sapevo che ti dessi alla filosofia la prende bonariamente in giro quando fa il discorso sulle cose belle della vita. alla domanda drammatica finale non risponde voltandosi verso gli avventori intorno per qualche secondo, assorta evidentemente nei suoi pensieri. «va bene» tono saldo e si volta di nuovo verso di lei a incrociarne lo sguardo. Indica la burrobirra con un gesto del capo «Finisci». (...)  Clodia fa lo stesso prima di aggiungere «Aspettami fuori» e le lascia il sacchetto dei dolci prima di sparire verso il bancone.
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Sbuffa quindi al suo commentare il suo dire apparentemente filosofico, puntando il pugno destro sotto il mento, la mano che finalmente si stacca dal boccale ancora intonso, almeno finchè non sente quel tono saldo, pronunciare ancora una volta quelle due parole che in realtà rendono tutto sempre più confuso. Stringe le labbra tra loro, guardandola negli occhi per un lunghissimo istante, rimanendo li anche quando le molla quell`indicazione che sa tanto di ordine. Ed è con un gesto elegante che tornerebbe con la destra al boccale, infilando le lunghe dita tra il manico ed il bicchiere, afferrandolo per portarselo finalmente, per la prima volta, alle labbra. Un lungo istante, in cui la gola si ritrova investita da quel flusso caldo di burrobirra, sciandola con velocità non troppo elevata ma costante, a tal punto da lasciare il boccale intonso, se non per una sottile striscia di schiuma residua. Si lecca il labbro superiore, a togliere ogni residuo della bevanda, in attesa. Deglutisce piano, la destra che scosta i polpastrelli dal vetro una volta per tutte.
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Trangugia la burrobirra con lei prima di alzarsi e afferrare il suo mantello. Non prende il galeone sul tavolo «La prima sbronza non posso che offrirtela io» e Merrow probabilmente non capirà cosa intenda, dato che non sa cosa ha passato e di come stia ancora cercando di uscirne. Va al bancone dove mostrando i documenti non possono non venderle quello che ha chiesto e se la fila in bagno chiudendosi in un cubicolo. Sfila la bacchetta e la punta contro il vetro della bottiglia *vèrto* muovendo il catalizzatore dall’alto in basso e poi da sinistra a destra formando una croce. Immagina la materia di vetro diventare il legno che viene usato nelle botti e racchiudere all’interno il liquido. Si concentra anche sul liquido che dovrebbe rimanere all’interno, rimanendo identico, restando racchiuso nella nuova “custodia”. Il legno è spesso e racchiude perfettamente il cuore interno rendendo difficile sentirne lo sciabordio, inoltre le fattezze esterne diventerebbero quelle di un carinissimo e dolcissimo orsetto con un grosso cuore in mano. Se l’incantesimo le fosse riuscito uscirebbe di nuovo al freddo esterno rabbrividendo prima di avvicinarsi a Merrow. E mentre cerca di infilarsi il mantello le porgerebbe la statuetta «Buon san Valentino» sorriso sghembo sulla guancia sinistra e strizzata d’occhio in segno d’intesa.
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Se ne va dal locale, rimanendo al freddo ed al gelo ad aspettare Chandler. Ha tutto il tempo di riflettere, fare congetture, e cominciare una lenta discesa nella paranoia che le accade spesso, ogni qual volta viene lasciata troppo tempo da sola. Sbuffa dal naso, mentre i minuti passano, scanditi da parecchie nuvolette di condensa davanti al suo viso, le braccia che sotto il mantello vanno ad incrociarsi sotto il seno. Le calze a rete che, sotto i jeans scuri, vengono sistemate un paio di volte, in un prurito vago, fatto per lo più di nervosa attesa. Solo alla fine, giunge di nuovo quella voce, che per quello che dice, la fa voltare con un`espressione totalmente stranita ed allucinata, sul viso dai tratti spigolosi. Guarda lei, guarda l`orsetto che ha in mano, torna a guardare lei. Scoppia in una grossa e fragorosa risata, con tanto di sghignazzamento lugubre verso la fine, in quello che è un buon minuto filato di ilarità incontenibile «Per Merlino incoronato, Chandler!» ha le lacrime agli occhi «E` il mio primo regalo di San Valentino.» ammette ridacchiando ancora. Un regalo che contiene più spirito di quello che potrebbe fare un semplice orsetto. In tutti i sensi. «Posso garantirti che mai mi sarei immaginata di riceverlo da te.» e si vede che quella cosa la farebbe continuare a ridere, ma si trattiene, asciugandosi gli occhi con le dita della mancina, infilandosi il contenitore puccioso in una tasca interna del mantello «Ed ora?» dondola appena in avanti sugli anfibi, rendendosi improvvisamente conto adesso, che forse sono arrivate a quella parte dove un certo "va bene", potrebbe esser nuovamente pronunciato.
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La guarda stupita alla sua risata fragorosa, ma, lentamente anche lungo la sua guancia si allarga un sorriso che si espande poi a tutto il viso. Ride vedendola con le lacrime agli occhi «vedi?» fa finta di darsi importanza «mai dire mai» e le lancia un’occhiata in tralice prima di scoppiare anche lei a ridere. Però non le stacca gli occhi di dosso, inclinando appena il viso, in mezzo a tutte le persone che passano intorno a loro, osservando come si asciuga le lacrime dagli occhi. Si infila le mani in tasca guardandosi intorno sentendo anche il peso di quel “va bene” che ha pronunciato prima. Si morde appena il labbro «Io...andrei a scuola»
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Tace, deglutisce e la guarda «Hmn..» sembra fare un rapido calcolo, guardando verso Zonko « Se mi dai un minuto, avviso i ragazzi.» non deve nemmeno specificare quali, ovviamente «Tanto contavo di tornare a pranzo al castello.» seh, certo. Eppure il suo viso è una maschera di porcellana senza nessuna inflessione strana «Se..» fa spallucce lei questa volta «Se non hai altro da fare. Rientriamo assieme?» e c`è un po` di tensione anche in lei, sebbene trasportata solo da un`ultima nota sfumata nel tono. E se lei acconsentisse, farebbe esattamente come le ha appena descritto, per rientrare al castello in sua compagnia, poco dopo.
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pangeanews · 5 years
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Ecco perché continuiamo ad amare i Nirvana (in ogni caso, meglio ascoltare “All Apologies”): Matteo Fais dialoga con Paolo Giovanazzi, che non ha scritto la solita biografia di Cobain & Co.
Se c’è una cosa difficile, praticamente impossibile, è trovare un autore di libri dedicati a musicisti, o cantanti, che sappia appassionarti come un grande romanziere. Paolo Giovanazzi, autore per Giunti di Nirvana. Teen spirit. Le storie dietro le canzoni, ce l’ha fatta. Dimenticatevi il solito testo compilativo, pedante, privo di ritmo, buttato giù in fretta e furia seguendo le voraci esigenze di un mercato che non vede l’ora di spremere soldi dal cadavere di uno dei più grandi gruppi musicali di sempre. Giovanazzi racconta la storia di ogni singola canzone della band di Seattle, da quando fu concepita nella mente di Cobain al mixaggio finale, con il trasporto con cui Bukowski narra di una sua bevuta o Agatha Christie rivela infine il nome dell’assassino.
Davvero, raccontare i Nirvana non è semplice. L’autore lo fa prendendo in esame i pezzi in tutte le variazioni, mutazioni, restituendoci il travaglio di ogni singolo accordo di Kurt o rullata di Grohl, parlandoci delle chitarre spaccate e dei pezzi di batteria riparati con lo scotch.
Il testo è per gli appassionati, ma può tornare utile a chiunque voglia immergersi nella cupa vitalità di un gruppo che, inconsciamente e suo malgrado, ha fatto da specchio dei tempi. Apatia, instabilità emotiva, difficoltà nello stare al mondo, nel tollerarlo. L’idea che, in ultimo, “non importa”. Giovanazzi, con la sua prosa coinvolgente, ha dato voce a tutto questo, a un passato che ci ha segnati e che inevitabilmente sembra sempre lo si viva ex post. Anni della nostra vita che ci sono sfuggiti dalle mani, ma dai quali non vorremmo mai distaccarci.
Partiamo da una riflessione generale. Non ti sarà sfuggito che, per fare il verso a una famosa canzone, non si esce vivi dagli anni ’80 – ma direi anche dai ’90, come dai ’60 e ’70. Qualcuno ha parlato di sindrome da nostalgia e remake. I giovani vanno ai concerti dei Rolling Stones, ovvero di quattro – non so più quanti siano, in realtà – arzilli vecchietti. I Guns ’n’ Roses sono tornati e stanno sulla cresta dell’onda, malgrado Axl Rose assomigli sempre di più al vecchio zio, ex playboy, oramai alcolizzato e male in arnese. Che opinione ti sei fatto in merito a questa tragica e un po’ grottesca situazione? C’è ancora in giro il fermento di un tempo?
In realtà non credo che sia poi così diversa la situazione, rispetto al passato. È il mercato a essere mutato. Una volta per ascoltare la musica si pagava, questa è la differenza più evidente. Per fare soldi, oggi, bisogna fare concerti. Chi ha una storia, o un nome, rimasti nella memoria ha da spenderli il più possibile e sono pochi quelli che hanno resistito al richiamo – ad esempio gli Smiths, che hanno rifiutato offerte decisamente notevoli. Visti i soldi che ci sono in ballo, non so se al loro posto avrei fatto altrettanto, a voler essere totalmente onesto. Quanto al fervore, al momento: forse c’è fin troppa produzione, in realtà. Se vai a scavare, al di là del cosiddetto mainstream o della musica indipendente più istituzionalizzata, esiste veramente una quantità impressionante di roba in circolazione. Negli anni ’80 e ’90, arrivare a confezionare un disco era più difficile. Registrare e stampare costava molto di più e ciò, di per sé, determinava una severissima selezione. Chi arrivava al disco aveva già un suo pubblico. Oggi come oggi un album è alla portata di tutti, come poi inserire qualcosa su Spotify. Puoi fare tutto da casa, anche le registrazioni. Dunque, la mole è tale che risulta più difficile orientarsi. Poi, sai, per molta gente subentra la questione dell’età, la stanchezza. Diciamo che la voglia di scoprire cose nuove passa. Direi che, quindi, il fermento al momento è notevole, ma c’è troppo in giro ed è difficile trovare qualcosa che metta d’accordo un po’ tutti.
Come mai, ancora a distanza di venticinque anni, siamo qui a parlare di Kurt Cobain e dei Nirvana?
Bella domanda, ma rispondere è difficile. Ci sono cose che rimangono, mettiamola così. Potremmo chiederci perché, negli anni ’80, io e i miei compagni di classe compravamo i Doors che, per quanto più vicini, erano già morti e sepolti. Per i Nirvana non ti so dire, non ho la percezione di quanti salti generazionali abbiano compiuto. Vedo in giro tanti giovani con la loro maglietta, ma so che non è più come quando ero ragazzo io. Non significa appartenenza, ma unicamente che ti piace la maglietta. Ai miei tempi, comprare la t-shirt di un gruppo era un segno distintivo. Adesso, non so. Forse per qualcuno. Insomma, non so quanto i ragazzi abbiano ancora interesse nei Nirvana. Per chi ha la mia età conta la nostalgia, il fatto che ti piacevano e ci sei rimasto attaccato. Tanti, come dicevo prima, dopo una certa età smettono di seguire. Si sono formati i loro gusti: ciò che gli piaceva è anche quello che continuano ad ascoltare. Poi, ovviamente, chi detiene i diritti dei Nirvana ha interesse a mantenere viva la cosa.
Come giustamente sta scritto nella presentazione del tuo testo “Sono usciti tantissimi libri sui Nirvana ma nessuno come questo. Si è sempre privilegiato l’aspetto biografico, la drammatica storia di Kurt Cobain e l’impetuosa ascesa della band nei giorni furenti del grunge di Seattle. Si è sempre fatta poca attenzione alla musica, alle canzoni. Qui invece abbiamo un libro che parla di canzoni; in maniera dettagliata, precisa, quasi maniacale”. Come mai hai fatto questa scelta? Volevi riempire un vuoto del mercato, o pensi che il culto del personaggio Cobain abbia finito per mettere in secondo piano la qualità artistica della sua opera?
Mi piacerebbe darti una risposta da autore, ma la verità è piuttosto banale. La Giunti ha una collana di libri sui gruppi e le loro canzoni. A me andava bene rientrarci, perché preferisco scrivere dei singoli album e brani, piuttosto che il solito libro biografico. Ho fatto pertanto un lavoro di ricerca, d’archivio, recuperando tutte le varie riviste, i libri e ricercando sui siti internet. La ratio di tale operazione è che anche l’appassionato più fanatico è difficile abbia voglia di andare a raccogliere tutto quello che si sa su ogni pezzo, sulle sue varie fasi. Una nuova biografia avrebbe senso solo avendo informazioni di prima mano, magari dopo aver parlato con qualcuno che conosceva bene la band e ti racconta qualcosa che ancora non sia noto alle cronache. Altrimenti, i fatti più o meno si conoscono. Negli anni precedenti avevo fatto un lavoro simile a questo con Springsteen e i Rolling Stone – due imprese abbastanza complicate, data la quantità di canzoni. Con i Nirvana, che decisamente hanno una produzione ridotta, è stato molto più semplice. Per risponderti, comunque, direi che il mio è, essendo io un giornalista, un libro da giornalista.
Chiariscici un punto una volta per tutte, per favore: i Nirvana sono grunge?
È un po’ un falso problema, nel senso che, per dare una risposta definitiva, bisognerebbe avere una definizione precisa di cosa sia stato il grunge. Il termine ha iniziato a prendere piede, nella stampa musicale, quando sono emersi una serie di gruppi, con i connotati di quella che solitamente viene definita come “una scena”: area geografica abbastanza delimitata, nella fattispecie Seattle, una o due etichette del posto, come per esempio la Sub Pop. Ci sono, poi, un paio di teorie su come sia nato il nome. La più accreditata è quella secondo cui i Mudhoney, alla domanda su come fosse la loro musica, risposero proprio “grungy”, come dire “sporca”. Questa definizione deve essere piaciuta particolarmente perché, da quel momento, si è diffuso l’uso del termine, fino a divenire distintivo per un certo genere di band. Ci sarebbe però da chiedersi quali siano, in ultimo, i tratti caratteristici del grunge. Sul sito del produttore Jack Enedino, c’era per esempio una polemica contro quelle riviste che lanciano rubriche del tipo “i dieci migliori album grunge”. Lui contestava il fatto di vedervi figurare un disco come l’Unplugged dei Nirvana, sostenendo che il grunge è una musica da gruppo rock e suona distorta. La definizione, però, è quantomeno vaga. Infine “grunge” è un’etichetta, un capello messo su una serie di gruppi gravitanti intorno a un certo giro e caratterizzati da un suono duro e aggressivo. Come i Nirvana, che incidevano per la Sub Pop, e, pur non essendo di Seattle, vi abitavano. In tal senso, sì, lo erano. Per il resto la definizione risulta piuttosto fumosa.
Se dovessi delineare le mutazioni più evidenti nella carriera dei Nirvana, quali indicheresti?
Il passaggio più evidente è quello tra il primo album, Bleach, e Nevermind. Mentre in Bleach vi erano molti riff pesanti, con lui che vi urlava sopra, il secondo album presenta melodie e pezzi orecchiabili che suonano ancora duri e cattivi, ma con ritornelli più easy listening. Quello è stato il rivolgimento più evidente e la chiave che ha permesso loro di vendere tanto. Forse In Utero è stato una mediazione tra le due anime, quella pop unita a quella rock più rumorosa e dissonante. Nell’ultimo disco in studio viene inoltre riservata maggiore attenzione al testo, inseguendo una dimensione narrativa. In Nevermind le liriche erano invece costituite da frasi slegate tra loro, a volte anche contraddittorie – si veda, per esempio, Come as you are in cui un verso contraddice quello precedente, senza intenzione di raccontare alcunché. Rimarrà il dubbio di che strada avrebbero preso dopo In Utero.
A tuo avviso, esistono canzoni palesemente brutte dei Nirvana?
 Palesemente brutta direi Beans, contenuta nel cofanetto With the Lights Out. In verità, non so nemmeno se la si possa definire una canzone, visto che si tratta semplicemente di Cobain che fa lo stupido con un registratore, velocizzandosi la voce. Di proprio orribili, per il resto, non me ne vengono. Poi, è questione di gusti. Io, personalmente, non sono mai stato un entusiasta di Bleach. Lo trovo abbastanza ripetitivo. Non mi dice granché – non era nelle mie corde e non lo è tuttora. Conoscevo già qualcosa di quel primo album, quando uscì Nevermind, e il mio scarso amore per esso è anche il motivo per cui non vidi i Nirvana dal vivo, quando per ben due volte passarono qui in Brianza, prima che la fama li travolgesse. A quei tempi stavano girando in Europa, ma suonavano ancora in locali piccoli. Snobbati i concerti in zona, di lì a qualche giorno, ascoltai Teen Spirit, rendendomi conto che probabilmente avevo fatto una cazzata. Forse quello era il loro momento migliore, l’ideale per vederli dal vivo, quando la formazione si era definita con Dave Grohl alla batteria, il loro stile era già formato, ma loro stavano ancora girando con un furgone. Durante l’ultimo tour, invece, c’era già qualcosa che non funzionava. Lui cominciava a essere stanco, o comunque non era nelle condizioni migliori.
Mi piacerebbe che scegliessi la tua preferita tra le canzoni dei Nirvana e introducessi i lettori al suo ascolto.
In questo momento, sceglierei All Apologies. È una canzone scritta molto prima della sua pubblicazione. Le prime registrazioni risalgono addirittura ai tempi di Nevermind. I pezzi di In Utero nuovi, in realtà, erano veramente pochi. Cobain aveva recuperato diverso materiale precedente e ciò significa che in quel periodo stava scrivendo poco. In una delle ultime interviste aveva detto che sarebbe stato bello vedere cosa sarebbe riuscito a tirare fuori per il disco successivo, visto che non aveva più brani da parte e avrebbe dovuto, per così dire, cominciare da zero. Poteva essere il segnale che, in realtà, il momento magico era già finito. Il motivo per cui ho scelto questo brano, comunque, è che ne apprezzo la melodia, una delle migliori scritte da Cobain, tant’è che ha addirittura ricevuto l’onore di una cover da Herbie Hancock. Ne parlai anche con lui, quando lo intervistai anni fa. Mi raccontò di aver rifatto questo pezzo perché, in quel suo album, in cui aveva deciso di riprendere brani rock per trasporli in chiave jazz, quello dei Nirvana era veramente la scelta più improbabile. Insomma, si trattava di una sfida. Al contempo, questo brano gli offriva più possibilità per via della melodia ben definita. Un altro aspetto che mi affascina è che, in una delle prime versioni, il pezzo fosse concepito come acustico, vagamente alla Beatles – una parte di tamburello, effettivamente, li ricorda. Infine mi piace il fatto che Cobain la considerasse una canzone dedicata alla moglie e alla figlia, anche se nel testo non vi si fa riferimento. Era la melodia a dargli un senso di pace e ciò lo legava al pensiero delle due. Questo è peraltro indicativo di come desse maggiore importanza alla musica rispetto ai testi. Com’è noto, lui spesso scriveva questi all’ultimo minuto. Chi ama psicanalizzare ti direbbe che ciò significa che tirava fuori quello che aveva dentro senza filtrarlo. In verità, non lo sapremo mai.
Matteo Fais
L'articolo Ecco perché continuiamo ad amare i Nirvana (in ogni caso, meglio ascoltare “All Apologies”): Matteo Fais dialoga con Paolo Giovanazzi, che non ha scritto la solita biografia di Cobain & Co. proviene da Pangea.
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dianecarter · 6 years
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Lungo o corto? L’eterna lotta sulla lunghezza dell’articolo giunge al termine
Ci hai fatto caso che alcuni film riescono a farti passare la voglia di guardarli dopo solo 20 minuti, mentre altri ti fanno stare sulle spine per quasi due ore?
Questo mi ha fatto riflettere: qual è la lunghezza giusta di un film?
Dopo mesi di ritiro mistico su un picco sperduto, direi che un film deve durare abbastanza per portare a casa la pagnotta! Quando un film è considerato troppo lungo è solitamente perché la trama non è avvincente o il ritmo della storia è troppo flemmatico.
Giusto Sherlock?
Beh, stessa cosa vale per gli articoli.
Gli articoli che scrivi devono essere lunghi abbastanza per portare a casa il risultato
Il nostro cervello è abituato ad incasellare tutto, a etichettare qualsiasi cosa, altrimenti esce matto.
Lo so cosa stai pensando: “Dammi un limite minimo di parole Angelo, altrimenti sclero!”.
Mio caro amico of the jaguar, il punto non è la lunghezza – come dice sempre Rocco – ma come lo usi!
Il cervello vuole informazioni complete e impazzisce se ci sono pochi dettagli o , peggio ancora, incompleti. A proposito ti consiglio di leggerti un bell’articolo sull’effetto Zeigarnik e di come reagiamo alle cose incomplete.
Ma prima torniamo a noi…
Gli articoli su questo blog variano parecchio: alcuni sono di 500 parole mentre altri arrivano anche a 3000. Non li scrivo di certo in base ad un limite di termini imposto da qualche divinità, ma al tema trattato nell’articolo stesso. Cerca di seguire questa regola e ti troverai sempre bene.
Ci sono solo un paio di casi dove il conteggio delle parole usate in un articolo è importante…
Qui la lunghezza conta veramente
1. Ottimizzare i contenuti per i motori di ricerca Google & co. amano siti con i contenuti pieni di informazioni uniche e di qualità. Quindi se la posizione del tuo sito tra i risultati (SERP) di Google per te conta parecchio – e dovrebbe visto che se sei invisibile non hai traffico – allora devi sempre tenere presente le linee guida imposte dai motori di ricerca che consigliano un minimo di 300 parole ottimizzate per ogni contenuto del tuo sito.
Se riesci a spingerti oltre arrivando a 500 è ancora meglio.
D’altronde pensa a questo: Google con il suo algoritmo cerca di replicare l’interazione tra persone e quindi più parole usi per descrivere un determinato tema, meglio uscirà fuori il significato di quello che vuoi dire. Tutto questo ti permetterà di avere una comunicazione efficace.
Guarda queste due frasi usate per descrivere un piatto…
a. “Mi sono mangiato un piatto di pasta alla carbonara, molto buono.”
b. “Mi sono mangiato un piatto di pasta alla carbonara fatto con uova biologiche di un giallo intenso, prese da un allevamento locale. Poi ho aggiunto il guanciale, finemente tagliato e fatto scaldare a dovere per scioglierne il grasso così da insaporire il piatto. E gli spaghetti? Fatti rigorosamente a mano come da tradizione. Spettacolare!”
Ti ha fatto venire l’acquolina è?
Come vedi, il punto non è solo far contenti i motori di ricerca con articoli del genere ma anche e soprattutto i lettori che apprezzeranno sicuramente maggiori dettagli sul tema.
Senza andare troppo in fondo alle pratiche migliori dell’SEO, ti basti sapere che maggiori sono i dettagli e le parole chiave inserite nell’articolo, maggiori sono le possibilità di salire nelle classifiche per più termini e quindi ricevere traffico per varie query come:
ricetta pasta alla carbonara
guanciale o pancetta per la pasta alla carbonara?
che tipo di pasta devo usare per la carbonara?
e via così…
2. Riviste, giornali e altre pubblicazioni Se scrivi un articolo per una rivista o pubblicazioni simili, dovrai per forza di cose fare a meno di molte parole che avresti potuto usare sul tuo sito o nella tua newsletter. Questo perché il tuo pezzo dovrà riempire determinati spazi sulla rivista (senza straripare).
A parte queste situazioni, assicurati soltanto che il tuo articolo sia lungo abbastanza per portare a casa la pagnotta. Ma ricordati anche che un ottimo articolo condivide molto con un ottimo film.
I componenti per scrivere un ottimo articolo
1. Struttura Un articolo ha bisogno di una struttura ben fatta, il che vuol dire che il tema trattato deve scorrere.
Non puoi saltare da una parta all’altra sperando che il lettore ti segua… altrimenti diventerà come uno di quei film pieni di ‘flashback’.
Non va bene nei film, figurati nel marketing!
Ma come fai ad essere sicuro che il tuo articolo abbia una struttura decente? Devi dedicare del tempo nella creazione di una lista di sotto tematiche che hai deciso di trattare nell’articolo (prima ancora di iniziare a scrivere). Questo ti aiuterà nella creazione di un contenuto che scorre come un pattinatore sul ghiaccio.
Io lo faccio per ogni articolo che scrivo; questo mi salva dal finire in vicoli ciechi durante la discussione.
Prendiamo per esempio un articolo che ho scritto sull’importanza dei colori nel marketing.
La struttura creata punto per punto prima di iniziarne lo sviluppo era la seguente:
Importanza dei colori nel marketing
Differenze tra i vari colori
Quando usare un determinato colore
Il peso in base alla scelta cromatica
Il gusto in base al colore
2. Ritmo Il tuo articolo deve avere un certo ritmo. Da un lato non vuoi insistere troppo su un punto ma non vuoi nemmeno essere troppo striminzito tanto da non far capire a nessuno di cosa tu stia parlando. Come detto prima, preparare una lista delle sotto tematiche che andrai a trattare nell’articolo ti aiuterà a risolvere questo dramma.
3. “Angolazioni” Nei film non c’è sempre la stessa inquadratura per tutta la loro durata. Si passa da primi piani a panoramiche, riprese in interna, esterna…
La storia è sempre divisa in piccole parti per tenere alto il tuo interesse.
Lo stesso principio viene applicato nella scrittura degli articoli e la tecnica usata per far sì che questo avvenga è quella dei sottotitoli.
Basta guardare quanti sottotitoli ho usato in questo articolo per farti continuare a leggere con attenzione. Questo rende tutto più interessante che leggere un lungo, smisurato articolo senza interruzioni!
4. I tuoi gusti e quelli degli altri A me non piacciono i film horror. Nemmeno quelli troppo fantasiosi come Il signore degli Anelli o Star Trek.
Preferisco i porno. Semplici e diretti.
(dai scherzo…)
Anche tu avrai un genere preferito, o no?
Quando si legge, accade la stessa cosa: ci sono topic che ci piacciono più di altri. Bene, quando scrivi, ricordati di usare parole e un linguaggio che i tuoi lettori preferiscono.
Molto spesso mi capita di incrociare professionisti che usano paroloni derivanti dal gergo della loro nicchia di mercato che però non vengono capite dai lettori. Queste cose, invece di attirare clienti, li respingono!
L’imprenditore pensa che usando frasi lunghe, aiuti a farli sembrare più esperti…in verità questo li rende complicati, a volte anche noiosi.
Usare un linguaggio vicino al potenziale cliente è importantissimo.
Parliamoci chiaro: non hai mai sentito nessuno lamentarsi di una cosa troppo facile da capire, o no? Beh, nemmeno io!
5. Modificare i contenuti I film che sono una filippica infinita sono noiosi. Stessa cosa vale per gli articoli. L’errore numero uno che fanno gli scrittori novelli è quello di riempire gli articoli di parole irrilevanti e che non danno nessun valore aggiunto.
Diceva il saggio: Dopo che hai scritto un articolo, lascialo da parte per una giornata. Lascia marinare i tuoi pensieri. Guardalo a mente fresca il giorno dopo e scalda il dito dedicato al bottone “cancella”. Modifica e cancella tutte quelle frasi di cui non hai bisogno.
Anche nel cinema si usa fare dei tagli dopo aver filmato le scene. Quello che vediamo seduti davanti ai popcorn non è altro che un insieme delle migliori scene. Questo è ciò che rende un film – e un articolo – accattivante.
Per concludere
Non c’è una lunghezza giusta e una sbagliata. Il tuo articolo deve portare a casa il risultato – e la pagnotta.
Per far sì che questo accada, crea una lista dei topic da trattare nell’articolo; questo ti aiuterà a creare una struttura con la quale portare avanti il processo di scrittura senza intoppi.
Suddividi l’articolo usando titoli secondari e ricordati di usare un linguaggio che il tuo pubblico capisce.
Per ultimo, rileggi l’articolo che hai scritto e sbarazzati delle parole inutili come farebbe l’assassino con il corpo della vittima. Vedrai che i tuoi lettori non avranno il tempo di finire i popcorn!
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orsopetomane · 6 years
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Ok, è arrivato il momento di fare il punto sulla mia vita sentimentale (ahahahahaha!)
Prima dei 15 anni, non me n’è mai fregato granché dell’amore. Questo, perché non mi ero mai innamorato.
Il primo giorno di terza liceo, la professoressa di turno ci ha chiesto di raccontare qualcosa di noi in inglese, e io ho descritto un sogno che avevo fatto la notte prima. Niente di esaltante, solo una specie di visione premonitrice.
Dopo la lezione, la ragazza che era seduta davanti a me si gira e mi dice: “Mi racconteresti un po’ meglio quel tuo sogno?”
In quel momento riuscii solo a pensare: “Oh. Mio. Dio.”
Era la ragazza più bella, più dolce e più attraente su cui avessi mai messo gli occhi. Riuscii a balbettare qualcosa in risposta e poi... e poi... La faccio corta perché se no finiamo domani sera.
Ci siamo trovati insieme in diverse situazioni, alcune anche avventurose - sia prima che dopo il liceo (perduti a Venezia, ubriachi in mezzo a un prato, soli in un chiostro a organizzare una serata danzante) - ma non è mai nato nulla di sentimentale. Mai “quella” cosa. Una grande tenerezza, un’amicizia contornata da una certa tensione di qualche tipo (non so dire se sessuale o meno), e basta.
Perciò, più o meno consapevole di quel che mi stava succedendo, già dal terzo anno di liceo mi autoconvinsi di essere innamorato di un’altra ragazza, una che aveva manifestato un certo interesse nei miei confronti, per le prime settimane almeno. Era carina, molto romantica, un po’ bassa. E cantava in un gruppetto musicale.
Mi ci ero messo così d’impegno che anche i miei compagni di classe si convinsero che lei mi piaceva, e forse arrivò a piacermi sul serio, a un certo punto. Ma proprio lei che aveva dato inizio alla cosa, decise che non mi voleva più, che non ero l’ideale di principe azzurro che si era figurata.
E poi?
E poi niente.
Alla scuola del fumetto c’era questa tipa, che a quanto pare era già fidanzata ma si divertiva a “sovrastimolare” l’immaginario maschile: dopo aver civettato con un mio compagno di corso, andò da un’altro ragazzo della classe a dire che lui ci aveva provato con lei (cosa che si seppe in breve tempo), e poi il ragazzo a cui l’aveva detto ci provò con lei - cosa che lui mi disse senza troppe cerimonie - e poi lei si mise a giocare a questo gioco con me. So solo che alla fine del secondo anno, quando il suo ragazzo venne a prenderla a scuola, aveva l’espressione guardinga di uno a cui abbiano detto che sua moglie aspetta due gemelli e che lui non è il padre.
Non successe un accidenti, comunque.
Poi c’era la mia amica E., che quando eravamo al liceo mi stava appresso, ma io non la filavo per niente. Poi iniziai a conoscerla meglio e, all’incirca dopo la scuola, mi innamorai di lei. Ma lei si era trovata un ragazzo (che oltretutto la faceva soffrire un sacco), e ormai era troppo tardi. Continuammo comunque a vederci e a uscire insieme, perché - incredibilmente - con lei riuscivo davvero a parlare, e con mia enorme delusione (e mio enorme sollievo, a ben vedere) non ci capitò mai di finire in situazioni limite. Poi, finalmente, mollò quella palla al piede del suo ragazzo e, nel giro di due mesi, se ne trovò un altro molto migliore. Mentirei se dicessi che mi dispiace. In realtà sono felice che abbia trovato la persona giusta per lei: già di per sé è ansiosa, stando con me ci saremmo fatti esplodere la testa a vicenda. Rimane comunque l’amarezza per quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
Di base, non so bene quando, decisi che non sarei mai riuscito a trovare una donna. E in effetti, non farsi coinvolgere emotivamente e sentimentalmente (cosa che sarei portatissimo a fare) ha i suoi vantaggi.
Finché, diversi anni dopo, quasi per caso, non conosco questa ragazza.
E senza che neanche me ne renda conto, sembriamo trovare quell’equilibrio ideale tra intesa reciproca e attrazione. Ma troppi fattori sono contro di noi. Prima di tutto, lei non mi ama. Secondo, forse io non so nemmeno cosa significhi amare, ma sono comunque convinto di amarla. Terzo, la distanza. Quarto, le mie pare e i miei disturbi.
Nonostante tutto ci incontriamo, e passiamo quasi una settimana insieme, e a me sembra di vivere in un sogno. Scopiamo. Alla fine della settimana sono esausto come non mi era mai capitato in vita mia, ma sono anche felice, e stordito, e disperato.
La verità mi colpisce come un pugno nello stomaco. Sto da cani. Reagisco male.
Il tempo passa. Mi riprendo. Riesco a pensare a lei con lo stesso affetto che provavo all’inizio, ma consapevole dei limiti della nostra “non-relazione”.
Mi convinco che qualcosa è cambiato. Ritrovo la speranza.
Ci provo con tutte le ragazze da cui mi sento attratto, in particolare con una che mi piaceva da tre anni e che aveva mollato il fidanzato qualche mese prima. La cosa peggiore è che io le vado a genio e nutre addirittura un qualche tipo di ammirazione nei miei confronti (come si potrebbe ammirare una formazione corallina o il cugino sano del gobbo di Notre Dame), e questo rende ancora più difficile mantenere le distanze, sia per lei che per me. Per me, soprattutto.
Colleziono abbastanza due di picche da riempire un annuario scolastico.
Decido, in via abbastanza definitiva (ma forse no), che per me non c’è speranza.
Mi riprometto di essere sempre carino con quelle ragazze che dimostrino un minimo di gentilezza nei miei confronti, e fine della storia.
Morale della favola: non c’è una morale. Sono sfigato in amore e non scopo, sono un sentimentale ma sembro uno psicopatico, e non riesco proprio a capire se le cose mi stiano andando così perché ho scelto di essere me stesso, oppure perché sono stato mille persone diverse - tutte contorte e difficili da approcciare - eccetto il me stesso autentico.
Good night and good luck.
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ellenicgoldenboy · 6 years
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«Non sono qui per porgerti le mie scuse. Quelle le dovevo a Mabh.»
ed effettivamente, giovedì prima dell’allenamento lui si è scusato con la Vice. «Sono qui per spiegarti e, allo stesso tempo, per mantenere una promessa...» e qui un mezzo sorriso gli scappa «...a lungo termine.» Il sorriso sparisce. Colt sospira e abbassa lo sguardo. «Ad allenamento non ti trattavo» male? «granché bene senza un motivo apparente.» Ogni parola sembra tirata fuori a fatica «Fin da quando sono entrato in squadra, prima che al nostro Capitano, io ho dimostrato sempre grande rispetto nei confronti di Mabh» rispetto che sembra essere venuto meno durante il famigerato allenamento. Quello in cui è intervenuto il prof, per capirci. «Quando...quando sei arrivato tu, coi tuoi schemi ed esercizi professionistici...non mi è piaciuto.» Per nulla. All’improvviso, il contatto visivo viene ristabilito e la successione di parole diventa più rapida «Non voglio dire che tuo padre non sia bravo, né che tu non lo sia» insomma, l’ha visto giocare e - non lo ammetterà mai ma - è più capace di lui «ma credo che l’esperienza che Mabh ha acquisito in questi anni di gioco non sia da buttare via, ecco.»
«Non è che mi aspettassi granché da te, non preoccuparti.» Un sorriso dolcemente tenue ad accompagnare la frase, lasciandolo continuare. Alla fine del discorso, scuote appena la testa, la bocca ripiegata in una posa morbida e piacevole, quando rialza il capo le iridi azzurrognole sono insidiate sul compagno di squadra. «Io non credo che Mabh non se la possa cavare. E` solo che io punto a diventare un professionista. Uno vero. Prima di utilizzare quegli schemi sono andato personalmente a chiedere il permesso al nostro vice e lei me li ha approvati e lasciati usare.» Ha un`espressività morbida, piacevole a vedersi mentre parla. «Se proprio qualcosa ti da fastidio, parlane con Mabh, ti avrebbe spiegato senza che ti facessi castelli in aria.» Smette di parlare per un istante, lappa le labbra. «So che sei qui perché te lo ha chiesto Grantaire e a lei ho già parlato del mio pensiero riguardo a tutto questo.» Non suona in alcun modo come una minaccia, sta esponendo e lo sta facendo con una calma tale che potrebbe sembrare gli faccia piacere, questa conversazione con Colt. «Cercare di arrampicarti per ... Qualunque cosa tu stia cercando, credo non ti porterà da nessuna parte, sai.» Storce la bocca, stringendosi nelle spalle. «Tanto vale che eviti i commenti durante gli allenamenti e la finiamo così. Non saremo mai best bud? Non posso mica piacere a tutti.» Scuote nuovamente la testa, sorridendo nuovamente. «Vedi come sono sempre rimasto gentile nonostante i tuoi commenti? A te basta fare la metà e semplicemente tenerteli per te, se vuoi che Gran sia felice e il vostro rapporto non subisca ... Scossoni?» Fa spallucce, occhi al cielo. «Non credo tu sia qui per diventare bff, quindi ... »
«Ti ho detto solo quello che avevo pensato sul momento e del perché della mia reazione iniziale.» fa spallucce, lasciando alla fine Grantaire. Certo non è sorpreso del fatto che la cugina sia accorsa da Alika. Ha capito, quando lei gli ha chiesto di “trattarlo bene”, che c’è qualcosa di importante che li unisce. Però, appunto, andiamo con ordine. «All’allenamento in cui ero - uhm - “strano”» virgoletta con entrambi gli indici e i medi di ciascuna mano «ho esagerato. Però, davvero, non capisco come tu potessi continuare a pensare ai tuoi maledetti allenamenti e...» sì, si sta scaldando. Se ne accorge, tanto che inspira ed ispira, prima di ricominciare a parlare «Voglio dire. Quel giorno ho avvertito - come tutti, credo - un clima di tensione nell’aria che non poteva essere ignorato. Non poteva essere ignorato per il bene della squadra.» Digrigna i denti, tale è la difficoltà nell’ammettere che «Volevo risolvere la situazione, far reagire Gus, risvegliarlo da quello stato passivo. Ho pensato che l’unico modo fosse quello di fare quello che non avrei mai pensato di fare, ossia provocare Mabh.» Non se completamente in sé per via della carta rovesciata, tuttavia non vuole confessarlo ad Alika. Sarebbe una mera giustificazione, una debolezza che non vuole mostrare. Quello era un Colt semplicemente alterato. «Una mossa sciocca, lo riconosco, ma se non lo avessi fatto, staremmo facendo ancora quella mer»avigliosa attività «di yoga senza aver risolto nulla. Però» ed ecco il punto che riguarda Alika «va bene che tu vuoi entrare nel Quidditch professionistico, va bene anche se tu fai i tuoi esercizi in disparte» che vuoi che gliene freghi a Colt «ma diamine, come puoi andartene quando vedi che la tua squadra» perché per ora quella è la sua squadra «è in piena crisi solo per i tuoi dannati esercizi?» Sarà stato sincero, avrà pure rischiato di incavolarsi di nuovo ma preferisce così. Preferisce ripartire da zero con lui, anche se il retrogusto amaro non sparirà mai. Ed ora passa a Grantaire, argomento sul quale è piuttosto sensibile. «E no, hai ragione, non sono qui per diventare tuo amico. Non so nemmeno che cosa intenda tu per “arrampicarsi” ma, ti assicuro, la gentilezza è un’altra cosa.» È quella che Colt mostra a Eimhir quando la consola, è quella che Mabh gli ha mostrato quando ha nascosto la sua casa sull’albero, è quella che Grantaire mostra al mondo. «Tu trattieni i commenti come mi stai gentilmente consigliando di fare da adesso in poi nei tuoi confronti. Questa è la tua gentilezza.» nei suoi confronti.
Alza le mani e le pone in avanti, palmi rivolti verso Colt. «Non ho intenzione di pronunciarmi sulla questione.» Sempre calmo, sempre avvolto da quella gentilezza che non lo abbandona praticamente mai. «Se mai parlerò con qualcuno di ciò che penso sull`allenamento del terrore, sarà Mabh. Come tu non devi scuse a me, io non devo spiegazioni su questo a te.» Estremamente British, si lascia a un cenno del capo, concludendo così la questione, almeno per lui. Alla fine del tutto, però, gli sorride, calorosamente, come se stesse guardando una puffola o qualcosa del genere. «Se non capisci di essere stato un cafone senza fondamenta ... Capisco che non è colpa tua, allora.» Poi ride, mano di fronte alla bocca per il tempo che serve, appena ripiegato su se stesso. «Non ho mai avuto commenti nei tuoi confronti! Nel senso, non mi interessa. Per quello nonostante il tuo modo di fare da troll di montagna, ti ho sempre risposto educatamente.» Fa spallucce, gli occhi chiari, in qualche modo profondi, inchiodati alla faccia del tassorosso. «Non mi interessa quello che pensi. Un compagno di squadra che ne tratta male un altro per un pensiero che non ha nemmeno provato a esternare? Ho perso interesse la seconda volta che ti sei comportato come ti sei comportato senza darmi una ragione.» Gli sorride nuovamente, stringendosi nelle spalle. «Io ti ho semplicemente dato un`apertura facile perché mi fa piacere che Gran sia felice, in qualche modo. Non rendermi le cose difficili, ah?» Alza i palmi e così le sopracciglia. «Fatti gli affari tuoi quando ci alleniamo e finiscila così.» Bocca appena storta in un`espressione che nemmeno per un attimo manca di gentilezza.
Colt, guardando Alika, non si capacita di più cose allo stesso tempo. Innanzitutto, non capisce come lui e Gran siano parenti. Secondo, come faccia a sopportarlo. E lui ha la pazienza di cinque anni di Bran e Kill alle spalle. Mica cavoli a merenda, parliamone. Eppure Diamandis riesce a fargli girare le bolas come nessuno mai. «Va bene.» nessuna spiegazione, per Colt fa lo stesso, perché se proprio si vuole trovare una cosa in comune tra i due, è che uno non gliene può fregare di meno dell’altro. «Era solo un tentativo per cercare di...» gli occhi vagano per lo stanzone, cercando le parole che possono rivelarsi utili per il caso «...un’occasione. Per cercare di convivere civilmente. Fa nulla» Di nuovo fa spallucce, poi incrocia le braccia al petto, in un chiaro segno di chiusura. La sua risata, insieme a quelle frasi dense di sarcasmo, vengono disprezzate. Il labbro inferiore è martoriato ai denti senza pietà, mentre osserva quella che lui chiama la sua gentilezza. «La ragione te la sto dando adesso» quella per cui si è comportato a quella maniera, certamente non gli dà ragione in nulla «ma se, appunto, mi dici che non ti interessa, direi che possiamo arrivare dritti al motivo per cui sono qui.» così può andarsene da lì. Odore di cibo da ospedale, di chiuso e compagnia di certo non piacevole. Gli ricorda troppo l’orfanotrofio. Soffia giusto dal naso per cacciare via ricordi ed odore, allo stesso tempo. L’espressione sempre più disgustata, mentre lo ascolta. «Un’apertura?» il tono sorpreso di evince solo da un’alzata di sopracciglio, nero e folto. Insomma, Colt va lì, gli spiega le sue benedette ragioni e Alika dice che non gli interessano quelle del pellerossa ma nemmeno vuole esternare le proprie? Ancora, non reagisce. Fa il bravo. Si sforza di comportarsi bene. È paziente. Ma soprattutto non vuole dare alcuna soddisfazione ad Alika, né dispiacere a Grantaire. Quello che chiarisce, però, non può trattenerlo. Giusto per far presente due cosine ad Alika, senza mutare la posizione assunta dal Cheyenne. Nessuna mossa minacciosa, ecco. «Come mi comporterò con te, dipenderà solo da lei.» ed è chiaro a chi si riferisce. Pronuncia quel pronome con rispetto, reverenza, cullandolo con la lingua. «Ti dovrà andare bene così.» Tutto. Il modo in cui lei riterrà che Colt debba trattarlo, il tempo e il luogo in cui lei e Colt staranno insieme. Ogni cosa. «Quindi, se un giorno non ti andasse più a genio di sopportare la mia presenza attorno a tua cugina e lei cambiasse idea su di te, beh, spero che le mie ragioni divengano di tuo interesse» e che la promessa che ha fatto a Grantaire non sia l’unica a mantenere quel precario equilibrio, quella tregua tra lui ed Alika. Con un cenno di congedo, si dirigerebbe verso l’uscita senza aggiungere altro.
Scuote la testa, le labbra morbidamente storte. «Non lo era, ma se ne sei convinto, non ti impedirò di pensare, continua. »  A parlare, argomentare, lui sta lì. Ha la strana qualità o difetto, Alika, di sembrare sempre impassibile. Non quel genere di impassibile apatico fuori dal mondo, no, semplicemente nulla tange la sua aura di tranquillità. Solo che, alla fine di tutto il discorso, scoppia a ridere. La mano destra copre la bocca senza schiacciarla e lui sembra davvero divertito. «Sarai cafone, ma per lo meno sei un grande comico! »  Non lo blocca, se lui vorrà alzarsi, glielo lascerà fare. « Sei andato alla scuola per maschi alpha di Candem? In caso fatti ridare i soldi, perché ... Beeeh potevano fare di meglio. »  Gli sorride, facendogli cenno di saluto con la destra. Non sembra essere stato alterato dal discorso di Colt, il suo atteggiamento è rimasto invariato per tutto il discorso. «Passa una buona giornata anche tu! Ci vediamo in campo! » Come se niente fosse, insomma. 
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