Tumgik
#e vuole che si occupino di più dei lavoratori
heresiae · 2 years
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fatevi un favore. non discutete in questo momento di politica con persone che non conoscete veramente bene. perché non potete sapere quando succederà che uno dei vostri colleghi preferiti con qui andate più daccordo e pensate di essere sulla stessa ideologia, faccia uscite del cazzo che starebbero meglio in bocca al mio clan celtico pieno di fascisti autodichiarati.
giuro in questo momento mi sento più accolta e vicina ai miei leghisti moderati che a lui.
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marikabi · 4 years
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Il miglior Capo
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Ma come, tempo di vacanze e di ferie e tu, Marika, scrivi di lavoro?
Sì, ed in particolare, vorrei soffermarmi sul tema dell’organizzazione e del benessere nei luoghi di lavoro.
A meno che la vostra amministrazione/azienda non abbia proprio chiuso per ferie, d’estate uffici e servizi sono attivi. Anzi di più.
Quando il personale va in ferie (diritto inalienabile di chi è lavoratore dipendente), le attività quasi mai rallentano, ma vanno ad aumentare il carico di chi si alterna nelle sostituzioni (quando esiste una parvenza di sostituzione, ma sempre più spesso non ve n’è).
Mi ricordo, anni fa, di aver avuto un collega così bravo e caro che non mi faceva trovare nessun arretrato quando tornavo dalle vacanze. Ovviamente, gli ricambiavo la gentilezza. Quando lo spostarono ad altro settore, dal dispiacere mi venne un febbrone e rimasi ben quindici giorni a casa. Mi viene sempre un accidente quando mi capitano eventi che sconvolgono l’organizzazione del mio lavoro, a riprova di quanto l’attività lavorativa (anche quando ne siamo privi) incida nel profondo della nostra esistenza e della nostra psiche, in bene ed in male.
Con il perdurante blocco del turn over nella pubblica amministrazione, in atroce combinato disposto con la fuga dei quotacentisti e della massiccia fase di pensionamenti (è avvenuto una sorta di baby boom anche nel mondo del lavoro a ridosso degli anni Ottanta), s’intravvedono enormi problemi nei settori pubblici e dei servizi.
Ne ho letto domenica scorsa anche su Il Messaggero e La Repubblica, a proposito della mancatissima promessa di rimpiazzare i pensionamenti: Quota 100 non garantisce il recupero delle uscite anticipate e si preannunciano sfracelli, specialmente nella sanità.
Insomma, tempi pessimi per chi ha la fortuna/sfortuna di rimanere al lavoro. Infatti, il concetto di occupazione, attualmente, in Italia è ambiguo. Un precario trimestrale - che è tutto ciò che si può ottenere nella stragrande maggioranza delle assunzioni (motivo per cui resta alla fin fine preferibile per i giovani il reddito di cittadinanza) - spessissimo firma un contratto registrato da quattro ore giornaliere, laddove ne lavora effettivamente otto o più, alimentando il nero, i ricatti, nonché il lucro per i datori. Tali assunzioni, infine, sono spesso finanziate dallo Stato (come Quota 100, d’altronde), risultando praticamente a costo zero per gli imprenditori, ma ad alti costi per l’intera società.
Un altro - non meno importante - guasto del mondo del lavoro è l’incapacità del management, sia pubblico che privato. In altre parole, i capi sono sempre più incompetenti ed inadeguati ed in tempi di difficoltà generali delle aziende/amministrazioni/fabbriche tale circostanza ammalora vieppiù l’organizzazione delle attività.
Se in Italia ci si potesse licenziare - ed in altri Paesi è così - raramente accadrebbe per un lavoro di maggior remunerazione: studi internazionali ci indicano che ci si licenzia/trasferisce, ovvero si vive male a causa di dirigenti e capi incompetenti, raccomandati, umorali, inadeguati.
La voglia italiana di scappare dalla riforma Fornero (motivazione principale della Quota 100) ha radici nell’insoddisfazione e spesso nella disperazione di avere a che fare con disorganizzazioni lavorative, in cui il management (ripeto: pubblico e privato) non sa affrontare problemi (anche spiccioli) e soprattutto non sa neanche di cosa si occupino i collaboratori. Va da sé che globalmente ci si vuole allontanare dal proprio invivibile luogo di lavoro quanto prima.
In un editoriale apparso tempo fa sulla Harvard Business Review, si dimostrava come un capo competente al lavoro è l’elemento principale per la soddisfazione dei lavoratori. Nella mia vita lavorativa ho conosciuto tanti capi e posso confermare che la grandezza di ciascuno di essi è ineluttabilmente funzione della loro competenza.
In particolar modo, un collaboratore riesce a misurare tale indice da un elemento specifico, esattamente come ho letto nell’editoriale citato: la capacità di un capo di sostituirsi al suo collaboratore. In moltissimi casi, avviene il contrario, ed è fisiologico. Ma il contrario è evento raro.
Questo indicatore di ‘sostituzione inversa’ precisa due cose: che il capo ha fatto la gavetta (qualità preziosissima) e che, quindi, sa e può guidarti; ovvero che il capo - pur non avendo fatto la gavetta - è persona umile ed intelligente.
Ahimè, non è sempre così. Anzi, quasi mai.
Pare che capi si nasca. Chi è capo ritiene di meritarselo, anche se sempre più spesso le dinamiche di carriera comportano una certa qual pentecostalità, più che una reale valutazione delle capacità dei dirigenti sul campo.
Un capo pare diventi improvvisamente competente per ‘spirito infuso’, per posizione nell’organigramma più che per ruolo effettivamente svolto, o per anzianità (non contano gli anni di servizio: si tratta di intensità e qualità d’uso delle sinapsi).
La morale - ovverosia ‘the bottom line’, come concludeva la Harvard Business Review - è che i lavoratori sono più felici e, quindi produttivi, quando i loro capi sanno di cosa i loro collaboratori stanno parlando. Ed il che - credetemi - non è così scontato.
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