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#didattica a distanza
pauloamazon · 2 years
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Hello World, here`s another lovely and interesting book named The Dead Little Gentleman by Paul Machera 
 it is the story of fourteen-year-old George Treet, the eldest son of a family of strolling players. They seem a family with a golden future; actors of genius whose present happiness is only marred by the twice-yearly visits of the Stranger in Black with his cold, uncanny stare and the feeling he conveys of some devilish and un-wholesome bargain eating away at his soul.
This is not all, just get into it and see how interesting it is…
https://www.amazon.com/dp/B09Z9HF4C2 
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area1789 · 7 months
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diceriadelluntore · 2 years
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Maestri per sempre
«La forma certo non è tutto». Pausa. «È solo il 95 per cento». Lo capivamo subito che era speciale. Fin dalla prima lezione. Arrivava puntualissimo nell’aula di geografia già gremita e cominciava a leggere e commentare i «Materiali per servire al corso di storia della lingua italiana».
Ho sognato per anni di poterla scrivere anche io prima o poi quella frase: e quando l’ho scritta su una dispensa universitaria è stato come essere diventato finalmente adulto. Passavamo un’ora a prendere ininterrottamente appunti, perché ogni parola era illuminante. Finivamo con un crampo alla mano e un sorriso stampato in faccia. Il tempo volava: perché da ogni parola traspariva la cura, la dedizione, la gioia per quello che stava facendo. Nel suo impeccabile aplomb, l’ironia era il sintomo d’amore al quale non sapeva rinunciare. Anche se lui avrebbe citato piuttosto qualche aria del suo amato Verdi. «A volte», mi raccontò un giorno, «quando le ascolto provo l’incoercibile impulso di imitare un direttore d’orchestra».
Lo capivamo che era speciale quando ci salutava per le scale, quando si faceva dare i numeri dalla segreteria didattica e ci telefonava a casa di persona per comunicare lo spostamento d’una data d’esame. Quando a lezione dava il suo numero di telefono. Il suo è uno dei due numeri fissi — gli unici due — che ancora ricordo a memoria (l’altro è quello della casa dei miei genitori). L’ho chiamato per trent’anni, soprattutto quando ero in difficoltà. Mi ha sempre ascoltato e consigliato (l’ultima volta è stata pochi giorni fa). A volte commentando qualche passaggio con un lapidario «Non bello» (la litote intensiva era la sua figura retorica preferita), molto più spesso sdrammatizzando con il suo proverbiale e salvifico «Fregatene!».
Quando passava al tu voleva che la cosa fosse reciproca. Noi, però, a dargli del tu all’inizio non ci riuscivamo. Ne uscivano fuori improbabili frasi impersonali. «Come si è trovato dunque quel capitolo della tesi?». Lui i capitoli li leggeva a uno a uno, per tutte le tesi e poi per tutti gli articoli che gli mandavamo da leggere. Dalla tesina del primo anno al libro di chi era già professore. L’asterisco per le cose che gli piacevano particolarmente; i richiami tipo correzione di bozze con le spiegazioni che a volte continuavano sull’altra facciata del foglio. La sua grafia nitida ci faceva capire che c’è sempre da migliorare. La sensazione rassicurante di un maestro insuperabile.
Insuperabile anche nella generosità con cui si è dedicato fino all’ultimo alla sua vocazione didattica. Sempre in viaggio verso qualche città, paese, frazione d’Italia per tenere una lezione, una conferenza, un seminario. Dall’università più prestigiosa fino alle classi delle scuole medie. Davanti a platee incantate dalla maniera in cui spiegava le cose, facendo sembrare semplici anche le più difficili. Lo sanno fare solo i fuoriclasse: e infatti le persone lo capivano subito che era speciale. Così, quell’indirizzo di posta elettronica creato con una strana parola — «Il nome di una città immaginaria che avevo inventato da bambino» — era ormai diventato di fatto di dominio pubblico. E lui si sentiva in dovere di rispondere a chiunque gli sottoponesse un dubbio linguistico.
«Si era sempre fatto così», sorrideva sornione quando gli chiedevo come ci riuscisse. La battuta era nata durante una delle tante passeggiate in montagna. «Che facciamo: i giornali li lasciamo in macchina?», «Certo: si era sempre fatto così …». Un’altra tessera di quel lessico famigliare che lui alimentava con divertita autoironia. Come quel suo «Lo penso veramente» con cui giocava a sottolineare alcune affermazioni. Non per svalutare le altre cose che aveva detto, ma per rimarcare la distanza fra quella conversazione e le tante di circostanza che siamo costretti a sostenere ogni giorno.
Una specie di codice cifrato: un linguaggio speciale, un segno di appartenenza per noi che abbiamo avuto dalla vita la fortuna e il privilegio di far parte della sua grande famiglia. Famiglia che in un’accezione più ampia arrivava a comprendere tutta la folla di giovani che negli anni aveva seguito le sue lezioni. E per Luca Serianni era tutt’uno con l’instancabile missione etica e civile ispirata alla Costituzione. «Ai miei studenti di quest’anno», ricordava in chiusura della sua ultima lezione universitaria, «ho chiesto – con una movenza, lo riconosco, da vecchio retore – sapete che cosa rappresentate per me? Immagino che non lo sappiate: voi rappresentate lo Stato».
Il ricordo di Giuseppe Antonelli, Professore ordinario di Linguistica italiana presso l'Università degli Studi di Pavia, allievo del professor Luca Serianni, scomparso il 21 Luglio 2022.
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turuin · 1 year
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Chiaramente è "Super Didattica A Distanza"
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inconsutile · 2 years
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Oggi ho parlato con la relatrice e mi ha detto che ho delle ottime capacità critiche per essere una studentessa di triennale, per questo mi ha consigliato di posticipare a marzo la laurea, e sono propensa ad accettare il suo consiglio. In fondo, l'unico motivo che ho di concludere il prima possibile era per togliermi di mezzo un problema.
È vero anche, però, che le scadenze per la consegna sono imminenti e io negli ultimi giorni faccio sempre più fatica a mettere assieme soggetto-predicato-complemento. Non è una questione di semplice stanchezza, ma peggio perché temo che il periodo della didattica a distanza abbia acutizzato un processo che sarebbe avvenuto comunque, solo più lentamente.
Quello volevo fare dopo la laurea (principalmente mettere soldi da parte) posso farlo comunque, e mi solleverebbe da alcune preoccupazioni che mi stavano impedendo di lavorare negli ultimi giorni. Poi, voglio fare un buon lavoro. Non sono il tipo che fa le cose tanto per farle, non ce la faccio.
Insomma, al solito pretendevo troppo da me, pur stimandolo niente.
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desenzanojangany · 1 year
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25 febbraio 2023
SCUOLE IN VIDEO CHIAMATA
Quando i cellulari sono utili
Sabato 25 febbraio, alla prima ora, in palestra è stato allestito lo schermo, il pc e tutto il necessario perché le classi 1L e 1M SSAS – che più di tutte le altre in questi mesi hanno sentito parlare di Padre Tonino e della sua scuola in Madagascar, avendo allestito per lo scorso dicembre il mercatino di solidarietà insieme alle prof.sse di Metodologie operative, M.M. Franzoni e P. Segatori – potessero incontrare a quasi 8.500 Km di distanza il missionario e alcuni docenti e studenti dell’École St. Marie di Jangany. Per il collegamento si è usato whatsapp, più agevole per i nostri interlocutori che i giorni scorsi hanno avuto qualche rompicapo per il passaggio del ciclone Freddy, ma da sempre hanno a che fare con un uso estremamente razionale sia dell’elettricità che di internet (di cui riescono a disporre, per quanto possibile, tramite il satellite). L’incontro con noi, infatti è stato per loro la prima esperienza di una conversazione scolastica a distanza (e anche per noi è stata una cosa eccezionale… per quanta distanza c’è tra loro e noi) ed è stato una cosa molto bella, bilingue (sostanzialmente in francese, per cui preziosa è stata la presenza del prof. S.M. Perna, di entrambe le nostre classi) e decisamente molto particolare rispetto alla didattica a distanza e ai webinar cui ci siamo, invece, abituati in questi ultimi anni. Le foto: alcune sono della prof.ssa Franzoni, tutte le altre di Nicole Bertini (1M SSAS). Stiamo preparando anche il video con la registrazione dell’evento da condividere con tutta la scuola e anche con i nostri amici di Jangany.
Guarda lo spoiler del video e molte foto al link https://www.bazolipolo.edu.it/2023/02/incontro-on-line-con-jangany-25-febbraio-2023/
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girlscarpia · 1 year
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Mantenere la didattica a distanza no perché "non siamo un'università telematica" però approfittarsi del fatto che zoom and teams siano stati normalizzati per assegnarci tonnellate di lavori di gruppo che sarebbero impossibili da fare "faccia a faccia" va bene
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moonyvali · 2 years
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MEMENTO
Uriel Crua
Ma voi ve le ricordate le assurdità inferte ai vostri figli nelle scuole?
Il metro di distanza tra le "rime buccali" (!), la quarantena dei fogli protocollo, i plexiglass e la segnaletica per circolare nei corridoi, il divieto assoluto di scambiarsi una gomma o una matita, la pezza fetente da togliersi al banco e poi da tenersi sempre, le misurazioni ossessive della temperatura, il gel idroalcolico obbligatorio, l'"addetto Covid", la camera sterile, gli ingressi scaglionati, le quarantene per tutta la classe in presenza di uno starnuto, le insegnanti psicolabili e schizopatiche assurte al ruolo di secondini, le bidelle sadiche, i dirigenti inzuppati di ossequienza burocratica, l'incubo della didattica a distanza, e così via?
Io li ho tolti dal primo minuto, e non me ne pento.
Ora qualcuno esulta perchè non è stato rinnovato il protocollo, e quindi "in classe senza la mascherina".
Ma non avete capito che l'innesto è ormai irreparabile, infatti è tutto riattivabile se la "curva epidemiologica" lo richiede.
Ormai la scuola è fatta.
È andata.
È un campo di rieducazione per i vostri figli, che tra una manciata di anni saranno adulti per i quali queste aberrazioni saranno normali.
Toglieteli da lì.
O lottate col sangue per rifondare l"istruzione pubblica.
Fate - santo Cielo - il vostro dovere.
***
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racconti-del-divano · 2 years
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Didattica a distanza
All’università era ormai invalsa la didattica a distanza, e il docente non era proprio a suo agio con le nuove tecnologie. Condivideva il monitor, ma non aveva quasi mai nulla da mostrare, e così agli studenti compariva a tutto schermo il volto della sua assistente, M.
Lei, il primo giorno, sembrava molto impacciata. In attesa del professore, o durante le pause, rispondeva a questioni tecniche, burocratiche, a richieste di appuntamento, con titubanza, un sacco di mmm come intercalare, voce da ragazzina e un forte accento del sud. Durante la lezione aveva un aspetto spento.
Tre volte a settimana, per due ore abbondanti, lei era lì, con la sua faccia annoiata esposta a duecento studenti. Non potevano evitare di studiarne le fattezze. All’inizio solo per pochi secondi, prima di riprendere la concentrazione. Notarono le sopracciglia, curatissime, le labbra strette; e gli occhi, che la natura aveva tinto di un castano non particolarmente avvincente.
Col passare del tempo queste pause di osservazione si fecero più lunghe. L’avevano giudicata male; dal suo aspetto ordinario emergevano col tempo particolari affascinanti. Le fossette sulle guance le tagliavano il volto diagonalmente, in maniera un po’ troppo netta, ma il loro chiaroscuro le conferiva una drammatica nobiltà che bene si sposava col gioco di luci e ombre caravaggesco dell’inquadratura della webcam. Il riflesso di una luce si diffondeva gradualmente sulle spalle snelle, sulle braccia, sulle orecchie mezze nascoste da una cascata di capelli lisci, che contornavano il viso ovale dandole un aspetto da Monna Lisa. I suoi occhi luccicavano pieni, come per un tocco di pennello in quel baluginio di riflessi. La natura li aveva dotati di un marrone non particolarmente raro, ma lei sapeva bene valorizzarli con un filo di trucco. Svettava il collo alto e proporzionato, un seno delicato si nascondeva al bordo dell’inquadratura.
Un giorno uno studente chiese la parola e, durante l’intervento, fece una gaffe. Fu più forte di lei: per un istante la riga dritta e severa delle sue labbra si animò di vita, e tutta la bocca, tutto il volto le si illuminò di un riso proibito, prima di chiudersi dietro al dorso della mano. Quasi nessuno lo notò, perché in quel momento era finita relegata in un angolo del monitor. Ma per uno di loro, che la stava a guardare anche in quel momento, fu l’inizio della fine. Scoprendo che M. aveva un’intera gamma di espressività che gli era stata negata, ne fu immediatamente ossessionato. Senza rendersene conto si era innamorato.
Non fu difficile trovarla su Instagram. Così come era contenuta a lezione, nelle sue foto private straripava da costumi da bagno, vestiti da diva, i capezzoli in rilievo sotto la stoffa, gonne cortissime da far perdere la testa, la pancia piatta scoperta, l’ombelico. Le sue gambe, che finora per lui erano solo un’ipotesi, si rivelarono ben concrete, lunghissime, due cosce sode e polpacci da addentare, da leccarle i malleoli. In uno scatto magnifico si girava col collo mentre era di spalle, e lui quasi si vergognava a guardarle il sedere compresso in un paio di jeans. Ma poi lo faceva lo stesso, certo. Nelle foto sorrideva sempre, sorrideva di vita, piena, distesa e raggiante.
Quando lo visitò in sogno sembrava così reale che la poteva sentire sotto le dita, e percepiva il suo profumo. La smania lo fece svegliare sul più bello, zuppo di sudore e con un fracasso nel cuore.
Poi il corso finì, e non era chiaro se l’avrebbe mai rivista, visto che la facoltà rimaneva chiusa, e forse lo sarebbe rimasta fino alla laurea. Aveva la sua mail, ma non poteva certo scriverle: "Ciao, ti ho vista in webcam e mi sono innamorato".
Perciò era pronto a dimenticarla.
Ma il mese dopo la incontrò in un locale in centro. Dal vivo era magnifica, e lui restò a lungo a fissarla come un’opera d’arte, in trance, sbalordito. Lei se ne accorse, ne fu colpita e gli sorrise.
"Ci conosciamo?"
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riflussi · 2 years
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La necessità di essere rappresentati "correttamente"
Facciamo che siete student* universitar*. Facciamo che siete student* che per permettersi di vivere, o vivere decentemente, devono lavorare. La malfamata categoria di sudent* lavorator*. Ebbene, state a Firenze, provincia, ma studiate a Bologna. Finalmente la vostra facoltà (corso di laurea? Come si chiamano adesso, bo) dopo anni ha dell* rappresentant*, rappresentant* competenti che possono effettivamente cambiare le cose. Eppure, nonostante fino al mese scorso abbiate avuto possibilità di fare esami a distanza anche se stavate a 90 km di distanza, ora questa possibilità è stata tolta e gli esami, magicamente, durante la sessione estiva, tornano in presenza. E vi rivolgete a quell* rappresentant*, ma vi dicono che be', se state a Firenze un giorno dal lavoro potete prenderlo, che si è sempre fatto così, quindi dovete un po' sbattervi. Ora, con tutto l'affetto del mondo nei confronti dell* rappresentant* che è anche mi* amic* e so quanta passione mette nello svolgere queste attività politico-studentesche, ma è da mettere in luce la sua visione estremamente arretrata dal punto di vista della compatibilità tra esami e lavoro, nonostante sia stat* l*i stess* un* student* lavorator*. Perché una persona può anche essere rappresentata dalle persone più competenti al mondo, ma se non condivideranno la tua idea di benessere, dove il "vabbè, si è sempre fatto così, tutt* hanno preso un giorno di ferie dal lavoro per farsi un esame in un'altra città" ha la meglio sul pensare che sia da stronz* cambiare la modalità di esame durante la sessione, be', forse forse una persona, un* student*, non può sentirsi rappresentato davvero, si sente solo e abbandonato. Perché la sappiamo tutti benissimo la condizione di precarietà a cui siamo costretti in questi anni noi futur* lavorator*. Ma soprattutto, ora che abbiamo visto le capacità di Internet di aiutare la didattica, di non stressare così tanto l* student* lavorator* che già faticano a barcamenarsi tra due mondi quasi incompatibili, perché tornare indietro? E c'è un bel da dire sul "eeeh, ma negli esami online si copia sempre, non è possibile" etc, quando spesso sono i professori stessi a far finta di nulla o a rendere impossibili gli esami. La questione non riguarda le possibilità, la questione che tocca la difficoltà/semplicità degli esami riguarda il metodo utilizzato, che risulta essere la maggior parte delle volte sbagliato. E questo era solo un esempio di rappresentanza mancata, tra quelli meno pesanti, se vogliamo metterla così. Pensate alle persone del sud che si trasferiscono al nord. Pensate alle persone queer o appartenenti alle categorie lgbtqia+. Pensate alle persone senza tetto. Pensate all* migrant*. Pensate all* migrant* ner*. Se in un contesto tanto diffuso si può notare un'ingiustizia tanto lampante, immaginate in quanti contesti non vediamo le ingiustizie, quelle che ti impediscono di condurre una vita serena e regolare. Quelle che ti impediscono una vita.
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glmx22 · 2 years
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Ho avuto il Covid ed ero in didattica a distanza, ho scoperto dai professori che i miei compagni mi parlano alle spalle. Sapevo già lo facessero tra di loro ma non pensavo arrivassero a tanto.
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Il maestro Manzi, l'economia digitale e la didattica a distanza al concorso per gli insegnanti: «Ma c'è posto solo per un "prof" su tre»
«Il primo passo lo abbiamo fatto e direi che è andata bene». Laura, 26 anni, esce dal cancello del Liceo Alfieri gioiosa come una scolaretta dopo l’esame di maturità ma quella soglia, stamattina, l’ha superata in veste di docente «precaria». Una dei tanti che ha affidato tutti i suoi sogni al concorso per l’immissione in ruolo di oltre 4mila insegnanti tra scuola primaria e secondaria in…
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londranotizie24 · 3 months
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Comuni-Co, la scuola di Peterborough insegna italiano e anche inglese
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Di Annalisa Valente La scuola Comuni-Co di Peterborough è stata fondata da Concetta Laquintana e propone corsi di italiano, inglese e spagnolo.  Comuni-Co, la scuola di Peterborough insegna italiano e anche inglese C’è una città, nel Regno Unito, compresa nella contea del Cambridgeshire, a un’ora di distanza da Londra, un’ora da Cambridge, un’ora da Nottingham, a misura d’uomo e con un centro piccolo e caratteristico dove verrebbe facile pensare si vivano delle giornate estremamente tranquille e un pò tutte uguali. Ma invece no, non è così, e la storia che stiamo per raccontarvi ne è la dimostrazione. A Peterborough, la città di cui parliamo, è nata Comuni-Co, scuola di inglese per italiani di ogni provenienza, fondata da un’insegnante italiana, Concetta Laquintana, che all’indomani di un’esperienza che ha segnato la sua vita anzitutto professionale, ha deciso di offrire un’opportunità didattica diversa dal solito a chi vuole imparare l’inglese sul campo. E ha deciso di gettare le basi di questo progetto proprio a Peterborough, la città in cui vive da anni. “Sono insegnante di professione, nel 2016 ho perso il lavoro, praticamente mi hanno liquidata perché hanno chiuso il dipartimento di italiano, di cui io ero a capo in una scuola media superiore rinomata. Una scuola privata. Hanno chiuso il dipartimento di lingua italiana perché era quello più piccolo (non hanno mai voluto ingrandirlo) e hanno aperto quello cinese. Avevo appena compiuto 50 anni, a me piace insegnare, ma poiché l’Inghilterra ti permette di fare anche altre cose nel frattempo ho iniziato a svolgere una diversa attività (che era il mio sogno da bambina): fare l’interior designer. Quindi ho frequentato un corso di un anno per diventare Declutterer and Organiser, specialista nell’organizzazione degli spazi interni. Ho anche fatto parte di un’organizzazione nazionale che regola questa professione, nata inizialmente in America, sviluppatasi successivamente in Inghilterra. Ma trattandosi di un lavoro che non tutti ancora conoscevano, io avevo pochissimi clienti”. Quindi, tra le difficoltà incontrate in un settore sperimentale e l’amore profondo e naturale per l’insegnamento, facile intuire quale tra queste due scelte abbia poi portato Concetta a dare vita alla sua scuola. E, per partire, conoscenze e passaparola sono state l’arma vincente. Grazie a un’attività di gemellaggio tra scuole (un e-twining tra scuole europee che si incontrano on-line e preparano progetti) portata avanti per un paio d’anni ai tempi in cui insegnava, Concetta si ritrova velocemente ad essere contattata da altre colleghe (specialmente italiane) che le chiedono di poter portare in Inghilterra gruppi di loro allievi desiderosi di imparare bene l’inglese. Spinta da questo entusiasmo d’Oltremanica, Concetta si mette subito al lavoro per trovare anzitutto una location pronta ad ospitare questi gruppi di allievi. Individua quindi una scuola d’inglese vicina a casa. E si presenta alla manager (anche lei vicina di casa) per proporle il progetto. Alla manager il progetto piace parecchio, quindi decide di collaborare con Concetta e il primo corso, sperimentale, per il primo gruppo di ragazzi (sei in tutto) finalmente parte, con successo. Ad aiutare Concetta, allora come oggi, è suo marito James Fordham, linguista, poliglotta, qualificato per l’insegnamento. In Italia nel frattempo si sparge la voce tra insegnanti, che decidono man mano di mandare gruppi di allievi in Inghilterra da Concetta, che si specializza sempre più in corsi estivi, e dopo il primo gruppo di sei allievi, l’anno successivo gli allievi diventano dieci, poi venti, e così via. In conseguenza di ciò l’attività inizia a strutturarsi e nasce il primo sito web di Comuni-Co. Concetta e la sua amica manager diventano business partner. Il nome Comuni-Co nasce nel 2018, entrambe vogliono un nome che intenda ‘comunicare’; da ‘comunico’ vengono altre definizioni come ‘community’ e ‘consolidation’. Insomma, è una parola chiave. Le due socie lavorano insieme, e bene. Poi arriva il Covid. E il momentaneo “congelamento” di ogni attività in presenza. Ma perché parliamo di un’opportunità didattica, anzi di un’esperienza diversa dal solito? Continuate a leggere e lo scoprirete. Naturalmente bisogna aspettare la fine del periodo di pandemia e il ritorno, lento e graduale, allo svolgimento delle attività in presenza. “Siamo partiti da zero – ammette Concetta - non siamo una scuola grandissima” ed è anche questo il motivo per cui, insieme all’età relativamente giovane della scuola, almeno durante la pandemia i corsi on-line non avevano trovato terreno fertile.   Lezioni di inglese per gli italiani con formula study-trip o con pacchetto lavoro E anche se adesso i corsi on line sono entrati regolarmente nell’offerta formativa di Comuni-Co, il punto di forza di questa scuola resta l’esperienza in presenza, il contatto diretto con gli insegnanti, l’accoglienza nelle host families altamente selezionate (e ... Continua a leggere su
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ancilla-hawkins · 6 months
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didattica a distanza my most beloved
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empreinte0 · 6 months
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Alla prima del suo programma “Non è mai troppo tardi” fece un azzardo: strappò il copione che gli avevano dato e fece una lezione alla sua maniera, improvvisando. Il risultato della "sua maniera" fu che in otto anni, dal 1960 al 1968, circa un milione e mezzo di italiani uscì dall’analfabetismo.
Terminato il programma, con la fama che aveva ottenuto poteva fare qualsiasi cosa. Poteva arricchirsi.
Tornò invece a fare l’insegnante di scuola elementare. Prendendosi, di tanto in tanto, delle pause per dare il proprio contributo a campagne di alfabetizzazione di italiani all’estero. O per insegnare a leggere e a scrivere ai contadini più poveri dell’America latina.
Manzi, che nasceva in questo giorno, fu un uomo di straordinaria intelligenza e sensibilità.
Assieme alla Rai, svolse il compito più grande che si possa immaginare: strappare all’ignoranza tanti nostri concittadini. Ignoranza senza colpa, perché l’Italia di allora era di contadini e operai per i quali l’analfabetismo era dovuto a mancanza di mezzi e tempo. La “didattica a distanza” di mamma Rai colmò questa mancanza.
E se al tempo il risultato fu così straordinario, anche oggi può esserlo, in altre forme.
A Manzi anche quest'anno il ricordo di tutti noi. Con la gratitudine che gli spetta, perché questo Paese gli deve ancora moltissimo.
L.CECCHI
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cromodinamica · 6 months
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Indovina chi viene a scuola? Rom, sinti e caminanti
Nel nostro Paese tanti bambini e adolescenti sono in un limbo. Capita su vari fronti della vita sociale, spicca sul fronte scolastico: dall'accesso al sistema educativo pubblico ai metodi di insegnamento, dall’accoglienza in classe al diritto/dovere di frequentare la scuola dell’obbligo, fino all’opportunità di imparare correttamente la lingua italiana. Chi sono questi ragazzini? Sono gli alunni della comunità romanì, nei documenti burocratici definiti “rom, sinti e caminanti” (questi ultimi formano una piccola comunità radicata in Sicilia).
Il 2 agosto del Grande Divoramento
Sebbene siano, salvo una piccola frazione extra-comunitaria, cittadini italiani o di vari Paesi dell’UE, vengono trattati come “migranti” e “clandestini”. Anzi, spesso sono considerati “più stranieri” dei migranti, nonostante i loro antenati siano arrivati in Europa, quindi in Italia, tra XV e XVI secolo (forse prima), dopo una lenta migrazione dall’India settentrionale. Non è questa la sede per ricordare nei dettagli la terribile persecuzione di cui rom e sinti sono stati vittime: la Germania nazista, con il sostegno dell’Italia fascista e di altri regimi alleati, ne ha sterminati più di mezzo milione, in un olocausto denominato in lingua romanì Porrajmos (significa ‘grande divoramento’) e ricordato il 2 agosto, sebbene pochi lo sappiano. Così come richiederebbe molto spazio un resoconto della discriminazione tuttora in corso, in un groviglio di pregiudizi. Di certo, rappresentano oggi la minoranza più discriminata.C’è il rischio, tra gli altri, che in Italia i più giovani (i minorenni sono il 60%) non solo non arrivino alla fine della scuola dell’obbligo, ma non la frequentino affatto. I dati sulla loro scolarizzazione sono diversi a seconda della fonte, perché non c’è una visione generale. Di certo, nelle scuole di alcuni Comuni varie prestazioni legate al diritto allo studio (refezione, sostegno ai disabili, borse di studio) sono negate, perché non risultano residenti. In alcuni istituti scolastici il minorenne romanì (italiano o straniero) viene segnalato come “nomade” e gli stessi ministeri usano spesso la parola “nomadi”, sebbene solo il 3% lo sia davvero. I problemi maggiori nascono nei cosiddetti (ci risiamo…) “campi nomadi”, dove vivono circa 26.000 persone, il 20%: è chiaro che abitare in una baraccopoli – di solito scollegata da scuole e centri abitati – contribuisce a rendere difficile una frequenza regolare.
Pandemia e dispersione scolastica
La dispersione scolastica è stata resa ancora più allarmante, tra 2020 e 2021, dall’emergenza sanitaria, con la fine delle lezioni “in presenza” e, come è intuibile, con problemi ancora maggiori per questi ragazzini, rispetto ad altre fasce svantaggiate, nell’utilizzo della didattica a distanza (Dad). Soprattutto all'interno dei campi. Ci sono stati casi virtuosi di docenti e assistenti sociali che, in alcune aree metropolitane, hanno cercato di rimediare. Tuttavia, oltre a computer e tablet, per svolgere la Dad servono energia elettrica, connessioni decorose al Web, competenze tecniche da parte degli adulti. Nelle baraccopoli non sempre ci sono e questo crea ulteriore dispersione scolastica. Infatti, una volta riaperte le aule, è capitato – a Roma per esempio – che 4 bimbi su 10 non siano rientrati. Eppure una recente indagine demoscopica – dedicata alla loro scolarizzazione e svolta da SWG per conto del “Movimento Khetane, rom e sinti per l’Italia” – svela, fra l’altro, che i due terzi dei genitori ritengono la scuola utile per aprire prospettive lavorative e sociali ai figli. Quindi l’emarginazione pesa più della supposta scarsa disponibilità a favorire l’istruzione.
I sentimenti antizigani degli italiani
Per inquadrare la portata della questione è opportuno un chiarimento sui numeri presunti della comunità. Presunti perché non esiste – per fortuna – un censimento su base etnica (sebbene nel 2018 l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini avesse tentato una schedatura con scopi repressivi), contrario all’articolo 3 della Costituzione e a varie convenzioni europee e internazionali. Rom e sinti in Italia sarebbero 140.000 (è il dato medio valutato, sulla base di dati ufficiosi, dal Consiglio d’Europa), quindi lo 0,25% della popolazione, una delle percentuali più esigue nel continente; mentre i sentimenti antizigani degli italiani sono i più alti (82%). Nonostante luoghi comuni e pregiudizi, spesso eccitati da certa politica e da certi media, la stragrande maggioranza (4 su 5) sta in abitazioni convenzionali e conduce una vita normale. Come già segnalato, solo il 3% è effettivamente nomade; mentre nei “campi nomadi” vive (o è costretto a vivere) uno su 5, in gran parte con la residenza anagrafica. Secondo l’European Roma Rights Centre, nel 2010 la metà dei rom e sinti risultava formata da cittadini italiani; un quarto da quelli di Paesi dell’UE; gli altri erano originari di Stati continentali extra-UE. Insomma, sono parte integrante dell’Europa premoderna, moderna e contemporanea.
Dialetti del romanés e italiano
Torniamo così agli alunni rom e sinti che frequentano le nostre scuole: al di là delle difficoltà citate, esiste anche un aspetto che lega questioni linguistiche a questioni didattiche. Nel senso che per questi bimbi l’italiano spesso è la seconda lingua, dato che in famiglia si usa (sempre nel 50% dei casi, parzialmente negli altri) uno dei dialetti del romanés, lingua neo-sanscrita, tradizionalmente tramandata solo oralmente (anche se stanno nascendo, per ora a livello dei loro intellettuali, un sistema di scrittura condiviso e una lingua standard, strumenti necessari anche per raggiungere un riconoscimento politico-culturale).
Bilinguismo sottrattivo e bilinguismo additivo
Di certo, una lingua-madre che si tramanda per via orale – una delle poche oggi rimaste – richiede “una diversa impostazione di glottodidattica interculturale” sul fronte della scolarizzazione. Lo scrive – in un articolo su EL.LE – Paola Desideri, fino al 2020 professoressa ordinaria di Didattica delle Lingue moderne all’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara, che si è addentrata in un campo poco studiato. Spiega che a scuola, “nel rispetto del pluralismo delle differenze, il primo passo è quello di riconoscere l’alterità del mondo” dei rom e sinti, “senza pretendere di reprimerlo o di cancellarlo; anzi proprio questo mondo tanto contrapposto, se conosciuto, può diventare la base per una corretta educazione linguistica in italiano L2 (seconda lingua, ndr)”. La professoressa sostiene che “la scuola non può esimersi dal prendere in carico la questione dell’alunno rom, con tutte le problematiche linguistiche e socioculturali che comporta. In primo luogo, bisogna porsi il problema di convertire il cosiddetto ‘bilinguismo sottrattivo’ tipico delle minoranze – che comporta un depauperamento della L1 (prima lingua, ndr) minoritaria, priva di qualsiasi prestigio sociale e completamente assente nella scuola – in ‘bilinguismo additivo’, il quale, al contrario, non va a discapito della lingua madre, ma anzi rappresenta per il soggetto una forma di arricchimento”.
Il metodo fonico-sillabico
La linguista indica, tra gli strumenti inclusivi che possono favorire con efficacia il processo di apprendimento, il cooperative learning (gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamente), il learning by doing (l’imparare facendo) e la didattica laboratoriale. Sono volti a “sviluppare la cooperazione tra pari, le abilità relazionali, il miglioramento del clima di apprendimento e la rivalutazione delle attitudini dell’alunno, in poche parole la crescita interculturale dei soggetti”. Precisa: “Il learning by doing sembra la strategia didattica più efficace per imparare attraverso la manualità, cioè attraverso attività pratiche tali da migliorare la ‘funzione euristica’ e il potenziamento linguistico-cognitivo”. Inoltre, secondo Paola Desideri, per “l’alfabetizzazione dei bambini rom” è preferibile usare “il ‘metodo fonico-sillabico’, perché valorizzando l’articolazione fonetica si dimostra adatto per questi soggetti con una L1 esclusivamente orale”. Inoltre, “uno strumento molto utile per favorire la strutturazione del pensiero e la condivisione dei significati è la costruzione di mappe concettuali, gioco che appassiona i bambini e li stimola a confrontarsi”.
La formazione degli insegnanti
Tuttavia la linguista segnala altri due problemi. Uno riguarda la formazione dei docenti al confronto con rom e sinti. “Il problema esiste sicuramente, non solo per questi ragazzini ma anche per quel che riguarda bimbi di altre etnie”, afferma, dialogando con Treccani.it. “È chiaro che gli insegnanti dovrebbero possedere le conoscenze e le competenze necessarie per gestire tali situazioni. Purtroppo le hanno raramente”. La conferma indiretta arriva dalla ricerca “Gli insegnanti degli alunni rom e sinti. Un'indagine nazionale”, svolta alcuni anni fa sulla base di un questionario. Alessandro Vittorio Sorani, su Quaderni di Sociologia, fa notare che gli stessi docenti intervistati percepiscono “come insufficiente la formazione in loro possesso”. Ciò è accompagnato da una “percezione stereotipata dei rom/sinti come entità culturale”, tanto che il 77,4% degli insegnanti dà un giudizio negativo sull’influenza determinata dalla presenza in aula di quegli alunni.
Una minoranza linguistica non riconosciuta
I ragazzi rom e sinti si trovano però svantaggiati anche per una questione cruciale di ordine giuridico (frutto di scelte politiche) con pesanti ripercussioni nell’ambito scolastico e istituzionale: si tratta, spiega la professoressa Desideri, della “negazione dei diritti linguistici alla minoranza alloglotta rom/sinta da parte della Legge 482 del 15 dicembre 1999 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, ndr)”. Spiega: “Dopo un lungo e controverso iter parlamentare durato diversi anni, tale legge riconosce e tutela soltanto dodici lingue minoritarie storiche e territorializzate. Tra queste è assente il romanés, che è indubbiamente una minoranza storica, in quanto presente in Italia da almeno seicento anni, ma non territorializzata... Il pretesto della mancanza della delimitazione e della definizione territoriale ha dunque deprivato le comunità di usufruire delle disposizioni e delle forme di tutela a tutti i livelli, tra cui il legittimo diritto di adottare il romanés nelle occasioni istituzionali e di disporre dei mediatori linguistico-culturali, quanto mai indispensabili nell’ambito scolastico”. Dovrebbero pretendere questo riconoscimento pure i gagi (gagé indica nella lingua romanì i “non-rom”). Purtroppo, sebbene qualche proposta legislativa sia stata avanzata, da 22 anni è tutto fermo, probabilmente anche perché la presunta “diversità” di rom e sinti italiani fa comodo alla propaganda di certa politica.
Dalla negazione all’affermazione
Eppure, dice a Treccani.it Eva Rizzin, sinta italiana, “la scolarizzazione è sicuramente la chiave della futura emancipazione delle nuove generazioni rom e sinte”. Anche lei, nata nel 1977, parente di tante vittime dei lager nazisti, ha dovuto affrontare molti pregiudizi quando andava a scuola. Oggi è dottore di ricerca in Geopolitica, responsabile scientifico dell’Osservatorio nazionale sull’Antiziganismo presso il CREAa dell’Università Verona. Nell’ultimo libro che ha curato – Attraversare Auschwitz. Storie di rom e sinti: identità, memorie, antiziganismo, pubblicato nel 2020 – ci sono le testimonianze di tante persone della comunità; inclusi i ricordi scolastici, quasi sempre dolorosi. C’è anche il suo, che ha un lieto fine: “Mia mamma e i miei zii… negli anni Sessanta… hanno dovuto frequentare le ‘Lacio Drom’, le ‘classi speciali per zingari’... Spesso relegati nei sottoscala, con orari differenti dagli altri... Si sentivano degli appestati ed alla fine rifiutarono di andarci… Mia madre è rimasta analfabeta, ma ha sempre avuto la forza e la consapevolezza di affermare che il riscatto per me e per tutti i sinti potesse e dovesse passare dalla scuola”. Continua la dottoressa Rizzin: “Anch’io ho scoperto di essere ‘zingara’ (nome imposto dall’esterno che rom e sinti rifiutano, ndr) il primo giorno di scuola, quando alcune compagne mi dissero che non potevo giocare con loro. La maestra fu eccezionale e mi portò per mano a giocare… Dopo l’adolescenza… sono riuscita a passare dalla negazione all’affermazione, con quella grande consapevolezza che devo a mia madre e a tutta la mia famiglia”. Poi la maturità, la laurea in Scienze politiche (110 e lode) e il dottorato, con la prima tesi sulla sua comunità e l'altra sull’antiziganismo: “La cosa che ricordo con più affetto è naturalmente mia madre il giorno della discussione della tesi di laurea, ma anche l’aula magna dell’università affollata di sinti. ...C’erano con l’orgoglio di chi attendeva un riconoscimento per tutta la comunità e non solo per me”. Non possiamo che augurarci, tutti, un futuro così.
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