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#autobiografismo
gregor-samsung · 8 months
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“ Fine di luglio. Una mattina metti il naso fuori: Genova è deserta. Tutti partiti nella notte? Spazi immensi, vuoto, nel tremore dell’aria calda si distinguono lontanissimi palazzi. Tutto è fermo, come una lucertola sul muro. Silenzio: in collina arriva il rumore del mare e il grido dei gabbiani. Rari turisti intenditori in cerca di qualcosa. Ma ecco, qualcosa accade: vecchie persiane, chiuse da mesi, si aprono, stanze, buie da mesi, si illuminano, dimenticate serrature cigolano. È questo il momento in cui Gino, Elisa, Enzo e gli altri prendono coraggio, aprono le porte e scendono in strada. Camminano sui marciapiedi, siedono sulle panchine, parlano da soli ai crocicchi, studiano i semafori, chiamano i gatti. Vestiti nei modi piú strani, chi con l’impermeabile, chi col maglione, chi con gli scarponi da montagna, chi con le ciabatte da mare. È un’esplosione, come quella delle lumache dopo la pioggia. La città è loro. Padroni per un giorno. Io, scorrazzando in Vespa, mi accorgo che ne conosco pochi. La città è piena di persone che non esistono. Fine di agosto. Tornano dalle vacanze file di auto piene di sbadigli. In pochi giorni le lumache riscivolano nei buchi. Chi non le ha viste, non le rivedrà piú. “
Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi (collana Super ET), 2021¹; pp. 66-67.
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valentina-lauricella · 6 months
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Interessante per chi vuole conoscere parte di quegli studi leggiadri e sudate carte in cui il giovinetto Leopardi spese il suo miglior tempo. Un'immersione nelle origini di molte errate convinzioni comuni sia al popolo che agli scrittori antichi, ma non ai filosofi, che talvolta giunsero col puro raziocinio a intuizioni successivamente confermate dalla scienza. A soli 17 anni, Leopardi è già maturo: acuto, divertente e divertito, piacevolmente ironico. Affascinante, e talvolta lirica, la sua ricostruzione dei paesaggi e delle situazioni in cui si muovono gli uomini primitivi e quelli del mondo greco arcaico (vedasi ad esempio il quadro del "meriggio"). Appassionato e probabilmente velato di autobiografismo il capo "Dei terrori notturni". Periodare sorprendentemente moderno, non mancano frasi nette e incisive. Vastissima la sua scelta di passi e luoghi poetici greci e latini testimonii di erronee credenze; sterminato il numero degli autori meticolosamente citati. Manieristico il tono del conclusivo, solenne omaggio alla Chiesa, sotto il cui manto non può allignare l'errore.
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j-biedma-de-ubeda · 2 years
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DE NATURAL PACÍFICO
Laurence Sterne (1713-1768) fue un autor original, de la cuerda de Cervantes y Rabelais. Un humorista. Hijo de militar, clérigo anglicano, casó en 1741, pero su matrimonio no fue tranquilo debido a sus devaneos amorosos y a la locura de su esposa. Murió en extrema pobreza.
Influido por Descartes, Montaigne y Locke, su capacidad fabuladora fue reducida, pero “la suple con un jugoso autobiografismo y una alertada curiosidad erudita, teñida de ironía y sátira” (Francisco Yndurain). Es un maestro de la disgresión, de la que abusa conscientemente. En Vida y opiniones del caballero Tristram Shandy (II, 12º), su “novela-ensayo” inacabada, describe el buen corazón de su tío Toby recordando su comportamiento estoico con una mosca pertinaz:
“Mi tio Toby tenía mucha paciencia para los insultos y no por falta de valor (...) Sólo ocurría que él era de natural pacífico, sin mezcla de exaltación alguna, incapaz por tanto de responder vengativamente ni al ataque de una mosca (...) Una noche, cenando, cuando un moscardón se obstinaba en zumbar en torno a su nariz atormentándolo insistentemente, se limitó a decir: ¡Vete! Y cuando después de infinitas tentativas lo cogió le dijo: No te voy a hacer daño, y levantándose de la mesa abrió su mano y lo dejó escapar tras abrir la ventana. Vete, pobre diablo, ¿por qué habría de hacerte daño? Este mundo es lo suficientemente amplio para incluirnos a ti y a mí.”
“La lección de buena voluntad universal que entonces aprendí de mi tío Toby se quedó para siempre grabada en mi mente (...), la mitad de mi filantropía la debo a aquella impresión accidental.”
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lucianopagano · 2 years
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[6.II.2022] Alcuni appunti sparsi delle cose dette ieri sera, per la prima presentazione della nuova edizione de «Il pane sotto la neve », di Antonio L. Verri, che ho curato per Kurumuny nella collana Declaro, diretta da Simone Giorgino.
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«La storia è il nostro referente perduto, vale a dire il nostro mito» Jean Baudrillard, Simulacri e impostura
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Nel 1983, per i Quaderni del «Pensionante», uscirono «Forse ci siamo» di Salvatore Toma e «Il pane sotto la neve», di Antonio L. Verri. Il mio “dialogo” personale a distanza, con Verri, è iniziato una ventina di anni fa, grazie all’amicizia e alla condivisione degli amici che gli furono sodali; era un andar per tracce, come in cerca di un assassino, giunti dove è stato commesso il fatto con un attimo di ritardo, confrontando le differenti versioni dei fatti. Porre in equilibrio l’autobiografia, il fatto storico, la tradizione, la letteratura, è un’arte complessa. «Il pane sotto la neve» di Verri rappresenta questo equilibrio.
Ciò che spesso accade, nella scrittura, è che l’eccesso di un elemento vada a scapito di tutti gli altri. Troppo autobiografismo, senza cura per l’esistenza dell’altro fuori della propria sfera; troppa fedeltà ai fatti, priva di mistero, pedante; troppo ossequio nei confronti di una lingua e di una cultura cristallizzata, unita all’incapacità di volerne trasmettere l’amore che nasce dal comprendere quanto la lingua sia radicale perché capace di mutare, troppa attenzione a ciò che si vorrebbe scrivere e al pubblico, prima ancora della cura per l’oggetto del racconto, il sogno del reale. La premessa non deve ingannare.
Questo pane è uno dei testimoni residui, da intendersi come il testimone ultimo della staffetta, di un tempo letterario che era capace di essere disturbante e perturbante, in una maniera che oggi si rifugge, tanto siamo presi dalla medietà di un‘espressione quotidiana, nella quale la pervasività e onnipresenza della scrittura, per porsi, deve scacciar via il conflitto. «Il pane sotto la neve» ci dice che nel momento in cui tutto diviene scrittura nulla è più letteratura. È la letteratura che si nutre di mito, storia, lingua, radici.
C'è una sorta di compressione sintattica, come se l’esperienza si dovesse tradurre in immagini rapide, come se in un libro dovessero entrarcene tanti, come se il racconto del sacco di Otranto e della vicenda dei Martiri dovesse essere presentato con linguaggi differenti, a partire dalla poesia, passando per il pastiche narrativo grand-guignolesco, con passaggi nella lirica dell’Io e visioni di vera e propria poesia on the road.
Questo pane è duro, con momenti che pure se ostici ripagano l’udito e i sensi.
Noi facciamo parte della generazione che è venuta dopo, la generazione che ha conosciuto Antonio Verri tramite i racconti delle persone che lo hanno conosciuto e che qui stasera sono in tante. Apparteniamo alla generazione che ha conosciuto Antonio Verri tramite la lettura delle sue opere.
Essere editori, essere scrittori, essere operatori culturali, essere artisti, nel Salento di oggi significa esserlo anche grazie al buon lavoro che è stato fatto da coloro i quali ci hanno preceduti ma soprattutto accompagnati.
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cerentari · 3 years
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Ascolta & Leggi: M83 con La produzione poetica di Flavio Almerighi (letta da Maria Allo, terza e ultima parte)
Ascolta & Leggi: M83 con La produzione poetica di Flavio Almerighi (letta da Maria Allo, terza e ultima parte)
La lunga stagione di Almerighi approda, nel 2018, al libro forse più nudo, Isole. La scrittura più matura si addensa ora intorno a una visione spoglia e antilirica dell’accadere, per un autobiografismo sobrio, a volte ironico, ancorato agli eventi minimi del vissuto. Se ne ricava un diario antilirico, in cui si intrecciano esperienze, passioni e l’avventura di essere uomini. Nell’apocalisse in…
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cirifletto · 4 years
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Il Cinema Di Woody Allen In 10 Scene Indimenticabili
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Pessimismo cosmico miscelato con grande e pungente ironia disegnano il cinema di Woody Allen, qui riassunto in 10 scene cult. Per chi ama il cinema - e chi scrive lo ama tantissimo -, è impossibile non voler bene a Woody Allen.
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Perché Woody Allen, nome d'arte di Allan Stewart Königsberg, è un il comico geniale che ha consegnato al nostro immaginario collettivo alcune delle sequenze e delle battute più divertenti e più citate di sempre. Inoltre rappresenta anche il cantore di una New York, che non è mai apparsa tanto suggestiva e poetica come nei suoi film.
Woody Allen è anche, e soprattutto, l'autore che, attraverso i suoi personaggi complessi e irrisolti, ha saputo raccontare meglio di chiunque altro, sia la moderna nevrosi della società contemporanea, sia le piccole, grandi contraddizioni della vita di ciascuno di noi, del nostro rapporto con noi stessi e con gli altri.
Uno dei film che preferisco, di più in assoluto, di questo regista è Io e Annie, un lungometraggio che mi porto nel cuore e che consiglio a tutti di guardare e riguardare. Proprio grazie anche al suo incipit. Il film, infatti, si apre con il seguente monologo. https://youtu.be/fU4vSdZi3rQ È un esempio perfetto della poetica di Woody Allen: un pessimismo cosmico declinato però secondo una pungente ironia. Ironia volta a riflettere (e a far riflettere) sulla necessità di servirsi dell'umorismo come del miglior antidoto ai mali del mondo e alle difficoltà della nostra esperienza quotidiana. E quindi, ecco a voi le 10 scene indimenticabili del suo cinema. 1 - Prendi i soldi e scappa, la rapina in banca Una strepitosa serie di sequenze e di sketch esilaranti. Nella cornice di un finto documentario, dedicato a Virgil Starkell, un "criminale da strapazzo" impersonato dallo stesso Allen. Tantissimi i momenti da antologia, ma fra le scene da ricordare c'è senz'altro la "rapina muta" messa in atto da Virgil, compromessa però da un piccolo inconveniente... https://youtu.be/BR-se3acxUg 2 - Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chieder), l'eiaculazione Una pellicola in sette episodi per giocare con i cliché sul sesso, ma anche con gli elementi di base delle teorie freudiane. La parte finale, l'episodio Cosa succede durante l'eiaculazione? è un piccolo capolavoro a sé. Nell'arco di pochi minuti, Woody mette in scena le varie fasi dell'atto sessuale dal punto di vista degli spermatozoi, costretti loro malgrado ad avventurarsi in un'impresa rischiosissima da cui potrebbero non fare mai più ritorno... https://youtu.be/GWiechib78g 3 - Amore e guerra, amare è soffrire Amore e guerra segna l'apice della produzione demenziale alleniana, nonché il punto d'arrivo di un itinerario cinematografico che, da lì in poi, prenderà una direzione ben diversa. In assoluto la migliore delle parodie alleniane basata sui modelli della grande letteratura russa. Difficile scegliere un'unica sequenza in un film ricchissimo di invenzioni gustosissime. Ma questo dialogo a colpi di sillogismi filosofici fra Sonja (Diane Keaton) e Natasha (Jessica Harper) rimane una delle vette della comicità alleniana. https://youtu.be/9ssboQ1wLs4 4 - Il dittatore dello stato libero di Bananas, Rivista Orgasmo Anche questa è da annoverarsi tra le scene più famose e divertenti della sua filmografia iniziale, oscillante tra il demenziale, l'impegno politico e il dissacrante. https://youtu.be/JDda1Pj3XdU 5 - Io & Annie, la fila al cinema Non saprei neppure da dove iniziare per esprimere la genialità, la tenerezza, il romanticismo, l'ironia... in una parola, la meraviglia di un'opera come Io e Annie. Film rivoluzionario nell'approccio narrativo, nel linguaggio e nella commistione di registri, fra autobiografismo e parentesi surreali, Io e Annie non è solo una delle più belle love story mai viste sul grande schermo, ma una di quelle pellicole che si lasciano rivedere, anche per la centesima volta, con la stessa dose di entusiasmo, divertimento e nostalgia. https://youtu.be/k1IZN7r5PK4 6 - Manhattan, cose per cui vale la pena vivere Manhattan, realizzato nel 1979, rimane l'altra opera leggendaria nella produzione di Woody. Il capolavoro sulla precarietà dei rapporti sentimentali in epoca moderna, ma anche un atto d'amore commosso e appassionato alla città di New York (fin dal mitico incipit, accompagnato dalla musica della Rapsodia in blu di George Gershwin). Film da vedere e rivedere. https://youtu.be/uXH2w3dWnrs 7 - La Rosa purpurea del Cairo, il cinema incontra la realtà Uno dei soggetti più originali e sorprendenti del cinema di Woody Allen. Quello al cuore de La rosa purpurea del Cairo, commedia romantica a tinte fantastiche del 1985, basata sull'emblematica compenetrazione fra arte e vita, fra la monotonia della realtà quotidiana e il potere immaginifico del cinema. Il corto circuito fra la realtà e la finzione narrativa è riprodotto in questa sequenza in maniera a dir poco strepitosa... https://youtu.be/JIIw5dP1H-I 8 - Crimini e misfatti, delitto e castigo Uno dei vertici assoluti del cinema alleniano. Una riflessione altissima sul senso morale dell'individuo, sul Bene e sul Male, sulla fede e sul peccato, sul delitto e sul castigo. Una riflessione filosofica veicolata attraverso una perfetta fusione fra dramma e commedia, in un film pervaso da un'ironia amarissima e da un lucido disincanto nei confronti delle sorti della società. https://youtu.be/c7moR6X_U3o 9 - Misterioso omicidio a Manhattan, il ricatto telefonico È possibile rendere un murder mystery apparentemente semplice un piccolo capolavoro di comicità, malinconia e romanticismo? Ebbene, Misterioso omicidio a Manhattan è proprio questo. Pertanto ci troviamo di fronte ad un film che si sviluppa come un giallo, ma in seguito, non rinuncia agli spunti di ironia tipici del cinema di Woody Allen e in più regala agli spettatori il brivido di rivedere insieme, fianco a fianco, Woody e la sua ex partner e musa Diane Keaton. https://youtu.be/tBxUE2L0kCs 10 - Harry a pezzi, scene di un matrimonio Tra ironia, geniali inserti surreali (la visita all'Inferno o la Morte che bussa alla porta, trovando però l'inquilino sbagliato ne sono un esempio). In mezzo a suggestioni bergmaniane (la citazione de Il posto delle fragole) e inevitabili echi autobiografici (la dolorosa separazione da Mia Farrow e il conseguente clamore mediatico), Harry a pezzi, diretto e interpretato da Woody Allen nel 1997, rappresenta, soprattutto, un ideale compendio dello stile e della poetica alleniana del decennio: l'instabilità dei rapporti sentimentali, le nevrosi quotidiane e le piccole tentazioni erotiche. https://youtu.be/AdGuk_LVWZ0 In poche parole, scene bellissime e strepitose con battutte eccezionali. E sono solo un piccolo bignami delle migliori della sua filmografia. Comunque ce ne sono a migliaia e qui sotto 3 potete leggerne alcuni famosi esempi: Quand’ero piccolo i miei genitori hanno cambiato casa una decina di volte. Ma io sono sempre riuscito a trovarli. Il sesso è come il bridge: se non hai un buon partner, devi avere una buona mano. Dio è morto, Marx è morto … e anch’io oggi non mi sento molto bene! LEGGI ANCHE... 17 Cose Che Non Avete Mai Sentito Su David Lynch In conclusione, mi raccomando guardate questi film, se potete! Ciao da Tommaso! Salva Read the full article
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queerographies · 4 years
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[Dalla vita assassinato alla poesia][Giovanni Inzerillo]
Il saggio passa in rassegna l'intera produzione poetica di Dario Bellezza dalla fine degli anni Sessanta alla prima metà degli anni Novanta [Dalla vita assassinato alla poesia][Giovanni Inzerillo]
Il saggio passa in rassegna l’intera produzione poetica di Dario Bellezza che si colloca tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Novanta, dagli esordi spregiudicati e polemici di “La vita idiota” e di “Invettive e licenze” sino al malinconico autobiografismo di “Proclama sul fascino”. Quando l’egotismo di oggi ci illude di poter bastare a noi stessi, di poter fare a meno…
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profeliteratura4o · 5 years
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INFORMACIÓN SOBRE LAZARILLO DE TORMES Y LA NOVELA PICARESCA
LAZARILLO DE TORMES
AUTOR:
El Lazarillo es, como se sabe, una obra anónima; y dada la importancia de la obra, el problema ha interesado a la crítica. Si bien se ha atribuido la autoría a distintos autores (cabe citar a Diego Hurtado de Mendoza, poeta, historiador y famoso diplomático de la Corte de Carlos I) e incluso algunos estudiosos han planteado también la hipótesis de que el autor del Lazarillo fuese un converso descendiente de judíos. Sin embargo, no hay en ningún caso pruebas concluyentes. El anonimato de la obra se puede explicar por las características de la misma. Su carácter crítico y polémico y la novedad que suponía presentar como protagonista a un marginado son razones que pudieron llevar al autor a ocultar su nombre.
EL LAZARILLO: ¿PRIMERA NOVELA PICARESCA?
Las primeras ediciones conocidas del Lazarillo se publicaron en 1554, en Burgos, Alcalá de Henares y Amberes, con el título de La vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades. La obra supuso una ruptura total respecto a la narrativa vigente en la época y constituye para algunos críticos la primera muestra de uno de los géneros más originales de la literatura española: la novela picaresca.
En el Lazarillo aparecen ya los elementos que caracterizarán al género hacia fines del siglo XVI y principios del XVII y que se refieren tanto a la figura del protagonista como a la técnica narrativa:  El protagonista de la novela picaresca es el pícaro. Se trata de un ser marginal, origen innoble, que sirve a varios amos y cae en la mendicidad e incluso en la delincuencia. El pícaro es, en realidad, un antihéroe que no se mueve por altos ideales, sino solo por la necesidad de sobrevivir en un medio hostil. Entre sus características destacan el ingenio con que se desenvuelve en las más adversas situaciones y su falta de escrúpulos de orden moral. Su meta es el ascenso social, meta que a veces alcanza parcialmente para luego volver a caer en su primitivo estado. En cuanto a la técnica narrativa, la novela picaresca se caracteriza por estar escrita en forma autobiográfica. La autobiografía del pícaro no es una mera yuxtaposición de sucesos, sino que los distintos episodios están jerarquizados y tienen sentido en cuanto que llevan a un estadio final del personaje. La técnica autobiográfica hace, por otra parte, que la obra presente una única visión de la realidad: la del pícaro.
EL CONTEXTO LITERARIO DOS GRANDES OPCIONES NARRATIVAS: IDEALISMO Y REALISMO.
Durante el siglo XVI se produjo en España un notable desarrollo de la prosa narrativa. Géneros novelísticos que ya habían dado importantes frutos en el siglo XV conviven en esta época con otros nuevos. En la producción narrativa del período observamos una tendencia al idealismo en géneros como la novela de caballerías, la novela sentimental, la novela morisca, la novela bizantina y la novela pastoril. En este tipo de narraciones, la acción, el espacio y los personajes pertenecen a un mundo idealizado de influencia platónica. El idealismo amoroso, la estilización de ambientes y personajes, la fantasía en la narración de los episodios y la intemporalidad son algunos de los rasgos de la narrativa de tipo idealista de esta época. Junto a la narrativa de tipo idealista, hubo en la época una segunda tendencia, que podríamos considerar contraria por cuanto que echa sus raíces en la realidad. En esta tendencia al realismo se encuadra la novela picaresca.
CLAVES DEL “LAZARILLO DE TORMES”
LA ORGANIZACIÓN DEL TEXTO: EL AUTOBIOGRAFISMO FINGIDO.
El Lazarillo de Tormes se nos presenta formalmente como una autobiografía real escrita en forma epistolar:  Lázaro, pregonero toledano, ha recibido una carta de un desconocido.  Este personaje le pide a Lázaro que le relate “el caso”, es decir, la situación en la que Lázaro se encuentra en el momento de escribir la historia.  Lázaro escribe una carta a este personaje (al que él llama “Vuestra Merced”), pero en lugar de referirle directamente el caso, cuenta por extenso su vida “porque se tenga entera noticia de mi persona” (en el Prólogo de la obra). La forma autobiográfica utilizada por el autor pretende crear en el lector la sensación de que se encuentra ante una historia real. Esta intención verista (de dar verosimilitud) es característica de la época. La novela está construida en forma retrospectiva: el narrador protagonista, ya en la edad adulta, pasa revista a los episodios de su vida como pícaro, especialmente a aquellos que de algún modo explican su situación presente. La novela está constituida por un prólogo, en el que Lázaro, ya adulto, explica los motivos que le mueven a contar su historia, y por siete tratados o capítulos de extensión desigual que desarrollan la historia de Lázaro de forma lineal desde su infancia hasta el momento en que Lázaro escribe la carta. Se trata, por tanto, de una narración abierta que admite continuaciones.
EL CONTENIDO: LAS ADVERSIDADES Y EL “MEDIO” Lázaro se mueve por dos motivos: la necesidad de comer y el afán de mejorar. Desde que su madre lo entrega a un ciego, Lázaro lucha contra las adversidades hasta que, ya adulto, logra, según él, el ascenso social que anhelaba mediante su matrimonio y su empleo como pregonero. Las peripecias de Lázaro se enmarcan en un tiempo y en un espacio muy definido:
 TIEMPO: Lázaro cuenta que su padre murió en la expedición a los Gelves (hubo una en 1510 y otra en 1520), cuando él tenía ocho años. El libro termina cuando el protagonista dice encontrarse “en la cumbre de toda buena fortuna”, el año en que el emperador Carlos I reunió Cortes en Toledo (1525 ó 1539).
 ESPACIO: Lázaro nace en Tejares (Salamanca), y su historia trascurre por lugares concretos y bien delimitados: Salamanca, Almorox, Escalona, Maqueda y Toledo. Tal es la España real en la que el pícaro sufre sus vicisitudes.
LOS ESTILOS DE LA OBRA En las páginas del Lazarillo se nos muestra a su protagonista en dos momentos de su vida: Lázaro adulto y Lázaro niño. De acuerdo con esta distinción, se ha visto en la novela dos estilos que se corresponden con la intervención de uno u otro personaje:  En la parte protagonizada por Lázaro adulto prevalece el estilo autobiográfico y subjetivo que se sirve, sobre todo, del recurso de la ironía.   En la parte protagonizada por Lázaro niño, dominan las descripciones realistas y la narración de episodios divertidos. A la hora de elegir el lenguaje que debía utilizar en su obra, el autor del Lazarillo tuvo presente en lo expuesto en las retóricas, donde se establecía de forma precisa la lengua que debía utilizar un personaje de acuerdo con su condición social. Así lo entiende el propio Lázaro, quien en el Prólogo alude al “grosero estilo” en el que escribe. Por eso son frecuentes en la obra los refranes, las frases hechas, y los solecismos (incorrecciones lingüísticas), que, junto con el uso de los diminutivos y otros recursos coloquiales, dan a la novela su tono directo y realista.
LOS PERSONAJES: EL PÍCARO
El Lazarillo de Tormes es una novela de protagonista; esto quiere decir que toda la acción de la obra gira en torno a un personaje principal: Lázaro. Ahora bien, junto a Lázaro desfilan por la obra una nutrida muestra de personajes representativos de la España del siglo XVI. En la personalidad de Lázaro confluyen, para algunos críticos, todos los rasgos que definen la figura del pícaro:  Lázaro nace en un lugar humilde y su padre era ladrón. Se trata, por lo tanto de un personaje de baja extracción social.  La madre de Lázaro lo entrega como criado a un mendigo ciego. Desde entonces vive marginalmente en busca de mejor fortuna.  Sirve sucesivamente a varios amos.  El móvil de sus actos es matar el hambre; no se mueve por ideales.  Se desenvuelve con soltura en un medio hostil gracias a su ingenio y a la astucia que aprende de su primer amo, el ciego.  Practica la mendicidad y, aunque no cae en la delincuencia como otros pícaros de novelas posteriores, acepta sin ningún escrúpulo situaciones poco honrosas.  Intenta conseguir una cierta posición social, lo que no logra aunque él así lo crea. El personaje de Lázaro, a pesar de ser un original hallazgo, no fue creado de la nada por su autor. Entre la multitud de personas necesitadas existentes en España en aquellos años, buena parte eran niños que, como Lázaro, deambulaban por pueblos y ciudades mendigando e intentando buscar un amo al que servir para remediar su hambre. Esta figura real pasó al folclore, a veces con el mismo nombre de Lázaro. Personajes bien conocidos son también los que aparecen junto al protagonista:  La figura del ciego mendigo tiene una larga tradición, tanto real como literaria, que llega hasta nuestros días. El niño que frecuentemente acompaña a un ciego prestándole ayuda sigue denominándose hoy “lazarillo”.  Los personajes de condición religiosa, a los cuales se satiriza, son exponentes del estado de corrupción en el que vivía un sector del clero.  El escudero toledano ejemplifica el deseo de aparentar la honra, preocupación que compartieron muchos españoles de la época.
EL MUNDO DE LA PICARESCA: LA CRÍTICA SOCIAL Las páginas del Lazarillo nos ofrecen una visión descarnada de la realidad española. Frente a la visión idílica del mundo que nos ofrecen ciertos géneros literarios del Renacimiento, la narración picaresca nos pone ante unos personajes de carne y hueso, cuya historia particular es un patético documento social. Lázaro se mueve en un mundo de miserias y dificultades; la sociedad le tiene reservado un lugar que perpetúa su condición marginal y de desheredado por la fortuna. No obstante, el tono de rebeldía y resentimiento que conlleva la actitud de Lázaro al contar su vida por extenso sirve para poner de manifiesto las contradicciones de una sociedad en crisis y de unos tiempos conflictivos. Se ha discutido acerca de la intención crítica del autor del Lazarillo. En el prólogo, el propio Lázaro nos da una clave sobre este aspecto cuando dice estas palabras: “ Yo por bien tengo que cosas tan señaladas y nunca oídas ni vistas vengan a noticias de muchos y no se entierren en la sepultura del olvido, pues podría ser que alguno que las lea halle algo que le agrade y a los que no ahondaren tanto, les deleite.”
El narrador sugiere, pues, dos lecturas: una de entretenimiento, y otra reflexiva, posiblemente crítica, que permita “hallar algo”. Prescindiendo de la intencionalidad del autor, en la novela se muestran, en forma irónica, vicios o modos de comportamiento de determinados grupos sociales. La crítica se centra en tres sectores: la mendicidad, la hidalguía y sobre todo la Iglesia, o por lo menos un sector de la misma. Es notoria la preocupación que hay en la obra por el tema religioso: no puede pasar inadvertida la alta proporción de clérigos que en ella aparecen, cuyo comportamiento está lejos del espíritu evangélico. La crítica anticlerical que ello encierra se ha querido explicar por ser el autor un judío converso, por ser erasmista, por ser escéptico… Lo cierto es que esta postura puede inscribirse dentro de las corrientes de reforma espiritual que surgen durante el Renacimiento. La obra se difundió en España hasta que en 1559 la Inquisición la prohibió, incluyéndola en el Índice Expurgatorio. En 1573, parece una versión expurgada bajo el nombre de Lazarillo castigado. Se le suprimieron dos tratados, el IV y el V (el del fraile de la Merced y el del buldero) y algunos trozos intercalados.
ESTRUCTURA DE LA NOVELA Es posible distinguir en la novela dos estructuras o construcciones íntimamente ligadas:
ESTRUCTURA EXTERNA Se basa en la definición que tantas veces se ha hecho de Lázaro como “mozo de muchos amos”. De esta forma, la obra se estructura en siete tratados, nos informa de nueve oficios cumplidos por Lázaro, los que significan nueve amos distintos. Estos nueve amos no tienen la misma importancia ya en lo que se refiere al lugar que ocupan en la novela, ya en la incidencia que tienen en la educación de Lázaro. En la medida que un amo incida en Lázaro, el autor le dará más o menos intervención en la novela. Hay, además, dos episodios que funcionan como apertura y clausura de la novela: uno al principio en que se nos informa el origen y vida familiar en la niñez, y otro al final en que se narra su asentamiento definitivo dado en su boda con la criada del Arcipreste. El autor tampoco se limita a pintar los amos y la relación que los une con Lázaro, sino que aprovecha la oportunidad para mostrarnos el ambiente que rodea a cada uno de ellos. Así nos muestra cómo actúa el ciego.
El Lazarillo consta de siete tratados de desigual extensión (a medida que la novela avanza se precipita malogrando el efecto de los tres primeros tratados o capítulos). Hay cierta simetría en la estructura de la novela: Tratados I, II y III: Niñez del personaje. Motivación: el hambre.
Tratado IV: Transición entre la niñez y la adultez.
Tratados V, VI y VII: Lázaro adulto. Motivación: el ascenso social.
ESTRUCTURA INTERNA Ella se basa en el mismo título de la novela: La vida de Lázaro de Tormes y de sus fortunas y adversidades. Esta estructuración se fundamenta en la narración autobiográfica que Lázaro dirige a una tercera persona: historia de amos y ambientes pero, por sobre todo, historia de su formación, de su educación en la escuela de la vida, única conocida por el protagonista. En este sentido, es muy concreta la afirmación que hace en el Prólogo en cuanto a narrar la historia completa: “parecióme no tomarle por el medio sino por el principio, porque se tenga entera noticia de mi persona.” De esta forma, los episodios y personajes cobran un valor distinto al que apuntábamos cuando vimos la estructura externa. Nos interesarán, no por ellos mismos, sino por la acción que ejercen sobre Lázaro, por su contribución a la creación de una personalidad, de una conducta, de una visión en lo que es el mundo y sobre todo, de cómo se debe actuar en él. Como elemento clave de esta estructura aparece desde el comienzo la vivencia del hambre, de un hambre física, irresistible, que nunca se sacia. Ella constituye el motor de la acción, ya que anima al protagonista, lo mueve a actuar. Como personaje, podemos afirmar que Lázaro existe en tanto está hambriento. Por esto, en cuanto el hambre disminuye, el personaje empieza a perder peso, a desaparecer.
¿ES EL LAZARILLO UNA NOVELA PICARESCA?
Es tradicional vincular la novela con uno de los géneros narrativos que florecen en España desde fines del siglo XVI hasta mediados del XVII: la novela picaresca. ¿Pero realmente podemos tomar esta obra como tal? Para aclarar el punto debemos partir de una premisa simple: no hay novela picaresca sin pícaro. Las características de este tipo humano fueron resumidas así por el crítico alemán Pfandl: “El pícaro del siglo XVII es un mozo nacido casi siempre de padres pobres y de baja extracción, rara vez honrados, el cual por culpa de malas compañías o por falta de instrucción, al verse lanzado a la confusión de la vida y entregado a sí mismo, cae en la vagancia, se aparta del trabajo y lucha contra la vida como puede, con osadía y falta de escrúpulos, con engaños, malicias y malas artes… Su distintivo exterior es el aspecto andrajoso, pero no la deformidad física. Sus ocupaciones son, el pedir limosna, los bajos trabajos de ocasión, el vagar perezosamente de ciudad en ciudad… Su carácter ha sido envilecido por la ascendencia unas veces, siempre por el medio. La necesidad de vivir lo hace desvergonzado y sin escrúpulos… pero a pesar del hambre y los fracasos… no quisiera ser otra cosa que lo que es, y no cambiaría su libre y despreocupada existencia por una sedentariedad honorable, a cambio de una cama y de un techo”. Si tomamos esta definición como base, es fácil concluir que Lázaro no es un pícaro y que solo coincide en los rasgos exteriores: mozo sin recursos que lucha contra un mundo hostil. Pero a partir de aquí, aparecen las diferencias. Lázaro busca vivir de su trabajo y en cuanto puede se establece en un oficio que le permita integrarse a la sociedad. Sus engaños nunca bordean la delincuencia, son resultado del hambre a que lo somete la misma sociedad.
En definitiva, no incluimos la novela en el rótulo de la picaresca, pero sí reconocemos que es un claro antecedente por la cantidad de coincidencias que se dan con las novelas picarescas posteriores. Veamos esas coincidencias: a) Utilización de la forma autobiográfica, es decir el protagonista relata en primera persona sus aventuras. b) Pintura de la sociedad que aparece a través de la narración, representada en personajes de distintas clases sociales. Intención doctrinal o moralizadora, que en ocasiones puede faltar. En el Lazarillo esto se hace evidente en el Prólogo y en alguna intervención esporádica en el texto, pero no entorpece la narración, como ocurre en las novelas picarescas posteriores.
Desde este nuevo punto de vista en que nos ubicamos con el protagonista, podemos dividir la obra en dos partes claramente distintas. Una primera, que abarca la mayor parte de la novela, donde Lázaro ocupa el lugar más destacado. El hambre campea abiertamente. Sobre Lázaro recae toda la acción. Las burlas y tretas a que somete a sus diferentes amos para llegar a comer dan lo mejor de la novela. Esta parte abarca los tres primeros tratados, aquellos en que Lázaro es autor de los hechos, pero también donde es más visible el arte de narrar en el autor. Una segunda parte, es a partir del Tratado IV, en que se produce una modificación en la actitud de Lázaro. Deja de ser actor de la acción para pasar a simple testigo de la vida de los demás y en algún caso, Tratado VII, de su propia vida. La razón del cambio está en que el hambre quedó saciada y se inicia el segundo proceso, el engrandecimiento material y social de Lázaro. Un hecho que prueba el cambio lo tenemos en el Tratado cuarto, con el fraile de la Merced, donde no se menciona ya la palabra “hambre”, pero sí dice que de él recibió “los primeros zapatos que rompí en mi vida”. Otro paso lo tenemos en el Tratado VI donde el dinero ganado por Lázaro es empleado no para saciar su hambre sino para “me vestir muy honradamente”. En definitiva, a partir del Tratado IV hay un debilitamiento de Lázaro como personaje protagónico para ingresar al conjunto de los demás personajes. El designio del autor se ha cumplido: la formación ha terminado. “Ha pasado –como muy bien lo dice el crítico Ángel Rama– de opositor en ese mundo en el que vive a colaborador y luego a integrante” desde el momento que ha logrado un lugar en la sociedad como sus amos. En términos de ritmo narrativo, surge de todo lo anterior, que no es el mismo el del comienzo que el del final de la novela. La marcha de la acción es lenta al principio, acelerada después y por último desbocada.  
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Letteratura in viaggio
Alla scoperta del Nord attraverso Hans Christian Andersen
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Ecco! Ora cominciamo. Quando saremo alla fine della storia sapremo più di quello che sappiamo ora, perché parla di un troll cattivo! Era uno dei peggiori, era il “diavolo”!
Questo è l’incipit di una delle fiabe di più ampio successo dello scrittore danese Hans Christian Andersen (1805-1875), di tale portata da essere impiegata ancora oggi, anche se in forme molto rivisitate.
Nato nel 1805 in una famiglia poverissima, è costretto a crescere nella miseria, resa ancora più opprimente dalla prematura morte del padre e dall’assenza di un’educazione scolastica. Desideroso di sfondare come attore o poeta, lascia la casa della madre per trasferirsi a  Copenaghen a soli 14 anni, convinto che lì inizierà la sua carriera artistica, la quale, in verità, si rivela un vero fiasco; rifiutato ovunque, riesce solo nel 1822 ad accaparrarsi un mecenate, il direttore del Teatro Reale Jonas Collin, il quale finalmente gli finanzia gli studi.
Ha 17 anni la prima volta che va a scuola.
Terminati gli studi, necessari per acquisire una scrittura fluida e diventare padrone della lingua, inizia la sua carriera letteraria, dapprima traballante, ma, dopo alcuni viaggi al di fuori della patria che gli consentono una visione più ampia del mondo, i suoi scritti raggiungono la fama: il romanzo L’improvvisatore, pubblicato nel 1835, è un successo europeo. E mentre alcuni esponenti della critica, tra i quali lo stesso Kierkegaard, lo screditano come scrittore, è proprio nello stesso anno che inizia la sua smisurata produzione di fiabe e storie, le stesse che lo consacreranno come autore immortale mentre è ancora in vita.
A destare tanto interesse sono senza alcun dubbio sia le tematiche che traspaiono dai suoi testi, così ricchi di allusioni verso il diverso e ciò che è ambiguo, sia la sua destrutturazione dei canoni della fiaba fino alla creazione di una vera e propria “anti-fiaba”, nella quale i personaggi non sono vaghi, ma persone vere e proprie, che agiscono nel mondo reale, spesso in luoghi noti o riconoscibili e che difficilmente riescono a guadagnarsi un lieto fine; la morte è sempre presente nelle sue opere, anche nelle più dolci. Tanta innovazione non è un frutto del caso, ma deriva da un forte autobiografismo. C’è tanto di Andersen e della sua vita personale, la quale fu tormentata a causa del suo poco apprezzabile aspetto fisico, delle delusioni amorose, della latente omosessualità, delle umili origini in cui aveva vissuto e da cui cercava di distanziarsi e del suo sogno infranto di diventare un attore; da qui i suoi toni più tetri, i suoi continui riferimenti al doppio e all’ambiguo e la scelta di inserire spesso il tema del diverso.
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Infine, una grossa fetta del successo è dipesa dall’oculato studio del pubblico che ha sempre caratterizzato l’autore. Egli era solito circondarsi di amici ai quali leggeva in anteprima le sue storie: nel mentre, teneva d’occhio i presenti, osservandone le reazioni, quindi andava a modificare la fiaba prima di farla pubblicare, aggiustando quelle parti che non avevano destato l’interesse desiderato.
I fiocchi di neve diventavano sempre più grandi, alla fine sembravano grandi polli bianchi; d’un tratto fecero un balzo da un lato, la grande slitta si fermò e la persona che c’era dentro si alzò, la pelliccia e il cappello erano fatti di neve; era una donna alta e snella, di un bianco splendente: la regina delle nevi.
Pubblicata per la prima volta nel 1844, La regina delle nevi è tra le sue fiabe più famose e più interessanti. I temi predominanti sono il viaggio, compiuto dalla protagonista Gerda che vuole ad ogni costo ritrovare il suo amico d’infanzia Kay, rapito dalla regina, e la visione del Nord, la meta della bambina. Qui l’autore, infatti, ci concede una visione attraverso gli occhi degli stessi danesi, già considerabili come nordici. A mano a mano che la bambina prosegue nel suo cammino farà la conoscenza di personaggi estremamente pittoreschi, i quali incarnano diversi stereotipi degli abitanti delle regioni più fredde. Appena fuori Copenaghen Gerda incontrerà una donna all’apparenza gentile, la quale si rivelerà una strega che non vuole lasciarla proseguire. Di seguito, sarà la volta del principe con la sua consorte, indubbiamente gentili e prodighi nei suoi confronti, ma freddi tra loro e decisamente anaffettivi, a cui seguirà una figlia di briganti, rude e violenta, ma anche in grado di provare compassione. Gli ultimi due incontri lungo la strada sono la donna lappone e la donna finnica e, mentre la prima è tanto bizzarra da scrivere un messaggio su uno stoccafisso secco, la seconda riesce a stupire ancora di più, presentandosi seminuda, sporca e in una casa fatta a sauna; proprio loro, tuttavia, saranno decisive per la bambina, fornendole un aiuto essenziale per il suo proseguimento.
L’ascesa verso il Nord, dunque, viene rappresentata con un’escalation di personaggi sempre più distanti dai canoni dell’abitante di città, eppure a mano a mano che la follia cresce aumentano anche valori come l’empatia, la solidarietà e l’amore per il prossimo.
Il finale di questa fiaba, indubbiamente lieto, viene, ad ogni modo, stemperato da una morte decisamente inaspettata e inutile ai fini della trama: si tratta della cornacchia, uno degli amici che Gerda si era fatta lungo la strada. Questa nota lugubre è sufficiente per rivalutare quanto appena accaduto, ponendo in evidenza per il lettore tutte le sofferenze che la protagonista ha patito per riavere il suo Kay e quanto le è costato il viaggio; tutta la propria infanzia.
Entrarono e andarono verso la casa della nonna, salirono le scale, e si ritrovarono nella stanza dove tutto era rimasto come prima: l’orologio diceva “Tic!Tac!” e la lancetta girava; ma quando varcarono la porta sentirono di essere diventati adulti.
 Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia: Hans Christian Andersen's correspondence, ed Frederick Crawford 6, London. 1891 H. C. Andersen, Fiabe e storie, Feltrinelli Editore 2016 R. Lepage, Bedtime stories, The Guardian 19 July 2006
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gregor-samsung · 5 months
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“ La Fratesi è bruna, giovane, tutta bella, e una tenerezza sempre vicina al pianto. Ha una voce femminile con una incrinatura di umile, di chi non può essere consolata benché ne abbia tanto bisogno; una volta sola l'ho vista ridere e pareva un miracolo di umana bellezza. Racconta che il marito di notte, mentre ella dormiva, la svegliava e le ordinava, cosí in camicia, di scendere senza far rumore in cucina. Quivi giunti egli la picchiava dopo averla fatta mettere in ginocchio, preferiva batterla nella testa e di piú ancora nelle tempie, qualche volta sveniva. Ho conosciuto il marito, che l'è venuta a trovare l'altra mattina; ha infatti un volto pallido di iroso degenerato. La svegliava la notte mentre essa dormiva serena, probabilmente sarà stato chino su di lei, prima di svegliarla, a guardarla e a pregustare. Tempo prima la picchiava nella stessa camera, ma siccome la madre del marito, la suocera, che dormiva vicino, era risvegliata e veniva a domandare che succedeva e poi rimproverava il figlio, allora, perché la vecchia non udisse, scendevano in cucina, che era al piano sottostante e, le porte chiuse, ogni rumore giungeva attutito. Del resto lei non si doveva lamentare. Poi il marito, dopo le percosse, usava di lei. La Fratesi è ora qui ricoverata per malinconia, ciò non toglie che tutto questo sia vero. Bella e pietosa non si lamenta, né rimprovera o inveisce contro il marito che cosí la usava. Solo gli occhi le si fanno piú grandi, nella bocca una leggerissima amarezza, che subito viene cancellata da un sorriso colmo di perdono, e sembra che sia sul punto di aggiungere che il marito forse aveva le sue ragioni. “
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, introduzione di Geno Pampaloni, A. Mondadori (collana Oscar n° 90), 1969²; pp. 74-75.
[1ª Edizione originale: Vallecchi, Firenze, 1953]
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Perché leggere Paolo Nori
Oggi al Tg1 ho imparato che di gelato, gli italiani, ne mangiano molto, soprattutto in estate. I maggiori consumatori sono a Roma e a Napoli.
(Questo incipit è dedicato a quelli che dicono che su questo blog non si devono mischiare gli argomenti futili a quelli seri).
Ora veniamo all’argomento del post. Vorrebbe essere la recensione di un romanzo.
In vacanza ho letto l’ultimo libro di Paolo Nori, I malcontenti, uscito a marzo di quest’anno.
E’ da tanto che volevo scrivere qualcosa su questo scrittore, uno di cui, quando dico a qualcuno che mi piacciono molto i suoi libri, non so mai spiegare di cosa parlano. In pratica Paolo Nori nei suoi romanzi racconta sempre di sé, fa una sorta di autobiografismo estremo (o almeno ha l’aria di fare questo: io non lo conosco personalmente); alle sue vicende di scrittore/traduttore alterna, con ritmo a volte quasi frenetico, talora con una lentezza e una ripetitività estenuanti, brani di vicende che lo coinvolgono meno direttamente. Nel romanzo Noi la farem vendetta era una ricerca sui morti di Reggio Emilia; nei Malcontenti si tratta dello sgretolarsi della relazione tra due suoi giovani vicini di casa. Il titolo del romanzo si riferisce a un festival, quello dei malcontenti appunto, manifestazione culturale a cui i protagonisti lavorano, e che naufragherà in un insuccesso alla fine solo abbozzato, ma presagito fin dalla prima pagina.
Perché è da leggere? Perché nella scrittura di Nori c’è un mondo in cui immergersi, c’è uno sconclusionato rincorrersi di emozioni e suggestioni in cui non è possibile non riconoscersi (almeno, per me è così); perché è letteratura al massimo grado e nello stesso tempo è un divertente oggetto antiletterario, che sembra più parlato che non scritto; perché è quasi impossibile citarne dei brani che rendano l’idea di quello a cui andate incontro se lo leggete per intero (allora tanto vale leggerlo tutto); perché se leggete un po’ di recensioni in giro trovate chi lo esalta come genio della letteratura italiana contemporanea e chi quasi lo insulta perché lo giudica illeggibile, inconcludente, autoreferenziale, e hanno ragione entrambi; perché anche se molto spesso non succede niente, non racconta niente (l’intreccio, la trama, sono secondari), è come vivere insieme a chi racconta, è come vivere dentro il racconto, in una lunga straniante soggettiva dalla prima all’ultima pagina.
Ci tenevo, poi, a recensirlo su questo blog perché a un certo punto dice, a proposito dell’organizzazione del festival dei malcontenti:
Il pregio […], secondo Giovanni, era che a lui avevano chiesto di occuparsi di organizzare un festival, e che questa cosa lui non era assolutamente in grado di farla.
L’avevano, in un certo senso, preso per qualcun altro, e lui era molto curioso di vedere cosa saltava fuori.
… ed è un po’ quello che è successo a me quando mi hanno chiesto di tenere questo blog.
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gregor-samsung · 4 months
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“ Oggi ancor piú ho precisato il mio collega Brizzi: il suo sacrario è la famiglia, in lei ritorna candido; fa tutto per i figli, perché non soffrano, perché si istruiscano, perché il plebeo non li ferisca. L'uomo è come un buco dentro la terra, ogni volta che si scava piú profondo vien fuori altra sostanza e terra piú nera o piú scialba o ghiaia o roccia o squama e ogni volta è un mistero che genera meraviglia. Avevo sempre frequentato Brizzi qui al manicomio ed anzi mi era sembrato che piú volte avesse voluto praticamente indicare, a me piú giovane, le sue definitive conclusioni, cioè che gli uomini sono disposti al peccato, che è necessario adattarsi alla ferocia dei tempi, e chi si abbandona alla generosità è debole o sciocco; ridicola ogni speranza. Oggi è Natale, ero solo, non sapevo dove andare e non mi riusciva scacciare, mentre si avvicinava mezzogiorno, una sconsolazione che sempre piú mi pungeva come volesse farmi arrivare al pianto. Proprio lui, Brizzi, oggi, Natale, è venuto apposta al manicomio, mi ha cercato, mi ha invitato a casa sua, nella quale non invita nessuno. Gli sono grato. Tre ore sono passate fuggendo, cosa per me fino ad ora rarissima durante i pranzi dei giorni celebrativi. Il merito è anche dei suoi due figli, educati ammirevolmente e di anima limpida, Vincenzo e l'altro minore che ora, dopo essersi laureato in medicina, si specializza in pediatria. Il padre era cosí felice in mezzo ai suoi figli da divenire timido e rincantucciava le membra in un gongolamento che gli toglieva ogni pensiero. Il giorno di Natale, oggi, io solo come un cane da pagliaio, come la Lella che oggi ha mangiato col gatto e quando ha saputo che anch'io sono stato invitato si è messa a piangere, Brizzi mi ha detto di andare a casa sua e io ho sentito che era sincero e ci sono stato con quella felicità che si intende dopo che è passata. Ma dunque è sera, sono le sei e mezzo, fuori è il plumbeo cielo del Natale ormai scuritosi in notte, io ho fra ventidue giorni quarantatré anni e il Brizzi mi ha fatto testimone della sua battaglia: crede invece segretissimamente al futuro, segretissimamente violenta si risolleva la sua religione, la piú nascosta; forse ripete, tentacolando cieco, e nello stesso tempo chiarissimo, che dobbiamo iniziare dalla famiglia. “
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, introduzione di Geno Pampaloni, A. Mondadori (collana Oscar n° 90), 1969²; pp. 190-192.
[1ª Edizione originale: Vallecchi, Firenze, 1953]
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gregor-samsung · 1 year
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“ È scappata suor Maria Concetta, da tempo profumava gioia e amore, ne prorompeva; era bella, era uguale a Giunone, l'amore le aveva percosso il cuore, glielo aveva aperto. Tra le infermiere e il contado c'è un vocio fittissimo, scoppiettante di divertimento. Le suore del manicomio questa volta sono “alle basse”; questa volta non sanno con chi prendersela. Sembra che suor Maria Concetta, la giunonicamente rosea-bella, si sia innamorata di un impiegato che faceva servizio all'occasionale reparto degli alluvionati del Polesine, dove anche lei prestava la sua opera, e abbia con lui preso il volo. È uscita dal cancello del manicomio la mattina del 24 marzo alle otto e mezzo con una scatola sotto il braccio (che si dice contenesse un vestito). Il portiere ha notato che quando era sulla soglia ha avuto alcuni gesti di incertezza, poi è andata via; sembra che l'impiegato l'aspettasse a poche centinaia di metri. Ora tutti facilmente dicono: «Ce ne eravamo accorti! Era innamorata! cantava la sera ritornando dal reparto alluvionati, aveva una voce d'argento, era per amore diventata spavaldissima!». Questa stessa suor Maria Concetta, bella fuggita, è la medesima che, da poco arrivata, sognò sua sorella nella malattia e telefonò a Piombino, e poiché era vero, la Casa Madre le proibí di correre verso dove il suo cuore le dettava. “
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, introduzione di Geno Pampaloni, A. Mondadori (collana Oscar n° 90), 1969²; pp. 197-198.
[1ª Edizione originale: Vallecchi, Firenze, 1953]
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gregor-samsung · 10 months
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“ Stanotte dalle celle acutamente gridano le ammalate, le voci arrivano e penetrano dentro lo spiraglio della finestra di camera mia che ho lasciato socchiusa per il caldo. Sono voci acute, delle lame che diventano sottili e perforanti con qualche cosa di dolce e insieme di inutile; non chiamano, non si voglion far sentire da nessuno, voci che rispondono ai loro delirî; ogni poco si fermano come ascoltassero la risposta; a loro volta rispondono. È il 27 giugno, una notte già di silenziosa e fitta estate. Domani dunque ancora una volta vedrò la processione del Corpus Domini del manicomio. Tutti gli anni, al di fuori di quelli della guerra, ho visto, da quando son laureato, la processione dei matti, nel primo sboccio dell'estate, e ogni volta quello sfilare di folli dietro i preti ammantati mi ha portato a considerare la mia condizione. Ogni anno i matti, dietro il baldacchino, frastornati dai loro delirî, reietti dalla società, seguono in due file. Io, dietro le persiane, guardo. La Lella mi ha messo un tale sfolgorio di rose sopra lo scaffale dei libri che ogni volta che sollevo gli occhi e le vedo, sorrido sorpreso dalla felicità. La processione si è svolta placidamente e non è mancata la predica del frate dal terrazzo dove, ai tempi del Duce, si facevano i discorsi ai fascisti. La scena del discorso del frate davanti ai matti e alle matte e ai contadini dei dintorni del manicomio, vestiti a festa, se sofferta nella sua ironica-tragica realtà, avrebbe potuto essere un grande quadro. Non mancava nulla della stupidità umana, galleggiavano i sette vizi capitali, l'ipocrisia e l'ambizione in tal modo si davan l'abbraccio che era una morsa, la mediocrità era il sovrano, la servitú strideva acutamente. Intorno alla piazza vi erano gli alberi ricchi di foglie che seminavano una fertile ombra. Sulla destra, seduta in quell'ombra, inconsapevole forse della sua bellezza, c'era una ragazza, splendente di gioventú; aveva un vestito primaverile e sembrava aspettasse la felicità dalla vita (voglia il cielo che l'abbia). Il frate dal terrazzo, la barba puntuta come un sesso setoloso, abbaiava spergiuri. “
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, introduzione di Geno Pampaloni, A. Mondadori (collana Oscar n° 90), 1969²; pp. 68-70.
[1ª Edizione originale: Vallecchi, Firenze, 1953]
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gregor-samsung · 1 year
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“ L’altro giorno, a cena da amici, la figlia mi dice: Io non capisco come fai a mantenerti. Quanti matti ci saranno in città? Vediamo, dico io, proviamo a contare quanti ce n’è in questo palazzo. Quanti appartamenti ci sono in tutto? Venti, risponde lei. Bene, quanti matti conosci? C’è solo il pazzo del terzo piano, quello che parla da solo. Uno schizofrenico ce l’abbiamo, bene, ora dimmi: non c’è un tossicomane da qualche parte? Sí, al primo piano. C’è per caso una ragazza magra, magra che sembra uno scheletro? Giovanna, sul nostro pianerottolo. Non c’è uno che, sera e mattina, è al bar con un bicchiere di bianco in mano? Sí, Giorgio, quinto piano. Un etilista non poteva mancare. Ora voglio sapere, non c’è un signore scavato che esce poco, non apre mai la porta, è silenziosissimo e non si spinge nemmeno sul poggiolo tutto sporco di cacche di piccione? Sí, Silvio, al terzo piano. Beccato il paranoico. Passiamo ai depressi. Hai mai sentito un vicino dire: non andiamo al mare, mia moglie sta a letto? Sí, ultimo piano. Una sola depressa? Facciamo finta che sia cosí. Chiudiamo con l’Alzheimer: non mi dire che in tutto il palazzo non c’è una vecchietta che straparla e butta oggetti dalla finestra? Per la verità, sono due. Vedi, se si curassero tutti, potrei mantenermi solo con questo palazzo. “
Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi (collana Super ET), 2021¹; pp. 50-51.
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gregor-samsung · 1 year
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“ La Belaglia è una bambina bellissima di diciassette anni, la pelle bianca, lo sguardo che esce dai begli occhi dolcissimo e innocente. È snella, delicata e già con le tiepidezze della donna benché un qualche cosa avverta di una incapacità a completarsi, una maledizione che è dietro alla sua bellezza e sarà quella che vincerà (o forse perché so la sua tara e che la madre morí qui al manicomio e il fratello è nei “corrigendi” a Firenze). Quando questa ragazza è arrivata ha commosso tutte le infermiere per la sua dolce bellezza; essa non ha mai conosciuto la madre però sa che è morta qui e i primi giorni domandava alle infermiere se l'avevano conosciuta, come era fatta, come aveva gli occhi, cosa disse prima di morire ecc. Nella cartella che l'accompagna (essa proviene dall'ospedale psichiatrico di S. Salvi) c'è scritto che prima di essere ricoverata a S. Salvi era dalle suore dove si comportava benissimo, si dimostrava buona, intelligente e solerte negli studi; un giorno apparve confusa, come parlasse in sogno e sempre piú si alterò finché fu ricoverata; e da S. Salvi fu trasferita a Lucca, nel nostro manicomio, perché è domiciliata in provincia di Lucca, in un paese qui vicino, dove suo padre lavora la terra. I primi giorni che fu con noi non si distinse dunque che per la commozione che suscitava la sua dolce bellezza e i suoi davvero innocenti diciassette anni. Le domande che essa faceva su sua madre accrebbero la pietà e già si pensava di mandarla presto a casa, presso suo padre, che era venuto a trovarla e si era dimostrato affettuoso e delicato con la figlia, come uno che benché la pazzia gli abbia recato tanti malanni non rinuncia affatto né si duole di neppure uno dei suoi sentimenti.
Ma ieri la Belaglia ha cominciato a dire appassionatamente, ed ha continuato tutta la notte, con la sua tremante vocina che “è marcia, è in agonia” e mostra le due mani dicendole di un cadavere, che la sua orina è verde, e di nuovo aggiunge, con gli occhi piú belli per l'implorazione: «Sono in agonia». Anche stamani ripeteva queste idee deliranti stringendosi all'infermiera come avesse paura di qualche cosa di orrendo che ineluttabilmente si avvicinava. (Ho notato che le infermiere, molte delle quali non hanno figli, la curano con ogni garbo e, per esempio, la pettinano ogni mattina con tale cura che le trecce cadono morbide e perfette ai lati del collo, incorniciandola. E la fanciulla si presta a queste attenzioni come la pazzia non le impedisse di giudicare che alla bellezza si rende sempre omaggio.) Ho dovuto trasferire la Belaglia dal piccolo, quasi sempre composto, reparto osservazione, alla “vigilanza”. Timorosa, diffidente, verginea Maddalena che bagna di lacrime le trecce, mi ha ubbidito. Una ammalata, già molto anziana, del reparto osservazione l'ha seguita fino alla porta come le portassero via un tesoro. Immensa potenza della verginea bellezza! questa anziana malata stava sempre zitta, chiusa nella tetraggine e oggi, poiché le strappavano la fanciulla, lei sempre pallida, si è irrorata nel volto, e mi ha detto concitatamente: «Siamo sempre state insieme, non me la tolga!». “
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, introduzione di Geno Pampaloni, A. Mondadori (collana Oscar n° 90), 1969²; pp. 58-61.
[1ª Edizione originale: Vallecchi, Firenze, 1953]
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