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#atelier d’ora
hauntedbystorytelling · 6 months
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Madame d’Ora (1881–1963) ~ Hedy Pfundmayr in ‘Tanz der Salome’ (Richard Strauss), Vienna, ca. 1924 | src Ostlicht view & read more on wordPress On verso: “Wiener Foto-Kurier” agency stamp, label with text: “Hedy Pfundmayer (sic), Primaballerina de l’opera a Vienne comme (...)
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withinthesplendor · 2 years
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“I live life in the margins of society, and the rules of normal society don't apply to those who live on the fringe.” -Tamara de Lempicka
Atelier D’ora - Tamara de Lempicka, 1933.
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yama-bato · 3 years
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Atelier d’Ora ~ Benda :: Mrs. Karton wearing a turban, necklace, and wide bracelet of platinum gold threads designed by Suzanne Farnier, Paris, 1933. Published in ‘Die Dame’ 32/1933. | src and hi-res Getty Images
https://unregardoblique.com/category/madame-dora-atelier-dora/page/4/
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arsvitaest · 3 years
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Arthur Benda, Atelier d’Ora, Portrait of Emilie Flöge, ca. 1909
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From the Wiener Werkstätte archive at MAK, a dress designed by Eduard Josef Wimmer-Wisgrill and photographed by Atelier d’Ora, 1920.
(source: MAK)
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antonellapiroli · 4 years
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26 aprile 2020
Era il 9 di marzo: seduta sul divano ricevo un messaggio da mia sorella che dice “accendi la tv, c’è Conte che parla”. E’ vero c’è il capo del governo a reti unificate e sta annunciando a tutti gli italiani che il giorno successivo sarebbe scattato il lockdown per cui non si sarebbero potuti varcare i confini comunali. Lo studio che ho da un paio d’anni non è così lontano da dove abito, una ventina di chilometri raggiungibili in un quarto d’ora con la macchina, ma è situato in mezzo a un bellissimo paesaggio di campagna di un comune limitrofo al mio. Mi infilo le scarpe e il giubbotto sul pigiama e, senza neppure fare un pensiero, mi catapulto allo studio perché sono immediatamente attraversata dalla sensazione che avrei potuto non vederlo per molto tempo. Dovrei seguire più spesso il mio istinto e un po’ meno la ragione. Arrivata alla mansione che accoglie lo studio (fatico a ricordarne gli angoli, i particolari più nascosti) ripasso velocemente l’elenco stilato durante il viaggio in macchina delle cose che avrei dovuto potare a casa: matite, pennelli, spatole, colori acrilici (sì solo quelli, i colori a olio non li posso usare nel mio microappartamento), tutte le piccole tavolette di legno che sono già pronte per gli ex-voto che sto dipingendo (ma… accidenti! sono forse poche, ne devo tagliare delle altre. così faccio nella falegnameria della mia amica lì accanto zzz zzzz zzzz seghetto alternativo e via!), acquarelli, matite colorate. L’essenziale c’è e lo metto dentro una cassetta da frutta di legno che sta lì vuota come ad aspettare di essere presa, penso a come si possano essere sentiti i profughi costretti a scappare dalle proprie città, dalle proprie case.
Arrivo a casa in un misto di euforia e stordimento. Non capisco bene cosa stia succedendo in Italia e nel mondo, non posso più andare nel mio studio che, soprattutto in primavera e estate diventa fresco e bello e accogliente tanto che mi ci fermo spesso a dormire, devo riorganizzare la mia casetta dove vivo sola. E’ un’abitazione poco più grande di un monolocale e non mi offre una serie sterminata di scelte per il mio nuovo “atelier”, ma mi offre un tavolo da cucina grande. Ecco è lì che lavorerò nei prossimi giorni; riservo un angolino, ma proprio piccolo, per i pasti e stendo una tela cerata dove sistemo tutto quello che ho messo nella cassetta della frutta la quale, una volta svuotata, si presta a diventare il rialzo della lampada per il mio nuovo assetto da lavoro;  lascio intatto il posticino riservato alla mia fida caffettiera elettrica che mi fa ogni giorno, più volte al giorno, un caffè profumato e caldo.
Studio casa, casa studio, casa film in streaming dipingere, dipingere mangiare fitness, pensare piangere disegnare, dipingere ascoltarmi ascoltare la radio di notte, prendere decisioni sofferte dormire sognare, gioire al telefono con persone care lavare i pennelli, musica libri mangiare, caffè colori foto. Tutto in pochi metri quadrati, tutto intervallato da pochissime, brevi uscite dove, oltre a fare la spesa riesco a raccogliere qualche fiore spontaneo da rallegrare la mia tana. Tutto in un paio di mesi che sembrano un anno. Da ieri ho cominciato a sentire che si attuerà presto la cosiddetta fase 2 (di cui ho timore per tanti motivi) e so che presto potrò tornare allo studio dove ho lasciato tanti disegni, dipinti, libri, colori e materiali che saranno ora un po’ impolverati e uniti da sottili ragnatele (in campagna gli animaletti sono tanti e molto attivi e loro del virus non si sono accorti per nulla). Ho voglia di ritornarci, di aprire le finestre per fare entrare il sole e l’aria fresca, ma ho già nostalgia di questo periodo di clausura così pesante ma così ricco di momenti intensi e inaspettati. Penso che non smantellerò subito il mio studio da quarantena, mi ci sono affezionata, mi ha regalato dei piccoli tesori. Ma anche una volta smantellato rimarranno i lavori che ho fatto in questo periodo, i piccoli e colorati ex-voto. Qualche volta penso di essere una persona premonitrice: poche settimane prima dell’emergenza covid-19 mi ero decisa di realizzare le mie personali e intime tavolette votive.
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Atelier D’ora, | Tamara de Lempicka with a hat of Rose Descat, 1933.
© Private collection, Vienna
(via operetta-research-center.org)
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pangeanews · 4 years
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“In Gold We Trust”: dialogo con Marco Goldin, il Signore Grandi Mostre. Ha portato 11 milioni di persone davanti a Van Gogh, Vermeer, Monet…
L’arte è il racconto della vita e lui Marco Goldin, il Signore Grandi Mostre, emotività, pop e management ha passato la sua raccontare l’arte. Organizzando esposizioni, portando in Italia capolavori, scrivendo saggi, allestendo spettacoli teatrali. Maestri celebri, opere-icona, impressioni, Impressionisti e code impressionanti. Ogni mostra, un successo. Anni fa su Facebook spuntò un gruppo denominato «Quelli che vogliono diventare Marco Goldin». Alcuni critici contestano le sue scelte mainstream, ma lui tira dritto sulla sua linea, quella che parte da Treviso, dove è nato, nel 1961, e passa dalla laurea all’Università Ca’ Foscari di Venezia con tesi su Roberto Longhi scrittore e critico d’arte (110 e lode), lungo 400 esposizioni curate dal 1984 a oggi, attraversa la sua società di produzione di mostre – «Linea d’ombra» a là Conrad – e arriva dove vuole. Alla fine Goldin è l’unico che può ottenere certe opere da musei stranieri e certi finanziamenti dai privati. Di lui si fidano sindaci, direttori, collezionisti, prestatori, sponsor e pubblico. In «Gold» we trust.
Lui ha creduto nella passione e nelle arti-star. E unendole ha creato, a suo modo, un capolavoro. Portare tutti a vedere le sue mostre. Perché prima di essere le mostre su Van Gogh, su Gauguin, su Monet, le mostre curate da Goldin sono un modo di presentare se stesso attraverso i quadri di Van Gogh, di Gauguin, di Monet… Non sono mostre su. Ma mostre di. Marco Goldin. Uno che ti vien voglia di dirgli come Dino Risi a Nanni Moretti spostati, e fammi vedere la mostra.
Lei, le mostre d’arte, vorrebbero che le vedessero tutti.
Mi piace immaginare che le opere d’arte debbano essere appannaggio di un pubblico largo. E sono convinto che la cultura sia prima di tutto racconto e emozione, abbinati all’erudizione.
I suoi avversari storcono il naso davanti alle «emozioni».
Non è una guerra. Non ci sono avversari. Qualcuno separa scientificità e popolarità. Invece per me stanno insieme. Perché una mostra non può fare 300mila visitatori? Perché – invece che allineare uno dopo l’altro dei quadri – non creare un racconto?
Con le sue mostre ha raccontato i grandi temi del viaggio, dello sguardo, del paesaggio e della notte. Cosa sceglie?
Forse il paesaggio. Sono una grande sportivo, da quando avevo 15 anni. Mi alleno molto. Ciclismo, sci d’alpinismo, fondo. Discipline che ti preparano alla fatica e che ti permettono di stare a contatto con la natura. Amo talmente tanto stare all’aperto da ricercarlo anche al chiuso. Ho una passione per la raffigurazione della Natura. Ecco perché ho curato tante mostre sul paesaggio. Collego lo spirito e il lavoro.
Quando inizia per lei il racconto dell’arte?
Mia nonna dipingeva. A otto anni facevo il modello nel suo atelier, in un’altana veneziana di Treviso. Sono cresciuto respirando olio e trementina.
Da allora è stata una linea retta?
No, al liceo i miei interessi erano di tipo letterario. Scrivevo, leggevo poesia. Poi, iscritto a Lettere a Ca’ Foscari misi nel piano di studi Storia dell’arte contemporanea perché all’epoca con quell’esame potevi insegnare alle superiori, non si sa mai. Lì incontrai Giuseppe Mazzariol. Un professore molto particolare: entrava in aula un quarto d’ora dopo e andava via un quarto d’ora prima, ma le sue lezioni erano indimenticabili.
Il tipo di insegnante che ti affascina raccontando.
Ecco. Il suo corso era su Paul Klee, artista che peraltro oggi non amo particolarmente. Ma è lì che è iniziato tutto. Poi ho cominciato a scrivere per un settimanale di Treviso, città dove negli anni ’80 c’erano moltissime gallerie private: ogni settimana s’inaugurava una mostra. Ho iniziato così, frequentando i vernissage e i pittori. Poi ho cambiato piano di studi.
E la vita.
Sì, anche se in quel momento non lo sapevo. Comunque da allora l’arte è vita, passione, lavoro.
E business.
Nel mio lavoro ha avuto qualche successo, certo. In ogni caso non sono mancate perdite, anche pensati a volte.
Prima mostra curata?
Ottobre 1984, avevo 23 anni. In 35 anni di attività ho curato 400 mostre, cioè 11-12 all’anno, una al mese. Ma la media è così alta perché quando ero più giovane e lavoravo soprattutto sulla pittura italiana del ’900 tenevo un ritmo di 30-35 mostre all’anno, contemporaneamente su più sedi, pubblicando anche il catalogo. Me ne rendo conto: era una follia. Da tempo ne faccio una, al massimo due all’anno.
Curriculum?
Dal 1988 al 2002 ho diretto la Galleria comunale di Palazzo Sarcinelli a Conegliano. Dal 1988 al 2003 ho curato molte esposizioni per la Casa dei Carraresi di Treviso. Dal 1998 ho iniziato un ciclo di grandi esposizioni nel Veneto, Torino, Brescia, Bologna, in particolare sulla pittura francese dell’Ottocento. Ho insegnato allo IULM di Milano. Dal ’91 al ’95 ho scritto recensioni per il Giornale, con Montanelli e con Feltri.
Nel 1996 fonda «Linea d’ombra».
È la mia società che si occupa di organizzare mostre sia di ambito nazionale che internazionale.
Quanti visitatori, da allora?
In 23 anni 11 milioni di persone in tutto. Ho ottenuto prestiti da 1.200 fra musei, Fondazioni e collezioni private di tutti i cinque Continenti, per un totale di oltre 10mila opere portate in Italia, di 1.054 artisti diversi. Per nove anni una delle mie mostre è stata la più visitata d’Italia. E per quattro volte si è classificata tra le prime dieci più viste al mondo.
Numeri record, ma che non le sono stati perdonati.
Invidia? Chissà, qualcuno mi ha fatto passare come quello che ha banalizzato l’arte, ma ci sono in giro tante mostre pessime eppure nessuno ha avuto critiche così feroci.
Ci soffre?
No. Mai fatto mostre per calcolo, solo quelle che mi piacevano.
Il suo secolo d’elezione è il ’900.
In ambito italiano sì. Ma le più note restano quelle su Monet, gli Impressionisti, Van Gogh…
Alla Gran Guardia a Verona ha appena inaugurato “Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky”.
È l’esempio di quanto la passione prevalga sul business. Così come quella su Rodin lo scorso anno. Organizzare una mostra su Giacometti è antieconomico. Produrre questa mostra costa due milioni. C’è uno sponsor privato, che abbassa il rischio di impresa, pagando un quinto dei costi. Il resto dovrebbe arrivare dai biglietti di ingresso. Ci perderò…
Perché?
Perché tradizionalmente le mostre sulla scultura non funzionano. La gente ama guardare i quadri, non le statue.
Però la fa lo stesso.
È una mostra che sognavo da quando andavo all’università. Giacometti è il primo artista internazionale del ’900 che ha attirato la mia attenzione. È stato uno dei miei primi “amici” artisti, fin dagli anni dell’università quando giravo i musei di tutta Europa, e vedevo i suoi disegni prima ancora che le sue sculture. Di lui mi ha sempre colpito la sua forza della verità. Lui diceva: “L’arte mi interessa molto, ma la verità mi interessa infinitamente di più”.
Cosa significa?
Che prima devi essere una persona vera di fronte alle persone, agli oggetti, al paesaggio che vuoi ritrarre. E dopo, verso l’arte. Il risultato sono le sue sculture uniche. Le guardi, eccole qui: la Grande femme debout, L’Homme qui marche. Quella è la Femme de Venise che fu esposta nel 1956 alla Biennale di Venezia e che riscosse un successo incredibile.
Di critica. Ma perché al grande pubblico le sculture non piacciono?
Perché la gente ama il colore. E nelle sculture non c’è. Tutto qui. È il motivo per cui Van Gogh è stra-amato dal grande pubblico e Giacometti nonostante le valutazioni stellari resta poco conosciuto. Da una parte un colore urlato, dall’altra una forma che fa pensare. Tra le due cose, dal punto di vista dell’empatia dello spettatore medio, non c’è gara.
E infatti nel 2020 farà un’altra mostra su Van Gogh.
A Padova, su Van Gogh e il suo tempo. Per farle capire come si può intercettare l’interesse del pubblico prima di aprire una mostra, le racconto questo. Sulla pagina Facebook di Linea d’ombra stiamo postando alcune foto delle opere che porteremo in mostra. Bene. L’autoritratto col cappello di feltro, stranoto, è stata la prima immagine pubblicata. Poi abbiamo messo in rete un paesaggio di Arles con i mandorli in fiore. La seconda opera ha avuto il doppio dei like rispetto alla prima. Cosa significa? Che tra un ritratto, anche iconico, e un paesaggio, suscita più emozioni il paesaggio.
È per questo che gli Impressionisti fanno sempre boom?
Certo. Perché gli Impressionisti hanno dipinto il paesaggio al suo grado massimo di bellezza.
“L’impressionismo e l’età di Van Gogh” del 2003 a Treviso totalizzò 600mila visitatori. Un record.
Nel 2005 presentai poi 80 Van Gogh e 70 Gauguin tutti insieme, una cosa da Metropolitan. Risultato: 541mila biglietti. A Brescia…
Per fare una mostra di successo cosa serve?
Primo: studiare.
Secondo?
Le relazioni internazionali. Spesso servono più dei soldi».
La sua prima conoscenza “giusta”?
Tanti anni fa. Un giovane curatore del Musée d’Orsay di Parigi, conosciuto qui in Italia, Radolphe Rapetti, che poi andò a lavorare a Strasburgo. Fu lui a presentarmi il direttore dell’Orsay, Henry Loyrette. Io stavo organizzando una mostra dedicata a Roberto Tassi, un grande critico dell’arte e grande scrittore, al pari di Longhi e Testori. Avevo in mente una grande mostra, con prestiti internazionali: tra l’altro Tassi, morto nel 1996, era molto apprezzato in Francia. Quando spiegai a Loyrette il progetto, mi disse: cosa ti serve? Prendi questo, un Cézanne, e questo, un Degas, e questo, un Monet… Tutti artisti sui quali Tassi aveva scritto molto. E così, io, piccolo provinciale di Treviso, me ne andai dal museo d’Orsay con in tasca la promessa di prestiti eccezionali. Successivamente Loyrette divenne direttore del Louvre…
E visto il successo della mostra su Tassi, fu più facile ottenere altri prestiti anche da lì.
All’estero ti giudicano anche sui numeri che fai. Portare a una mostra 200mila visitatori non è come portarne 50mila. Per i musei è un investimento in termine di immagine.
Eravamo arrivati al secondo fattore di successo. Il terzo?
Assolutamente la qualità delle opere: a volte si annunciano mostre con nomi altisonanti ma con quadri modesti.
E poi?
Certo, i grandi nomi aiutano, quelli che la gente riconosce. Monet, Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Renoir, Degas, Manet, Courbet… O Picasso, o Vermeer…
Vermeer. Goldin è «quello» che portò “La ragazza con orecchino di perla” in Italia.
Grazie alle relazioni internazionali costruite negli anni. Era il 2011. Mi chiama il direttore del museo Kröller-Müller di Otterlo, con il quale ho rapporti di amicizia da vent’anni. Mi dice: Lo sai che chiudono il museo Mauritshuis all’Aia per restauri? Per due anni faranno viaggiare una selezione delle opere in giro per il mondo. Ti interessa? Immaginati se non mi interessava! Faccio di tutto. Vado all’Aia. Mi dicono che la Ragazza andrà solo in Giappone e negli Usa. Occasione persa, mi dico. Poi però nel 2012 il direttore del Mauritshuis mi ricontatta dicendomi che hanno deciso di aggiungere una tappa, ma le richieste sono tantissime, però ricordandosi che ero stato il primo a farsi avanti mi offre la possibilità, a patto che la città fosse importante. E mi dà tre giorni di tempo. Sufficienti per accordarmi con Bologna. Dove l’ho portata.
A Palazzo Fava, nel 2014. Fu la «mostra delle mostre».
Battuto ogni record. In media abbiamo avuto 3200 entrate al giorno, e mai un giorno sotto i 2mila, nemmeno al lunedì. Fu la mostra più visitata nel 2014 con 342mila visitatori in soli cento giorni. E sì che gli ingressi erano contingentati per via delle dimensioni di Palazzo Fava.
Qualità, grandi nomi. E Il resto?
Il resto è comunicazione.
Campo in cui Lei è il numero uno.
Non lo sono, davvero. Però ho capito presto che la sola comunicazione istituzionale non basta. L’arte va raccontata al pubblico, e le mostre ai giornalisti.
Lei è stato il primo a non fare le conferenze stampa seduto, ma nelle sale con la stampa al seguito.
Se è per quello nel 2001 e 2002 per due mostre alla Casa dei Carraresi a Treviso noleggiai un aereo e portai cento giornalisti nei musei di Oslo e Edimburgo per vedere le collezioni da cui sarebbero arrivate alcune delle opere esposte. Da allora lo faccio spesso. Prima di aprire la mostra su Van Gogh a Padova, l’anno prossimo, porto tutti a Otterlo, in Olanda, al museo Kröller-Müller dove si trova una delle maggiori collezioni di Van Gogh al mondo.
Ripeteranno che sarà la solita mega mostra blockbuster. Molto d’effetto e poco scientifica.
E io ripeterò che invece si possono tenere insieme emozione e scientificità. Tra me e un erudito l’unica differenza è il modo in cui raccontiamo la stessa materia. E comunque, prima di criticare senza avere visto, meglio vedere e poi parlare. A Padova si vedranno prestiti assolutamente sorprendenti, altro che mostra blockbuster.
Dicono che Lei si prepara in maniera maniacale sia per curare una mostra sia per scrivere un saggio.
Per questa mostra su Giacometti ho preso centinaia di pagine di appunti. E poi vado sempre nei luoghi in cui gli artisti hanno creato, per provare a capirli meglio, per vedere le cose come le vedevano loro, per cercare un’empatia. Mentre preparavo la mostra sono stato al passo del Maloja tra la Val Bregaglia e l’Engadina: volevo camminare sui sentieri sui quali aveva passeggiato Giacometti, guardare i paesaggi che ha dipinto: il Lago di Sils, il ghiacciaio del Forno, i picchi coperti di abetaie… Solo se vedi quegli alberi snelli e slanciatissimi capisci da dove arrivano gli uomini e le donne filiformi delle sculture di Giacometti. È con questo spirito che nasce la mostra. E che la rende diversa da tutte le altre.
Oggi invece dicono che le mostre siano tutte uguali. Anzi: che l’Italia è diventata un mostrificio.
Un po’ è vero. E poi negli ultimi anni la qualità si è abbassata decisamente. Gli enti pubblici hanno sempre meno soldi, gli sponsor privati sono in fuga, portare grandi opere e grandi nomi in Italia costa troppo, si offre sempre meno, si fanno esposizioni con cinque opere belle e 50 modeste, il pubblico è meno invogliato, si riduce il numero di biglietti e l’intero circuito delle mostre va in crisi.
La sua mostra più bella?
Forse “America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo” al Museo di Santa Giulia a Brescia, 2007-08. Tre anni di lavoro, venti viaggi negli Usa: per raccontare il mito della Frontiera, degli spazi immensi, della vita degli indiani e dei cowboy, esposi 250 quadri prestati da 40 musei americani, più altrettanti pezzi fra fotografie d’epoca e oggetti rituali dei nativi. Una cosa mai fatta prima da noi. A una settimana dall’apertura della mostra c’erano già 80mila prenotazioni. Abbiamo chiuso a 205mila. La Tate di Londra e Amsterdam, sullo stesso tema, erano arrivati a 100mila biglietti.
Allora lei attivò una micidiale macchina di eventi per attirare pubblico: reading, film, concerti, testimonial: Mike Bongiorno, Dan Peterson, Battiato, Salvatores, Volo…
La comunicazione è importante. Ma non puoi comunicare il niente. Se hai qualcosa di bello, lo devi raccontare al meglio, tutto qui.
Luigi Mascheroni
*La presente intervista è la versione integrale di quella apparsa il 16 dicembre 2019 su ‘il Giornale’, in quel caso tagliata per ragioni di spazio, e pubblicata col titolo: “Posavo per mia nonna pittrice. Ora curo mostre da record”.
L'articolo “In Gold We Trust”: dialogo con Marco Goldin, il Signore Grandi Mostre. Ha portato 11 milioni di persone davanti a Van Gogh, Vermeer, Monet… proviene da Pangea.
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awesomecraftandarts · 5 years
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Madame d'Ora (Dora Philippine Kallmus) :: Ohne Titel, 1916. Vintage Gelatinesilberabzug. Im Negativ signiert und datiert. | src Lempertz
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praticalarte · 4 years
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Chi è Stefano Masili?
Stefano Masili è un fabbricante d’immagini, un fabbricante di sogni, questo è l’immagine che più mi affascina. Attraverso la mia personale fabbrica cerco di comunicare e sedurre attraverso le immagini che costruisco.
Che mestiere fai?
Ho sempre lavorato come Assistente Amministrativo nella Pubblica Amministrazione, ed è da qualche mese che ho terminato il mio ciclo lavorativo.
Da dove vieni?
Da Carbonia, dove peraltro sono nato, una piccola cittadina nel sud della Sardegna.
Come, quando e perché è iniziato il tuo amore per l’arte?
Ho sempre vissuto fra pennelli, pennini e inchiostri di china colorati. Nonostante siano passati diversi lustri, sento ancora l’odore forte, acre, ma piacevole, della china sulle mie narici.
Mio padre era un insegnante di scuola elementare; a quei tempi, parlo degli anni a cavallo fra la fine degli anni “50 ed inizio anni “60, i mezzi di sussidio, anche per le sole immagini, erano molto pochi e tutto era lasciato all’inventiva e alla creatività del “Maestro”.
Vedevo spesso mio padre creare i “cartelloni” illustrati per le lezioni dell’indomani.
Di volta in volta potevo osservarlo disegnare con le chine colorate il cartellone con la scoperta del fuoco o ancora descrivere la vita degli uomini primitivi e le loro abitazioni, altre volte erano cartelloni che indicavano le lettere dell’alfabeto e le immagini che meglio le potessero illustrare.
Tutto ciò mi affascinava e vedere che con un po’ d’inchiostro colorato e dei pennini si creavano e si materializzavano quei racconti fantastici, mi faceva sognare, ed è in quei momenti che ho deciso che avrei fatto di tutto per diventare un pittore.
Quando è cominciata quest’avventura nell’arte?
La mia avventura nel campo dell’arte ma diciamo pure infatuazione è iniziata sin da bambino. Quando dipingo, ed ho una tela sul cavalletto, la pittura è l’ostacolo più felice fra me e il mondo.
Cosa hai studiato e dove?
Dopo le scuole dell’obbligo, ho conseguito la maturità Scientifica e poi all’università mi sono iscritto, dando anche un bel po’ di esami, in Economia e Commercio; facoltà che ho poi abbandonato in quanto erano senz’altro gli studi più lontani rispetto alla mia inclinazione e personalità oltre che formazione.
Cosa ti ha spinto ad entrare nel mondo dell’arte e a seguire studi artistici?
I miei studi artistici, sono stati essenzialmente da autodidatta. Tuttavia ho avuto il grande privilegio di respirare i primi rudimenti artistici proprio a casa mia, attraverso mio padre. In seguito sono stato fortunato, durante le fasi di crescita artistica, ad essere circondato da amici pittori molto più anziani di me che mi hanno di fatto spronato ed aiutato a crescere stimolando in me creatività e passione. Ma uno degli aspetti più determinanti è stato il confronto sincero, diretto e costruttivo con questi amici pittori che nessuna scuola d’arte può insegnarti.
Come studente, qual è stata la lezione più importante che hai imparato?
Da un punto di vista tecnico ed emotivo è il capire ciò che si fa, osservare ed ancora osservare, essere umili ma non modesti. Tutto ciò ti permette di migliorare e correggere continuamente la tua esperienza artistica.
Come artista, cosa vuoi condividere con il mondo?
Attraverso la mia pittura mi basterebbe far innamorare chi osserva i miei dipinti e convincerli che oltre, il business, la TV, i cellulari c’è una una Città d’arte da scoprire, un Museo da visitare, una Galleria o Atelier d’arte da vivere con nuovi ed interessanti incontri a parlare sino a sera, della vita, dei quadri, della fascinazione dell’arte con un bicchiere di rosso fra le mani. Questo è il mondo che vorrei, molto più appagante dell’effimero. Bisogna solo scoprirlo e questo messaggio vorrei indirizzarlo sopratutto alle nuove generazioni.
Secondo te, da dove viene l’ispirazione?
Non credo eccessivamente all’ispirazione, viceversa credo molto nel lavoro, nella fatica del quotidiano e nel pensiero. Tantissimi sanno dipingere in maniera fantastica ma solo alcuni riescono a diventare artisti, la differenza sta nel cervello non nelle mani per quanto queste tecnicamente preziose possano essere.
Qual è l’elemento iniziale che innesca il processo creativo? E cosa ritieni sia più importante? Il concetto, l’idea espressa, o il risultato estetico e percettivo dell’opera?
L’innesco creativo è la voglia di raccontare, il sogno del bambino che con pennelli e colori inizia a dar vita alla sua favola. Fisiologicamente il risultato estetico e percettivo dell’opera, a mio avviso, è il tramite per significare il messaggio artistico che si vuole evidenziare quindi lo ritengo fra i più importanti rispetto a quelli elencati nella domanda di cui sopra.
Quale fase dell’arte / creazione ti colpisce di più?
La fase che più mi affascina nella creatività di un lavoro ovviamente è l’idea, il pensiero, la progettualità iniziale e il grande entusiasmo che fa da propulsore per domare la tela bianca. Detto questo, un’altra fase molto appagante, la ritrovo ai due terzi del lavoro; infatti qui si incomincia ad intravedere il risultato finale ma c’è il pathos che un movimento sbagliato, una scelta errata possa modificare ed annullare il sogno intravisto. Questa incertezza è vita, è adrenalina di cui un pittore si deve nutrire.
Cosa si prova a manipolare la materia per creare un’opera pittorica?
Forse la manipolazione, come la fase orale del bambino, è fra quelle più appaganti.
Sin da ragazzino, vuoi per i mezzi limitati vuoi per gli insegnamenti ereditati dagli amici pittori più anziani di me, mi facevano partecipe delle varie ricette per fare i colori con le terre ed i pigmenti, per fare il medium migliore senza spendere cifre folli, come costruirsi un cavalletto da studio o ancora come tirare i fondi delle tele a base di olio di lino cotto e cementite; e ancora di come costruire un telaio e fare il tiraggio delle tele senza pieghe.
Da sempre mi sono ingegnato a costruire e/o modificare, là dove fosse possibile, le varie attrezzature da utilizzare per la pittura.
Ricordo che andavo nei negozietti chiamati di “roba americana” dove compravo la tela di cotone al metro, quella di lino neanche a pensarci, poi passavo alla bottega del falegname dove mi facevo tagliare dei tavoloni di abete a listelli e qui s’iniziava il lavoro propedeutico al dipingere.
Nonostante sia passato diverso tempo, continuo con grande piacere a “fare”, trovo l’aspetto manuale del fare tanto gratificante quanto l’approccio stesso alla pittura.
Per me sarebbe impossibile pensare ad una espressione artistica senza la manipolazione degli elementi e i mezzi che sono propri della pittura ad olio. Non potrei mai farne a meno.
Cosa pensi del mercato dell’Arte?
Questo è un argomento che mi è assai caro. La Tecnologia e la globalizzazione oltre all’aumento della popolazione mondiale ha creato una pletora di cosiddetti “Artisti” che per avere il famoso quarto d’ora di celebrità cit. di Andy Warhol, e pur di non sottrarcisi si rivolge al famoso mercato dell“arte, per avere un diploma di Maestro d’arte, una coppa o medaglia da mettere nella vetrina del salotto buono e assurgere così al riconoscimento ufficiale di Artista che non si accorge di bere il veleno dell’apparente legittimazione.
Altro aspetto che non condivido è l’affitto del famoso “chiodo” o affittacamere per fare in modo che tutti possano ammirare le proprie “Opere”. Gallerie a pagamento e targhe taroccate per dare patenti artistiche false come i soldi del Monopoli.
Naturalmente tutto a pagamento; a pagamento puoi costruirti una carriera artistica senza mai aver preso in mano un pennello, questo mi far star male ecco perché è un argomento che voglio mettere in risalto.
A tal proposito posso portare la mia esperienza di cinquant’anni di esposizioni in Personali sia in Italia che all’estero senza aver mai avuto bisogno di pagare né una lira né un euro.
Le opportunità ci sono, bisogna saper pensare, essere onesti con se stessi, non prendere scorciatoie e stare col sedere sullo sgabello e lavorare al cavalletto.
Se ci sono riuscito io a non pagare alcunché, possono riuscirci anche gli altri perché non sono né uno scienziato e né Picasso.
Perché pittura ad olio? Cosa rende speciale questo mezzo per te?
La pittura ad olio è il mezzo espressivo per antonomasia, è la regina del mezzo pittorico, è la storia dell’arte ed anche la mia storia, la storia con cui ho cominciato sin da ragazzino a costruire i miei sogni.
È difficile discorrere d’arte senza parlare di sé. Quanto c’è della tua storia, dei tuoi ricordi, della tua vita intima, nelle opere che realizzi?
Negli anni, i miei lavori si sono sempre articolati secondo sequenze narrative: talvolta sono “Le Finestre”, nature morte che si affacciano sempre oltre, altre volte sono le figure, altre ancora le Archeologie Industriali.
Negli ultimi dieci quindici anni è il ciclo delle Agavi il progetto che mi affascina totalmente ed è dalle “mie” agavi che mi piace pensare di essere stato scelto.
Secondo te qual è la funzione sociale dell’Arte?
L’arte è un mistero che coinvolge tutto il genere umano, è luce; ed anche chi non ne condivide la scintilla ne resta comunque fascinato ed intrigato. Oltre l’amore, nella vita, non vi è altra cosa che catalizzi quanto l’arte stessa.
Cosa dicono le tue opere? Quali messaggi vogliono comunicare?
Più che Opere, mi piace chiamarli lavori … lavori che ho realizzato durante una fase matura della mia vita artistica. Il tema che accomuna i dipinti sono le agavi rappresentate nei diversi momenti della loro vita, candelabri scolpiti dalla luce, foglie turchesi e rami secchi intersecati come reticoli infiniti, memorie di vita, allucinazioni del reale e pretesti per incidere nella tela gli aspetti del percettibile.
Il significato originario del nome di questa pianta deriva da una parola greca che significa “nobile, rispettabile” e questa espressione è particolarmente appropriata alla sua vita, infatti, si adatta a terreni arsi dal sole eppure produce foglie carnose e maestose e infine fiorisce dopo circa venticinque anni terminando il proprio ciclo vitale con la morte, come naturale metafora della vita dell’uomo. In esse vedo forza, attaccamento alla vita e bellezza.
Se “La bellezza salverà il mondo – Dostoevskij” voglio avere occhi capaci di coglierla ed è questo che vedo.
Le forme dell’agave sono quelle sviluppate all’aria aperta, in piena luce e di essa si nutrono. Ho raccontato i toni e i mezzi toni che si confondono, i tagli netti scolpiti nella luce, le velature….. e poi dall’analisi del reale, nella mia narrazione, l’oggetto scompare e lascia il posto al mezzo pittorico in spazi imbevuti di luci e restano solo colore e forma.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Sempre e solo agavi.
Agavi sempre uguali e sempre diverse a volte create attraverso lo sguardo sognante di un bambino a volte attraverso lo sguardo visionario del folle ed è così che nascono agavi figurate, distorte, linee di solo colore o cascate carnose di verdi turchesi deformi.
Il mio progetto futuro è solo adesso e in questo momento vorrei dedicarmi ad un progetto espositivo in Spagna, ma i tempi non sono così imminenti, con una personale dove possa portare, dopo Germania, Francia ed Inghilterra la mia fabbrica d’immagini.
Grazie Stefano
https://www.stefanomasili.it/
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Stefano Masili Chi è Stefano Masili? Stefano Masili è un fabbricante d’immagini, un fabbricante di sogni, questo è l'immagine che più mi affascina.
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yama-bato · 3 years
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Atelier d’Ora ~ Benda :: Die Balletttänzerin Helene Jamrich mit einem Hut von Zwieback, entworfen von Rudolf Krieser, 1910. | Ballet dancer Helene Jamrich with a Zwieback (Twice baked) hat designed by Rudolf Krieser. | src Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg [+]
atelier d'ora – un regard oblique
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non mi fotte di 'ste troie
Tutte queste paranoie
Nodo in gola non è un collier, nah
No, nessuno me lo toglie
Nessuno, nessuna tranne te, eh
Nessuno, nessuna tranne te
E vieni da Marte mo stai qua per me
Un’opera d’arte, stai in un atelier
Cameriere porta un altro Cabernet, fresco in bello stile
Mi riempio di tossine
Ed ultimamente non ho fatto altro che soffrire
Cerco un lieto fine
Dormirei con te sul letto di endorfine
Dio mi maledica se ti lascio sola
Se rifaccio quello stesso sbaglio, se ci casco ancora
Con te posso dire tutto stando zitto (stando zitto)
Se ora stiamo insieme è perché è stato scritto
Toglimi da questi guai, fammi stare bene
Promesse da marinai sopra navi aliene
Verso un altro sole, questo non ci vuole
Baby andremo su Plutone, ho già acceso il motore
non mi fotte di ste troie
Tutte queste paranoie
Nodo in gola non è un collier
Io con te una cosa sola
Devi andare? Non ancora
Resta un altro quarto d’ora
Vedo solamente te, la mia supernova
Baby, con te posso dire tutto stando zitto
Stiamo insieme perché è stato scritto
Io con te una cosa sola
Vedo solamente te, la mia supernova
La mia supernova
Sdraiato sopra la tua pelle bruna
Mi sento il primo uomo sulla luna
E provo un atterraggio di fortuna
Quando ritorno a casa all’una e con i fatti miei
'Sta stanza è una galassia buia quando non ci sei
Se a casa ci sto poco ora ne senti il vuoto
Cadi in picchiata tra le braccia mie, mayday
Astronauta con te supernova
Con le altre figlio di puttana, con te super lover
Con te che sei sicura e credi alla fortuna
E non so perché sei superstiziosa
Non sei lassù per caso, quindi sei giù per cosa
Abbiamo visto spegnersi le stelle attorno a noi
Ma questi buchi neri non ci inghiottiranno mai
Anche se non ti vedo quando non c’è luce
Sento l’eco del tuo battito a distanza di anni luce
Io e te complici della stessa materia
Chiediamo il meglio di noi quando viene sera
In un letto che assomiglia all’universo con te al centro
Nessuno può dividerci come lo spazio e il tempo, no
Io con te una cosa sola (una sola)
Devi andare? Non ancora (non ancora)
Resta un altro quarto d’ora (quarto d'ora)
Vedo solamente te, la mia supernova
Baby, con te posso dire tutto stando zitto
Stiamo insieme perché è stato scritto
Io con te una cosa sola
Vedo solamente te, la mia supernova
La mia supernova
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Model photographed by Atelier d’Ora, 1921. From the Wiener Werkstätte archives.
(source: MAK)
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suzylwade · 6 years
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Madame d’Ora Kallmus soon set her sights beyond Austria, spending her summers in Berlin and Karlsbad seeking out new patrons, before achieving her lifelong dream of opening a Paris studio in 1925, at the height of the cultural fever-dream that was that city in the 20s. It was a turbulent time for Kallmus. Business was booming, with Josephine Baker, Maurice Chevalier and Gabrielle Chanel appearing in her pictures and high profile fashion magazines commissioning her to shoot stories. But her assistant Benda had abandoned her, returning to Vienna to take over her studio and changing its name to ‘Atelier d’Ora-Benda-Wein’. Following this betrayal, the two never spoke again. It wasn’t only her gender that separated Kallmus from her contemporaries. Her portraits exuded energy, imagination and often sensuality, their subjects emerging from behind formalised poses to express personality and verve, while her vibrant fashion photographs helped nudge the publishing industry away from illustration for good. She loved working with dancers – capturing their grace and celebrating their physical freedom on film at times directing this liberated energy into her more formal portraits. 'Make Me Look Beautiful, Madame D’Ora!' is at the Leopold Museum, Vienna, until October 29, 2018. #neonurchin #neonurchinblog #dedicatedtothethingswelove #suzyurchin #ollyurchin #art #music #photography #fashion #film #words #pictures #neon #urchin #dorakallmus #photographer #vienna #arthurbenda #highsociety #artists #dancers #performers #portraiture #austriasfirstfemalephotographer #atelierdora #madamedora #leopoldmuseum https://www.instagram.com/p/BmkoexElIgB/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=49zjm09fluyu
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