Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento
“Attenzione, sozzi professionisti fascisti dopo il delitto Matteotti e antifascisti dopo la morte di Mussolini, […] turpi spie del governo fascista (e di tutti i governi), vecchi sporcaccioni cornuti fino al midollo della vostra fronte sfrontata, attenzione, c’è sempre qualcosa (anzi c’è sempre tutto!) che il vostro cervello privo di immaginazione, con la vostra fantasia da elefanti, col vostro cuore ateo, con la vostra cultura inesistente e con quella vostra erudizione, che persino il genio di Manzoni non sarebbe riuscito a percepire, attenzione… c’è sempre qualcosa, per tutti, e anche per voi ci sarà… prima e dopo la morte! […] Voi […] non andrete né in Paradiso né in Purgatorio… qui, in questa terra brucerete, come si brucia all’inferno e poi, dopo, come avete fatto nella vita, non saprete nulla, non soffrirete, avrete un solo ricordo: quello di far schifo ai vivi.”
Parole di fuoco di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento, le cui pagine si possono forse riassumere in un distico – “Vorrei tu mi armassi la mano / per incendiare il piano padano” – che sembra saltare fuori direttamente da una ruvida salmodia dei C.C.C.P., il gruppo punk di Giovanni Lindo Ferretti – e curiosamente, rarità per il poeta, il tu cui si rivolge è il Signore – e salta invece fuori da un colpo di macchina da scrivere, o di penna impugnata, con la mano sinistra, come un revolver – due oggetti d’acciaio, due cose solide, per dirla con Fuoco fatuo – in una stanza modenese, anno 1958, di grazia, o disgrazia, che è quella che sente Delfini, e la frizione sulla carta deve aver prodotto non faville ma fiamme, quel giorno…
Niente padre, infanzia agiata, bisnonna naturale Marietta Pio di Savoia – “che abita vicino a Crevalcore, ma dentro i confini del ducato di Modena”, specificava –, figura snella ed elegante, calvizie precoce – come questo terzetto da amare: Oswald Spengler, Pierre Drieu La Rochelle, Henry Miller –, umore malinconico, indolente e rivoltoso (“tifiamo / tifiamo rivolta / nell’era democratica / simmetriche luci gialle e luoghi di concentrazione / nell’era democratica / strade lucide di pioggia splende il sole” – cantava Ferretti), non è andato a scuola e non ha letto i classici, spirito agonico e quasi agonistico, che infatti si voleva atleta ma prevalse il dandy baudelairiano, “funereo” – scrive Marcello Fais che ha curato il volume delle poesie complete per Einaudi –, il passo dondolante del nullafacente o, per meglio dire, di chi non sapeva davvero cosa fare e visse – parole queste dello stesso Delfini sugli anni trascorsi tra la sua Emilia e Firenze –, con “la paura di non arrivare in tempo a vivere, di non sposarmi, di non avere figli, di non vivere una vita dignitosa”; e per la scrittura.
“Al di qua di ogni letteratura” era la scrittura di Delfini, poesia centellinata ma debordante, esito del sentire saturnino delle antenne più dritte sulla sventura che si chiama Italia e che la sciagurata Italia abbia avuto assieme forse a Giuseppe Berto e Pasolini.
La sventura di Modena, di Parma, di Bologna, di Ferrara, “(la quale – ove la storia d’Italia fosse andata diversamente con minor nume rodi avventurieri stranieri e più amore, competenza e lealtà per le cose proprie – potrebbe essere oggi la capitale d’Italia)”.
La disgrazia di tutta la penisola, “Italia, mia patria assassinata”, scrive Delfini, che per la sua terra sognava, come alternativa più ovvia alla più romantica Ferrara, Reggio Emilia capitale, perché città in cui fu inventato il tricolore della Repubblica Cisaplina.
“Sarai d’Italia capitale / perdere Roma sarà poco male”, recita infatti un altro distico letale, nella poesia di È morta la reazione; Roma capitale di una società sempre più inumana, “l’inumanesimo italiano”, come lo definisce il poeta in rottura col disumano:
“Ma ciò che io combatto e col quale intendo rompere ogni rapporto è il disumano. Intendo per inumano ciò che è contrario all’uomo, che non essendo più imano è tuttavia incluso nell’umano. Insomma l’inumano è un uomo che finisce, o può finire, all’inferno. Il disumano è in vece ciò che è fuori dall’umano […]. In poche parole: è il diavolo. Il disumano può circolare fra noi, per via della nuova moda italiana dell’inumanesimo. Il disumano può circolare, ripeto, travestito da essere umano; può circolare, però soprattutto, nell’aria, nelle parole, negli oggetti, nel disegno degli architetti, nei frutti degli speculatori inumani […]; quando le donne che incontriamo non sono più né belle né brutte, ma provocanti, arrapanti, fredde o calde […]; quando più niente corrisponde alla verità del passato o dell’avvenire, e il presente vive senza rapporti e senza confronti.”
E stando a Delfini il disumano è il diavolo che tenta di vincere, e che in Italia ci riesce almeno dal 1935:
“Tornava fuori, nel 1935, il carattere sozzo, strozzinesco e delinquenziale di gran parte di quegli italiani cittadini che, falsi innamorati della vita, e consci della loro povertà senza America, intendono comechessia farsi la vita e l’avvenire col bagno, l’automobile, le troie e i gioielli. Questo gusto da sciacalli, più che da lupi da tigri e da leoni, gli italiani ce l’hanno nelle ossa fin dai momenti migliori della grandezza di Roma, affinato con le invasioni dei barbari, diventato costituzionale con la servitù allo straniero, portato al delirio fanatico degli alti ideali col fascismo, e caduto in un puzzo graveolento da rendere irrespirabile lo stesso dolce clima dell’Italia, proprio ora, nel momento in cui i migliori, i pochi italiani, attendono con ansia l’inizio (soltanto l’inizio) di una resurrezione del senso morale e artistico della Patria”.
Delfini amava e odiava l’Italia, la detestava in modo viscerale perché avrebbe voluto poterla amare, cosa impossibile a simili condizioni, lui, scettico alla Cavalcanti, alla Pound, prossimo a Cervantes e Rimbaud, a Unamuno e Campana, e che in sé voleva “Napoleone, Bach Manzoni, Leopardi, Cavalcanti, Machiavelli, Goldoni…”, per possedere davvero una visione totale. Ma che si sentiva sfiduciato, disorientato di fronte alla realtà, seppur solidamente agguerrito, membro con Zavattini e Guareschi, di una mai vista brigata del risveglio padano, lui, un po’ comunista, conservatore e reazionario, certo non in senso latino, mussoliniano, né progressista né rivoluzionario, di sicuro ribelle disimpegnato che fece del disimpegno il suo vero impegno.
Le sue uniche vere lotte civili, a parte un tentativo di candidarsi nelle liste di Unità popolare, solo in funzione antagonista alla legge maggioritaria che per lui evocava ciò di cui non ne voleva più sapere – ossia il fascismo –, furono infatti la fondazione tra Viareggio e Bologna, tra il 1927 e il 1929, di un paio di periodici indipendenti, come recita il sottotitolo de Il Liberale, immediatamente soppressi dai fascisti, ma soprattutto la battaglia, tutta sua, donchisciottesca e di campanile, per la Certosa di Nonantola…
Non ha letto i classici, Delfini. È come spesso gli capita a Viareggio, lui che sempre bazzicò il quartiere Marco Polo, il Forte dei Marmi, il Fiumetto, la Versilia ancora dei letterati… Passeggia con un amico, che gli racconta che la Certosa resa famosa dal romanzo di Stendhal, che non ha mai letto, non è a Parma, bensì a Modena… Non ha letto i classici, Delfini. S’incuriosisce, ma, annoiato, si ferma a pagina trenta del libro di Stendhal, e che desidera è solo di dimostrare che la certosa era quella di Nontantola…
Da qui l’ultima opera, uscita nel 1963, poco prima della morte, Modena 1831, la città della Chartreuse.
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Baudelaire padano, Delfini è il più grande lirico dopo Campana, è poeta senza l’ombra di un epigono, campanilista figlio di una depressione ambientale – ovvero la pianura –, di una terra di gente pragmatica e sognatrice, ruvida e molle, indolente, contadina e insieme aristocratica, calma ma anche subito pronta alle ebbrezze, ad allentare i freni inibitori, come nel suo stesso cantare, secco, carico, teso, a volte dolce, a volte delatorio, spesso prossimo a un turpiloquio in cui il manierismo si fa stile “céliniano”…
Una poesia lirica, con spunti stilnovisti, romantici e crepuscolari, dadaisti, certo, ma di un “dada” che è tutto assolutamente emiliano, e che non poteva che esser “Mamama”, e “Mamama non polemizza: provoca. Mamama non ingiunge: disguida”, e che non può che produrre sillogismi pazzi qu anto lucidi, tipo: “Che cos’è la patria? La patria è un villaggio. Che cos’è un villaggio? Un agglomerato di imbecilli. Che cos’è un imbecille? Un uomo che può vivere nel villaggio e non può leggere Mamama”… Voilà!
Una poesia spesso sghemba e sgrammaticata, non da accademia ma da bettola, fatta per offendere, per perturbare, per distruggere ma anche per amare, l’amore rivolto a una donna sognata più spesso che a una reale, o alla patria (in Avvertimento, avverte di essere “lo straniero”), lui che si sente ormai apolide (un po’ come Papini, come Gadda, come Montale), ma sanguigno di un sangue che sente le proprie radici anche nelle flânerie incessanti, non solo nelle città ma tra le città emiliane, versiliane, e Firenze, e Roma.
Una poesia di passeggiatore; quale era da ragazzo incantato dal francese; una lingua in cui gli capita di scrivere versi (“On se souvient de Baudelaire la nuit / dans le train en traversant notre Emilie” – “Je suis un poète flâneur et débauché / je tiens mon poing en air”); e di dandy indolente (“È bene scrivere sempre / così si dice, / ma è tanto bello dormire”); e di girovago ozioso (“Quando verrà quel giorno / tanto desiderato / nella mia vita oziosa”); e a volte sonnolento, “disteso sul letto a immaginare speranze” e “talmente fissato in una tragica svagatezza”; come nella pesante delusione che fu Firenze; fuggiasco nel silenzio; esule della solitudine. E che in prosa ha sognato: “potessi partire, ma partire come non è mai partito nessuno, andarsene senza un addio, senza un ricordo”. E che in poesia ha ribadito: “Tra Secchia e Panaro è disceso l’oblio / altri fiumi, altri cieli, altri monti, / non diranno che cosa ero io”.
Ovvie le fughe rimbaudiane. Ovvia una scappata a Parigi. Da cui a Modena finge d’importare il surrealismo, Modena in cui vive la sua bohème (“Mi ero lasciato trascinare in minimi e ingenui bagordi da una compagnia di giovinastri rumorosi e goderecci, coi quali correvo letteralmente le strade, le piazze e i teatri” – “mi permettevo di creare satire ai costumi del tempo, figurate e verbali, di una tale comicità, improvvisate sulla pubblica via in qualunque ora del giorno e della notte”), in cui è “snervato da una vita ignobile e eccitato dai vini e liquori”, facendo “esperienze di vita, sofferte e godute di mia sola iniziativa”, esperienze originali e complicate, le quali lo distinguono dai suoi “compagni di trastulli notturni che definisce con sprezzo fats de café…
Era il 1933 circa. E Delfini non gridava solamente gli ovvi “Viva la figa!” e “Viva le tagliatelle!” ma anche “Abbasso il Duce!”. Erano i tempi di Ritorno in città, autoedizione di successo, ma anche di progetti di amori e pure di matrimoni. Ma nulla di fatto.
Da lì in poi, il poeta inizia ad assumere l’aria di un Petrarca allucinato che non riesce, o meglio non può trovare, in quella Italia che lo ripugna e che si rispecchia nelle donne, una Laura o una sposa (“le spose che sognai son morte”), la donna, la femmina che sia una musa, (“con la storia dei miei amori sapevo di non avere un avvenire di amante come si rispetti (era fallito in me l’amante mio originale, un tipo che stava tra Leopardi e D’Annunzio)”), vittima degli orrori di un paese ormai semprepiù allucinante.
Erano i tempi della sua Modena, di idee di libri, di abbozzi di racconti e di versi, dei quali scriverà poi: “A ripensarci dico che se avessi allora tenuto un journal non avrei potuto avere il tempo di vivere, né l’estro di creare, quei veri racconti, vivendo i quali non ho avuto il tempo di scriverli. Nei momenti di riposo di quella vita veramente intensa e attenta scrivevo delle frasi sui biglietti del tram e del cinema, sulle scatole dei fiammiferi e delle sigarette: li conservavo.” Per lo scrittore sono anni di fermentazione…
E anni di spettri della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, rivolta e inerzia, voluntas e noluntas, e fuga…
Un tema che davvero merita lunga una serie di citazioni: “Povero ragazzo / pieno di fantasie / verso la scuola arida e perduta // E tra la nebbia / ombra indecisa / guardavo avanti // chissà fin dove / chissà fin dove guardavo mai // Malinconia /di una ribellione / che vuol durare ancora // E ritornavo a casa / gonfio di niente // Poi mi affacciavo / a riguardare / dalla finestra del solaio / giù nel cortile buio / l’invisibile andare della gente / il muto ricordo del mare / me naufragante nel pantano” (Lo spettro dell’infanzia); “Potessi un giorno / camminare da solo / ma solo solo / non come vado adesso / solo / ma solo solo / senza me stesso” (Non ho volontà); “Voglio andar via / anima mia / Solo per il mondo / ch’è piccolo e senza fine / m’illuderò di perdermi / E sarò sempre solo / La gente non fa compagna” (Itinerario – I); “Ma un giorno me ne andrò / limpido e solenne / per la mia strada muta” (Itinerario – II); “Voglio scappare / come una sera d’estate / quando pensavo di andare” (Esasperante!); “Chissà che cosa avrei fatto / chissà quanti amori / chissà quanti denari” (idem); “Penso ancora di andare andare / non so dove non so come non so quando / penso di partire morire e partire” (idem); “Non venite con me / ché sono solo / E andar coi solitari / è come andar di notte / per le strade senza luce” (Avvertimento).
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La voglia di scappare corrisponde in Delfini a quella sprezzante di distruggere, uccidere, appiccare il fuoco.
Una voglia di fuga, da parte del futuro poeta, che corrisponde alla realtà della sua vita quotidiana, fatta di spleen, e di una bohème un poco stantia in quella che descrive come “un’immensa pianura / CITTÀ invecchiate / donne abbandonate / amori consumati / nel tedio e nell’attesa / FANALI e lunghe strade / cortei – fanfare / olimpici richiami / il mare il mare / […] / la città – la torre / le campane / le bimbe della messa / i vicoli bui / un solitario / la lampada sul tavolo / penso a cose strane / (forse alle puttane)”.
Una realtà che gli starà sempre stretta, sotto il fascismo come nel dopoguerra in un paese nel quale sotto i colpi di presidenti, segretari, ministri, giudici, già si sta disfando l’antico mondo della provincia… “Il tribunale democristiano del demonio / mi ha rotto il focolare antico / Sia maledetto colui ch’è magistrato / sia maledetto il mio più grande amico”.
Delfini si proclama “giudice supremo / di questa vasta vita / senza freno e senza vita” e la poesia è la sua arma individuale: “Sian maledetti tutti gli avvocati / figliati dal lucertole e lombrichi / Sian maledetti i vuoti vasi cervellotici / dei lustri ministri servitori / di lontane terre e avidi ladri / delle nostre terre e portatori / di mestizia disperazione e follia”.
Sa sintetizzare in poesie di quattro versi, senza titolo, e in fulminanti distici, tutta la sua visione anarcoide: “Né laico, né prete / intendo votare”; e: “Sporca la scheda, / lasciala bianca”. Scrive d’altronde nel primo verso di Sega gli alberi, titolo che rieccheggia senza saperlo la Deuxième élégie XXX di Charles Péguy: “L’eterno inferno è il governo”.
Il disgusto verso i politici e l’Italia lo riversa anche sulle donne, che ne sono lo specchio sensuale: “È la gran moda democristiana: / restare vergine e far la puttana”. Un disgusto che nei versi de Le ragazze del mondo borghese diventa puro desiderio d’insozzarle: “avrete la merda sulle gonne: / non al presente, ma nel ricordo”… “La figlia del miliardario / regina delle ladre / quando si fa chiavare / lo fa nel letto di suo padre / Ha l’inferno nel cuore / ma il cuore no n ce l’ha / resta che ha l’inferno / altro di umano non ha”. E il suo proclama politico è tutto baudelairiano: “Monarchico anafilattico, / allergico repubblicano, / idiosincratico socialdemocratico. / Rimasto son solo, / ho preso lo scolo: / Non voterò!” L’ironia dadaista si fa sempre più acida e feroce.
“Invasione, fallimenti / bombeatomiche, tormenti / fame, preti, seghemezze / tutte queste son pagliuzze. // Peste, rogne, inondazioni, / influenze, insurrezioni / spie, fascisti, partigiani, / delinquenti, e battipani // Tutto meglio all’ingiunzione / del coacervo liberale / che ti manda l’ufficiale / a pigliar la tua magione.” L’oggetto dei suoi assalti poetici sono mercanti, finanzieri e banchieri (“Sacerdoti del pareggio / con la banca dello strozzo”), democristiani, borghesi, modernisti e progressisti, procuratori e questori, governatori e dottori, ingegneri e cocchieri, fascisti, liberali, deficienti, comunisti, radicali, cornuti e finocchi, viriloidi e lesbiche, spie e delinquenti, ministri (“[…] ministri Saltinbocca e Mozzarella / e ‘l loro degno presidente Tarantella”) e avvocati (“Caro avvocato sadico e ristretto / dal sudicio sguardo da strozzino / hai una figlia che non ho mai visto / […] / stai attento: tua figlia verrà uccisa” – “Caro avvocato guarda bene / la moglie tua verrà insultata / da quattro sante prostitute / e davanti a te saran sapute / di tutte le ordure di gioventù” – “a Bologna, a Modena, a Milano / e c’è l’illustre castrato / generale avvocato di culano / che quando parla tiene in mano / un finto cazzo levigato”). E sogna una qualche rivolta né fascista né antifascista, né comunista né anticomunista, né filosovietica né filoamericana (Delfini scrisse tra l’altro un Manifesto per un partito conservatore e comunista, che sarebbe dovuto nascere nelle capitali degli stati d’Italia, contro l’unità mitizzata dal Risorgimento piemontese, le riforme agrarie e i grandi affaristi del capitalismo, e fondato sulla proprietà terriera, negli interessi di contadini e operai, ai tempi ancora cari alla sinistra). E sogna ironiche punizioni, castigando in versi gli appartenenti ai partiti di quella che oggi è chiamata prima repubblica (rispettivamente i democristiani con olio di ricino se di sinistra, con vino democristiano se di destra, con acqua del Meridione se di centro, e i comunisti, i socialisti e i socialdemocratici con la Coca-Cola, i liberali col Cynar, i radiali e i repubblicani con la Corona, non intesa come birra bensì come monarchia, e i monarchici con l’edera dello stesso P.R.I.).
L’amarezza e disincanto che prova rispetto alla patria non vale soltanto per le donne ma anche per gli amici:
“Molto più bello, più intelligente, più ricco e più aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono trovato davanti alla barriera terribile e armata dei loro difetti, vizi e capricci: gelosia, narcisismo e sfrenata (ma sorda) ambizione. Né geloso, né ambizioso, […] mi sono scoperto (ma troppo tardi) un difetto […]: una mitezza eccessiva nata dal desiderio di non soffrire mai o il meno possibile, si è convertita nel tempo in pigra contemplazione e in una sorda velleitaria rivalsa che non è mai sfociata in una conclusiva spiccata vendetta.
Mentre scrivo continua questa brutta storia. La mia è una discesa continua; talvolta procurata dagli amici che ho avuto; tal’altra, aiutata dalla mia disperazione a vedere gli amici che ho avuto, guardarmi, compiaciuti (col loro sguardo freddo tra di tedesco, di eunuco, e di triglia) scivolare verso il basso. Ma si illudono. Poiché il basso verso il quale scivolo, non è che un elevatissimo altipiano: mentre alle loro spalle, di sulle vette dalle quali par che mirino altezzosi, coi loro sguardi annoiati e incomprensibili, li attende il baratro)”.
E l’amarezza e il disincanto che prova per donne e amici è uguale a quello verso gli intellettuali in Versilia: “Dopo una giornata con gli scrittori, non mi riusciva nemmeno di leggere. Passavo momenti in cui desideravo veramente uccidere. Pochi scrittori, credo, hanno odiato gli altri scrittori come li ho odiati io. Avevo una naturale simpatia per uno solo di loro” – “Parlare di quegli svariati e uniformi gruppi mondani che dovetti conoscere e frequentare mio malgrado, mi fa avere ancora oggi un senso di smarrimento della mia personalità, come se avessi vissuto e continuassi a vivere in una perenne vergogna morale”.
Nel 1935 si è trasferito a Firenze proprio per poter frequentare il mondo degli intellettuali, ma ne è deluso.
Vive “l’agonia dello spirito” e ha voglia tornare a casa, rendendosi però conto di non poterlo più fare, come confesserà poi nella splendida introduzione a Il ricordo della basca.
Si sente “un borghese sulla via della delusione” che ammette l’inanità (“non sapevo veramente che cosa fare”), legge Stendhal, “una disgrazia”, e, appena può, fugge a Bologna.
A Firenze non riesce davvero a vivere (“la sprecata vita letteraria dell’inverno fiorentino”), per cui torna continuamente a Parma e a Modena, che ritrova solo allora, ora che se n’è andato via, e così, attraverso quella distanza, la città diventa quasi irreale… E spesso a Bologna, dove si reca per seguire le orme di Stendhal, ripercorre, perdendosi, le strade di Campana (“mi perdevo […] negli itinerari di Dino Campana”), girando fino alle due, fine alle tre del mattino per poi tornare a Firenze col primo treno…
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“Come salivo su quel treno che proviene da Verona, va a Bologna passando per dolci sinuosi paesi come Camposanto, San Giovanni in Persiceto e Crevalcore […], come salivo su quel treno andavo ripensando di un giorno lontano, di un ottobre solare, di un giorno semplice, senza visioni particolari, senza tenebre, chiaro e disadorno, pieno del rieccheggiamento di echi famigliari che ogni strada e ogni piazza che avevo attraversa, mi rimandavano avvolgendomi in un mantello morbido e sottile combinato di un tessuto fatto di aria, di luce, e profumato delle vaghezze autunnali, dei prati e dell’uva matura, filtrate attraverso le porte della città, dei vicoli, delle piazzette rinchiuse. Ricordo di raggi di luce di un oro tenue e leggero che andava a consolidarsisui muri del Palazzo Ducale, sulla chiesa di San Bartolomeo, sullo sfondo del Corso Reale. Era un giorno lontano…”
Nasce così il suo capolavoro, Il ricordo della Basca, volume di novelle in prosa decisamente poetica, baudelairiana, che “fu il meno diffuso, della collezione meno diffusa, dell’editore meno diffuso d’Italia”, Lischi di Pisa.
Opera che ripercorrerà, verso la metà degli anni ’50, quando, a Roma, scriverà l’introduzione, traccia di un lavorio che culmina nel gioco di specchi tra questa piccola autobiografia e le poesie della fase che segue il 1958.
La scrittura di Delfini si fa allora tentativo di ricostruire, dai ricordi, le connessioni di avvenimenti non solo personali ma anche nazionali, con un senso apocalittico di fine del mondo, e infatti nel febbraio 1959 annota di voler tentare “l’anticanzoniere di questi ultimi giorni della vita del mondo. Ultimi giorni che stiamo vivendo o che ci illudiamo di vivere”, tra memorie, rimorsi, visioni, fine di speranze e brame d’assassinio, identificando e minacciando i colpevoli, come Pasolini, prima di Pasolini, più di Pasolini.
La sua malattia è stata quella di partire, per Firenze prima e per Roma poi, perché l’Emilia la lasciava malvolentieri, e i suoi ritorni “dalla stazione Termini alla stazione di Modena, erano sempre stati accompagnati da una grande euforia, da una pienezza di propositi e da una sconfinata gioia di vivere”, e la ragione è presto svelata: “Fra parentesi dichiaro il mio odio per tutti coloro che per Roma o da Roma hanno voluto, contro di me e contro molti altri italiani, gettare il seme dell’avvilimento sul mio – sul nostro – sentimento orgoglioso di non essere nati a Roma, di non vivere a Roma, e sulla mia – nostra – impressione che a Roma, e soltanto a Roma, si trovi quella data forma di vita che gli avvilitori di questo secolo chiamano provincia e provincialismo.”
La capitale lo farà ammalare del pregiudizio o complesso del provincialismo che ammorba gli intellettuali:
“Certo che se non avessi conosciuto degli intellettuali, e li avessi frequentati ancor meno di quanto li avessi frequentati fin allora, non sarei partito per Roma. Perché partire per Roma significava sottomettermi a una specie di complesso di inferiorità, che gli intellettuali mi avevano rivelato, e col quale non seppi giocare disinvoltamente a pallino. Era il loro complesso di inferiorità, e, par delicatesse, finsi di esserne anch’io infettato. […] Il complesso di inferiorità si chiamava (e si chiama tutt’ora) provincia. Si badi però a quanto dico. Il loro complesso non stava nell’essere dei provinciali […] ma nel parlare, nel giudicare, di una provincia, di un provincialismo, nel contagiare di un timore della provincia, e nell’isolarsi in una torre, o in una valle segreta, o nel centro di una grande città, o nel salotto di una signora dentro una villa, fuori della provincia.”
A Roma il poeta padano troverà infatti solo intellettuali che definisce con sprezzo, in francese, assommants, ossia che tendono a umiliarlo (“come se fossi un vecchio socialista, che delinquenti squadristi si fossero portati in giro dileggiando”), ad annullarlo (“Non ero più nessuno. Ero stato raccolto, spremuto per quel che valevo materialmente, e gettato via”), e a renderlo quindi inerte, lui che, senza studi e laurea, era partito come se dialogare con Cardarelli e Bacchelli in terra padana valesse meno che farlo a Firenze oppure col D’Annunzio, di cui ricordava una grottesca adorazione nella sua Modena: “Camerati, non dimentichiamo Gabriele d’Annunzio. Per il Condottiero eja! eja! Eja!”, e “Alalà!”, gli rispondeva oscenamente il coro dei fascisti.
La sua Modena non poteva dunque esser quella del fascismo, bensì una città medievale e baudelairiana, sfumata nella nebbia e ricolma di strane figure: romantiche se in accordo con tale identità; grottesche quanto figlie del regime italico…
Modena di modiste e marchesi, di puttane e puttanieri, di mariti che scompaiono nel nulla, mogli e amanti, signore impiumate e sculettanti, vecchi maestri soli e con la paura della morte, e Felice e suo fratello uscito di prigione, condannato a tre anni per truffa, i quali, in due, soddisfano la stessa donna, fino alla rovina, senza dimenticare – e come si potrebbe mai farlo? – “l’indimenticabile dandy” – la nitida proiezione di Delfini – che frequenta pittori, scrittori, giornalisti e famiglie bene, giocatore d’azzardo, spendaccione e dongiovanni che si proclama “scrittore e contrabbandiere, ricco e fortunato, brillante e famoso […] per farvi crepare di rabbia, gente impacciata cattiva pettegola paurosa e senza stile”, per prendere le distanze dalla gente – “gente […] moscia, gnaulante e ottusa” – “gente senza poesia” – “siete della merda” – gente di Modena, tra la quale c’è tuttavia anche la deliziosa apparizione della “diciottenne saltellante ed allegra Gina che coi suoi occhi neri, capelli bruni, le anche entusiaste, le gambe lunghe e tornite, già si era resa famosa in città pur preservando la sua purezza di fanciulla. Sotto il Portico del Collegio, durante i rumorosi e affollati andarivieni del mezzogiorno domenicale, era un fiorire di elogi detti grassamente in dialetto all’indirizzo della bella Gina, la quale, nella sua inavvertita solitudine passava più volte sotto quei frizzi e sotto quegli sguardi, lieta e confusa, col cuore imaginosamente pieno di un luminoso e rombante avvenire che le si presentava caoticamente con giovanile sicurezza. […] Già qualcuno l’aveva fermata, la domenica, nella stretta via di San Michele, mentre ella volgeva verso casa. Il più svelto di tutti, il Marchesino B., l’aveva palpata ben bene mentre lei ridendo cercava di liberarsi per salire presto in casa ancor timorosa che il fratello non la redarguisse”, e poi ancora, in campagna, la romanticissima ballata di un fidanzato, Teodoro, partito a cavallo da un paesino della zona incolta della pianura per andare dalla sua amata, che vive in una villa a cento chilometri e che vuol sposare per avere una famiglia, più che l’amore, dopo avere avuto tante ragazze da cui veniva infine sempre disgustato; perché i due: “Avevano in comune, e ne gioivano tacitamente, quell’educazione che non insegna e che non fu insegnata, dote somma che lascia talvolta all’uomo la libertà di sentirsi vicino a Dio”; e ora sogna: “Andremo a letto, e dormiremo, ché ne abbiamo bisogno, poiché sono trentacinque anni che non dormo, e lei trent’anni. E ogni volta che ci addormenteremo, diremo che non ci sveglieremo più per l’eternità. E quando ci saranno i bambini, anche i bambini diranno così con noi. […] Quello che facciamo noi è la cosa più antica e più rara della terra: l’amore. C’è una società che ha reso questa parola ridicola. E noi ne siamo felici, perché il nostro amore è ridicolo, noto antico, sorpassato, ma unico perché solamente te ed io lo conosciamo…”; e lei uguale;
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E poi c’è la basca che dà il titolo a una novella e alla raccolta, testo che qui resta implicito e se ne riempiono i margini, perché non può esser riassunto o accennato, ma letto.
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A Modena, ricorda lo scrittore, gli facevano i complimenti nel 1935, quando non aveva pubblicato un bel niente, non una critica non un premio non un ministro ammazzato.
E poi, anni dopo, uscito Il ricordo della basca, silenzio, indifferenza, disprezzo, a dispetto del suo amore per la città (“Duomo torre e casa mia / voglio con te andar via”, scrive in un altro distico, della poesia Non c’è niente da fare), delle sue evocazioni del passato nel presente (“Tempo in cui le mura della città erano ancora intatte, e poche case sparse picchiettavano la solitudine della pianura”), come in un sogno, “confusa nella nebbia della pianura”, come nel sonno che spesso avvolge la campagna circostante, “il sonno dei campi sotto il sole”, il cui il ricordo della basca, figlia di una terra regionalista, si fa insomma ricordo di “quella parte della pianura, chiamata la Bassa, la cui vegetazione rigogliosa, coi campi simmetricamente divisi da lunghi filari di alti alberi vitati, e di tanto in tanto cosparsi da pioppe cipressine, dà l’idea di un’enorme infinita città signorile, mai apparsa e mai distrutta”, terra di stradine, alberi, campanili, e di malinconie.
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Lo s’immagini e ricordi a guardare fuori attraverso i vetri di un caffè, senza poter vedere il colonnato dei portici medievali, velato dalla nebbia, a pensare alla morte… Perché per i poeti: “L’unica via possibile è la morte”. Perché veramente: “Viva la f…!” / grida il popolo emiliano. / Sfonda una diga. // La morte è un piano / di ricostruzione / per la reazione”. Perché è il miglior ricordo, ora che sono passati centodieci anni dalla nascita del poeta, ottanta dalla prima edizione de Il ricordo della basca, e sessanta da questo verso, vergato a Modena: “non è il disastro che conta, / è l’assente sospiro che monta”. Perché: “Non c’è cosa più bella al mondo, non c’è ora più felice, come quella di incontrare una persona che ti ha fatto piangere al solo vederla, e che ti dice ogni cosa, come se ti conoscesse dall’infanzia, spontaneamente, senza misure e senza paure.” E chi vuol provarci tenti pure, con tanti auguri, di trovare prose e versi più potenti di quelle del poeta che voleva incendiare, senza misure né paure, la Bassa, e l’Italia.
Il suo ricordo della basca, e in parte della Bassa, è l’antidoto a uno più diffuso, “quello di far schifo ai vivi”.
Marco Settimini
L'articolo Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento proviene da Pangea.
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FOMA 7: When Bricks Are Put Together, Carefully
Our seventh edition of Forgotten Masterpieces is taking a field trip through Italy with architectural historian Luka Skansi. Get ready!
Colonia Enel, Rimini (1961-63) by Giancarlo De Carlo | Photo Marko Pogačnik
There is much wonderful postwar architecture in Italy. This is something you can perceive only by visiting the many buildings scattered across its territory, and discovering on the spot its qualities, its spaces, and its ‘muscles’.
Mercato dei Fiori, Pescia (1948-55) by Leonardo Savioli, Leonardo Ricci, Giuseppe Gori, Enzo Gori | Photo Federico Padovani
For me, to study that period means to understand a surprisingly rich context of built architectural works, of amazing experimentation with the relationship between structure and space, of remarkable constructive solutions, of astonishing freedom of expression within very limited technological and financial availability. A context in which architects developed an ability to build great architecture without resorting to useless symbologies, without searching for primary meanings in the field of architectural language, in individual poetics.
Tribune dell’Ippodromo di Tor di Valle, Rome (1958-59) by Julio Lafuente, Aicardo Virago, Gaetano Rebecchini | Photo Federico Padovani
Villaggio Eni, Borca di Cadore (1954-63) by Edoardo Gellner, Silvano Zorzi |
Photo Luka Skansi
It was, in short, a period of extraordinary architecture, one whose architects didn’t need to build complex intellectual castles to justify their projects and ideas. A period that could teach us – and of course anyone willing to see it – that architecture is built, not theorized. Italian architecture of the 1950s and 1960s confirms those simple, but illuminating words of good old Mies: “Architecture starts when you carefully put two bricks together. There it begins”.
Palazzo del Lavoro, Torino (1959-61) by Pier Luigi Nervi, Antonio Nervi, Gino Covre | Photo Marko Pogačnik
Manifattura Tabacchi, Bologna (1948-60) by Pier Luigi Nervi, Nervi & Bartoli | Photo Vera Leanza
Stabilimento Siag Marcianise Factory, Caserta (1962) by Angelo Mangiarotti, Aldo Favini | Photo Luka Skansi
Stabilimento Siag Marcianise Housing, Caserta (1962) by Angelo Mangiarotti, Aldo Favini | Photo Luka Skansi
Over time I gained this (banal) conviction, of how much architecture (good architecture, obviously) can speak for itself, after you experience it: a visit, an experience of space, the understanding of a constructive rule, the relationships between its subsystems, all that which explains the work of architecture more than infinite and generic words, historical interpretations, theoretical conjectures. And in a country (Italy) dominated by architectural theory, one in which I myself was reared, I discovered in myself a great passion for the architecture of the 1950s and 1960s, built by architects who were rarely the object of theoretical and historical survey: that of the Milanese professionals, the refined architects of Roman speculators, of the great Italian engineers, the renowned and unknown builders of modern Italy, those who produced heroic architectural accomplishments in Ivrea, Terni, Bologna, Rimini, Pozzuoli, and Borca di Cadore. An extraordinary architectural heritage that Italy owns and which – I think I do not exaggerate when I write – few Italians even know is theirs.
Palazzina in via Archimede, Rome (1950) by Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco, Riccardo Morandi | Photo Luka Skansi
Stabilimento Raffo, Pietrasanta (1956) by Leo Calini, Eugenio Montuori, Sergio Musmeci | Photo Marko Pogačnik
Istituto Marchiondi Spagliardi Baggio, Milan (1953-57) by Vittoriano Viganò, Silvano Zorzi | Photo Federico Padovani
Talking a bit more about the fifties and sixties would do us all very well: ‘us’ here comprising architecture schools, architects, academics, and students. In particular Italian schools, to help them surpass their rootedness in the anachronisms of themes with regard to the 1970s and 1980s, the conviction of the primacy of theory over professional practice, of urban design over architecture, with the continuous repropositions of tired concepts and methodologies, derived from the same endlessly perused books, aspects that no longer have anything to do with the problems of today’s architecture and cities.
Ponte sul Basento, Potenza (1967-76) by Sergio Musmeci | Photo Luka Skansi
But the benefit would also extend to us – architects, historians, and theorists, so as to re-establish a direct, fresh, and genuine relationship to built work, to the work of architecture. To avoid useless interpretative speculation, superficial historical reconstructions, chitchat about architecture’s involvement with external factors. But rather to rediscover and – as Gio Ponti used to say – “Love Architecture” (Amate l’architettura), both the raw material (matter) and its counterpart (space).
Villaggio Matteotti, Terni (1970-75) by Giancarlo De Carlo | Photo Luka Skansi
Ponte Indiano, Firenze (1972-78) by Fabrizio De Miranda | Photo Luka Skansi
Monumento alla Resistenza, Udine (1959-69) by Gino Valle, Federico Marconi | Photo Luka Skansi
Furthermore, something we should also avoid is the vulgarization of this same architecture: its confinement to the tabloid format of a curious postcard, as an attractive but decontextualized phenomena, a mere beautiful and abandoned ruin. The vulgarization that implies not understanding the environment that produced it, the amount of experimentation invested in it, the enormous technical and visual culture of its authors, and ultimately, the enormous latent potential for today’s architect, to learn from these marvelous works, from these structural figures and spaces. All that stays behind the great structural forms of Nervi, Morandi, Musmeci, De Miranda, Zorzi, the refined junctions of those prefabricated elements of Zanuso and Mangiarotti, the wonderful spaces of the colonies of De Carlo and Gellner, the conceptual dialogues of Valle with history, the lightness of assembly of elements by Morassutti.
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#FOMA 7: by Luka Skansi
Luka Skansi is an architectural historian, assistant professor at University in Rijeka, Croatia. He holds a Master of Science in Architecture from IUAV (Venice), and a doctoral degree from the School for Advanced Studies in Venice, obtained in 2006 with a research on pre-revolutionary Russia. His research interests include Italian Architecture and Engineering of the 20th century, Russian and Soviet Architecture, the Architecture in ex - Yugoslavia. He wrote books and essays on Carlo Scarpa, Aldo Rossi, Gino Valle, Pier Luigi Nervi, Myron Goldsmith, Jože Plečnik, Nikolaj Ladovskij, Moisei Ginzburg, Peter Behrens, Manfredo Tafuri, Vladimir Braco Mušič. Recently he curated the exhibition Streets and Neghbourhoods, on Slovenian architect and Harvard Scholar Vladimir Braco Mušič (MAO Ljubljana, 2016) and participated to the 2014 Venice Biennale (section “MondoItalia”) with the installation The Remnants of a Miracle.
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A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (quarta parte)
di Salvatore Coppola
All’alba del 28 dicembre più di duemila lavoratori si portarono con le biciclette (prezioso strumento per raggiungere l’Arneo, che distava decine di chilometri dai paesi limitrofi), con i loro arnesi di lavoro e con bandiere rosse e tricolori sulle masserie Carignano piccolo, Mandria Carignano, Case Arse e Fattizze, zone limitrofe a quella dove, dopo le concessioni del 1949, era stato fondato il villaggio agricolo Antonio Gramsci. A differenza di quanto era accaduto nei giorni dell’occupazione del 1949, la polizia e le forze dell’ordine non si fecero trovare impreparate e, intervenendo in forme anche platealmente illegali, verso le tre del mattino del 28 dicembre, quando i primi gruppi di lavoratori si stavano dirigendo verso l’Arneo, fermarono e arrestarono a Nardò i locali dirigenti sindacali Salvatore Mellone e Antonio Potenza, e, insieme con loro, il segretario dei giovani comunisti Luigi De Marco in quanto – come si legge nella motivazione indicata nel verbale di arresto – erano in procinto di «commettere il reato» di occupazione abusiva delle terre (non perché, quindi, si fossero già resi responsabili di occupazione abusiva di terreni). Nel pomeriggio di quello stesso giorno vennero tratti in arresto il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino e altri dirigenti sindacali comunali (Pietro Pellizzari di Copertino, Crocifisso Colonna di Monteroni e Cosimo Di Campi di Guagnano). Nonostante gli arresti preventivi, il movimento proseguì con maggiore intensità e agli occupanti pervenne la solidarietà morale (telegrammi di protesta per l’arresto di Casalino e degli altri dirigenti politici e sindacali) oltre che materiale (invio sulle terre occupate di viveri e coperte) da parte delle altre categorie di lavoratori della provincia e delle province limitrofe. Il 29 dicembre venne arrestato Pompilio Zacheo, segretario della sezione del PCI di Campi, mentre riuscirono fortunosamente a sottrarsi alla cattura il segretario della CGIL di Veglie Felice Cacciatore e il segretario provinciale della Confederterra Antonio Ventura, contro i quali era stato spiccato mandato di arresto. Molti contadini rimasero accampati sulle terre anche la notte di Capodanno, quando, come si legge nel rapporto di un funzionario di polizia, «il solito onorevole Calasso aveva portato il solito saluto agli eroi dell’Arneo». Si chiese ed ottenne, da parte delle autorità della provincia, l’invio di un contingente di polizia del battaglione mobile di Bari in pieno assetto di guerra. La repressione fu molto dura, vennero distrutte le biciclette, furono sequestrati e dati alle fiamme i «viveri della solidarietà», si fece largo uso, da parte delle forze di polizia, di lacrimogeni e manganelli, fu anche utilizzato un aereo militare che coordinava l’azione dei poliziotti e dei carabinieri pur di raggiungere l’obiettivo di far sgomberare le terre. Il 3 gennaio le forze di polizia riuscirono a cacciare i lavoratori dalle terre, ad arrestarne una sessantina (tra loro altri dirigenti politici e sindacali, Ferrer Conchiglia e Salvatore Renna di Trepuzzi, Giovanni Tarantini di Monteroni, Antonio Stella, dirigente provinciale della Confederterra). Quella dell’Arneo divenne una questione nazionale, se ne occuparono giornali locali (L’Ordine e La Gazzetta del Mezzogiorno) e nazionali (Il Paese e L’Unità)[1].
Molti deputati e senatori del PCI e del PSI denunciarono in Parlamento la brutalità delle forze di polizia a fronte di un’azione sostanzialmente pacifica di occupazione e lavorazione delle terre incolte, ma, nonostante ciò, l’azione repressiva continuò nei giorni successivi con gli arresti di Felice Cacciatore (segretario della CGIL di Veglie), di Cosimo Lega e Pietro Mellone di Nardò (consigliere comunale del PCI il primo, segretario della CGIL l’altro), di Giuseppe Scalcione (segretario della sezione del PCI di Leverano), di Mario Montinaro (segretario della CGIL di Salice), di Carlo De Vitis di Lecce, di Cesare Reo (segretario della CGIL di Supersano) e dello stesso segretario provinciale del PCI Giovanni Leucci. I partiti della sinistra e la CGIL sollecitavano l’adozione di iniziative politiche e parlamentari per la liberazione dei lavoratori e dei loro dirigenti politici e sindacali. Il 2 febbraio vennero scarcerati Leucci, Casalino e un gruppo di lavoratori. Qualche giorno dopo la Confederterra nazionale prese posizione sulla vicenda denunciando le gravi condizioni di miseria nelle quali versava la provincia di Lecce e chiedendo l’adozione di un provvedimento legislativo che prevedesse l’inclusione della stessa nelle previsioni di esproprio della legge stralcio. Il successivo processo a carico di quanti erano stati rinviati a giudizio (assistiti da un collegio di difensori di cui facevano parte, oltre agli avvocati del foro leccese Giovanni Guacci, Fulvio Rizzo, Vittorio Aymone e Pantaleo Ingusci, anche Fausto Gullo, Mario Assennato, Lelio Basso e Umberto Terracini) costituì l’occasione per una battaglia politica di portata nazionale. Con sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 24/4/1951, venticinque imputati furono condannati a un mese di reclusione e a £. 6.000 di multa, tutti gli altri vennero assolti. Nel corso della Conferenza dell’Agricoltura per la Rinascita dell’Arneo, tenuta a Veglie il 10/12/ 1961 nel decimo anniversario di quella lotta, così Giorgio Casalino ricordava quelle giornate:
[…] grandi masse di più partiti e di tutti i sindacati seguirono l’indirizzo della Camera Confederale del Lavoro occupando le macchie dell’Arneo; in quei giorni centinaia di bandiere rosse e tricolori garrivano al vento issate dai giovani braccianti su cumuli di pietra o su olivastri. La lotta fu dura e contrastata, vi furono centinaia di arresti ma ben presto il governo estese alla provincia di Lecce la legge stralcio e gli Enti di Riforma […][2].
Con D.P.R. n. 67 del 7/2/1951 fu istituita presso l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania una sezione speciale per la riforma. La provincia di Lecce fu inclusa nel comprensorio di riforma per una superficie di 55.000 ettari su complessivi 266.000. I terreni inclusi nelle aree suscettibili di espropriazione ricadevano nei comuni di Nardò, Otranto, S. Cesarea Terme, Lecce, Surbo, Melendugno e Vernole. Le concessioni (in realtà molto limitate) vennero effettuate nella forma dell’assegnazione di poderi (che potevano avere un’estensione da 5 a 9 ettari) ai contadini privi di terra, e di quote (da un minimo di 1 a un massimo di 3 ettari) ai piccoli proprietari. Il 29 marzo 1951 presso la sede della CGIL di Veglie, alla presenza dei segretari delle Camere del Lavoro dei paesi interessati e del rappresentante della Confederterra Antonio Ventura, furono fissate le prime quote da assegnare ai comuni di Carmiano (35 ettari), Copertino (30), Guagnano (20), Leverano (30), Monteroni (5), Nardò (20), Salice (35), e Veglie (40); altri 320 ettari delle masserie Fattizze, Case Arse e Chiusurella furono concessi alle cooperative ACLI Vita Nuova di Lecce e Fede e Speranza di Carmiano; altre zone vennero concesse alla cooperativa Giacomo Matteotti di Galatina e all’Associazione Combattenti e Reduci di Veglie. Sulle modalità di distribuzione delle terre, in proprietà o in enfiteusi, sotto forma di appoderamenti individuali o di cooperative, sulla politica discriminatoria adottata dagli Enti di riforma e su altri temi legati alla riforma agraria, si sviluppò all’interno della CGIL provinciale e dei partiti della sinistra (in primo luogo il PCI) un forte dibattito[3].
L’intervento governativo colse il movimento politico e sindacale pugliese impreparato sul piano progettuale. L’obiettivo che la Federbraccianti regionale perseguì fu, da un lato, quello di ampliare la lotta per la legge stralcio e, dall’altro, di imporre l’applicazione delle leggi Gullo-Segni. I modesti risultati conseguiti in Puglia dimostrarono la relativa debolezza dell’organizzazione sindacale nella lotta per la conquista della terra, anche se tale giudizio non era estensibile a tutta la regione; la provincia di Lecce, infatti, rappresentò (a parere di Giuseppe Gramegna, in quegli anni un dirigente regionale del movimento sindacale) la punta di diamante nella conduzione della lotta per la riforma agraria grazie alla capacità dimostrata dal movimento sindacale di coinvolgere in quella lotta altri strati della popolazione, oltre ai braccianti. Molti studiosi hanno sottolineato come vi sia stata in tutto il movimento sindacale pugliese una sottovalutazione dell’impegno per la riforma e la tendenza a mettere in primo piano le lotte per il salario e per l’applicazione dell’imponibile. Su questi temi all’interno della Federazione provinciale del PCI salentino si è sviluppata per tutti gli anni cinquanta una complessa e non sempre facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Nel dibattito affioravano incertezze programmatiche, tipiche di un movimento come quello salentino che, avendo privilegiato per ragioni storiche e sociali, gli obiettivi tipici del bracciantato, stentava, nonostante il successo conseguito con la lotta dell’Arneo, a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge stralcio. Nei giorni 13 e 14 ottobre 1951 si tennero a Nardò e a Martano due convegni zonali dei contadini dei comuni interessati alle aree di esproprio, nel corso dei quali la CGIL propose di riprendere l’occupazione delle terre che l’Ente non aveva incluso nel comprensorio di riforma. Si avviò così un nuovo periodo di occupazione da parte dei lavoratori agricoli di Surbo, Squinzano, Trepuzzi, Martano, Melendugno, Maglie, Cutrofiano, Melissano. I dirigenti provinciali dell’organizzazione si sforzarono di individuare e di definire gli obiettivi possibili e la strategia delle alleanze per la riforma agraria nel Salento. Emergeva la preoccupazione che il processo avviato con l’applicazione della legge stralcio stesse creando serie difficoltà per l’indicazione al movimento contadino di una seria prospettiva di riforma agraria. Gli appelli a costituire o rafforzare i Comitati della terra, a creare un’autonoma Associazione dei coltivatori diretti per favorire l’alleanza con tale importante ceto sociale, a chiedere l’applicazione delle leggi Gullo e Segni, a estendere l’occupazione anche ai 60.000 ettari di oliveto, si accompagnavano sempre ad una riflessione critica e autocritica sulla gestione delle lotte. La CGIL denunciava le pratiche demagogiche e discriminatorie dell’Ente di riforma, criticava l’eccessiva limitatezza dei piani di esproprio e i tentativi di dividere le masse contadine, metteva in risalto i modesti risultati conseguiti, anche se, nello stesso tempo, sollecitava gli assegnatari a non rifiutare le terre concesse (anche se di qualità scadente) e impegnava le organizzazioni politiche e sindacali a sollecitare forme di aiuto e di assistenza tecnica per mettere i lavoratori nelle condizioni di sfruttare al meglio la terra concessa.
Dal congresso nazionale della Federbraccianti (ottobre 1952) emerse la necessità di una svolta nella politica della lotta per la terra da realizzare attraverso la richiesta di assegnazione, non solo delle terre incolte, ma anche degli oliveti, nella prospettiva generale della fissazione di un limite permanente della grande proprietà terriera. Nel 1953 la CGIL mobilitò i lavoratori agricoli salentini sui problemi tipici del bracciantato (tutela degli elenchi anagrafici, costituzione delle commissioni comunali di collocamento, sussidio di disoccupazione, assegni familiari e altre misure di tutela previdenziale, aumenti salariali), ma nello stesso tempo pose con forza il problema della limitazione delle grandi proprietà, un tema questo che fu al centro del dibattito nell’autunno del 1953 nel corso dei congressi provinciali della Federbraccianti (di cui era segretario Antonio Ventura), e dell’Associazione dei contadini del Salento guidata da Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo. Quest’ultimo propose di riprendere la lotta per rivendicare, sia l’assegnazione immediata dei 12.000 ettari già espropriati e ancora in possesso dell’Ente di riforma, sia la concessione di altri 90.000 ettari di oliveti di proprietà di 500 aziende. Giannoccolo sosteneva che fosse necessario, allo scopo di venire incontro alle esigenze del ceto medio delle campagne, favorire lo sviluppo di cooperative per la vendita dei prodotti. Egli, infine, rivendicava l’unità d’azione dell’Associazione contadini con la Federbraccianti per superare i limiti che negli anni precedenti avevano impedito l’unità nelle campagne. Ventura, da parte sua, invitava a cercare, come al tempo delle lotte sull’Arneo, un «denominatore comune per le varie categorie di lavoratori della terra», a rivendicare la concessione in compartecipazione a favore dei contadini dei 118.000 ettari di oliveto condotti direttamente dai proprietari, a denunciare l’artificioso frazionamento delle proprietà cui ricorrevano spesso gli agrari[4].
Per le organizzazioni sindacali, l’obiettivo restava sempre quello del 1950: la terra ai contadini, la conquista di almeno 60.000 ettari nel Sud Salento, l’immissione dei contadini negli oliveti (almeno 70.000 ettari) con contratti vantaggiosi ai concessionari. Negli anni di applicazione della riforma era sorta la nuova figura sociale dell’assegnatario che poneva una serie di problemi non sempre facili da risolversi (pagamento delle quote di riscatto, problemi fiscali, rapporto con l’Ente, ecc.), problemi che l’Associazione dei contadini, oramai solida, avrebbe affrontato e tentato di risolvere. Dei 15.509 ettari espropriati, ben 2.400 erano boschi e paludi inutilizzabili; gli assegnatari, a distanza di tre anni dalle lotte dell’Arneo, erano 1.716. Tali risultati, certamente insufficienti rispetto ai bisogni del mondo delle campagne, rendevano urgente la ripresa della lotta per dare un colpo decisivo alla grande proprietà fondiaria, non solo con l’immissione dei contadini negli oliveti, ma anche con l’imposizione degli imponibili ordinario e straordinario e dell’obbligo per i proprietari di reinvestire la rendita fondiaria in opere di trasformazione irrigua. Si sarebbe potuto in tal modo legare alla lotta dei contadini poveri privi di terra o con poca terra i 35.000 coltivatori diretti che, in mancanza di risposte chiare ai loro problemi, rischiavano di diventare massa di manovra delle destre monarchiche e fasciste. Alla fine del 1954 ripresero su vasta scala le occupazioni delle terre da parte dei braccianti di Squinzano, Trepuzzi, Campi Salentina, Surbo e Novoli, di quelli dell’area ionico-ugentina e della zona Frigole-Otranto, di Tuglie, Collepasso, Cutrofiano, Scorrano, Maglie, Supersano, Copertino, Veglie, Leverano, Torre Cesarea, San Pancrazio Salentino, Carmiano. Nel corso di quelle lotte si registrarono scontri tra le forze di polizia e gli occupanti, molti dei quali vennero fermati, arrestati e rinviati a giudizio; sui cartelli dei lavoratori era scritto: «gli oliveti in mano degli agrari danneggiano l’economia agricola; i contadini chiedono l’immissione negli oliveti, i contadini chiedono la concessione degli oliveti». Ricordando quel periodo della ripresa della lotta e delle occupazioni Giovanni Giannoccolo, allora segretario dell’Associazione dei contadini, scrive:
[…] Occorre dire, con molta chiarezza, che il movimento sindacale, almeno nei suoi dirigenti provinciali, ed i partiti della sinistra ed il PCI in particolare […] osteggiarono ogni sintomo di ripresa di quelle lotte. E ciò perché erano tutti influenzati dalla posizione tenuta da Grieco e dalle sue direttive […]. A differenza di Grieco, Emilio Sereni riteneva che il movimento non dovesse appagarsi dei modesti risultati conseguiti, che era necessario dispiegare queste grandi energie per assestare un ulteriore colpo al latifondo a colture intensive. In sostanza Sereni voleva dire: sino ad ora i contadini hanno preso l’osso, adesso gli spetta un po’ di polpa […]. L’idea di Sereni faceva breccia fra i contadini […] il movimento ebbe nuovo impulso e fu esteso, riuscimmo a mobilitare migliaia di contadini […] la posta in gioco era alta in quanto quella volta si occupavano terre coltivate e, perciò, la reazione degli agrari e delle forze di polizia sarebbe stata ancora più dura rispetto a quella avutasi nell’occupazione delle terre incolte. Indubbiamente ci furono cariche e arresti, ma i contadini credettero nella giustezza della battaglia che conducevano e, pur subendo le violenze che più o meno, altri, prima di loro, per analoghi motivi, avevano subito, conclusero quelle occupazioni con una grande e significativa vittoria, consolidandosi nel possesso delle terre […][5].
Negli anni seguenti i gravi problemi dei vitivinicultori, dei tabacchicultori e dei coloni, per i quali dispiegò un’intensa attività l’Associazione dei contadini, favorirono, all’interno del movimento sindacale, sia pure con un certo ritardo, una maggiore presa di coscienza dei temi specifici dei produttori e dei coltivatori diretti[6].
Il 10 dicembre 1961, organizzata dalla CGIL provinciale, si tenne a Veglie la Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo, alla quale parteciparono i segretari provinciali del PCI e del PSI Mario Foscarini e Romano Mastroleo, l’onorevole Giuseppe Calasso, sindaci, consiglieri provinciali e comunali, rappresentanti degli assegnatari e dei quotisti e dei Comitati aziendali dell’Arneo. Nella relazione introduttiva, il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino indicò per le masse lavoratrici delle campagne un processo di riforma agraria generale che garantisse al contadino «il possesso della terra e gli aiuti per una moderna e razionale coltivazione dei terreni». Dopo avere passato in rassegna i principali problemi dell’agricoltura salentina, Casalino si soffermò sulla questione dell’olivicoltura che, nel biennio 1960-61, era stata al centro dell’iniziativa politica e sindacale, sostenendo che, poiché la maggior parte degli oliveti erano condotti in economia con sistemi rudimentali, privi di irrigazione e concimazioni adeguate, la CGIL proponeva l’immissione dei braccianti, dei compartecipanti e dei contadini poveri negli oliveti, in modo che riunendosi in cooperative potessero garantire, grazie all’aiuto della tecnica agraria e dell’irrigazione, una razionale e moderna coltivazione. Particolare attenzione egli dedicò ai coltivatori diretti ai quali veniva proposto di associarsi in cooperativa «per far fronte alle speculazioni dei monopoli della Montecatini e per chiedere sgravi fiscali e prestiti a basso tasso di interesse per l’ammodernamento dei propri poderi». Anche ai coloni, ai compartecipanti, ai mezzadri e ai fittuari venne indicata la prospettiva della concessione degli oliveti e dei vigneti, con l’estromissione dei grandi agrari («che ormai non assolvevano più ad alcuna funzione») e la costituzione di cooperative, oleifici e consorzi per l’irrigazione. «Per vincere la crisi dell’agricoltura bisogna estromettere dalle campagne i grandi agrari dando la terra a chi la lavora», queste le conclusioni cui giunse Casalino, dando così un nuovo senso alla tradizionale parola d’ordine la terra a chi la lavora. Venendo al tema specifico dell’Arneo, Casalino rivendicò «la giustezza della lotta che i lavoratori affrontarono negli anni 1949, 1950, 1951 occupando le terre incolte e malcoltivate dell’Arneo»; sottolineò gli aspetti negativi della politica agraria della DC e degli Enti di riforma che avevano condotto ad abbandonare al proprio destino assegnatari e quotisti, molti dei quali, privi di mezzi, indebitati e sfiduciati, oberati dalle tasse e dalle quote di ammortamento, avevano abbandonato i poderi o pensavano di farlo, tanto che – così concluse Casalino – «nei poderi abbandonati dagli assegnatari sono tornate a pascolare le pecore». Che cosa fare dunque per invertire la tendenza che, all’interno della politica del Mercato Comune Europeo e del Piano Verde, doveva fatalmente portare l’Arneo ad essere «invaso dalle macchie» e i contadini ad emigrare all’estero? Queste le proposte che emersero dagli interventi (particolarmente significativi quelli di Felice Cacciatore, sindaco di Veglie), Sigfrido Chironi, segretario della Federbraccianti, Francesco Leuzzi, membro della segreteria della CGIL, Romano Mastroleo e Mario Foscarini: lottare affinché i finanziamenti statali fossero assegnati ai lavoratori della terra in forma singola o associata; costituire consorzi di miglioramento, cantine e oleifici sociali che favorissero il superamento della tendenza individualista dei contadini che dovevano, invece, essere tutti uniti per costituire un fronte comune contro l’offensiva dei grandi agrari e dei monopoli; pretendere che i contributi del Piano Verde venissero destinati ai lavoratori agricoli per il progresso delle campagne; rafforzare il ruolo del neonato consorzio per l’area di sviluppo industriale di cui facevano parte tutti i comuni dell’Arneo; impiantare industrie per la trasformazione e la conservazione dei prodotti; chiedere una serie di agevolazioni creditizie e fiscali per gli assegnatari allo scopo di creare quelle condizioni di stabilità sul fondo e di benessere che consentissero loro di poter «lavorare proficuamente per lo sviluppo economico dell’Arneo». Ai comuni della fascia dell’Arneo la CGIL affidava ancora una volta il compito di guidare la lotta per la riforma agraria e per la rinascita economica. Così concluse Casalino la conferenza:
[…] Quelle memorabili lotte dell’Arneo ormai sono scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento e già molti spesso raccontano ai figli come in quegli anni furono costretti a permanere 40 giorni e 40 notti nelle macchie dell’Arneo, delle biciclette che perdettero perché bruciate o sequestrate, degli elicotteri che sorvolavano le macchie per indicare le posizioni dei contadini asserragliati fra i cespugli. E di come fu pronta e spontanea la solidarietà popolare […] la solidarietà di tutti i cittadini e primi fra essi degli esercenti fu grandissima, e altrettanto grande fu l’unità raggiunta fra tutti i lavoratori. I risultati non mancarono e le statistiche ci dimostrano come il reddito agricolo zootecnico forestale negli anni successivi è cresciuto per decine di miliardi […][7].
Note
[1] Ivi.
[2] Ivi, fasc. 3418. Il testo dell’intervento di Giorgio Casalino alla Conferenza di Veglie in: Archivio Flai-Cgil, cit.
[3] G. Gramegna, Braccianti e popolo in Puglia, cit. Egli scrive: «tra il quadro dirigente ed in tutto il movimento democratico, politico e sindacale, si aprì un vasto dibattito, dando vita ad un esame critico ed autocritico sulle azioni condotte e sui risultati conseguiti […]. Innumerevoli furono, infatti, le riunioni che si svolsero a livello regionale con la partecipazione di dirigenti nazionali del sindacato e della Commissione agraria del PCI. Le critiche erano aspre, ed a volte anche ingenerose, verso compagni che pure avevano dato il meglio di sé nella conduzione della lotta. Tuttavia, restava il fatto che difetti vi erano stati e che, quindi, in una situazione siffatta anche le critiche ingenerose avevano non solo un fondamento ma stimolavano verso la ricerca degli errori, che non potevano essere solo di carattere organizzativo, ma investivano la visione e la strategia delle lotte nelle campagne pugliesi» (pp.155-157).
[4] Fg, Archivio PCI, MF 0328.
[5] L’intervista a Giannoccolo in S. Coppola, Il movimento contadino in terra d’Otranto, cit., pp. 179-183.
[6] Fg, Archivio PCI, MF 0430 pp. 2488-2556; MF 0446, pp. 2801-2805; MF 0473, pp. 822-840.
[7] Archivio Flai-Cgil, Atti della Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo. Fg, Archivio PCI, MF 0407, pp. 2923-2946; pp.2985-2990; pp. 3028-3036. In un documento del Comitato regionale pugliese della Federbraccianti (del febbraio 1965) predisposto per la delegazione dei senatori che facevano parte della Commissione agricoltura (riportato da De Felice, Il movimento bracciantile, cit.) si legge questa valutazione complessiva sulla legge stralcio: «Se si tiene conto che sono stati espropriati solo o in gran parte terreni a scarso reddito, bisogna concludere che la riforma stralcio ci ha dato delle utili indicazioni pur non essendo stata completata […]. Si può parlare di fallimento solo in relazione al fatto che la legge stralcio contiene dei limiti gravi […] ma i fatti dimostrano che, quando la terra era nelle mani dei vecchi proprietari latifondisti, questa non produceva. Oggi i contadini -ieri braccianti- con il loro sacrificio e con la loro intelligenza hanno creato anche giardini dove prima era il deserto. Non per questo però si deve dire che non vi sono state delle storture. Ad esempio, circa un migliaio di assegnatari ha ottenuto in assegnazione terre non suscettibili di trasformazione, che lo Stato ha pagato a peso d’oro ai proprietari fondiari […] (p. 401).
Per la prima parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)
Per la seconda parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)
Per la terza parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)
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