Tumgik
#La sua presunta follia
dovevonascerequadro · 2 years
Text
Tumblr media
SAINT REMY DE PROVENCE.
Il manicomio di Van Gogh galleggia dentro una luce morbida, e non mette paura. Ci si arriva percorrendo un viale di ulivi e cedri. Il luogo si chiama Saint Paul de Mausole, appena fuori Saint Rémy, ed è un antico monastero diventato ospedale psichiatrico nel 1855: un cartello avverte che funziona ancora, e una freccia sbiadita indica il percorso turistico, per non confonderlo con i passi dei malati. I colori violenti, disperati di Vincent non ci sono. Tutto è come avvolto nel pallore di un sogno. Una statua magra dell’artista, spiritato anche nel bronzo e con un buffo mazzo di girasoli in mano, accoglie il visitatore. Poi si varca la soglia di una piccola, magnifica chiesa spoglia, e da li si passa nel chiostro trapuntato di begonie rosa e contornato da siepi di bosso. Infine, il portone del manicomio che Van Gogh dipinse dall’interno, prigioniero, lasciando filtrare appena la libertà del sole e il fresco remoto di una fontana. Anche la facciata, che in un altro famoso quadro appare inquietante e come soffocata dagli ulivi, vista dal vivo non è che un delicato muro come tanti.
Tumblr media
Ma è con gli occhi di Vincent che bisognerebbe guardare. Qui l’artista arrivò l’8 maggio 1889, dopo essersi amputato l’orecchio ad Arles, e vi restò 53 settimane, nelle quali dipinse 150 tele firmandone solo sette, alcune delle quali capolavori immortali. Gli Iris,  La camera di Vincent ad Arles, L’autoritratto blu,  L’Arlésienne ,  La notte stellata, terribile notte dove la luna è un sole che precipita, il cipresso un coltello nero e gli astri sanguinano.
Dopo aver concluso ( Notte Stellata) nel dicembre 1889, tentò di avvelenarsi inghiottendo colori a tempera e bevendo il cherosene delle lampade. Eppure, Vincent van Gogh non era un pazzo furioso. Qui, al manicomio di Saint Paul, aveva addirittura due stanze, come l’ospite di un albergo. Il fratello Theo pagava la retta e gli inviava il materiale per dipingere, che Van Gogh chiedeva di continuo. «Mandami, ti prego, trentatré tubetti di colore, bianco, rosso lacca, verde smeraldo, arancione, cobalto, malachite, cromo e blu oltremare». Dipingere per resistere, per svelare il mistero del colore assoluto e la crudeltà della natura in apparenza dolce e quieta, in realtà tiranna e indifferente, matrigna come la vide Leopardi. «L’arte è un addestramento alla sopravvivenza» scrive ancora il pittore al fratello Theo. Ora che sono trascorsi 120 anni dalla morte dl Vincent, la città di Saint Rémy allestisce una grande mostra fotografica al Centre d’Art Prèsence: vi si ammirano le copie di tutte le opere provenzali di Van Gogh, ma neppure un originale, perché quelli sono in giro per il mondo. Una beffa, o forse una punizione postuma per i paesani che giudicarono l’olandese solo un povero folle, e usavano le sue tele per tappare i buchi elle fonestre oppure il tiro al bersaglio, quando non le buttavano direttamente nel camino.
Eppure qui in Provenza non si devono cercare tele in cornice ma luoghi, soggetti vivi: come se si potesse entrare nel quadro con braccia e gambe, occhi. Gli ulivi i cipressi le colline di Alpille, naturalmente i girasoli, ma soprattutto la particolarissima densità della luce, il suo spessore fisico, la trasparenza che Van Gogh inseguì trasferendosi nella fredda Parigi.
Tumblr media
Le lettere, forse più delle pennellate di fuoco, rivelano il tormento. «Si tratta di un incidente come un altro, sono assalito da un orrore spaventoso» (9 giugno 1889). «Sto meglio, pur non sapendo se durerà» (19luglio). <<Non ce niente da fare, non ci sono rimedi, o se ce n’è uno, è quello di lavorare con ardore» (3 settembre). «La vita passa così, il tempo non ritorna» (10 settembre). Ormai cammina sull’abisso, dipinge cieli verdi e alberi rossi a onde, una natura barcollante come l’oceano. Cerca intensità e vertigine, ogni pennellata una ferita. I suoi soggetti sono alberi, colline ma di più muri, gabbie di rami come braccia spaventate. Tutto oscilla, deformato. «Bisogna imparare a considerare il dolore senza ripugnanza». Vincent van Gogh usci dal manicomio di Saint Paul de Mausole il 16 maggio 1890. Sul foglio di dimissioni, il dottor Peyron scrisse: guarito. Gli restavano due mesi. Il 29 luglio si sarebbe sparato un colpo di rivoltella al fianco, dopo essersi disteso in una buca di letame. Lasciando la casa di cura, quel pomeriggio di maggio, percorse un’ultima volta il giardino che vedeva oltre le sbarre della sua fnestra. Oggi è come allora: lo rischiara un lago di lavanda, accanto al campo degli iris e dei girasoli. Un uomo sta potando, chino e silenzioso sui rami già quasi secchi. Nulla, non il profumo di rosmarino né le dolci sagome dei cedri in lontananza, far sospettare che questo è l’inferno e che i fiori gettano sangue.
22 notes · View notes
giancarlonicoli · 9 months
Text
7 ago 2023 16:06
LA VERSIONE DI MUGHINI – MARCELLO DE ANGELIS HA DETTO QUELLO CHE PENSA. E' NEL SUO PIENO DIRITTO. CHI DI NOI SAREBBE FELICE SE DEI CONDANNATI ESPIASSERO UNA COLPA CHE NON HANNO COMMESSO? - GIUSVA FIORAVANTI E FRANCESCA MAMBRO HANNO AMMESSO TUTTE LE PORCHERIE DA LORO COMPIUTE. NE HANNO PAGATO PIÙ O MENO VENT'ANNI DI CELLA CIASCUNO. HANNO SEMPRE NEGATO UN GESTO CHE CON QUELLA LORO FOLLIA AVEVA POCO A CHE VEDERE. UN ARGOMENTO AI NOSTRI OCCHI NON DA POCO… -
Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, non vorrei approfittare delle nostra amicizia nel mormorare alcune righe a difesa dell'innocenza di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro quanto alla loro presunta corresponsabilità nell'avere acceso la bomba di Bologna che alla mattina del 2 agosto 1980 mandò in briciole la sala d'aspetto della stazione di Bologna dove la gran parte di noi nella sua vita ha sostato per ore.
Bada bene, non intendo pontificare sull'argomento dato che su quell'episodio ne so poco di prima mano.
Dei tanti libri pubblicati e delle migliaia e migliaia di pagine processuali conosco in tutto un paio di libri, innanzitutto quello di un eccellente giornalista del Manifesto, Andrea Colombo, uno straconvinto dell'innocenza di Giusva e Francesca.
Si sbaglia? E' possibile. Com'è possibile che mi sbagli io, che pure confido sull'esperienza umana di prima mano che ho dei due (che sono miei amici e che in agosto verranno a cena a casa mia), ai quali mi indirizzò il pittore e collezionista del futurismo e mio amico Pablo Echaurren.
Come pure è possibile che si sbagli il vertice del Partito radicale, il quale è a sua volta da tempo convinto di tale innocenza tanto che li ospita nella sua sede di via Torre Argentina e paga loro uno stipendio mensile a che lavorino a un progetto che ha per titolo "Nessuno tocchi Caino", un meritorio progetto contro la pena di morte.
Come pure è possibile che ci sbagliassimo quanti di noi diedero vita molti anni fa all'Associazione "E se fossero innocenti?", associazione di cui facevano parte tipini quali Rossanda Rossanda e Furio Colombo.
Possibile. Possibile dunque che si sbagli, e si sbagli pesantemente, l'ex "nero" Marcello De Angelis il quale sostiene non solo che i due sono innocenti ma che tutti lo sanno e fanno finta di niente. Mi pare comunque abbia ragione il mio vecchio amico Paolo Guzzanti nell'avere scritto che se De Angelis ha delle prove in proposito le tiri fuori.
Non approvo invece le maledizioni inviate contro De Angelis, l'invito a ritirare quello che ha detto e a seppellirsi sotto terra. Ha detto quello che pensa. E' nel suo pieno diritto. Chi di noi sarebbe felice se dei condannati espiassero una colpa che non hanno commesso?
Giusva e Francesca hanno ammesso tutte le porcherie da loro compiute e che erano perfettamente consone alla follia ideologica dei loro vent'anni. Ne hanno pagato ciascuno dei due più o meno vent'anni di cella. Hanno sempre negato un gesto che con quella loro follia aveva poco a che vedere.
Un argomento ai nostri occhi non da poco. Che c'entra con tutto questo "il revisionismo" denunciato a grandi caratteri sulla prima pagina della Repubblica?
Stiamo solo parlando di un'altra verità possibile rispetto a quelle acclarate dalle sentenze dei giudici di Bologna. E' successo tante volte nella storia degli uomini, e tanto più quando ci sono di mezzo le avversioni ideologiche contrapposte le più forsennate. Tante volte.
GIAMPIERO MUGHINI
0 notes
Text
Tumblr media
Tra l'estate del 1976 e quella del 1977, New York fu terrorizzata dagli omicidi del serial killer "il figlio di Sam", così chiamato dal nome del fantomatico padre assetato di sangue che l'uomo diceva di dover soddisfare in due deliranti lettere rese pubbliche. Dopo un anno di ricerche, la polizia arrestò David Berkowitz, reo confesso di sei omicidi, ma un giornalista di New York, Maury Terry, continuò a indagare sulla presunta rete di satanisti di cui il killer faceva parte sostenendo l'esistenza di più complici e di una setta potente e pericolosa. Per tutta la vita Terry ha raccolto prove a favore della sua tesi, scontrandosi per questo con la polizia di New York e finendo egli stesso vittima della follia che intendeva smascherare.
3 notes · View notes
Photo
Tumblr media Tumblr media
In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi “tesori nascosti”.
Oggi l’opera e l’autore prescelti sono: "Donna Giovanna di Castiglia" di Jakob Wassermann. 
La vicenda di Giovanna di Castiglia - su cui indaga in questo racconto lo scrittore di intrecci storici e psicologici Jacob Wassermann - è stata definita un «enigma della storia» da Karl Hillebrand, lo studioso che per primo cercò di farvi luce. Nata nel 1479 da Ferdinando di Castiglia («tra le urla di cento eretici agonizzanti» nota puntualmente Wassermann), madre di Carlo V imperatore, regina sotto reggenza, morì nel 1555 rinchiusa nel castello di Tordesillas perché giudicata pazza. E proprio come «Giovanna la pazza» è passata alla storia, sebbene poco materiale vi sarebbe a prova di tale "acclarata" follia, e cioè, le sole, faziose lettere paterne; sebbene la sua causa scatenante, la morte del marito, Filippo il Bello, nel 1506, sia stata forse un avvelenamento; sebbene Giovanna fosse disagevole incrocio di immani intrighi, con al centro l'Inquisizione trionfante che lei intendeva osteggiare.
Il tema centrale della storia di Giovanna è la sua, vera o presunta, follia. Giovanna di Castiglia passò alla storia con il soprannome Juana la Loca (Giovanna la Pazza) un epiteto dai risvolti ingiuriosi e ingiusti. E c'è da pensare che forse alla fine la sovrana pazza lo diventò davvero dopo 46 anni di prigionia durissima, quasi ininterrotta. In questo breve libro Wassermann fa un ritratto realistico, a tratti anche spietato, di questa regnante dallo spirito indomito che visse in un mondo maschilista, al quale per la ragion di stato dovevano tributarsi vite, pensieri e amor proprio. Sicuramente fu una regina infelice che sembrò trovare la propria identità solo dal rapporto con il marito Filippo il Bello, morto prematuramente - vicenda rimasta oscura, che di fatto alimentò la lotta solitaria di Giovanna contro i suoi incubi, la depressione e un potere autoritario. Era stato un matrimonio di passione e amore, ma turbolento. Lei lo desiderava ardentemente ed era gelosissima: gli faceva scenate, mentre Filippo non faceva nulla per nascondere le sue concubine. Per la mentalità del tempo, la gelosia bastava a definire una donna “isterica”. Giovanna fu una donna anticonformista, ribelle, colta e passionale, giudicata pazza per questo suo amore e rimasta segregata per la maggior parte della vita nella più totale infelicità. 
Dal 18 febbraio 1509, Giovanna venne relegata da suo padre Ferdinando nel palazzo Villamarin di Tordesillas, dove continuò a portare il lutto ripensando sempre all’amato (per quanto infedele) marito. Ferdinando fece di tutto per tenere la figlia lontana dal trono di Castiglia, tenendo per sé la reggenza, il che accreditò l’ipotesi che fosse stato proprio lui ad aver fatto avvelenare il genero per impossessarsi della corona aragonese. Ma il suo regno non fu lungo. Il 14 marzo 1516, un paio di mesi dopo la sua morte, fu il secondogenito di Giovanna (ma primo maschio) Carlo ad assumere il titolo di re, al quale tre anni dopo avrebbe aggiunto quello di sovrano del Sacro Romano Impero. Carlo non liberò la madre dalla segregazione: era solo un adolescente, per di più insediato a Bruxelles, nelle Fiandre asburgiche, dunque il suo potere in Spagna appariva ancora traballante. Giovanna la Pazza (ormai la chiamavano così) rimase dunque prigioniera fino all’ultimo giorno di vita, attorniata da un centinaio di servitori, dame e gentiluomini che le costruivano attorno una parvenza di “corte”, ma che erano solo dei secondini in vesti ricamate. Un piccolo libro che in realtà è uno scrigno di storia.
Jakob Wassermann (1873-1934) scrittore tedesco del gruppo raccolto intorno a Von Hofmannsthal e Schnitzler, scrisse molti romanzi di largo successo: le sue opere valgono anche come documenti della loro epoca, influenzato dalla psicoanalisi e dallo stile di Dostoevskij, Wassermann indaga con sottile penetrazione l'animo dei personaggi nelle sue mille sfumature. Convinto di poter promuovere attraverso la letteratura l'affermarsi di un'umanità nuova, egli combatte contro ogni forma di "ignavia del cuore" e per il trionfo della giustizia. Accanto ai romanzi scrive biografie di successo e saggi nei quali si interessa anche delle condizioni di vita degli ebrei in ambienti non-ebraici. 
Dopo i roghi nazisti del 1933, i suoi libri, pur tra i più letti dell'epoca, vengono messi all'indice: per lo scrittore significa non solo la rovina materiale, ma anche il crollo delle speranze coltivate per tutta una vita: l'anelito a contribuire con la propria opera letteraria alla costruzione di un mondo di pace, privo di tensioni nazionalistiche e di odio razziale.
1 note · View note
pangeanews · 4 years
Text
“Pasolini non era scandaloso, non promuoveva lo scandalo. Pasolini, ecco, si scandalizzava”
In principio, benché sia la fine, è un corpo – il corpo del reato, il corpo del reo. Il corpo martoriato di Pasolini ricorda che ogni corpo è un reato, che ogni corpo è martire e mattatore. Ogni corpo è contundente: ci sfiora, ci ferisce. Il corpo esiste per quello, per colpire. Quando è inerme – cadavere – quel corpo rimette a noi la sua responsabilità: ne siamo colpevoli, pur colpiti.
*
L’esposizione a cui è sottoposto Pasolini ha fatto sì che il suo corpo sia stato sottratto, non c’è più. Al suo posto c’è una immagine, a volte una voce – la sua opera, il corpus, invece, è stata soppiantata dall’interpretazione. Si è colpevoli, anche, della sparizione di un corpo. Pasolini non esiste – esiste una griffe, che può graffiare qualsiasi cosa, come Nike, Adidas, Armani. Pur inseguendo il sacrilegio, forse, PPP non supponeva questo attentato, è diventato sarcofago – l’hanno reso inoffensivo, arma priva di proiettile, argomento da museo. Anche la sua nudità – il corpo esposto – non è finestra sull’osceno, né sul candore che precede ogni atto: è teca, tocco d’arte, estro d’intelletto, applausi di Stato.
*
Tutto questo – che è quasi nulla rispetto alla potenza del resto – è stato scritto, previsto, pre-detto, con concreta dedizione da Gianni Scalia, in un libro, La mania della verità: dialogo con Pier Paolo Pasolini, edito da Cappelli nel 1978, che ritorna per Portatori d’acqua, straordinaria avventura editoriale con sede a Pesaro, insieme a un notevole numero di altri materiali. Tra questi, c’è un commento a Salò o le 120 giornate di Sodoma, “il più bel film di Pasolini – un film comunque terribile”, in cui scrive, Scalia, tra l’altro: “Questo film, nella descrizione del sì più totale, cioè dell’adattamento alla realtà orribile senza residui, è allo stesso tempo l’estremo no all’adattamento. Può darsi che questa sia la virtù dei poeti. La virtù dei poeti, che nel momento in cui accettano la realtà e questa non si può mutare, la mutano proprio in quanto dicono che è immutabile”. E continua: “Potrete dirmi: questa è la virtù dei poeti, ma noi che non lo siamo? Intanto ascoltiamo la voce dei poeti piuttosto che la chiacchiera, le divagazioni inutili, le parole illeggibili, le frasi incomprensibili, questa specie di rumore di fondo e di bavardage uniforme che ci circonda e ci invade”. Il poeta non va capito – ho in sospetto la facile comprensione, immediata, che fa scattare il sorriso, l’ironia velenosa, compiaciuta, ciò che ‘avrei potuto dire io’ – va ascoltato. La poesia è nel punto d’ombra, dove luccica la selce, nell’assalto.
*
Pasolini nella lettera a Scalia, il 3 ottobre 1975: “Sono nel vuoto – in un vuoto quasi accademico o da ospedale psichiatrico – e qualcosa che mi giunga dall’esterno è un messaggio consolante e festoso. Dunque esisto!”.
*
Eppure, il corpo finale ritorna quello dell’esordio, il cadavere retrocede al me donzel, “io vivo di pietà/ lontano fanciullo peccatore// in un riso sconsolato”. Torna donzel, Pasolini, vagando nel luogo dove “la luce acceca” – la lus a imbarlumìs, è scritto, che parlare magnifico s’agglutina in bocca, tra barlume e barbaro, l’imbarbarimento della luce.
*
Gianni Scalia, l’immenso intellettuale, la mente di “In forma di parole”, isola, rifugio, incubatrice di genio per noi poveri piccoli cercatori dell’insolito, si domanda continuamente sul modo, la forma, la formula di ‘tradurre’ Pasolini. “Pasolini cercava di tradurre, e chiedeva di essere tradotto. Noi, anche oggi, stiamo ‘traducendo’ Pasolini? Stiamo aiutando, sia pure postumamente, Pasolini a essere tradotto?”. Da apolide m’è venuta in memoria L’Orestiade di Eschilo tradotta da Pasolini per Gassman, nel 1960. “Ho cominciato a tradurre… del tutto impreparato… con entusiasmo… con la brutalità dell’istinto”, scrive Pasolini. Credo che ci sia qualcosa di notevole, di nativo, di appena sorto nelle parole impreparato, entusiasmo, brutalità, istinto. La brutalità di una nascita – far nascere quel testo in altra lingua. Nell’impreparazione – cioè: nell’essere inadatti – è l’entusiasmo, brutale. Pasolini traduce Eschilo così: “E dal cuore reso finalmente umile/ dalla necessità, si fece strada/ l’impura, disperata idea:/ non lo trattenne più niente./ Perché, sorgente di ogni male,/ è la funesta follia degli atti infami/ che dà forza agli uomini./ Uccise sua figlia con le sue mani”. Che bellezza questo Eschilo che diventa Pasolini – e che Pasolini immaginava in Africa. Bisogna uccidere il figlio che è dentro di sé – o nutrirlo con il proprio sé, fino alla denutrizione – per tradurre in uomo il nostro stare. (d.b.)
***
“La storia di Pasolini è soprattutto la storia di una persecuzione (che ha condotto all’esecuzione), in forme implicite o esplicite, materiali o ideologiche, da parte di quasi-tutti: classe dirigente e stampa; magistratura e organizzazioni politiche (anche ‘di sinistra’); intellighentzia politica o letteraria; ‘moralità’ sociale e istituzionale – per non parlare della stupidità e mostruosità fascista. Negli ultimi anni Pasolini aveva cominciato un processo al Palazzo, al Potere, sempre meno confidando nella ‘opposizione istituita’; e, indirettamente, ha preparato l’odio del Palazzo, del Potere. L’esecuzione, atrocemente puntuale, è avvenuta”.
“Pasolini non era scandaloso, non promuoveva lo scandalo. È possibile, ancora, fare scandalo in questa società, possessiva e permissiva, repressiva e funzionale, egoista e ‘socializzata’? Pasolini non era scandaloso. Pasolini, ecco, si scandalizzava. È una reazione sempre meno frequente, non praticata, impensata. Sfruttamento, oppressione, corruzione, violenza, dolore, male ci fanno sempre meno scandalizzati. Pasolini voleva, prima di spiegare, comprendere fino in fondo. Conoscere e non solo avere coscienza, dei rapporti corrotti, disumani, artificiali tra gli uomini. Era ‘cristiano’? i più di noi, credo, a volte, sono scandalosi, scandalistici, non scandalizzati. In scandalo c’è un etimo di sopportazione e di insopportabilità che conosciamo sempre meno. Skandalon è ostacolo, pietra d’inciampo, rottura nel ‘progresso’ della servitù, dell’oppressione, del male: è, anche, ferita, patimento, intollerabilità: entrare negli interstizi, nei ‘buchi’, nelle dissidenze… Lo scandalizzato è un impotente, la cui sofferenza è possibilità; un tollerante, che non tollera, non sopporta e non si sopporta; si nega convivendo, si estrania abitando insieme. Pasolini, sappiamo, a volte abbassava gli occhi per non vedere gli occhi, le facce; arrossiva del pudore o della vergogna altrui, che lo giudicavano; solitario nella divorante solidarietà, cercava i rapporti, che temeva o sperava, evitava e desiderava”.
“Pasolini è stato crudele. Ci ha ricordato la realtà del mondo in cui abitiamo, abituati. Che l’avanzare può essere un declinare. Ci ha ricordato, con altrettanta crudeltà, il ‘sogno di una cosa’; in una disperata vitalità, la crudeltà del ‘diritto di sognare’. Questa crudeltà, è la sua dolcezza. I poeti (certi poeti) sono crudeli. La loro crudeltà è, forse, la memoria perduta, o dispersa, o lacunosa della dolcezza da raggiungere a costo di lungo strazio: dolcezza crudele, poiché non ci dà nessuna purificazione, eppure ricorda, attraverso il sacrificio della sua consolazione, che potrà esserci una purezza, che al di là della poesia c’è, può esserci, qualcosa che non può essere poesia. La crudeltà finale di Pasolini è nel non farsi solo giudicare, comprendere, ammirare o amare: ma nel non farci dimenticare di quella crudeltà. (E di adoperarla, finché e se, ancora, ci resta)”.
“Pasolini è diventato di consumo. Si è detto: che è una vittima della società (o del suo ‘mondo’), che era destinato, pre-destinato, che si era preparato alla morte, come in una ‘sua’ sceneggiatura (funebre, macabra sceneggiatura che soddisfa la società dello spettacolo); che è stato vittima del suo ‘corpo’, della sua ‘immaturità’. (Si dimentica che alla fine aveva abiurato dall’‘innocenza’, presunta, del corpo). Lo si indizia come un caso, lo si evoca come tema di dibattiti e convegni, fantasma benigno o maligno. Lo si eserciterà, presumo, come pensum. È presumibile che se ne faccia un film: come già si preparano fumetti, album di fotografie, calendari di ‘vizi’ (ormai ammessi), libri di edificazione programmata, chiacchiere di scandalo (lecito), vite romanzate; e saggi-verità, bibliografie e filmografie, filologia universitaria… Si è ripetuto troppe volte che Pasolini lascia ‘un vuoto’ nella cultura (nella società) italiana. Ma Pasolini viveva e scriveva in un vuoto: lui stesso in quel ‘vuoto pieno di buchi’ (come sapeva Artaud) che è la vita nella società del capitale, l’atroce, mostruosa ‘religione della vita quotidiana’”.
I frammenti sono tratti da: Gianni Scalia, “La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini”, a cura di Pasquale Alferj, Riccardo Corsi, Simone Massa, Portatori d’acqua, 2020
L'articolo “Pasolini non era scandaloso, non promuoveva lo scandalo. Pasolini, ecco, si scandalizzava” proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2YV3Tei
2 notes · View notes
spiraledecadente · 5 years
Text
REFERTO DI UN COMING-OUT FINITO MALE
Ti dicono che stai sbagliando tutto. Ti dicono che stai sbagliando strada. Ti dicono che non è la scelta “giusta” per te. Loro “sanno”. Loro “ti conoscono”. Sanno tutto di te. Conoscono ogni singolo aspetto della tua personalità, del tuo carattere, del tuo temperamento, dei tuoi gusti. Loro sanno chi sei. Cosa sei. Conoscono tutte le fasi e tutte le stagioni della tua storia, e sanno anche il significato che hanno avuto per te; conoscono profondamente tutte le pieghe – anche le più riposte e recondite – del tuo passato. E questa conoscenza presunta e presuntuosa, questa certa ferma infallibile familiarità che hanno nei tuoi confronti concede loro, stando alle loro parole, il diritto, l’arroganza di poter giudicare i tuoi desideri i tuoi sentimenti le tue pulsioni. Pronunciano sentenze moraleggianti sul tuo destino, non importa se si verificherà se si invererà se si realizzerà o meno; si atteggiano a padroni della verità, a detentori di un segreto rivelato ed esoterico, come se la verità di una persona fosse una sorta di chiave da conservare in tasca, una chiave da stringere tra le dita, e con cui giocherellare ogni tanto. Ma loro lo fanno per il tuo bene, non vogliono vederti soffrire, vogliono risparmiarti tanto dolore e tanta solitudine: tutte cose che sicuramente non mancheranno nella vita di un maschio a cui piacciono altri maschi…la mia vita. Rifuggono con repulsione e orrore il solo pensiero che un figlio possa sgretolarsi sotto il peso del fallimento (così almeno lo definiscono loro), che un figlio possa affogare nei marosi della vita, delle attese deluse, delle speranze disattese, delle illusioni sfumate…
 …Sei troppo ingenuo, troppo buono: il primo che arriverà ti userà, si trastullerà con i tuoi sentimenti, mirerà al bersaglio mobile del tuo cuore e ne farà un colabrodo e tu resterai devastato dalla delusione che ne deriverà, quando scoprirai di esserti sbagliato, di aver preso un abbaglio, di aver abbracciato un miraggio, di aver creduto in una menzogna, di aver scelto la persona sbagliata, di aver fatto la scelta sbagliata, di esserti fidato troppo. Perché tu sei così: non concepisci il male, non riesci nemmeno a immaginare che una persona possa premeditare, calcolare, ferirti, prenderti in giro, deluderti, attuare il male…E’ molto meglio rifugiarsi nel Signore, confidare in santa madre chiesa, trovati un padre spirituale con cui confrontarti su questa tua tendenza, perché non analizzi questa tua “fase”, questo tuo “sentire”, visto che di “sentire” si tratta, no !? L’hai definito così tu stesso…solo così potrai trovare la felicità, la realizzazione, la completezza a cui tanto aspiri, solo così potrai sentirti amato.
 Anche perché, diciamolo, siamo seri, l’amore tra persone dello stesso sesso non è fattibile, non è possibile, non è corretto, è una chimera, un’illusione, è ideologia; è solo un soddisfacimento dei propri bisogni, è uno sfogo dei propri istinti più bassi e degradanti, è una scarica di ormoni e basta, una vita disordinata…una volta terminato, tutto precipiterà nella solitudine, nello sconforto, nell’insoddisfazione, nella disperazione e ti troverai più vuoto di prima e con un bel pezzo di cuore in meno, e allora sarà l’inferno…Vuoi davvero scegliere l’inferno, per te, per la tua vita!? Perché invece non provi con una ragazza? Nel peggiore degli scenari, si riconfermeranno le tue “tendenze”…
 …Anche perché, sai, solo l’amore di una donna potrà salvarti, solo una donna potrà compensarti, “completarti”; solo una donna saprà darti l’amore, l’attenzione, la cura che invece vai cercando nelle persone sbagliate, nel sesso sbagliato…Due maschi che si “amano” non potranno resistere a lungo insieme, sono incompatibili, sono troppo uguali…un maschio non potrà mai comprenderti fino in fondo, men che meno ti “completerà”, non è interessato ad amarti veramente, vuole solo “andare dritto al sodo” e usarti…Come pensi di poter coniugare la fede che dici di avere con lo stile di vita che inevitabilmente, tragicamente, maledettamente ti troverai a condurre…insomma sii serio, te lo diciamo noi, non si può! Che cosa speri di poter costruire con un altro maschio, un altro te al tuo fianco? Che senso darà questo alla tua vita? E poi i figli, i figli, i figli dove li metti!? Credi davvero che non aver figli, non generare nuove creature possa rendere eterna la tua vita? …certo che no.
Stai scegliendo questo percorso perché è “comodo”, non ti vuoi affaticare; scegli di essere così perché in fondo non ti piaci e ti vuoi annientare, è la scorciatoia più veloce e agevole verso l’autodistruzione, verso la morte.
 Sicuramente sei stato influenzato dai libri che hai letto, dai film che così ossessivamente vedi e rivedi, dalla musica che ascolti, così negativa e deprimente…Senz’ombra di dubbio le figure di artisti che con così tanta santa devozione idolatri, ti hanno segnato al punto di cambiare il tuo orientamento, la tua personalità, la tua sensibilità, di deviarti, di invertirti…in fondo li ami a tal punto che vuoi imitarli, essere come loro, come loro vivere e come loro morire; la passione che nutri nei loro confronti è tale da averli eletti a modello a cui desideri conformarti. La tristezza ostentata, gli eleganti abiti luttuosi, gli occhi pesti di insonnia, bistrati di malinconia, il vizio del fumo e del vino, l’incedere lento svagato indolente, il cipiglio altezzoso e insolente, la tragica magrezza, l’attrazione per gli aspetti sordidi devianti mortiferi maledetti dell’esistenza, l’eros compulsivo disordinato occasionale, hanno inciso così radicalmente sulla tua psiche e ti ha cambiato in maniera irrimediabile, irreversibile. Il tuo tanto acclamato senso critico non esiste. La tua sensibilità è morta e sepolta. Ma guardali, i tuoi idoli infernali, osservali bene, i tuoi eroi maledetti, bellissimi perdenti e tristissimi, considera per un momento (vuoi!?) il genere di vita che hanno condotto? Dissipata dissoluta frivola vuota colma di noia e di disperazione, tanto che molti, se non tutti, sono crepati soli disperati e suicidi o quasi. Vuoi davvero fare una simile fine? Desideri consumarti e consumare la tua vita senza aver mai intravisto uno spiraglio di luce? Senza aver mai assaporato la felicità? Non credi alla redenzione, alla risurrezione della carne, alla speranza? Questa tua ridicola inspiegabile ignobile ossessione per il maledettismo, per gli aspetti oscuri negativi decadenti ti rovinerà. Ti ucciderà. E quel che è peggio è che non te ne stai rendendo conto.
 Reputiamo inaccettabile che una persona sensibile e intelligente come te, con una tale profondità, non capisca quanto pericoloso e sbagliato sia perseguire una tale sequela. Se a questo, se a tutto questo, aggiungi che ti piacciono i maschi, per te davvero non c’è via d’uscita. Voglio dire, guardati…ti sembra di essere migliorato? Intendo migliorato come persona? Ti senti più felice? E che tipo di esempio conti di dare ai tuoi studenti, che valori pretendi di insegnare loro? Hai un’aria sempre più contrita e mesta, sei sempre più magro, gli sbalzi d’umore sono sempre più forti e annichilenti, fumi sempre di più, spendi come un frivolo scialacquatore…lo vedi? Riesci a vedere, a comprendere che è unicamente a causa del tuo orientamento se sei così? E’ solo il tuo orientamento la ragione, il principio, l’origine dei tuoi malesseri così tetri e disperati.
 Baudelaire. Sempre e solo Baudelaire. Maledetto Baudelaire. Ti ha rovinato per sempre.
 E lo psicologo? Cosa dice? Non è possibile che dopo cinque anni di terapia tu sia ancora in balia dei tuoi disagi, del tuo umore, delle tue derive interiori…Non ti dice niente? Dubito fortemente della sua competenza e serietà professionale. Ti serviva qualcuno che ti spalleggiasse in questa tua follia suicida, e l’hai trovato. Non ti ha detto che si può guarire? Che l’omosessualità è una condizione reversibile? Certo che no, anche lui come te ha sposato la causa dei finocchi e figurarsi se si azzarda a dirti una cosa simile.
 Ma fatemi il piacere! Concedetemi l’altissimo privilegio del vostro silenzio. Non voglio sentire una parola di più. Non credo a singola virgola.
 Che ne sapete di quello che si prova a stare da questo lato della storia, da questa prospettiva della vita?
Cosa pretendete di spiegare con le caterve di luoghi comuni, slogan, frasette ritagliate alla bell’e meglio dai giornali e assemblate come un osceno collage del peggiore dada, frasi smozzicate prese da prediche di qualche pretino disprezzabile e ripetute come una telescrivente? Senza ragionamento, senza spirito critico, senza soprattutto – e quel che è peggio – senza umanità?
 Cosa capite voi di quello che provo io? Conoscete forse la sofferenza che si prova nell’essere ripetutamente scartati, di essere continuamente abbandonati per qualcun altro di “migliore”, di essere costantemente discriminati, derisi e disapprovati da mezzo mondo? Non potete saperlo. Non potete nemmeno lontanamente immaginare. E del resto non vi passa nemmeno per la testa mettervi nei miei (nostri!) panni.
 Non potete sapere cosa significa dover imparare molto presto, prestissimo, il senso della precarietà, il punto di vista del nomade e dover imparare alla svelta a camminare da soli, a stare da soli, in questo deserto che è la vita, senza che questo vi uccida?
 Cosa potete intendere del dover continuamente cadere e del doversi rialzare – con le sole mie (nostre!) forze – per non morire sotto gli strali dell’ennesimo rifiuto, dell’ennesima illusione sfiorita? Non potete.
Non potete poi, certo, capire cosa si prova ad avere un cuore ipertrofico, continuamente affamato, assetato di corpi, di bellezza, d’amore che appaiono sempre più irreali …proprio quell’amore che voi, cari genitori, non avete saputo dare o che avete dato parzialmente, distrattamente e che invece la vostra presunzione vi assicura, ingannandovi, di aver profuso a volontà e in maniera efficace?
 Conoscete forse la maledizione della ricerca forsennata estenuante frustrante di una persona vera, della persona giusta, la brace del sospetto, del silenzio, della gelosia, della sfiducia, del tradimento, del non sapersi (potersi?!) fidare fino in fondo, del cuore spezzato?
 L’amore, tutto l’amore, che siete convinti di avermi (averci!) dato io non lo vedo, o lo vedo parzialmente in maniera sfocata. O meglio, vedo che lo avete avvolto e riposto negli aspetti più trascurabili dell’esistenza che siete così orgogliosi di avermi dato, e che coincidono con gli aspetti più materiali (casa, cibo, scuola, mantenimento…). Certo, tutto questo ai vostri occhi apparirà come la descrizione dettagliata di un girone dell’inferno dantesco a opera di un figlio ribelle degenere ingrato…ma io preferisco una vita così, esattamente così. La preferisco di gran lunga alla vita che mi proponete e che cercate in tutti i modi di farmi abbracciare. Una vita lebbrosa. Ma io non sono san Francesco. Una vita “corretta”, discreta e rispettabile, che non dia adito a maldicenze o a chiacchiere; e soprattutto una vita “perfetta”, orribilmente perfetta, disumanamente perfetta, terribilmente compiuta e organica in tutte le sue parti come gli ingranaggi di un bellissimo e letale automa.
3 notes · View notes
princessofmistake · 2 years
Text
Dubita pur della luce stellare; stima il tramonto del sole un errore; pensa il vero adatto a ingannare, ma non dubitare del mio amore.
Nessuno, neppure Ofelia, comprese il messaggio sottointeso, e tutti pensarono che l’autore dei versi sragionasse. Da quel momento credettero che la causa della presunta follia di Amleto fosse da attribuire a motivi sentimentali e smisero di preoccuparsene, tranne Ofelia, naturalmente. Il povero Amleto si sentiva depresso ed era molto infelice. Avrebbe ardentemente desiderato ubbidire allo spettro del padre, ma era troppo generoso e sensibile per accettare con facilità di uccidere un altro essere umano, fosse anche stato l’assassino del suo genitore. A volte si chiedeva addirittura, con lacerante incertezza, se il fantasma gli avesse parlato | veramente e, in quel caso, se gli avesse detto la verità. E se, invece, si fosse trattato di un prodotto della sua fantasia o di uno spirito malefico? Proprio in quel tempo venne a corte una compagnia di attori, e Amleto chiese loro di recitare un certo dramma davanti al nuovo re e alla regina. Era la storia di un uomo che era stato ucciso con il veleno, nel suo giardino, da un parente stretto, che poi aveva sposato la vedova del morto. Potete immaginare le reazioni del re malvagio, mentre, seduto sul treno, con la regina al fianco, e circondato da tutti i cortigiani, assisteva alla vivace rappresentazione sulla scena di un’azione delittuosa simile a quella da lui stesso compiuta.
1 note · View note
maxeuterpe · 2 years
Text
Sono nata il ventuno a primavera
Alda Merini è nata il giorno di primavera, la stagione della rinascita, della vita, ma anche della follia e della poesia. La poetessa riflette proprio sul legame tra la propria presunta follia e la data della sua nascita, coincidente appunto con l’inizio della stagione più fiorita. Milva è l’ottima interprete del brano composto da Giovanni Nuti.
La poesia. Sono nata il ventuno a primavera, Alda Merini, 1991
Sono nata il ventuno a primavera
Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta. Così Proserpina lieve vede piovere sulle erbe, sui grossi frumenti gentili e piange sempre la sera. Forse è la sua preghiera.
La canzone. Sono nata il 21 a primavera, Milva, 2008
1 note · View note
vfblog · 3 years
Text
Tumblr media
Nella sua poesia “Sono nata il ventuno a primavera”, appartenente alla raccolta “Vuoto d’amore” del 1991 la poetessa riflette proprio sul legame tra la propria presunta follia e la data della sua nascita, coincidente appunto con l’inizio della stagione più fiorita.
0 notes
paoloxl · 6 years
Link
Gli americani, si sa, sono molto legati alla loro Costituzione. La Carta del 1789, firmata proprio da quel Washington che ha dato nome alla sede della Casa Bianca, trasuda delle parole che, nella mente della cultura statunitense, significano libertà e eguaglianza. Sarebbe dunque impensabile non adempiere a quell’articolo II della terza sessione in cui si richiede che «il Presidente dia al Congresso informazioni sullo stato dell’Unione». E Trump, da buon patriota, non è stato da meno. Il 30 gennaio – un martedì, come vuole la tradizione – nei suoi ottanta minuti di intervento il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti ha voluto dipingere quella che, a parer suo, è la fotografia del suo Paese, dagli affari di economia fino alla situazione geopolitica. Una sorta di bilancio degli Stati Uniti infiocchettato dai soliti speechwriter, che non hanno mancato di infarcire degli arcinoti avverbi e aggettivi come «big league», «massive», «tremendous» e «deadly» il discorso del tycoon. Ma, al di là dei commenti della stampa liberale e delle parole dello stesso Trump, ciò che è interessante è tutto il contorno in cui è stato pronunciato il discorso. È forse riflettendo su questo, cercando di dar conto della razionalità dei discorsi di Trump, che possiamo fare anche noi un bilancio a poco più di un anno dal suo insediamento. L’ultimo mese non è stato affatto facile per il Presidente. Preso dal turbine degli scandali, la stampa liberal-progressista di mezzo mondo e i Democratici hanno cercato in tutti i modi di far tremare il Governo Trump. In primo luogo, la continuazione del Russiagate, l’inchiesta lanciata dall’ex agente dell’intelligence inglese Steele il quale, temendo inizialmente che vi fossero pressioni politiche contro la candidatura di Trump nel 2016, ha passato tutti i dossier raccolti riguardanti i rapporti tra Trump e personalità russe all’FBI. Di qui si è dato tutto un gioco di pressioni, di insabbiamenti, di licenziamenti dei vertici dell’FBI, come l’ex capo James Comey, da parte dello stesso Trump. Sembra che le ultime inchieste stiano rivelando diversi contatti avuti tra i membri dell’entourage del tycoon e personaggi politici russi subito prima delle elezioni, da cui alcune interpretazioni farebbero procedere il tempestivo attacco hacker alla casella di posta elettronica di Hillary Clinton durante la campagna elettorale, uno dei cavalli di battaglia Repubblicani usati contro i Democratici. L’architettura che regge la dinamica del dibattito pubblico sul Russiagate è estremamente semplice: Trump sarebbe riuscito a guadagnarsi la presidenza grazie all’intervento della nemica storica degli americani, della Russia. Allontanandoci dalla guerra tra organi politici e esecutivi, che pure sta occupando gran parte del dibattito pubblico, l’altra scossa che le opposizioni hanno cercato di infliggere al multimilionario ha trovato fondamenta nel libro Fire and Fury del giornalista Michael Wolff. L’inchiesta, condotta in quasi un anno di frequentazione della Casa Bianca da parte del giornalista, ha raccolto le testimonianze di più di duecento persone coinvolte nel lavoro quotidiano dello staff del Presidente. L’immagine che ne esce è quella di un uomo anziano, bisbetico, presuntuoso, irascibile e piuttosto recalcitrante nei confronti delle mansioni da capo di Stato. Un assist ben lanciato agli opinionisti e commentatori dell’opposizione, i quali hanno immediatamente aperto un dibattito circa l’adeguatezza psicologico-culturale di Trump ad occupare la sua posizione. Il topos letterario impiegato è quello del «folle», del «crazy man» che non ha assolutamente alcuna idea sul futuro del Paese e che non è guidato da nient’altro che dal suo ego irrazionale e estraneo al buon senso. Una constatazione ulteriormente comprovata dall’aspro diverbio avuto con il suo ex Chief Strategist e responsabile della campagna elettorale, Steve Bannon, alias uno degli esponenti più di spicco dell’alt-right americana – una versione «del terzo millennio» dell’estrema destra suprematista, razzista e sessista. Nel libro di Wolff sono infatti riportate le frasi con le quali Bannon additava molti membri della famiglia Trump, tra cui il cognato Jared Kushner, accusato di non essere patriottico per aver intrattenuti rapporti sospetti con i russi nell’ormai famoso periodo della competizione elettorale. L’ex Chief Strategist, del resto, è stato liquidato dalla Casa Bianca come sacrificio necessario a seguito dell’attacco terroristico di Charlottesville ai danni di una manifestazione antirazzista durante la quale perse la vita l’attivista Heather Heyer. Il responsabile dell’attacco è un nazista afferente all’area politica dell’alt-right, un dato che non ha potuto far nascondere l’imbarazzo a Trump nelle sue dichiarazioni successive all’accaduto. La distanza tra Bannon e il Presidente è stata interpretata da molti come un’ulteriore giravolta del trumpismo, una sorta di abbandono della base dell’estrema destra a favore di una politica della mediazione. Difatti, nonostante le decine di ordini esecutivi firmati che più o meno corrispondono al discorso nazional-populista della campagna elettorale, molti punti sono rimasti tuttora allo scoperto: la costruzione del famosissimo muro a spese del Messico, l’abrogazione dell’Obamacare sulle assicurazioni sanitarie, la politica economica più aggressiva con la Cina, il ritorno della Great America nelle relazioni internazionali contro la Russia e, soprattutto, la Corea del Nord, una sorta di isolazionismo dalle guerre. Senza tralasciare che, nei primissimi mesi di Presidenza, i tagli al settore agricolo, sociale e sanitario sono aumentati vertiginosamente. Eppure, le accuse che gli vengono rivolte di mancato compimento delle promesse elettorali e la natura degli scandali – dalRussiagate alla sua presunta “follia” – peccano dello stesso vizio di forma: giudicano Trump come una peripezia del sistema elettorale statunitense, come se fosse il semplice risultato del consenso del «basket of deplorable» [1], della massa incolta e analfabeta caduta nella trappola populista. La verità è che la ragione populista dietro al momento elettorale statunitense non è mai stata solo e soltanto vaga, ma anche politicamente significata. Certo, il populismo, come ogni discorso politico che promette redenzione degli ultimi attraverso un capo [2], quando prende le redini del comando non può che disattendere la carica emotiva e psicologica che ciascuno attribuisce alla figura del capo, tanto simbolo universale per tutti e tutte quanto astratto e in sé privo di un contenuto preciso. Ma ciò non vuol dire che il discorso elettorale non si sia basato su di una specifica razionalità, che non abbia poggiato su un insieme di idee e di valori pre-esistenti che sono stati poi rimodellati e montati assieme dalla figura di Trump. Da questo punto di vista, è evidente la coerenza dimostrata da alcune delle sue recenti decisioni o prese di parola. America first non rimanda necessariamente ad una chiusura in se stessi, bensì alla difesa dei propri confini e delle proprie frontiere. E qual è la miglior difesa, se non l’attacco? Una postura sempre pronta all’offesa per rimarcare la potenza dello Stato-nazione e, allo stesso tempo, proteggere il territorio che si vuole colonizzare: tanto vale per il Pacifico, da cui le inquietanti scaramucce con Pyongyang, quanto per il Medio-Oriente. Soprattutto se i territori nascondono risorse e materie prime che fanno schizzare alle stelle i derivati dei mercati finanziari (altro che nemico dei banchieri!) e permettono agli Stati Uniti di giocare sul mercato del petrolio. Perché, altrimenti, Trump avrebbe stretto accordi milionari con l’Arabia Saudita e starebbe conducendo una battaglia contro l’Iran? Da dove verrebbe la decisione di riconoscere repentinamente Gerusalemme come capitale di Israele? L’America non corrisponde solo alle farm del Winsconsin o alle fabbriche della Rustbelt, ma a tutto ciò che contribuisce alla ricchezza americana – in qualsiasi parte del mondo si trovi. Allo stesso modo, possiamo vedere una razionalità profondamente americana nel suo approccio al DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), il programma con la quale centinaia di migliaia di figli minorenni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti possono ottenere un permesso di soggiorno. Dopo aver minacciato di stralciarlo, Trump ha invertito la rotta sostenendo che avrebbe trovato delle strade per garantire la cittadinanza a più di un milione di bambini. Nella cultura americana la naturalizzazione dello straniero è piuttosto accettata, a patto che la sua individualità sia compatibile con i valori americani e che nel corso dell’ottenimento della cittadinanza ci sia una completa assimilazione degli stessi. Evidentemente, i minorenni vengono giudicati idonei per questi criteri essendo magari nati e cresciuti negli Stati Uniti; non per niente sono chiamati Dreamers, perché anche loro possono ambire ai privilegi del sogno americano. Dall’altra parte, Trump tende la mano per poi lanciare il sasso: l’implementazione del DACA sarà possibile solo a patto che i Democratici avallino il finanziamento del muro con il Messico. In poche parole, se sei nato e cresciuto negli Stati Uniti, sei assimilabile ai valori della patria, quindi puoi restare; altrimenti rappresenti un membro delle forze del Male che entra per turbare l’ordine politico e sociale. Qui sì che l’America first fortifica le frontiere e tenta in ogni modo di isolarsi dall’esterno. In ultimo, non possiamo scordarci l’immaginario mobilitato dallo stesso Trump i cui effetti continuano a riesumare le radici della società “profonda”. L’impiego di concetti e parole, di misure e decisioni politiche appartenenti al mondo (neo)fondamentalista, di un’aggressione continua a tutto ciò che non è americano, ha fatto risorgere nazionalismi, il Ku Klux Klan, diversi gruppi apertamente contrari a tutte le conquiste civili, politiche e sociali ottenute dai movimenti di liberazione. Le aggressioni poliziesche ai cittadini afro-americani non sono di certo calate nell’epoca Trump, essendo il colore della pelle ancora una delle cause più determinanti delle disuguaglianze economiche e sociali. Lo si può notare proprio dal recente discorso sullo State of the Union. Trump ha rievocato quei lemmi e slogan che hanno martellato l’elettorato per quasi due anni nel tentativo di spingere sulla giusta leva. L’immaginario su cui più ha trovato il meccanismo vincente durante la campagna elettorale è stato quello dell’American Dream, del ritorno del glorioso passato in cui tutti (ossia: i maschi bianchi tax payer) potevano avere l’ambizione di salire sulla scala sociale – come ha fatto lo stesso magnate del mercato immobiliare con al sua Trump Company. Non è un caso che il sogno americano sia stato al centro del suo intervento di martedì. Se ancora ha azzardato un tentativo di universalità  parlando di unità della nazione, l’ha fatto come gesto retorico. Adesso, al contrario del periodo della corsa alla Casa Bianca, può benissimo usare delle parole molto più parziali, più posizionate, indirizzate in forma esplicita e spudorata soltanto ad alcuni elettori – insomma, ha abbandonato qualsiasi «significante fluttuante», direbbe Ernesto Laclau [3]. Difatti, come scrive Kashana Cauley sul New York Times, nel suo discorso non ha mancato di lodare la working class bianca del Midwest, ha preso le parti della polizia rispetto agli attacchi subiti dalle persone afroamericane, ha sostenuto l’apertura di Guantanamo, ha parlato di armi nucleari e ha usato un linguaggio militare per descrivere l’intraprendenza americana nella competizione economica con gli altri Paesi. Tutto questo rimanda al soggetto cardine della sua vittoria elettorale che vede nelle altre etnie e nella diversità dalla propria identità un nemico da cui bisogna difendersi, davanti al quale è opportuno serrare le fila. L’America da sogno è fatta su misura di questo soggetto maschio, bianco, eterosessuale e proprietario: non per gli altri. È finito il tempo dell’elemosina dei voti trasversali per cui bisognava convincere anche chi apertamente osteggiato dalla ragione populista di Trump, che indubbiamente ha avuto il merito di raccogliere molto consenso elettorale tra le donne bianche, alcuni ambienti LGBT e di una parte della popolazione latina. Se, tuttavia, non si capiscono il senso dei suoi discorsi, le persone a cui si dirige, la vita quotidiana che incarna la politica trumpiana e l’insieme di idee profondamente radicate in America, si continuerà a pensare che Trump ha vinto per un complotto russo oppure che il sistema elettorale ha favorito gli incolti – a fronte delle statistiche che parlano di una sfaccettatura di classe istruita e di media estrazione come sua sostenitrice. Dopo un anno di Trump, forse il suo populismo è svanito, ma ancora ben saldo rimane l’orientamento della sua agenda. Magari tra quattro anni anche lui sarà diventato un sogno, ma fintantoché non si individuano le cause specifiche che lo hanno reso possibile, gli americani non abbandoneranno il loro Dream intriso di frontiere interne ed esterne, costi quel che costi. [1] Espressione con cui Clinton ha additato l’elettorato di Trump in uno dei suoi ultimi interventi prima dell’Election Day. Per molti analisti, Trump ha potuto vincere grazie al rigurgito anti-classista che Clinton ha suscitato nell’elettorato; [2] Cfr. M. Canovan, Trust the People! Populism and the Two Faces of Democracy, in «Political Studies», Volume 45, Numero I, Marzo 1999, pp. 2 -16; [3] Laclau E., La razòn populista, Fondo de Cultura Economica, Mexico, 2006;
1 note · View note
Text
Maria e il Suo popolo. Svolta storica sul "caso Fontanelle"
Alla presenza di migliaia di fedeli oranti, il vescovo di Brescia, visibilmente commosso, ha proclamato la costituzione del Santuario diocesano di Maria Rosa Mistica e Madre della Chiesa. "Una pagina importantissima, non solo per il caso di queste presunte apparizioni mariane, ma per la storia di tutta la Chiesa". Riccardo Caniato, studioso ed esperto della vicenda, ci spiega perché.
Tumblr media
di Costanza Signorelli (10-12-2019)
Era stato ampiamente annunciato nei mesi scorsi, eppure quanto è accaduto sabato 7 dicembre 2019, a Montichiari (Brescia), ha superato di gran lunga le aspettative persino dei più devoti.
Ebbene, verso le 16 di pomeriggio, decisamente troppo presto per un tramonto, seppur di una giornata alle porte dell’inverno, il cielo in pochi minuti si è tinto di rosso fuoco e il sole – così riferiscono moltissimi presenti, che hanno poi scritto in redazione – è stato visibile a occhio nudo, per diverso tempo e senza alcuna difficoltà.
Tumblr media
Dall’altra parte, ha parlato l’immagine del vescovo, inginocchiato ai piedi del Crocifisso e visibilmente commosso dinnanzi a migliaia di fedeli oranti, completando così il quadro suggestivo di una giornata che passerà alla storia.
Stiamo parlando della Santa Messa celebrata da Sua eccellenza Pierantonio Tremolada, vescovo di Brescia, in occasione dell’istituzione del Santuario diocesano Rosa Mistica – Madre della Chiesa ove, dal dopoguerra ad oggi, si è sviluppato un culto mondiale rivolto alla Madre di Cristo e del Suo Corpo mistico, che è la Chiesa.
"Profondamente coinvolto e grato”, è lo stesso Riccardo Caniato, il quale, primo curatore dei Diari della presunta veggente di Fontanelle, Pierina Gilli, nonché membro ufficiale della Fondazione Maria Rosa Mistica, racconta in esclusiva a La Nuova Bussola Quotidiana l’importanza di tale evento.
Caniato, perché secondo lei questo riconoscimento da parte della Chiesa è tanto importante? È un fatto importantissimo sia, nello specifico, per il "caso di Fontanelle”, sia per tutta la Chiesa in generale. Mi spiego. Nell’omelia di sabato scorso, il vescovo Tremolada, dopo aver espresso gioia e gratitudine per la proclamazione del nuovo Santuario diocesano dedicato alla Beata Vergine, ha usato queste parole: “Con questo atto solenne ci inseriamo in un solco aperto da chi ci ha preceduto”. Ebbene, questo "solco aperto", è senz’altro quello tracciato dagli ultimi vescovi bresciani che hanno preparato la strada, ma, ancor di più, è il solco del sensus fidei del popolo di Dio. Perché, e mi piace pensarlo: è stata proprio la grandissima fede del popolo mariano, sparso in tutto il mondo, a rompere i pregiudizi e a mostrare questo luogo sotto una nuova luce.
Sta parlando di una Chiesa che ascolta ed ama la fede del suo popolo? Lo ha detto il vescovo, proprio parlando di “coloro che - cito testuali parole - sino ad oggi, in questo luogo, hanno pregato con fede e hanno aperto il cuore all’azione dello Spirito Santo, capace di convertire e rigenerare alla vita di fede”. E sappiamo tutti che a Fontanelle il giudizio della Chiesa, in passato, non è stato sempre "in sintonia". Poi, in primis, c’è ovviamente la straordinaria opera di Maria.
Quale opera? Ci racconti… Nonostante le vicende legate al culto e al discernimento delle apparizioni siano state per un certo tempo rallentate, come avviene spesso nell’indagine di fenomeni di natura mistica, sin dagli anni ‘60/’70 è nata, attorno a Rosa Mistica, una devozione spontanea che si è diffusa presto in tutto il mondo. E ben presto hanno iniziato a verificarsi numerosi fatti inspiegabili, legati in particolare ad alcune statue e immagini di Rosa Mistica.
Ce ne dice qualcuno? In Libano, per esempio, sono state trovare icone di Rosa Mistica che trasudano olio profumato, in America ci sono statue che hanno pianto lacrime e sangue, il medesimo fenomeno si è verificato in India, dove vescovi e cardinali hanno visto trasudare miele, segno di benedizione, da un’immagine della Vergine, e via dicendo… Poi ci sono i miracoli: sono nate almeno due congregazioni religiose ispirate a Rosa Mistica, che fanno riferimento a Brescia e che sono state riconosciute dai rispettivi vescovi, oltre ad una miriade di associazioni religiose. Le guarigioni e le conversioni, invece, non si contano più…
Ma nonostante tutto questo non c’è ancora un riconoscimento delle apparizioni, giusto? No, non c’è. Bisogna specificare che il riconoscimento del Santuario diocesano, avvenuto lo scorso sabato, non significa automaticamente il riconoscimento delle stesse apparizioni. Ma al riguardo ci sono due importanti notizie. La prima è che solo di recente si è scoperto che sulle apparizioni di Maria Rosa Mistica non esiste alcun decreto di “non constat”, come invece si pensava. Infatti, quando l'allora vescovo, mons. Giacinto Tredici, nel 1951, si recò nella parrocchia di Montichiari e disse: “Non ci sono elementi sufficienti per riconoscere la soprannaturalità”, a tale dichiarazione sospensiva, non fece mai seguito alcun decreto formale! Almeno a Brescia non ce n'è traccia. Questo significa che tutti i pronunciamenti successivi della Diocesi di Brescia, che si appellavano a tale decreto, vedono cadere il loro principale fondamento.
E la seconda notizia? Sta, ancora una volta, nelle parole del vescovo Tremolada quando nell’omelia dice: “Ci conforta la piena comunione tra la nostra Diocesi e la Santa Sede, nel comune desiderio di intraprendere con verità l’esperienza straordinaria vissuta da Pierina Gilli in grande umiltà e con sincera fede”.
Appunto. Veniamo ora alla presunta veggente, Pierina Gilli: dunque anche su di lei il giudizio sta cambiando? Di certo sta emergendo una verità: le indagini su Pierina Gilli furono affrettate, probabilmente a causa di un certo pregiudizio. Tutte le voci a lei favorevoli furono messe a tacere, per dare spazio solo ai pareri contrari alla sua credibilità e al suo stato di salute mentale. Inoltre, occorre sottolineare che la Gilli, ai tempi delle indagini, fu intrappolata per quaranta giorni senza contatti con il mondo esterno: non poteva confessarsi, non poteva parlare con i parenti e non poteva ricevere l’Eucaristia. In tale stato, le fu detto che se non abiurava le apparizioni sarebbe stata scomunicata. Non ha mai ritrattato. Senza contare che, in quel periodo, la poveretta soffriva dolori lancinanti nel corpo e subiva assalti diabolici continui, tra i quali i tormenti notturni che non le permettevano mai di riposare.
Tumblr media
Perché tanto accanimento contro di lei? Da una parte c’è il fatto che le profezie fatta dalla Madonna si dovevano compiere pienamente. Rosa Mistica infatti l’aveva avvisata: la missione di Pierina le sarebbe costata grandissime sofferenze, tra cui calunnie, umiliazioni e il fatto stesso di non essere creduta da molti, anche all'interno della Chiesa.
E dall’altra? Dall’altra parte, io penso, c’è il contenuto dei messaggi che la Madonna diede a Pierina: non era affatto - diremmo oggi - “politicamente corretto”…
In che senso? Cosa disse la Madonna a Pierina? A Pierina Gilli la Madonna appare presentandosi come "Maria Rosa Mistica e Madre del Corpo Mistico, la Chiesa" e si mostra in vesti candide con tre rose sul petto. Fu Lei stessa poi a spiegare il significato di queste rose: erano le preghiere, i sacrifici e le penitenze richieste alla veggente e a chiunque avesse creduto a questa sua venuta, per riparare i torti di tre specifiche categorie di consacrati.
Quali? I consacrati che vengono meno alla loro vocazione, quelli che vivono in peccato mortale e i sacerdoti che tradiscono Gesù, come Giuda. Chiaramente, per la Chiesa di allora, con i seminari ancora pieni, era impensabile un richiamo tanto esplicito e tanto drammatico circa le proprie mancanze e negligenze. In poche parole, nell’immediato dopoguerra, la Madonna paventava una grande crisi di fede che avrebbe colpito il cuore della Casa di Dio nei suoi figli prediletti, i consacrati. E richiamava con forza ad una nuova conversione di fronte al dilagare dell’indifferenza e dei gravi peccati. Ebbene se, al tempo, poteva sembrare la follia di una sedicente veggente, oggi tutti possono riconoscere che in queste parole c'era una profezia.
Maria indicò anche una strada per uscire da questa grave crisi? C’è un messaggio molto significativo che Rosa Mistica lascia a Pierina, il 17 aprile 1978: «Pregate figli, pregate anche per quei vostri fratelli che fanno soffrire tanto la Chiesa del Mio Divin Figlio Gesù Cristo... anch’essi hanno un’anima da salvare... offrite almeno voi figli diletti sacrifici al Signore per una loro conversione radicale... che dalla rinuncia del peccato... ritornino alla pienezza di una vita nuova di veri cristiani. A voi miei figli che siete stati fedeli all’amore del Mio Divin Figlio Gesù Cristo continuate ad amare dando a questi fratelli che si sono allontanati il perdono di amore!...». (qui la Madonna si dimostrò tanto dolce e maestosa). «Allargo le mie braccia, apro il Mio Cuore materno donando a tutti i figli il Mio amore di Madre!... La gloria del Signore trionferà!...». La Madonna a Fontanelle, infatti, mette in guardia l'umanità da un castigo in particolare: l’ateismo, ovvero la crisi della fede come vera minaccia per il mondo e per la Chiesa stessa.
Preghiere, sacrifici, penitenze, Cuore Immacolato di Maria: sembra di sentire il messaggio di Fatima… Come sempre le apparizioni della Madonna si intrecciano in un unico disegno di Salvezza. C’è infatti un grandissimo legame tra le apparizioni di Fatima e le presunte apparizioni di Fontanelle. Tanto è vero che il 7 dicembre del 1947, la Madonna, apparendo a Pierina nel Duomo di Montichiari, le mostrò proprio Giacinta e Francesco di Fatima: «Essi ti saranno compagni in ogni tua tribolazione. Hanno sofferto anch’essi benché più piccoli di te». (...) «Ti aiuteranno. Ecco quanto desidero da te, semplicità e bontà come in questi bambini»
Un’ultima domanda: concretamente cosa può fare un fedele che intende ascoltare e seguire Maria Rosa Mistica? La Madonna a Fontanelle chiede poche cose, ma molto precise. 1. L’unione mondiale della Comunione riparatrice il giorno 13 di ogni mese per tutti gli oltraggi e le offese a Gesù Eucaristia. 2. Inoltre, sempre il 13 di ogni mese, data legata appunto alle apparizioni di Fatima, Rosa Mistica chiede: la confessione dei peccati, la partecipazione alla Santa Messa, la Comunione, la recita del Rosario e un’ora di Adorazione eucaristica. 3. Infine che, l’8 dicembre di ogni anno, si pratichi a mezzogiorno l’Ora di Grazia universale: “Con tale pratica – dice Maria – si otterranno numerose grazie spirituali e corporali”. Oltre a questo, sull'esempio di Pierina Gilli, la Madonna invita i fedeli ad offrire la propria vita per amore di Cristo e della Sua Chiesa.
0 notes
giancarlonicoli · 4 years
Link
16 NOV 2019 11:08
IL NECROLOGIO DEI GIUSTI - ANTONELLO FALQUI, SCOMPARSO NELLA SUA ROMA A 94 ANNI, LA TELEVISIONE L’HA DAVVERO FATTA TUTTA. DAL PRIMO GIORNO: HA INVENTATO GRAN PARTE DELLO SHOW RAI - METICOLOSO, INVENTIVO, CAPACE DI PROVARE E RIPROVARE COREOGRAFIE E MOVIMENTI DI MACCHINA, SI DISSE DI UNA FURIOSA LITE FRA LUI E LE KESSLER SCATENATA DALLA SUA PIGNOLERIA, E DI UNO SCONTRO EPOCALE CON PATTY PRAVO A “CANZONISSIMA”…
-
Marco Giusti per Dagospia
Le Kessler, Mina, La Biblioteca di Studio Uno, Il Musichiere. Certo. Ma il massimo era quel “Regia di Antonello Falqui”. Ora che se ne è andato per sempre, “per un lungo, lungo, lungo viaggio” come ha scritto su facebook, di Antonello Falqui ci torna in mente questo cartello che ci ha accompagnati da piccoli spettatori davvero per tanti anni in quel bianco e nero nebuloso prima e splendente dopo. Un cartello vecchio quanto la televisione. Perché Antonello Falqui, scomparso nella sua Roma a 94 anni, la televisione l’ha davvero fatta tutta. Dal primo giorno.
Firmando la regia di “Arrivi e partenze” con Mike Bongiorno, il primo programma di intrattenimento della Rai nel 1954, mentre Vito Molinari firmava la prima ripresa di quel giorno con l’inaugurazione delle programmazioni della Rai. Sua la regia di programmi meravigliosi dei primi anni della Rai, “Il Musichiere” presentato da Mario Riva (1958-59-60), “Canzonissima” (1958-59-68-69), “Studio Uno” (1962) che fu il primo programma all’americana della Rai, il geniale “La Biblioteca di Studio Uno” (1964), operette e zibaldoni ispirati ai grandi classici della letteratura come I tre moschettieri o l’Odissea intepretati dal Quartetto cetra e dai grandi attori del tempo, lo “Studio Uno” con Lelio Luttazzi (1966), “Milleluci” (1974), “Dove sta Zazà” con Gabriella Ferri e Pippo Franco, “Bambole non c’è una lira!” (1977), dedicato ai grandi giorni dell’avanspettacolo con un giovanissimo Christian De Sica esordiente.
Meticoloso, inventivo, capace di provare e riprovare coreografie e movimenti di macchina, si disse di una furiosa lite fra lui e le Kessler scatenata dalla sua pignoleria, e di uno scontro epocale con Patty Pravo a “Canzonissima”, Antonello Falqui si inventa, assieme a Vito Molinari, gran parte degli show della Rai, cioè della tv italiana, e cura con una precisione da grande regista delle stelle di prima grandezza come Mina o le stesse Kessler da mettere nei sabato sera degli italiani. Non è mai solo un metteur en scene.
Nato a Roma nel 1925, figlio di un critico, studio regia al Centro Sperimentale di Cinematografia nel primissimo Dopoguerra pensando magari al Neorealismo di Roberto Rossellini. Nel cinema mette piede solo come aiuto regista di Curzio Malaparte in Cristo proibito con Raf Vallone. Già nel 1952, a 27 anni, ha lasciato il cinema e è a Milano a lavorare da regista per la prima tv sperimentale. Il suo vero esordio è appunto per “Arrivi e partenze” nel 1954, ma è con “Il Musichiere”, scritto da Garinei&Giovannini, presto seguito da “Canzonissima”, che capisce veramente che il varietà è il suo mestiere.
Grande regista da studio negli anni ’60, si permette divagazioni con il teatro filmato, “Felicita Colombo” con Franca Valeri e Gino Bramieri, “Addio Giovinezza” con Nino Castelnuovo e Gigliola Cinquetti, o con il quasi film “Giandomenico Fracchia” con Paolo Villaggio. Mentre impazza il ’68 e tutto quello che ne consegue, Falqui si chiude addirittura nell’operetta, “La vedova allegra” con Johnny Dorelli e Catherine Spaak, che il sabato sera prende il posto dei suoi grandi spettacoli o negli show da vecchioni, come “Speciali per noi”, parodia di “Speciale per voi”, con il trio Aldo Fabrizi-Ave Ninchi-Paolo Panelli. Ma sono suoi anche i meravigliosi “Stasera con…”, incontri musicali con Patty Pravo, Gianni Morandi, Gina Lollobrigida, Adriano Celentano.
Grande appassionato di varietà e di avanspettacolo, se lo reinventa negli anni ’70 con “Dove sta Zazà” e “Mazzabubù” con Gabriella Ferri e i comici del Bagaglino, danod il via a una rivisitazione del periodo che durerà fino a oggi e che lui stesso proseguirà con il geniale “Bambole non c’è una lira” e “Giochiamo al varietà”.
Negli anni ’80 firma la regia di piccoli programmi sperimentali con nuovi comici come “Cinema, che follia!” con Daniele Formica, Sergio Rubini, Margherita Buy, ma anche dello spettacolone del Sistina “I 7 re di Roma” con Gigi Proietti scritto da Luigi Magni. I suoi ultimi spettacoli sono i concertoni di Pavarotti nei primissimi anni ’90. Ha insegnato all’Accademia di Macerata e è sempre stato molto disponibile con tutti nel ricordare gli anni della sua grande televisione. Ma la storia presunta con Mina sarà stata vera?
0 notes
piergiorgiocattani · 7 years
Text
La “normalità” che ci lascia tanti dubbi
Tumblr media
Sgombriamo il campo da qualsiasi equivoco: il maschilismo esiste, il femminicidio è una piaga sociale. I dati sono incontrovertibili. La stragrande maggioranza degli omicidi – per non parlare degli altri tipi di violenza quotidiana - che investono in qualche modo la sfera degli “affetti” sono perpetrati da uomini contro donne.
Per questo ben venga qualsiasi provvedimento volto non solo a difendere le donne, ma anche a creare le condizioni in grado di far maturare la coscienza maschile, spesso ancorata a retaggi atavici basati sul possesso. Occorre lavorare di più nell’educazione all’affettività. Molte volte su questo giornale sono state scritte parole chiarissime sul tema. Parole che rompono il silenzio a fronte di questi episodi. Noi uomini dobbiamo “chiedere scusa a tutte le donne che pensiamo di poter sottomettere, alle donne di cui pensiamo di poter disporre”.
Forse però la tragedia di Tenno non può essere completamente letta secondo le categorie del maschilismo che vuole annientare la libertà femminile. Le circostanze dell’omicidio – suicidio che ha sconvolto tutto il Trentino sembrano andare in un’altra direzione. Forse ancora più incomprensibile.
Cominciamo dall’età dei due sventurati protagonisti: giovanissimi, due “ragazzi”. Come tanti. Più fortunati di tanti, ambedue con un lavoro. Con la salute in tasca, con un lungo futuro davanti. Con alle spalle famiglie coese, solide come evidenziano la forza, la dignità e l’esempio dimostrati dopo la devastante sciagura piombata loro addosso. La struttura comunitaria intorno ai due giovani sembrava essere ugualmente coesa: tutte le testimonianze concordano nel raccontare storie positive di ragazzi positivi, ben inseriti, amanti dell’amicizia e del divertimento, seri sul lavoro. Progettavano di andare a vivere insieme. Erano assecondati in questo loro desiderio. Non si parlava (ovviamente, visti i tempi che corrono) di matrimonio, di quella istituzione che, per molte femministe e non solo, rappresenta la concretizzazione della millenaria impostazione maschilista.
Non era un ambiente retrogrado. Non vigeva una gerarchia patriarcale. Mattia era nato nel 1993, Alba Chiara nel 1995. Hanno frequentato le scuole dopo il 2000, non nel 1950. L’educazione, i programmi scolastici, gli approcci formativi prevedevano già un’attenzione particolare nei rapporti di genere. La violenza sulle donne era già uscita dalla precedente clandestinità. Forse si investe ancora troppo poco in questo. Forse dobbiamo moltiplicare gli sforzi. Certo, i risultati stentano ad arrivare. Anzi: vuoi per un diffuso clima di astio e di risentimento, vuoi per la crisi economica, vuoi per una regressione generale, constatiamo il dilagare di un linguaggio volgare intriso d’odio, pieno di doppi sensi sessisti e soprattutto scagliato contro i più deboli. Chi è povero e svantaggiato, chi parte da una condizione di subalternità non solo non viene compreso e aiutato, ma viene disprezzato e ulteriormente emarginato. Le donne, soprattutto se deboli, rientrano sovente in queste categorie soccombenti. Su questo dovremmo interrogarci.
Tuttavia, ancora una volta, non sembra questo l’ambiente in cui si è consumato il dramma di Tenno. Sembra invece un contesto “normale”. Proprio la normalità è l’elemento che ci spaventa. Allora si cercano le cause, per evitare, anche inconsciamente, che gli stessi fatti accadano a noi. Ecco invocare la presunta disperazione dell’omicida, il senso di solitudine non compreso da quanti gli stavano vicino, gli introvabili screzi o dissidi nella giovane coppia, il nichilismo della nostra epoca. Sono tutti palliativi, placebo che non curano le ferite. E che non prevengono l’insorgere improvviso del morbo.
Non si può nemmeno liquidare il nefasto gesto di Mattia a un raptus di follia. Qualcosa però, nella testa del giovane, si deve essere rotto. Qualcosa che lo ha spinto nell’immaginare la morte come situazione migliore rispetto alla vita, a una vita all’apparenza priva di dolore. Ma il dolore c’era. Alla fine ha avuto il sopravvento. E per eccesso di un amore possessivo e immaturo (derivato da una fragilità di fondo la cui entità non sapremo mai), Mattia doveva portare con sé Alba Chiara. La vita della coppia andava fermata in quell’attimo. Per immortalarla – non c’è verbo più atrocemente realistico – in una di quelle splendide immagini tratte da Facebook. Foto di sorrisi e speranze.
Sembra di risentire le parole della canzone “Insieme” di Mogol/Battisti interpretata da Mina. Ecco Mattia ha voluto “fermare” la sua esistenza insieme con quella di Alba Chiara. “Io non ti conosco, io non so chi sei”: così comincia la canzone. Possiamo riferire questa frase a noi stessi, alla vita, alla nostra libertà.
Articolo apparso sul Trentino il 4 agosto 2017
0 notes
ramveggie · 4 years
Link
Bessarabia. XVIII sec. La pecora smarrita
Una cosa nuova mai posta sul conto dell’Apocalisse di Giovanni evangelista, una “porta stretta” che si lega alla nota parabola della “Pecora smarrita di Gesù” raccontata nel Vangelo secondo Matteo (18,12-14) e nel Vangelo secondo Luca (15,3-7).
Leggiamo la parabola di Luca per intravedervi il nesso in questione:
«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.»
A prima vista è arduo capire dove e come trovare il supposto nesso sulla “porta stretta” nel libro dell’Apocalisse in questione, anche se dal punto di vista della catechesi evangelica è ben chiaro l’insegnamento ivi riposto.
Sul conto dell’Apocalisse giovannea, cominciamo col dire, che il fatto di definirla “stretta”, al punto da non riuscire rintracciarla, è perché non si medita che attraverso di essa deve poter entrare il male e uscire puro e immacolato, il bene, e andiamo oltre.
Ora facciamo riflessioni sull’immagine sopra esposta dove si vede il Buon Pastore, nelle vesti del Signore Gesù, che porta sulle spalle, con sé pieno di gioia, la  ritrovata pecora smarrita del suo gregge, e poi ritorna là dove era partito. Ma per far questo, egli si è dovuto recare in un luogo impervio in cui ha trovato la sua pecora che conviveva con altre bestie poco rassicuranti. Non è stato facile per lui strapparla da quel luogo, ma, se dapprima la sua pecora era ostile a seguirlo, poi di buon grado si è lasciata prendere per far poi rientro al lontano gregge.
Si è capito ora perché la “porta”, in questione, cioè il varco che separa le bestie estranee a quel provvido pastore, da quelle del suo gregge, è stato definito “stretto”. Non perché era fisicamente “stretto”, ma perché in questo varco è avvenuto tutto il processo di “trasformazione” (di “trasmutazione” se si valutano le stesse cose in termini alchemici) del “malsano” della “pecora smarrita” in un corrispondente relativo “buono”. Si capisce che, con la “pecora smarrita”, si parla in modo traslato dell’uomo. Ma non basta, perché vi è dovuto corrispondere un sacrificio da parte di quel Pastore nel mettere da parte la sua dignità per avere a che fare con delle bestie del male onde recuperare la sua pecora. Egli, che in realtà è il Signore Gesù, ha dovuto introdurre nella “pecora smarrita” (l’uomo peccatore) la “vita” per bilanciare la “morte” causata dal fatto di aver fatto lega col malsano dell’ambiente in cui si è trovata.
La bestia di terra dell’Apocalisse di Giovanni
Ecco ho detto quanto basta per far trapelare nella “pecora smarrita” la famosa «bestia di terra» dell’Apocalisse di Giovanni (Ap 13,11). Poi sarà ripreso questo tema, e cominciamo coll’esaminare l’Apocalisse di Giovanni come ci appare nel suo insieme.
Signorelli. Duomo di Orvieto. Cappella San Brizio. Particolare Predica e fatti dell’Anticristo
In questo libro sacro, presente e futuro sono come uniti fra loro, e anche se è tutto scritto al futuro, il suo scopo è verosimilmente rivolto al presente, cioè si parla del futuro per parlare del presente. E poi occorre chiedersi che senso ha una così lunga e complicata disamina escatologica come questa del libro dell’Apocalisse in esame, tutta orientata su un percorso che ci presenta una serie di fatti sulla presunta fine del nostro mondo, quando la stessa cosa è annunciata nella sua cruenta catastroficità dall’apostolo Matteo nel suo Vangelo 24,1-48?
Notare che, se il libro dell’Apocalisse è stato suggerito a Giovanni da un angelo su incarico di Gesù (come di un passamano), il Vangelo di Matteo è stato invece suggerito direttamente da Gesù.
C’è una significativa differenza per far capire il vero scopo dei due annunci, non sembra? Il primo è come visto da lontano dall’avvenire, mentre il secondo è quanto avverrà alla fine dei tempi. Ma sondiamo alcuni particolari per capire meglio.
Il Vangelo di Matteo non indica date o periodi precisi circa la fine del mondo, anzi dice che il “giorno” e l’“ora” della fine sono conosciuti solo dal Padre, ma è prudente che l’uomo non lo sappia, sembra di capire implicitamente. Importa contare sul ritorno definitivo e glorioso di Cristo che dice rincuorandoci:
«Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, …» (At 1, 7-8).
Allora non resta che ipotizzare una duplice ragione di fondo dello scopo dell’Apocalisse giovannea.
La prima ragione è che essa profetizzi “anche” la fine del mondo in cui viviamo, come tutte le cose che hanno una fine, a cominciare della nostra vita. Tuttavia non è questo lo scopo primario.
Se si riflette sul fatto che in realtà ogni essere vivente vive anche in un mondo a se, cioè nella sua interiorità, la cui sede è la mente-terra con una propria popolazione – mettiamo – di esseri-pensiero, allora è qui che trova spiegazione e scopo la seconda ragione di fondo dell’Apocalisse.
Di conseguenza ha senso concepire l’idea che possa far da ammaestramento ogni cosa detta in seno ad essa, come se fosse un percorso spirituale da porre in atto per sollecitare energicamente tutti gli uomini a vivere come se in ogni giorno della loro vita terrena dovessero essere giudicati.
Ma c’è di più da capire.
Riflettiamo bene su ciò che dice Giovanni nella conclusione del libro dell’Apocalisse, cioè:
<Poi mi disse: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro». Sono io che ho visto e udito queste cose.>. (Ap 22,6-8)
Cosa viene dire in conseguenza?
Si deve credere che Gesù si sia dato pena di incaricare un angelo per mostrare a Giovanni le suddette parole  «certe e veraci», per il diletto di molti studiosi presi a svelarle, fra i quali in gran parte curiosi presi solo per l’esclusivo gioco d’indovini per poi vantarsene e dire a tutti, “guardate come sono stato bravo”? Perché così sembra che siano tutti i dialoghi in merito pubblicati, per esempio, sul web, sul tema in discussione. Ed è davvero penoso tutto questo, una insana follia e stoltezza che degrada l’uomo anziché elevarlo: tante occasioni perse!
Si nota che nella suddetta conclusione dell’Apocalisse, Giovanni dice fra l’altro
«… ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto»?
Che vuol significare?
Vuol significare forse che la fine del mondo in cui Gesù verrà è così immediata come vogliono far credere le parole «tra breve» e «presto»?
Ma invece, così non è affatto poiché da quando è stata messa per iscritto tutta la frase relativa, sono trascorsi ben più di 2000 anni e non è accaduto nulla di catastrofico nel frattempo per la nostra Terra!
E allora che bisogno c’era di dirla in tal modo?
Poteva dire – mettiamo – «… ciò che dovrà accadere. Ecco, io verrò quel giorno.», alludendo ad un certo indefinibile futuro escatologico.
Invece Gesù dice categoricamente di seguito alla frase in questione:
«Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati quelli che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, gli omicidi, gli idolatri e chiuque ama e pratica la menzogna!» (Ap 22,12-15).
Dunque non resta che convincerci che si tratta di un continuo venire nel tempo di Gesù, da quel giorno in cui fu scritto e diffuso il libro dell’Apocalisse, ad oggi e fino ad un certo lontano domani indefinibile. (Ap 22,12-15)
Detto questo, resta allora da capire come affrontare le astruse frasi espresse nel libro dell’Apocalisse, convinti che siano istruzioni per istradare l’uomo verso un percorso spirituale e siano così «Beati quelli che lavano le loro vesti» (Ap 22,14), come raccomanda Gesù.
Ma sarà Gesù stesso che opera questo intervento spirituale, e lo dice chiaramente tramite gli Atti degli Apostoli:
«riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8).
Si capisce così, ancora meglio, che l’ammaestramento di ogni catecumeno (per usare un vecchio termine dei primi cristiani) comporta diventare come nuovi apostoli di Gesù.
Ed ora si ha modo di capire un primo punto chiave nell’impatto con il testo dell’Apocalisse, nel tentare di farvi altra luce e così instradare il catecumeno che ha “sentito” il richiamo di Gesù, per istruirlo attraverso di esso. Ma al primo impatto si resta perplessi.
Si parla di una «bestia di terra che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago.» (Ap 13,11), ma che di lì come a inscenare tre fasi operative, nel giro di «un ora» (Ap 17,12), «tre giorni e mezzo» (Ap 11,11) o «un po’ di tempo» (Ap 20,3), diventa l’«Agnello» cioè come chi sta in mezzo al «trono del Dio vivente» (Ap 5-6). Come a imitare un “modello” di Agnello divino. In un certo senso, memori di ciò che è stato detto all’inizio con la parabola evangelica della pecora smarrita, si è preparati per capire che è da qui si dispone tutto il piano salvifico dell’uomo preso al laccio dal male che la “bestia” in questione rappresenta.
Cioè che è la “bestia” in questione, che spadroneggia nella nostra mente, e a causa di questo stato spregevole viene detto dall’angelo a Giovanni «Beati quelli che lavano le loro vesti», cioè di “lavare le sue spoglie grossolane e moleste”.
Ma riprendendo la fugace allusione all’Alchimia fatta in precedenza, in relazione la processo di “trasformazione” della bestia-agnello in Agnello di Dio, ho inteso definire fra parentesi col termine “trasmutazione”, con il “lavare le sue spoglie”, che è ciò che si attua nella cosiddetta Opera al Nero (Nigredo).
Ma riprendiamo il tema della parabola della pecora smarrita di Gesù raccontata nel Vangelo secondo Matteo (18,12-14) e nel Vangelo secondo Luca (15,3-7), e rileggiamo quella di Luca, cosa già fatta all’inizio:
«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.»
“Pecora” o “agnello” sono simboli che si equivalgono e allora un “agnello” che si “smarrisce” nel mondo delle bestie malvagie e aggressive non può che essere descritto come dice Giovanni nell’Apocalisse:
«Vidi poi salire dalla terra un’altra bestia, che aveva due corna simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago.».
Dunque c’è da chiedersi perché con la parabola della “pecora smarrita” Gesù dice fra l’altro «ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito»?
La spiegazione è chiaramente palese riflettendo sulla differenza della “pecora smarrita” rispetto alle 99 del gregge, che è: « parlava come un drago».
Ma cosa poteva comportare questa differenza?
Il drago è la “bestia”, cioè l’antico angelo serafino fulgente, Lucifero il primo davanti a Dio, il portatore di luce.
E allora la “pecora o agnello smarrito”, avendo praticato inevitabilmente l’arte del drago, cioè si è impregnato della sua “luce”, quando era nel suo ambiente, aveva accettato in sé un frammento della stella fulgente sulla fronte dell’angelo Lucifero decaduto e precipitato nell’inferno. È una stella che apparteneva al cielo ed è qui che deve far ritorno. Ma di questa stella se ne parla chiaramente nell’Apocalisse in studio, definendola «marchio» quando viene detto:
«Faceva sì che tutti piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e nessuno poteva comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.». (Ap 13,16-18)
Ed ecco che si spiega la frase «ci sarà più gioia in cielo», come viene detto con la suddetta parabola, perché risplenderà, tramite la “pecora” ritrovata in seno al “gregge” un frammento della stella del primo angelo della creazione Lucifero poi andato in perdizione.
L’apocatastasi
E qui si apre uno squarcio che rivoluziona il mondo cattolico perché riapre l’antica e dibattuta questione ritenuta eretica dell’Apocatastasi.
Apocatastasi è un termine dai molteplici significati a seconda degli ambiti (principalmente religiosi e filosofici) in cui è usato. Letteralmente significa “ritorno allo stato originario”, “reintegrazione”.
Nello stoicismo, che trae l’ipotesi dalla fisica di Eraclito, l’apocatastasi indica il “ristabilimento” dell’universo nel suo stato originario, e si collega alla dottrina dell’eterno ritorno: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo, avverrà una grande conflagrazione, e il tempo e il mondo ricominceranno un nuovo ciclo.
Secondo alcuni stoici tale ciclo sarà identico al precedente, secondo altri non necessariamente uguale.
Nel neoplatonismo con apocatastasi si indica il ritorno dei singoli enti all’unità originaria, all’Uno indifferenziato da cui l’intera realtà proviene, un ritorno possibile tramite l’ascesi filosofica.
Nel Cristianesimo, il concetto di apocatastasi è presente in un unico versetto della Bibbia, Atti degli Apostoli 3, 21
«Egli dev’esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione (apokatastàseos) di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti.»
Anche se permangono alcune incertezze, nel cristianesimo dei primi secoli il principale sostenitore dell’apocatastasi è considerato Origene di Alessandria.
Secondo Origene, alla fine dei tempi avverrà la redenzione universale e tutte le creature saranno reintegrate nella pienezza del divino, compresi Satana e la morte: in tal senso, dunque, le pene infernali, per quanto lunghe, avrebbero un carattere non definitivo ma purificatorio. I dannati esistono, ma non per sempre, poiché il disegno salvifico non si può compiere se manca una sola creatura: “Noi pensiamo che la bontà di Dio, attraverso la mediazione di Cristo, porterà tutte le creature ad una stessa fine” (De principiis, I, IV, 1-3)
L’apocatastasi di papa Francesco e papa Benedetto XVI
Ma a fronte alle mie argomentazioni che fa riemergere la concezione dell’Apocastasi, in questi ultimi tempi qualcosa di analogo sembra serpeggiare nell’attuale pontificato vaticanense di papa Francesco, in accordo al precedente papa vivente Benedetto XVI.
Mi lego ad un articolo pubblicato   su Libero Quotidiano.it il 16 maggio 2020: “Qualcuno sta manipolando Ratzinger?”
L’autore Andrea Cionci così introduce questo suo articolo:
«Colpisce notare come il 93enne papa emerito Benedetto XVI, negli ultimi tempi, stia compiendo insolite virate tanto da sollevare, fra alcuni osservatori cattolici, perfino dubbi sull’autenticità dei suoi scritti più recenti. (E il fatto che Ratzinger non compaia in pubblico, ormai, da diversi mesi, di certo non aiuta).»
E poi giungendo al punto saliente:
«… “Tutti devono sapere – scrive – che la misericordia di Dio alla fine si rivelerà più forte della nostra debolezza”.
Come mai nessun accenno al fondamentale presupposto del pentimento? Da quando in qua, Benedetto XVI si è convertito al “misericordismo senza se e senza ma”? Tra l’altro, sul ravvedimento dal peccato insisteva moltissimo anche Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Dives in Misericordia” la cui visione è poi confluita nel Catechismo: “È il sacramento della PENITENZA – scriveva Wojtyla – che appiana la strada ad ognuno, perfino quando è gravato di grandi colpe. In questo sacramento ogni uomo può sperimentare in modo singolare la misericordia, cioè quell’amore che è più potente del peccato”.
Insomma, il papa regnante dice una cosa e il Catechismo ne dice un’altra, mentre il papa emerito fa la spola fra i due. Non si capisce più niente, ma i credenti hanno DIRITTO a risposte chiare, unanimi e inequivocabili su questioni di base: che ruolo effettivo avrebbe dunque la Misericordia divina? E’ indispensabile pentirsi per beneficiarne? La misericordia si può spingere fino a riconciliare forzatamente con Dio un’anima impenitente? L’Inferno esiste o no? E’ eterno oppure no? Ci sono anime dannate? Soffriranno in eterno? Il catechismo è da prendere come riferimento assoluto dai cattolici oppure è un “consiglio”? […]
Molti cattolici non sanno più che pensare e cominciano a sentirsi presi per i fondelli, anche perché tra la prospettiva di una dannazione eterna e garantita per chi muore in peccato mortale (Wojtyla) e quella di un “condono” finale, tramite una sorta di misericordia “smacchia-tutto” (Bergoglio), ce ne corre. E tale diversità di impostazione può far cambiare radicalmente i comportamenti dei fedeli e il loro senso di responsabilità.»
Missione uomo
A questo punto si fa strada una meravigliosa prospettiva e verità sul reale scopo e ruolo della creazione dell’uomo, cosa che emerge dall’attenta riflessione sulla guerra nei cieli di cui si parla nell’Apocalisse di Giovanni 12,7-9:
«Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.»
  Pieter Bruegel – La caduta degli angeli ribelli
La domanda che ora mi pongo è questa:
Cosa sarebbe avvenuto se non ci fosse stata la creazione dell’uomo in relazione alla caduta del «grande drago, il serpente antico»? L’unica risposta è che non ci sarebbe stata eternamente la sua “reintegrazione” che invece è stata possibile con l’intervento dell’uomo, tutto racchiuso nell’evangelica parabola della “Pecora Smarrita”.
Ma il fatto fondamentale che vi sta dietro è che, con la caduta di Lucifero e i suoi angeli, il mondo divino aveva perso il “gioiello”, e dunque il “tesoro” che egli portava con sé, la gemma splendente che lo illuminava. E c’è di più perché Lucifero, e Ahrimane, altro demone di natura malvagia noto come Mefistofele, strappando “pezzi” dal regno umano allo scopo di deviare del tutto la sua normale evoluzione secondo le intenzioni divine, costituiscono al posto dell’evoluzione terrestre una propria sfera evolutiva. Secondo il filosofo austriaco Rudolf Steiner, mentre Lucifero opera occultando nell’uomo le sue facoltà spirituali interiori che gli consentirebbero di prendere coscienza delle proprie essenze animiche, Ahrimane agisce sulle sue percezioni esteriori nascondendogli le forze spirituali responsabili dei fenomeni naturali di cui l’uomo in origine aveva chiara cognizione.[1]
Questa grave contesa del regno umano da parte di Lucifero e Ahrimane da un lato, e dall’altro del mondo Divino, per conseguenza ha determinato una provvidenziale situazione per permettere il “recupero” genetico dei valori spirituali preziosi posseduti sia da Lucifero che da Ahrimane attraverso gli stessi uomini. Ed è stata l’incarnazione del Cristo, nella figura terrena di Gesù nato in Palestina, a permettere agli uomini di liberare le loro anime dal peccato originale che permise al serpente, a satana, di attrarre a sé l’uomo, come risulta dalla Bibbia. Nondimeno, se attraverso l’anima l’uomo può sentirsi libero (a patto di una retta vita), come essere mentale-corporeo è sempre soggetto al serpente, cioè a satana, ovvero a quei due Lucifero e Ahrimane in particolare.
Rammento il noto versetto (Ap 13,16-18) dell’Apocalisse di Giovanni che lo attesta:
«Faceva sì che tutti piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e nessuno poteva comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.».
Il geocentrismo
Signorelli. Duomo di Orvieto. Cappella San Brizio.
In conseguenza di tutto ciò che si è argomentato sin qui, si potrebbe aggiungere che la venuta del Cristo, se da un lato è servita per fornire all’uomo certe “ali” per svincolarsi dall’attrazione del maligno, dall’altro lato ha permesso di ricostituire il mondo divino similmente com’era al principio secondo il concetto dell’Apocatastasi.
E se si correla l’uomo al pianeta Terra si riafferma l’antico concetto tolemaico del geocentrismo, non senza legarsi alla «bestia di terra» dell’Apocalisse di Giovanni, quando viene detto al versetto Ap 13,18, «Qui sta la sapienza» il giusto contrappeso alla  «saggezza» del versetto Ap 17,9, «Qui ci vuole una mente che abbia saggezza.» per una bilancia in pari. E ricollegandoci all’inizio di questo saggio, ecco dimostrato il teorema sull’evangelica “porta stretta” in cui il “male” che si entra equivale al “bene ” che vi esce.
Gaetano Barbella
[1]«Lucifero nascondeva agli uomini quella parte del mondo spirituale che era penetrata nel corpo astrale umano senza la cooperazione di esso. […] Arimane ha nascosto tutta quella parte del mondo spirituale che si sarebbe palesata dietro alle percezioni fisico-sensibili, se verso la metà dell’epoca atlantica il suo intervento non si fosse verificato» (Rudolf Steiner, La scienza occulta nelle sue linee generali, pp. 128-129, trad. di E. De Renzis ed E. Battaglini, Bari, Laterza, 1947).
https://ift.tt/2YqWyU1
0 notes
pangeanews · 5 years
Text
“Lo scrittore ama e invidia le vite altrui. Io ho amato e invidiato Kerouac. Ora scriverò di un morbo che colpisce una grande metropoli”: dialogo con Ferruccio Parazzoli, che ha sfidato Dostoevskij
Di Fëdor Dostoevskij mi basta quanto leggo – è un santo-vampiro, i ‘Karamazov’ hanno l’autorevolezza sinistra di un testo sacro – quanto scrive quel bastardo di Nikolaj Strachov – “Io non posso considerare Dostoevskij né buono né felice. Era cattivo, invidioso, vizioso. Per tutta la vita fu preda di passioni che lo avrebbero reso ridicolo e spregevole, se non fosse stato nello stesso tempo così intelligente e così perfido” – e come ne scrive Lev Sestov, il suo massimo esegeta – “Chi vuole avvicinarsi a Dostoevskij deve compiere tutta una serie di exercitia spiritualia, e deve vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie, che si escludono a vicenda”. Dostoevskij è troppo vasto perché se ne possa dire qualcosa – ti ficca denti in bocca, blocca ogni presunta opinione, perché prima devi convertirti, devi cambiare vita, devi folgorare di luce il fango, poi ne parliamo. Poi leggo questo, però. “Come sempre, ti afferrava l’anima, la palleggiava, la torceva e poi te la restituiva, pronta da rimettere nel petto… L’ho visto, di notte, quando scrive, la testa piegata tra le due candele, la penna che scorre sul foglio: è Dio, non c’è anima che possa nascondersi dinanzi a lui, egli la seziona, la fruga finché non ne abbia messo a nudo il germe del delitto, della crudeltà, della lussuria, che è in ciascuno di noi”. Che straordinaria descrizione di Dostoevskij, del suo gesto alchemico. Chi l’ha scritta e ha avuto l’ardore di dissezionare il cuore di Dostoevskij con un chiodo è Ferruccio Parazzoli – forse non poteva essere altri che lui – tra i ‘grandi vecchi’ della letteratura italiana, autore di una bibliografia d’invidiabile giovinezza. Lo schema narrativo è rotondo: attraverso lo stratagemma del libro trovato casualmente in Russia (“Il librino, stampato su carta dozzinale, mi fu regalato da un amico oggi scomparso – come ormai molti altri miei amici e conoscenti – di ritorno da uno dei suoi frequenti viaggi in Russia”), Parazzoli fa raccontare l’inquieto Fëdor da uno dei suoi personaggi minori, Razumichin, che in Delitto e castigo è il bonario amico di Raskol’nikov mentre ne Il grande peccatore – così il romanzo pubblicato da Bompiani, che, coerentemente, pubblica i romanzi di Dostoevskij nella collana filosofica del ‘Pensiero Occidentale’, tra Platone, Heidegger e Kant – è un lacché, un pervertito nel cuore, un uomo roso da fragori d’invidia, iroso nel rancore. Questo romanzo, che proviene dal retroscena del sottosuolo e ha un retrogusto pietroburghese – l’esercizio mimetico è riuscito: pare di sfogliare le confessioni di un russo arso dal tormento del tardo Ottocento –, di fatto, è una indagine sulla scrittura e sulla sconfitta dello scrittore, sulla mefistofelica malia dell’arte, sul demone del genio – avete presente Il soccombente di Thomas Bernhard? – sull’amoralità e l’anormalità dell’artista che lavora, come un santo e un folle, per la redenzione dell’uomo (ma mai per la propria). Insomma, ho preteso al dialogo Parazzoli. (d.b.)
Dostoevskij. Ancora Dostoevskij. Pare, davvero, l’autore ineludibile e inesorabile. Che ruolo ha avuto FD nella sua opera, quella marcia epica nell’etica, quell’indagine ossessiva nella colpa? In quale opera, in particolare, tolta questa, ha sentito il morso di FD?
Milano è la mia Pietroburgo. Striscia il fantasma di Fedor Michailovich – così lo chiamo da tempo, come ora fa Razumichin, il tarlo che gli entra dentro nel mio Grande Peccatore – in quasi tutti i miei romanzi, specie dei più recenti. Piazza Sennaja si confonde per me con piazzale Loreto, i vicoli, le strade sormontate dai grandi formicai dei piccoli impiegati, dei senza lavoro, prendono il nome di viale Monza, di via Padova, delle periferie oltre i terrapieni della ferrovia.  F.M. mi ha insegnato ad osservare le facce della gente, a leggere dentro di loro, a conoscerne e a inventarne le storie.  Così è nata la mia Trilogia di Piazzale Loreto, specie Piazza bella piazza, l’ultimo dei tre volumetti, dove ruotano storie buffe, drammatiche, fantastiche.
Il suo romanzo mi sembra, tra le altre cose, una riflessione sulla scrittura. La cito. “Era incapace di innalzare la sua arte fino al sublime se non partendo dalla più concreta miseria della condizione umana”. Qual è allora il compito dello scrittore: andare dove nessuno va, indagare i luoghi oscuri, sondare le miserie, scavare nel fango, cosa?
Compito dello scrittore è vedere ciò che gli altri non vedono, altrimenti che scriverebbe a fare? Lo scrittore scende dove deve scendere, ma anche sale dove deve salire, il sottosuolo ma anche il volo libero, il più alto. Ho pubblicato di recente un piccolo saggio Apologia del rischio che porta per sottotitolo Scrivere è una roulette russa dove sostengo che non basta guardare dai tetti in giù ma anche dai tetti in su. Uscire dalla pura cronaca dei fatti. “Non c’è artista che tolleri il reale”, diceva Nietzsche.
Che rapporto c’è tra etica ed estetica? Insomma, uno scrittore può essere un ‘figlio di’ e scrivere capolavori assoluti. Oppure, a suo avviso, c’è una coincidenza, una intesa, una grande opera può essere scritta soltanto da un grande uomo…
Gli scrittori non sono dei grandi uomini, altrimenti farebbero altro. Non credo ci sia un rapporto diretto tra etica ed estetica. Le vite degli scrittori, a studiarle bene, sono colme di vizi e di difetti, talvolta perfino spregevoli, secondo il comune senso del ben pensare e ben vivere. E poi, perché parlare di capolavori assoluti?  Non esistono, ognuno ha dentro il germe della decomposizione, se non altro il Tempo. Il capolavoro ciascuno scrittore lo tocca quando non si permette di scrivere se non al meglio di quanto riesce a scrivere, quando nella sua roulette russa, esplode il Bang!
Un brano del suo romanzo esalta il tema dell’invidia. La cito: “frequentandolo sempre più da vicino, nella più nascosta intimità, sarei entrato nell’anima di FM come l’ammofila assassina nella larva di farfalla, l’avrei divorato, fatto mio, finché, come il bruco Monarca, avrei atteso a testa in giù che dalla crisalide uscissero le nuove ali e allora, finalmente, me ne sarei volato via verso il mio personalissimo sole”. Che ruolo ha l’invidia nella sorte – o nella disperazione – di uno scrittore?
L’invidia è un sentimento vicino all’amore.  Razumichin, il mio personaggio nel Grande Peccatore, è roso dall’invidia per F. M., che vorrebbe saper eguagliare nella genialità come nel vizio, ma è altrettanto vicino all’amore per il suo idolo: se non lo invidiasse alla follia non lo amerebbe alla follia. Lo scrittore è colui che invidia e ama le vite degli altri.
Domanda duplice. Il ritmo che ha assegnato al romanzo è profondamente ‘russo’, risuona la nenia sintattica di molti romanzi russi dell’Ottocento tradotti in Italia, leggendolo, un esercizio di mimesi mirabile. Le chiedo, però, a fronte della sua esperienza editoriale, quale autore della letteratura italiana è a suo dire il più ‘russo’? E poi: quale autore ha studiato, ha letto con acribia per dare autenticità narrativa e sostanza formale al suo Razumichin?
A mia memoria sono molto lontani gli scrittori italiani dalla tormentata anima slava.  Un solo nome, forse, potrei fare: quello di Tommaso Landolfi, il suo costante timore con cui si accosta al paradosso del mondo. Per dare vita  all’infido fantasma di Razumichin non potevo se non rifarmi a Dostoevskij stesso, e al suo Delitto e Castigo  facendone esattamente il contrario di quanto di lui dice l’autore, sostenendo così ancora una volta, come lo stesso Razumichin sostiene, che Dostoevskij fosse un gran mentitore nei suoi romanzi, proprio come deve essere uno scrittore che non crede che la verità degli uomini e dei fatti sia così come si presenta.
Oggi. Cosa le pare della letteratura italiana recente? Cosa le piace leggere? E dopo aver ‘sfidato’ Dostoevskij, dove s’inabissa la sua famelica scrittura, insomma, cosa sta scrivendo?
Leggo molto, ma solo per imparare a come si deve fare o non si deve fare a scrivere, cosa si deve raccontare e cosa non si deve. E non so quale delle due cose imparo di più.  Naturalmente sto scrivendo, in quanto scrivo un poco ogni giorno. Forse è un altro romanzo, forse parlerà di un morbo collettivo che colpisce una grande metropoli, la cui causa sarà ben altro che non i topi della Peste di Camus.
A microfoni spenti titillo ancora Parazzoli, perché per me la letteratura è, anche, un groviglio di gossip. La domanda in corner è questa. “Qual è stato lo scrittore che più ha ammirato, tra i viventi, e con cui ha lavorato meglio?” La risposta mi sembra degna, bella, quasi dostoevskijana: “Jack Kerouac, quando venne in Italia, anche se era drogato e sbronzo, ma io, persona per bene, l’ho invidiato e l’ho amato… Purtroppo siamo stati insieme solo un paio di giorni”.
L'articolo “Lo scrittore ama e invidia le vite altrui. Io ho amato e invidiato Kerouac. Ora scriverò di un morbo che colpisce una grande metropoli”: dialogo con Ferruccio Parazzoli, che ha sfidato Dostoevskij proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2XcBChl
1 note · View note
ultimavoce · 7 years
Text
Divo Nerone - Opera Rock: un fiasco di successo?
Divo Nerone – Opera Rock: un fiasco di successo?
Nerone è tornato. No, non è un cane scappato dal guinzaglio del padrone… ma l’imperatore romano famoso per la sua  – presunta – follia. Il musical del secolo, pompato da molti “spot” sulla tv di stato (Rai Uno ha dedicato allo spettacolo ben 2 minuti durante il Tg), sembra essersi già sgonfiato a poche ore dal debutto. Stroncato dal critico di Rolling Stonee da un pubblico (quello…
View On WordPress
0 notes