Tumgik
piergiorgiocattani · 6 years
Link
L’inizio della mia campagna elettorale.
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Una road map per il centrosinistra
Tumblr media
Il centrosinistra autonomista pensa ancora di avere qualche possibilità di vincere le elezioni di ottobre oppure si è rassegnato a un’inevitabile sconfitta? L’ex Titanic inaffondabile si è già schiantato contro gli scogli e tra i passeggeri sono già stati contagiati dal panico? Siamo nel pieno del “si salvi chi può”?
Qualche volta – anzi sempre più spesso – le forze politiche al governo della Provincia sembrano dividersi, litigare, proporre soluzioni, mettere veti soltanto nell’ottica di sopravvivere all’imminente disastro. In concreto, sperano di eleggere un drappello di consiglieri provinciali. Stop. Poi si ammanta questa triste realtà con buone intenzioni, con prospettive di rinascite di là da venire. Chi la pensa così può anche non leggere il proseguo di questo articolo.
Rassegnarsi però sarebbe inutile. Certamente il centrodestra trainato dalla Lega ha il vento in poppa. Ciò almeno per due ragioni. La prima, nazionale e internazionale, riguarda la tendenza storica in atto. Non ci voglio ritornare, tutti più o meno conoscono il contesto. Non si capisce perché in Trentino l’esito elettorale potrebbe essere diverso dal risultato delle amministrative, delle regionali in Friuli o Valle d’Aosta. Su questo ritorneremo.
Seconda ragione, tutta trentina: la fine di un ciclo politico ventennale cominciato nel 1998 da Dellai. Per brevità ecco un elenco di segnali che denotano questa fine: l’invecchiamento (politico più che anagrafico) della classe dirigente dei partiti; la mancanza di una visione coerente e aperta al futuro; la litigiosità interna; il moltiplicarsi di episodi di clientelismo. A livello più concreto: il rapporto tra centro e periferia con l’incapacità di rendere protagoniste le valli che si sono sentite private di servizi; la gestione farraginosa di grandi progetti come quello del nuovo ospedale; l’ambivalenza di un Trentino che a parole guarda all’Alto Adige ma che spesso fa politiche simili al Veneto. Allargando lo sguardo la crisi dell’Itas e della Cooperazione (forse oggi superata) rimarcano la crisi del “sistema” politico al potere.
Queste due ragioni determinano l’attuale disastrosa situazione della coalizione di governo. Il clima da basso impero con i “barbari” alle porte non può non coinvolgere la figura del presidente Rossi e quindi dell’intera Giunta e quindi di tutti i partiti. Si chiede discontinuità, ci si dimentica del buono fatto in questi cinque anni, soprattutto sul versante della risposta alla crisi economica. Rimanere fermi, asserendo che le elezioni provinciali danno risultati diversi rispetto alle politiche, significa votarsi alla sconfitta.
Per primo dovrebbe essere Rossi a capirlo. A trarne le conclusioni. Alle elezioni del 4 marzo il Patt conferma praticamente gli stessi voti presi alle politiche del 2013 (circa 14500). Otto mesi dopo prendeva 3 volte di più (circa 42000). Perché non sperare nella ripetizione di questo scenario? Perché cambiare Rossi che ha governato bene? Perché sfiduciare un presidente dopo una sola legislatura? Questa diagnosi può essere confutata dal confronto con una Regione simile alla nostra, la Val d’Aosta, territorio alpino, geloso dell’autonomia, amministrato con competenza. Ebbene, alle ultime politiche e regionali i partiti autonomisti sono crollati in favore del M5s e soprattutto della Lega. Alle regionali del 2013 la Lega non era neppure presente: nel maggio 2018 ha preso il 17% a un passo dall’Union Valdôtaine (finita sotto il 20%). Anche gli autonomisti storici votano Lega. In Trentino ancora di più. Il Patt lo deve capire, anche per salvarsi. Gli esempi numerici si potrebbero moltiplicare ma la questione è più sostanziale: non viviamo in tempi normali. I ricorsi storici non servono.
Occorre dunque un urgentissimo cambiamento. Si dice che non c’è più tempo. Sbagliato, perché la politica oggi è velocissima. Occorre invece una strategia complessiva per tentare di rimuovere le due cause che hanno portato e che, se non affrontate, porteranno alla sconfitta. Se il vento nazionale va in una direzione è necessario accentuare la peculiarità del Trentino. Varando una nuova coalizione capace di valorizzare istanze territoriali, allargandola ad altre sensibilità, proponendo novità anche nelle persone. È fondamentale creare una coalizione larga basata su tre punti programmatici: un patto con i territori per salvare e implementare l’Autonomia in chiave europea, a fronte del rischio di diventare una provincia del Veneto; un impegno ancora maggiore per combattere la disuguaglianza sociale; un rilancio economico che parta da ambiente, qualità della vita e innovazione sul modello altoatesino.
Tante parole, si potrebbe dire. Serve subito una road map credibile. Il presidente Rossi potrebbe ancora fare un passo indietro. Anche in caso di vittoria, come potrebbe governare in queste condizioni? Oppure punta a perdere ma ad essere sicuro di diventare consigliere provinciale? Non credo che pensi così. Quindi potrebbe benissimo trovare altri modi per una exit strategy dignitosa.
Andando sul concreto il centrosinistra allargato ha possibilità di vincere solo se fa il pieno dei voti: per essere chiari, da LeU fino ai civici di Valduga, convincendo anche parte degli astenuti ad andare a votare. Per fare questo è inevitabile una modifica sostanziale dell’“offerta politica” da dare all’elettore. Che chiede novità e semplificazione, persone pulite e credibili a prescindere dalla loro esperienza politica e dal loro ruolo istituzionale. Quindi, a mio avviso, è fondamentale la creazione di due aree “civiche”, una progressista più di sinistra e una popolare più di centro (benché anche queste parole e queste dimensioni “geografiche” dovrebbero essere ripensate) che facciano da motore a questa seconda fase della coalizione. Ovviamente della partita saranno Patt e PD, senza assurde richieste di una rinuncia al simbolo o alla propria storia. Un siffatto assetto sceglierà il candidato presidente che deve segnare una svolta. Il front man dovrebbe essere esterno all’attuale compagine, capace di andare all’attacco, di conquistare i voti, di avere una relazione diretta con la gente, di rappresentare davvero una novità. Non può essere un addetto ai lavori con qualche carica istituzionale. La sua squadra, il suo vice, sarebbero espressione dei partiti dell’attuale coalizione. I nomi ci sarebbero. E pure i tempi. Ma manca la volontà politica.
Editoriale apparso sul quotidiano  “Trentino” domenica 1 luglio 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Lettera aperta al ministro Fontana
Tumblr media
Onorevole Ministro, Egregio dott. Fontana,
Sono Piergiorgio Cattani e sono un disabile affetto da una patologia degenerativa abbastanza grave che colpisce i muscoli e mi impedisce di fare qualsiasi attività quotidiana. Insomma fatico a fare tutto, dal mangiare al respirare. Ugualmente sono arrivato a 42 anni – quattro più di Lei- e sono attivo in società.
Può cercare il mio nome su internet (sono uno dei pochissimi in Italia con questo nome e cognome, forse l’unico) e scoprirà facilmente tante cose di me. Capirà che sono giornalista- scrivo editoriali sul “Trentino” da 15 anni – e che pure mi occupo di politica. Non sono amico dei leghisti, non vi ho votato. Anzi. Però ritengo di essere abbastanza obiettivo nei miei giudizi.
Ciò non importa per questa lettera. Volevo parlare del suo ministero certamente importante per molte persone, al di là del fatto che sia “senza portafoglio”. Leggendo qua e là sui giornali ho visto che Lei, nella sua attività di europarlamentare e di vice sindaco di Verona, si è occupato molto di famiglia. Non so quanto di disabilità. Certamente le due cose sono congiunte, in quanto il sostegno delle persone con disabilità grava quasi sempre in maniera pesante sulle famiglie benché lo Stato qualcosa (poco) faccia. Non so tuttavia quanto la sua visione tradizionale sulla famiglia aiuti in questo campo: probabilmente lei penserà di sì. Io dubito, ma non ho letto il programma della sua amica Marine Le Pen.
Ho letto invece il vostro contratto di governo. Interessante. Fate il 10% di quello che promettete e io penserò seriamente se votarvi alle prossime elezioni. Qualche esempio dei vostri progetti scritti, come si dice, “nero su bianco”. “Un generale rafforzamento dei fondi sulla disabilità e la non autosufficienza”; procedere a una “completa revisione delle leggi esistenti” per dare “completa attuazione della Convenzione Onu”; “tempestivo aggiornamento delle agevolazioni per l’acquisto di beni e ausili per le persone con disabilità” “garantita l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, attraverso una migliore specializzazione degli insegnanti per il sostegno e l’implementazione della loro presenza in aula”; “bisogna favorire il cohousing e organizzare corsi di formazione specifica, tenuti da personale sanitario e tramite incontri di automutuoaiuto, per aumentare conoscenze e competenze dei caregivers”. Poi l’innalzamento generalizzato delle indennità e pure la nomina di un “garante regionale” per la disabilità.
Buone intenzioni, bravi. Anche se manca qualcosa. Sicuramente farete una attenta analisi di quello che si è fatto in questi ultimi anni, sentirete le associazioni che operano in questo campo (ci sono anche cooperative e Ong, non sempre vostre amiche), guarderete ai modelli positivi che ci sono in giro per l’Italia.
C’è però un problema di fondo. Una contraddizione alla radice. Nel contratto affermate di voler adoperarvi per attuare la Convenzione Onu sulla disabilità che prevede la lotta contro ogni discriminazione. Non solo quella sui disabili, ma anche sulle altre minoranze, sulle altre vulnerabilità. Giustamente voi parlate di disabilità al plurale. Cosa succede se arriva uno straniero disabile? Direte “prima” i disabili italiani? Probabilmente sì, stando ai vostri slogan. Così il disabile sarà discriminato per due volte. Storicamente le lotte per l'emancipazione sono state sempre dalla stessa parte e hanno coinvolto minoranze etniche, donne, omosessuali, disabili, immigrati. Non potete scegliere chi volete, se davvero operate in favore di una società inclusiva.
È interessante anche aver pensato a un Ministero specifico per le disabilità. Può essere una buona idea. Molti sono fautori delle “quote rosa” che servono in determinati casi ma che, in teoria, in una società funzionante non dovrebbero neppure venire in mente per i rischi di ghettizzazione delle donne. Mi sembra che voi leghisti eravate contrari per questi motivi. E adesso? Non c’è rischio di ghettizzazione anche dei disabili? Ma forse voi siete soltanto dei precursori come dimostra il caso del vostro senatore  Iwobi …
Sarebbe bello che – ovviamente quando i suoi numerosi impegni lo permetteranno – un giorno venisse a trovarmi. Potremo anche fare un incontro pubblico. Io non mi muovo tanto ma abito a Trento, quindi vicino alla “sua” Verona dove, credo, stia la sua famiglia e la sua “base” calcistica e non solo. Oppure ci sarebbe un’occasione più vicina, il Dolomiti Pride che si celebrerà qui a Trento questo sabato 9 giugno. Ma credo che lei abbia bisogno di un maggiore preavviso.
Venga a trovarmi quando vuole. Le mostrerò molte cose utili, mi creda, al suo difficile compito. Vedrà quanto sono necessari gli stranieri per l’assistenza dei disabili, che molti immigrati sono irregolari non per colpa loro ma degli italiani che vogliono sfruttarli semplicemente. La convincerò che i disabili di ogni colore non vanno trattati in modo  paternalistico, confinandoli nella famiglia o un ministero, ma che possono lavorare e pagare le tasse.  
Venga, non se ne pentirà. Le farò vedere anche un film in cui io sono coprotagonista. Si intitola “Niente sta scritto”.
Magari è possibile che lei venga da me per davvero. La aspetto.
1 note · View note
piergiorgiocattani · 6 years
Text
La politica che rincorre i cambiamenti
Tumblr media
Lunedì scorso 3 notizie hanno occupato i siti internet e i notiziari italiani. Mi riferisco all’incarico esplorativo per formare un governo M5s-PD, affidato dal Capo dello Stato al Presidente della Camera Roberto Fico; poi è rimbalzato l’annuncio da Torino per cui la sindaca Chiara Appendino ha fatto registrare all’anagrafe del Comune un bambino come figlio di una coppia omosessuale formata da due donne.
In sottofondo gli aggiornamenti che venivano dall’Inghilterra (e anche dall’Italia) in merito alla vicenda del piccolo Alfie Evans, l’infante di 23 mesi affetto da una semisconosciuta malattia neurologica degenerativa: i medici, contro il volere dei genitori, si erano orientati a una scelta tragica, quella di sospendere i trattamenti e presumibilmente di decretare la morte di Alfie.
Sono tre notizie molto diverse tra di loro. Forse però le più importanti sono le ultime due. La politica infatti sembra rincorrere i cambiamenti dei costumi, degli stili di vita, del modo di guardare al mondo. Deve rincorrere e quindi viene sostituita da qualcosa, soprattutto dalla dimensione giuridica. In punta di diritto – magari applicando in maniera inflessibile una legge (come nel caso inglese), oppure forzando le normative vigenti (come a Torino) – si crede di poter dirimere situazioni che soltanto l’etica e la politica potrebbero significativamente affrontare. Questa predominanza del diritto sulla relazione inter umana (che sta a fondamento della capacità del nostro vivere insieme nella società) è tipico della nostra epoca.
Un altro elemento che accomuna questi casi è la potenza della tecnica. Prendiamo le cosiddette famiglie arcobaleno. Ora il bambino registrato a Torino non è – e non può essere – figlio biologico di due mamme. Un giorno magari la tecnica consentirà a due persone di sesso femminile, o maschile, di generare senza il coinvolgimento del sesso opposto. Per ora non è possibile. Geneticamente, biologicamente, per ora c’è bisogno che avvenga un incontro tra una cellula uovo femminile e un seme maschile. Che ciò avvenga attraverso la tecnica della fecondazione assistita o in maniera “naturale” conta poco. Il fatto è che un figlio non può avere due padri o due madri.
Si parla allora di una genitorialità di diverso tipo, che potremmo chiamare “sociale”, “elettiva”, “affettiva”. Se guardiamo alle adozioni dobbiamo constatare che questa particolare genitorialità è già riconosciuta nel nostro ordinamento. A volte, anzi quasi sempre, questo legame è più forte di quello meramente biologico. Perché è voluto, quasi disperatamente voluto. Quindi non si vede perché esso non potrebbe essere riconosciuto anche dall’anagrafe. Quante volte accade che ci siano diverse figure di riferimento! Ci sono famiglie a geometria variabile, composte da un solo genitore oppure da una  figura maschile (o femminile) non legata biologicamente ai figli che hanno altrove padre e madre “naturali”. Forse bisognerebbe cambiare ulteriormente schema. Al di là di disquisire su questi aspetti la via da intraprendere è quella di perseguire il benessere della coppia e del bambino. Solo in questo modo si può costruire una società equilibrata.
La sindaca Appendino ha dichiarato: “Torino è la prima città italiana a consentire alle coppie omogenitoriali di veder riconosciuto il diritto ai loro figli di avere entrambi i genitori”. Speriamo che abbiano anche il diritto di conoscere, se possibile, i loro genitori biologici. Perché questa è la stranezza: in un tempo in cui prevale una visione materialista e naturalista del mondo, ecco che in certi casi proprio il corpo viene situato in una posizione secondaria rispetto a valori quali l’amore o il desiderio.
All’opposto, nel caso di Alfie, sembra che la vita biologica sia esaltata fino al parossismo. È davvero strano che i portatori di questa visione siano individui con una grande fede. Spesso sono cattolici, credenti che valorizzano dimensioni spirituali, non materiali. L’esaltazione di una vita che può esaurirsi soltanto con una morte “naturale” sfiora però l’idolatria. Cosa accadrà quando la tecnica medica consentirà di protrarre l’esistenza biologica all’infinito? Chi “staccherà la spina”? Anche in questo caso non sarebbe opportuno cambiare schema?
Sempre di più saremo condizionati da una tecnica capace di darci concrete possibilità di sovvertire quanto, fino a ieri, definivamo come “naturale”. Più avanza questa potenza della tecnica più saremmo chiamati a un difficile esercizio di libertà. Nella mentalità individualista egemone la libertà non ha per definizione limiti. Ma proprio di limiti avremmo bisogno. Di parole vere, sincere. Di accettare che la vita finisce, che i nostri desideri non sono sempre raggiungibili. Sembra però che il mondo vada in un’altra direzione e sarà sempre di più la tecnica a decidere per noi.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 25 aprile 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
L'invasione degli alpini
Tumblr media
Qualche giorno fa, una mattina, vedo davanti a casa una ruspa che sta scavando una sorta di fossato al posto del marciapiede. Subito ho pensato alle trincee, alla guerra e quindi agli alpini in arrivo a Trento. Si tratta ovviamente di un semplice rifacimento dell’arredo urbano della via in cui abito, ma forse l’adunata degli alpini c’entra qualcosa.
Come quando passa il Giro d’Italia si riasfaltano le strade, così in attesa dell’invasione delle penne nere, si tira a lucido la città, magari ultimando quei lavori pubblici programmati da tempo.
L’adunata degli alpini si configura infatti come una festa popolare. Come il passaggio della “carovana rosa”. Le bandierine tricolore ormai visibili ovunque non rimandano sicuramente al nazionalismo o alla vittoria bellica di un secolo fa, ma richiamano le partite della nazionale ai mondiali di calcio. Più folklore che politica dunque.
Con questo spirito Trento si prepara allo tsunami di metà maggio. Confesso di cominciare a capire solo adesso l’entità dell’evento: per tre giorni arriveranno nel capoluogo un numero di persone pari a 5 volte tutti i residenti! Come se ogni cittadino, bambini compresi, dovesse sistemare in casa 5 persone, dando loro vitto e alloggio. I disagi saranno notevoli, non solo per chi vive nella zona rossa. Molte scuole saranno chiuse; quindi le famiglie dovranno pensare come “sistemare” i figli piccoli; ma non ci potrà spostare se non a piedi. Occorre iniziare subito ad informarsi e, muniti di cartina e di calendario, programmare quella settimana di assedio. Ci manca ancora il coprifuoco. Comunque sia è meglio starsene in casa o direttamente emigrare.
Non parliamo poi dello sforzo logistico delle istituzioni. La protezione civile è mobilitata come dopo un terremoto. Si allestiranno ospedali da campo, si è potenziato il pronto soccorso. Ci saranno doppio medico di guardia, doppio personale infermieristico e pure una doppia equipe di emodinamica per gli infarti. Provvedere a un esercito di 600 mila uomini (benché adesso questi numeri siano stati un po’ circoscritti) per una città abituata a “imponenti” manifestazioni di 5 mila persone, non è certo uno scherzo. Grandi disagi, notevole investimento economico. Gli auspici parlano di un volano per il turismo, di possibili copiose entrate, di acquisto di massa di “prodotti tipici” e di quelle bevande inebrianti che di solito accompagnano i raduni degli alpini. Non è un caso che sulla seconda pagina della dettagliatissima “Guida all’adunata” – facilmente rintracciabile su internet – ci sia la pubblicità alla “birra ufficiale” della 91esima adunata nazionale. Il secondo spot contenuto nella pubblicazione parla della “sostenibilità certificata” dei buoni vini trentini. Insomma prepariamoci a una concentrata e primaverile “Oktober fest”.
Tuttavia pochi hanno protestato per questo evento. Anzi, per il buon successo dell’iniziativa, siamo disposti a sopportare tre giorni emergenziali. Per altre, presunte “invasioni”, invece ci spaventiamo. Soltanto un esempio. In Trentino ospitiamo 1599 richiedenti asilo. I 3 giorni dell’ospitalità di 600 mila alpini corrispondono a 1 anno di ospitalità dei profughi! Ovviamente si tratta di due fenomeni del tutto diversi, ma non possiamo neppure dimenticare le cifre.
Esiste anche una critica riguardante la celebrazione della guerra sottesa a questi eventi. Non credo che questa osservazione sia fondata. Benché gli alpini vengano a Trento proprio nel 2018, a 100 anni dalla fine della “Grande guerra”, questo ricordo oramai è sbiadito nei più. Certamente qualcuno avrà un antenato combattente, ma penso che questa memoria sia passata attraverso una sufficiente rielaborazione. In tal senso sembra abbastanza ingenuo il desiderio di “controbilanciare” una tendenza troppo “italica” con iniziative “austriacanti” come quella di portare gli Schützen nelle scuole o di esaltare i bei tempi dell’Impero austroungarico.
Va dato atto di un notevole sforzo di presentare l’adunata come un momento di crescita sulla via della pacificazione europea. I forti restaurati, i reperti bellici conservati, le riflessioni storiche e di attualità non servono per esaltare l’eroismo dei caduti in un conflitto per certi versi inutile, oppure per prepararci a nuove battaglie. Il nazionalismo rinascente in Europa non vale per gli alpini che verranno a Trento. Sono altri gli ambienti in cui il fanatismo sta risorgendo. Deve allora essere “depotenziato” qualsiasi significato militarista o nazionalista, perché – sto pensando all’Alto Adige – quella guerra ha generato una decennale sofferenza in particolare per i sudtirolesi di lingua tedesca.
Sullo sfondo la necessità di non dimenticare la storia, di prenderla sul serio. Probabilmente non sono queste le occasioni per un’effettiva pacificazione. Prendiamo dunque l’adunata degli alpini come una semplice festa. Un po’ cameratesca, un po’ nostalgica.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 23 aprile 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Neoliberismo e la terza via sovranista
Tumblr media
Nell’analisi della crisi delle 2 grandi correnti di pensiero e di azione politica che hanno segnato gli ultimi decenni di storia europea – cioè la socialdemocrazia e il popolarismo cristiano – due professori di diversa estrazione culturale, come Gaspare Nevola e Renzo Gubert, si trovano d’accordo almeno su un punto fondamentale.
La socialdemocrazia e il popolarismo, soprattutto a partire dagli anni ’80, hanno “ceduto” all’ondata inarrestabile del neoliberismo proveniente dagli Stati Uniti di Reagan.
Il professor Gubert pone l’accento sulla visione individualista, da lui associata al “relativismo” imperante e alla messa in discussione di quei “valori non negoziabili” al centro del dibattito, anche politico, in Italia negli scorsi anni. In questo senso sono in grande crisi i cosiddetti “corpi intermedi”, quelle formazioni sociali che garantiscono una “solidarietà intermedia” – partiti, sindacati, enti cooperativi e associativi.
L’individualismo “radicale” e il liberismo spinto in economia sarebbero all’origine dell’odierna situazione. I due professori fanno partire la loro riflessione dagli avvenimenti novecenteschi, ma forse bisognerebbe partire da molto prima, al sorgere della modernità, in particolare nell’Inghilterra del ‘600. Come dimostrato dal politologo Crawfrod B. Macpherson, il pensiero individualista britannico – da cui scaturirà tutta l’impostazione odierna legata ai diritti civili e ai diritti umani – si forma a partire dal Seicento sul modello dei diritti di proprietà: fin dai secoli precedenti la borghesia, nascente e quindi egemonica, rivendicava la libertà della proprietà privata a fronte delle ingerenze dell’autorità (della Corona, della Chiesa, e poi del governo “civile”). Dentro i propri possedimenti terrieri, il singolo poteva fare ciò che voleva. Nessuno avrebbe potuto interferire.
Macpherson chiama questo modello “individualismo possessivo”. In questo senso la tutela della proprietà, concepita secondo l’approccio definibile come capitalista, diventa condizione necessaria anche per la valorizzazione dei diritti dell’individuo. Quante volte oggi sentiamo dire “ho diritto di decidere sulla mia vita”: si instaura, anche inconsciamente, un parallelismo tra la proprietà fondiaria e il proprio corpo, concepiti attraverso la categoria del possesso. Allora gli altri, i vicini di casa, chiunque si incontri, sono potenziali usurpatori: occorre dunque “recintare” con attenzione la propria sfera di libertà che, come suona l’adagio, “finisce dove comincia quella degli altri”. Lo Stato non deve intromettersi, è soltanto chiamato a regolare l’esistente, a “lasciar fare”. In economia comanda la “mano invisibile” del mercato.
Questa visione, “emigrata” negli Stati Uniti dove ha trionfato (scalzando il “New deal”), è ritornata in Europa con le truppe vincitrici della Seconda Guerra mondiale. Certamente per alcuni decenni ha tenuto il sistema dell’economia sociale di mercato, il modello tedesco che accomunava sia i socialdemocratici sia i cristiano democratici. Negli anni ’80 all’espandersi dei “diritti civili” si coniugava la “rivoluzione neoliberale”: taglio alla spesa pubblica, deregulation finanziaria, privatizzazioni, delocalizzazioni. Insomma la globalizzazione a guida americana.
Oggi questo è messo in discussione. Gubert qui fa una distinzione tra il destino della socialdemocrazia e di quello del popolarismo cristiano. Il professore afferma che questi partiti di ispirazione cristiana hanno mantenuto, in Italia e in Europa, maggiore identità rispetto al neoliberismo. Ho paura che Gubert si sbagli. Infatti non sembra che voglia riferirsi alla Cdu di Angela Merkel – quella che apre le porte ai rifugiati dalla Siria – ma a Viktor Orban ancora una volta rieletto a padrone dell’Ungheria. Quest’ultimo propugna una democrazia “illiberale” basata su una visione identitaria, suprematista ed esclusivista del suo Paese e dell’Europa. Occorre mantenere l’omogeneità etnica, di qui le campagne anti Rom. Occorre mantenere l’identità religiosa, ed ecco lo spauracchio dell’Islam. Occorre preservare le basi fondanti della tradizione: così si spiegano le politiche in favore della natalità (naturalmente dei “bianchi”), le battaglie contro l’equiparazione giuridica delle famiglie omosessuali o contro l’eutanasia. Attenzione però: il Trump ungherese segue il tycoon americano pure in economia. Neoliberismo, flat tax. Altro che corpi intermedi. Orban è liberista. Proprio come vorrebbe esserlo in Italia Salvini. Questa sarebbe la “terza via” sovranista che ricorda da molto vicino l’alternativa fascista, ovviamente rivisitata, al liberalismo e al comunismo degli anni 20 e 30 del Novecento.
Non è un caso che avanzi il modello Putin. Tutti sanno che il presidente russo gode dell’appoggio incondizionato della Chiesa ortodossa guidata dal patriarca Kyrill. Chi sono gli avversari da combattere per mantenere l’identità? Sempre quelli: omosessuali, islamici, immigrati. Ma anche liberi pensatori, Testimoni di Geova, attivisti delle ONG, visti come agenti occidentali che vogliono la disgregazione della Russia. Fra poco è probabile che siano colpiti anche i cattolici. La libertà di religione e di coscienza è messa seriamente a rischio, o già compromessa. Il modello economico però è quello liberista.
Davanti a questa inquietante visione politica, la cultura socialdemocratica e quella cristiano popolare devono ripensarsi, unendosi, confluendo in nuove forze politiche capaci di rispondere alla nuova e tragica ascesa del nazionalismo.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 12 aprile 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Ancora sui punti nascita
Tumblr media
La vicenda del punto nascita di Cavalese descrive perfettamente la situazione culturale e politica in cui siamo immersi, in Italia come in Trentino. Prima di scendere nei particolari di una vicenda che sembra per davvero essere sfuggita di mano a tutti, occorre fare una premessa riguardante la mentalità collettiva nei confronti della medicina.
La salute è uno dei beni più preziosi che abbiamo,
sia come singoli che come comunità. È evidente quanto la salute non sia connessa esclusivamente alle condizioni biologiche della persona, ma si intersechi con la qualità dell’ambiente circostante, con la possibilità di accedere o meno a farmaci e cure, con la effettiva disponibilità economica individuale o familiare. Molti fattori si incrociano, come si è reso evidente all’ultimo Festival dell’economia che aveva come tema la “salute diseguale”.
Per tutelare la salute esistono svariati protocolli di sicurezza (utilizzo questo termine non tecnico soltanto per intenderci), pensati non certo per mettere in difficoltà gli utenti ma per garantire appunto che tutto funzioni come si deve. Ognuno di noi esige questa sicurezza per quanto riguarda la salute. Nascono così normative – anche stringenti – derivanti da approfonditi studi di esperti emanati dall’Organizzazione mondiale della sanità e poi recepiti dagli Stati che le hanno accettate con vari adattamenti. Siamo noi che vogliamo questa sicurezza. Non è un’imposizione dei medici e degli scienziati. Certo, può accadere che la burocrazia e l’eccesso di cavillosità possano portare a indicazioni troppo particolareggiate e avulse dagli effettivi bisogni. A volte certe normative sono inapplicabili e infine controproducenti. Anche questo però non è frutto del “complotto” delle case farmaceutiche o dei politici incapaci o imbroglioni, ma nasce dal desiderio diffuso di dover tutelare in ogni modo la nostra sicurezza.
I requisiti per tenere aperto un ospedale o un punto nascita sono chiari, con le deroghe per le periferie che ormai conosciamo tutti. Il punto nascita di Cavalese non soddisfa tali requisiti. C’è poco da fare. Manca soprattutto la “materia prima” cioè i bambini che nascono. Qualcuno vuole mettere in discussione le cifre? Con un notevole investimento economico (servirebbero 20 medici più il personale infermieristico che dovrebbe essere super incentivato per permanere in valle) si potrebbe forse ottemperare alle regole, ma un aspetto resterà fuori dalla portata perché connesso al numero di parti: un medico, un ostetrico, un qualsiasi operatore sanitario deve essere “rodato” attraverso la “gestione” di un numero adeguato di nascite, cioè almeno 500 all’anno. Nel 2017 sono nati 231 bambini da famiglie della valle di Fiemme e di Fassa. E questo sarebbe soltanto il numero dei “clienti” potenziali di un punto nascita riaperto che, secondo una previsione realistica, avrebbe nei fatti meno di 200 parti all’anno.
Lasciamo però perdere per un attimo la questione economica – che pure non è trascurabile. Sono disposti coloro che si battono per la riapertura del punto nascita ad avere minori standard di sicurezza? Non sia mai! Ecco i sindaci interessati all’unisono: “Non è una via che ci sembra percorribile, anche perché non si sa chi potrebbe assumersi le responsabilità in una situazione del genere”. E qui casca davvero l’asino. Gli standard di sicurezza non saranno mai raggiunti, visto che il numero di nascite non sarà mai sufficiente. E le promesse dei politici sono false. I loro atteggiamenti, passati e presenti, non sono stati trasparenti. L’unica che aveva detto parole di verità era stata l’ex assessora Donata Borgonovo Re. È stata silurata.
A Cavalese è “vietato nascere”. Così uno slogan dei manifestanti. Sarebbero disposti a soluzioni alternative che prevedano reali rischi per le future madri? Oppure pensano che nei prossimi anni ci sarà un boom demografico? Potrebbero allora accogliere molte famiglie di richiedenti asilo… magari loro sono più prolifici.
Sarebbe forse necessario fare un discorso più ampio che parli veramente del livello dei servizi sanitari complessivi offerti a chi vive in periferia. Questo è il problema reale. Molti cittadini si sentono abbandonati. È mancata la comunicazione. Come mai l’analoga chiusura del punto nascita di Tione non ha scatenato queste polemiche? La gente è stufa perché si sente sballottata qua e là, tra l’incudine degli amministratori locali e provinciali e il martello di comitati massimalisti con dietro forze politiche che soffiano sul fuoco.
Occorre chiarezza: la città offrirà sempre più servizi. A Trento non ci sono gli ospedali specialistici di New York. Dire il contrario sarebbe menzognero. Allora discutiamo di questo. E su questo manifestiamo. Prendiamocela con chi ha voluto la protonterapia (un buco nero super massiccio che non sarà richiuso), con la fallimentare gestione delle procedure per il nuovo ospedale.
In fondo però la questione centrale è il rapporto con la “sicurezza”. Un solo esempio: possibile che, per avere 2 punti di sutura per una leggera ferita devi andare al pronto soccorso perché il medico di base non è autorizzato a farlo? Possibile che i medici, terrorizzati da eventuali denunce, si debbano attenere scrupolosamente a protocolli che non sono in grado di prevedere ogni circostanza e ogni variabile?
Probabilmente un’organizzazione migliore potrebbe permettere che anche in val di Fiemme si possa nascere. Magari in casa, magari prevedendo piani di “emergenza”. Ma non si può pretendere tutto e il suo contrario.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 7 aprile 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Una Pasqua con troppe diversità
Tumblr media
Questa sera si celebra la Veglia pasquale, la più importante liturgia dell’anno per tutte le Chiese cristiane. Si ricorda infatti l’avvenimento centrale della fede, ossia la risurrezione di Gesù Cristo dalla morte. La religione cristiana si basa su questo annuncio.
Nei secoli questa fede non è mai venuta meno. Peccato che le Chiese non si siano messe d’accordo nel celebrare la Pasqua nello stesso giorno: a volte la solennità cade nella stessa data per tutti i cristiani, ma quasi sempre no. Per esempio quest’anno la Pasqua ortodossa ricorre una settimana dopo quella cattolica. Si dirà che questo fatto è la conseguenza della diversità dei calendari utilizzati, giuliano o gregoriano; ciò non toglie che questa differenza desta scandalo.
Nella Chiesa cattolica è tradizione non recitare durante la Messa il Gloria lungo tutto il periodo della Quaresima. Il venerdì santo si legavano anche le campane. Esse risuonavano soltanto insieme con il rinnovato canto del Gloria che avviene proprio durante la Veglia pasquale, dopo l’annuncio della risurrezione. Cosa succede oggi? Che gli orari sono diversi, spesso divergono da parrocchia a parrocchia. Quest’anno il Papa incomincerà la Messa alle 20.30, il vescovo Lauro in Duomo alle 21.00 e nella mia parrocchia a Trento si partirà alle 21.30. Così le campane suoneranno in orari diversi, suoneranno a rate. Un simbolo forte della Babele contemporanea.
Eppure le indicazioni liturgiche della Diocesi parlano chiaro: “La Veglia deve essere celebrata nella notte. Non si deve incominciare prima dell’inizio della notte e deve essere terminata prima dell’alba”. Dipende da che cosa vuol dire “notte”. Negli ultimi 30 anni l’orologio è stato gradatamente spostato in avanti, a causa del progressivo slittamento dei palinsesti televisivi: ricordo che, un tempo, su Rai 1, dopo il telegiornale delle 20, i programmi della “prima serata” partivano mezz’ora dopo. In seguito sono arrivati i quiz e gli show capaci di incollare i telespettatori al video fino alle 21.30. Gli ascolti volano, così come gli introiti dalla pubblicità.
Quella fascia oraria è sacra. I conduttori televisivi piazzati là diventano personaggi popolarissimi, gli “amici” degli italiani. Bastino vedere il sincero cordoglio e la commozione di gente semplice per la morte di Fabrizio Frizzi. Diciamolo subito: la sua figura si staglia positivamente in un ambiente abbastanza degradato come quello dello spettacolo. Frizzi era sicuramente garbato e mai volgare, partecipava a numerose iniziative di solidarietà, era persona sobria e generosa. Ma da qui a farne un santo deceduto proprio all’inizio della Settimana santa ce ne vuole. I funerali, celebrati ovviamente in diretta su Rai 1, corredati da musiche celestiali e da toccanti testimonianze, simili per certi versi a quelle risuonate alle esequie di Pavarotti (anche lui “santo subito”), sono stati un rito religioso/civile che descrive perfettamente l’attuale situazione. Viene da domandarsi chi veniva celebrato, se Dio, Frizzi o la televisione. Propendo per pensare alla terza ipotesi.
Altri riti si stanno sostituendo a quelli antichi. Così la Veglia pasquale – che si tiene non nella notte ma in prima serata – rischia di perdere qualsiasi significato, come l’annuncio in essa contenuto. Ormai anche nelle chiese risuona la Babele del linguaggio tipica del mondo contemporaneo. All’afasia generalizzata si giustappone un profluvio di parole atte semplicemente a suscitare emozione. La Pasqua cristiana dovrebbe riferirsi a un concetto come quello di “salvezza”. Ma questo termine rimanda istintivamente alle squadre che riescono a rimanere in serie A. Non esiste di converso una “colpa” per cui ottenere una salvezza. La morte, evento sempre più incomprensibile in una società basata sulla crescita e sullo sviluppo infinito e indefinito, garantisce automaticamente l’accesso a una vaga aura paradisiaca. Come un tempo gesta belliche o qualità artistiche facevano diventare eroi i mortali, così adesso la notorietà televisiva, la fama raggiunta nei modi più disparati, sono la chiave per la gloria.
Resta nell’immaginario collettivo la suggestione del passaggio dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, resta la sempre possibile vittoria sul negativo. Forse dovremmo accontentarci di questo.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 31 marzo 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
I nuovi tempi dei compagni che sbagliano
Tumblr media
C’erano una volta i “compagni che sbagliano”. Questa dizione ci riporta indietro agli anni di piombo: si riferiva all’atteggiamento assolutorio che la sinistra italiana (partiti e sindacati) aveva tenuto all’affacciarsi dei primi episodi della sovversione rossa.
Gli autori di tali atti violenti – intimidazioni, rapine, sequestri – non venivano additati come criminali o terroristi ma appunto come compagni che sbagliavano, da cui non si potevano prendere nette distanze. Sappiamo che questa posizione cambiò radicalmente quando l’attacco eversivo si fece più pesante e quando furono colpiti a morte sindacalisti, semplici lavoratori, dirigenti politici. Prima no.
Oggi assistiamo a qualcosa di simile, per fortuna in una dimensione più ridotta. Marx stesso ci ricorda che la tragedia si ripete trasformandosi in farsa, ugualmente pericolosa però. È un segno dei tempi leggere il comunicato della Uil del Trentino in relazione alla vicenda relativa alle mancate  fermate dei mezzi di Trentino Trasporti presso il Centro Profughi di Marco. Il sindacato difende il suo autista, peraltro personaggio già agli onori della cronaca per le sue esternazioni bellicose. Probabilmente anche lui è un compagno che sbaglia, meglio dire un camerata che sbaglia.  Finché a rimetterci sono i migranti, per giunta neri, non dobbiamo preoccuparci…
Viviamo un tempo strano. Salvini viene acclamato da una folla festante alla Sala della Cooperazione. L’indomani incontra i vertici di quella che fu la creatura di don Guetti. Saluti, sorrisi, scambi di opinioni. Fezzi non poteva fare altrimenti: il segretario della Lega è il vero vincitore delle elezioni. Con lui occorre fare i conti. La foto ricordo descrive però una realtà ben più profonda di un’istantanea passeggera: ci parla di una dissociazione – mentale, culturale, politica e alla fine pratica e organizzativa – tra chi dovrebbe rappresentare i “valori” della Cooperazione e una base disorientata e disillusa, oppure apertamente in disaccordo proprio con quei valori fondanti.
Benvenuti nel mondo nuovo. Si può essere razzisti e partecipare a un sindacato di sinistra, si può sparare (metaforicamente ma non solo) contro gli stranieri e ricevere una valanga di voti da chi nei paesi predica la solidarietà, la coesione, la “famiglia cooperativa”. Si può essere cristiani, commuovendosi di fronte agli accenti vibranti e generosi del vescovo Tisi o del Papa stesso in favore degli ultimi e dei poveri, e poi sostenere con altrettanta o maggiore convinzione chi si muove in direzione opposta. Per fortuna che c’è il Professor Renzo Gubert che ci tranquillizza sulla perfetta compatibilità tra la religione leghista (identitaria, nazionalista, etnica) e i principi evangelici. Eh sì, caro professore, è stato davvero impervio “il passaggio dal principio dell'amore universale verso tutti gli uomini ai principi di dottrina sociale cristiana”!
Questo discorso non può essere rubricato come di destra o di sinistra. La questione è strutturale e riguarda la crisi dei corpi intermedi che stanno (stavano) alla base della nostra società. Sindacati, partiti, Chiesa, associazioni laiche e cattoliche esistono e resistono come un tempo, ma sembrano sopravvivere in una sorta di finzione: i vertici continuano come nulla fosse, ripetendo le solite parole d’ordine come se ci fosse un popolo pronto ad ascoltare. Questo popolo non c’è più. Sta diventando tribù, sta frammentandosi in tante tribù. I corpi intermedi stanno scomparendo per consunzione.
Probabilmente sono i “dirigenti” i primi a non credere più ai principi di solidarietà, democrazia, inclusione, giustizia, uguaglianza, libertà, valori che dovrebbero professare. Si preferisce cullarsi nelle nostalgie. Magari si cercano vie di comodo, per salvare il salvabile, per garantire la propria rendita… Generalizzato è uno stupore che alla fine straborda in angoscia di fronte a una realtà non più capita.
Questo stato di cose era già descritto nel film di Nanni Moretti “Palombella rossa” del 1989. In una scena un infervorato sindacalista quasi aggredisce con le parole il povero Michele nello spogliatoio della squadra di pallanuoto. “Fiumicino ci scappa, la scuola ci scappa, la lotta per la casa ci scappa; alcuni settori tengono, qualche movimento lo azzecchiamo, in parte… io so che nella società c’è un potenziale conflittuale enorme, che va diretto”. Per salvarsi Michele si getta in piscina. Ecco possiamo fare anche noi così, ripetendo parole e analisi ormai logore, mettendo la testa sotto la sabbia. Oppure rendendoci conto che altre sono le strade da percorrere.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 20 marzo 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
La Caporetto della visione riformista
Tumblr media
L’esito delle elezioni politiche è stato un trauma per l’elettorato che genericamente si può definire come di centrosinistra. Si tratta di un risveglio violentissimo e inatteso: è finita la lunga parentesi onirica durata anni, ben prima dell’ascesa e caduta di Renzi. Dal 2011 in poi, cioè dalla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, la sinistra e in particolare il Partito Democratico sono stati alla guida del Paese in tempi difficili con geometrie politiche variabili
(dal governo tecnico di Monti all’esecutivo di “larghe intese” di Letta, dall’ottovolante renziano fino al ritorno alla malinconica normalità di Gentiloni) senza però mai avere un mandato pieno dagli elettori. Anni turbolenti, anche positivi per certi versi, come testimoniano numerose riforme varate. La compagine di centrosinistra non capiva però la magnitudine del cambiamento in atto.
Il 4 marzo non solo è stata una sconfitta epocale per questo o quel politico, ma soprattutto è una Caporetto della cultura, della sensibilità, dei valori di quella che doveva essere una visione democratica e riformista di lungo periodo. Come giustamente ha fatto notare Gianni Cuperlo il PD è stato vittima di redivivi Cadorna, in lotta tra di loro, che mandavano al massacro migliaia di soldati sottoponendoli a una logorante guerra di posizione e infine a rovesci sempre più sanguinosi: la strategia generale era giusta, la colpa era di altri; il generale in capo non poteva essere rimosso. Invece proprio la strategia era sbagliata.
Dopo questa Caporetto però, anche se la guida delle truppe è finalmente cambiata, sarà difficile ottenere la vittoria dopo pochi mesi. Gli avversari hanno dilagato in pianura, nelle isole, nelle roccaforti rosse, ovunque. Anche il Trentino, ex territorio inespugnabile, è stato “conquistato”.
La rotta è completa, ma qualcuno guarda in avanti. Dai soldati semplici, dai militanti, si invocano nuove strategie, comincia forse un nuovo movimento. Si moltiplicano gli appelli alla mobilitazione, si avanzano ipotesi, suggerimenti, ancora confusi e contraddittori. Si riaffacciano reduci, si richiamano i riservisti. I più realisti immaginano una “lunga marcia” che proprio come ai tempi di Mao si configura come una ritirata strategica, prodromo della controffensiva.
Uscendo dalla metafora bellica possiamo registrare, nel campo del centrosinistra trentino, una ridda di proposte per un tentativo di rilancio. Dalle colonne di questo giornale si sono avvicendate le prese di posizione, alcune più analitiche, altre più operative. Su quest’ultimo versante ecco l’idea del dottor Renzo Destefani, noto psichiatra e già consigliere provinciale, di organizzare una “due giorni” di confronto che coinvolga “la più variegata rappresentanza del giardino zoologico del Signore, in qualche modo ancora legata al centro sinistra”, chiamando “persone 'perbene' che di politica non vogliono più sentire parlare”. Mi sembra un percorso su cui convergere.
Nel frattempo anche i partiti usciti con le ossa rotte dalle elezioni – PD e Upt - stanno cercando di serrare i ranghi, convocando i propri organi, promettendo  un difficoltoso rinnovamento. Benché questo processo sia utile, non basterà per recuperare il terreno perduto. Ciascuno però può  e deve fare la sua parte.
Bisogna andare “oltre”. Oltre l’attuale coalizione di centrosinistra, oltre certe stantie ripetizioni di mantra autonomistici o territoriali, oltre le categorie – seppur nobili – di una politica ormai terremotata. Il Trentino deve andare “oltre”.
Personalmente, per dare il mio contributo (che non vuole essere soltanto “di parte”), ho aperto una pagina Facebook intitolata “Trentino oltre”. Si è parlato spesso dell’importanza dei social network divenuti una fonte primaria per orientare le scelte politiche. Lo stare sul territorio e lo “stare” in Rete non possono essere disgiunti. Il pericolo di queste iniziative riguarda il vizio genetico della sinistra: parlarsi addosso, credere di essere superiori agli altri, guardare con sufficienza la visione altrui, fare continue sedute psicoanalitiche di gruppo,  lanciare teorie sofisticate ma essere lontanissimi dai bisogni della gente. Questo spazio virtuale ha l’intenzione di mettere insieme le varie istanze con l’occhio rivolto alle elezioni provinciali di ottobre. Quella scadenza potrebbe segnare infatti la fine di un’idea di Trentino, solidale, innovativo, davvero autonomo, a cui non vogliamo rinunciare. Ad ogni costo.
Ho già scritto quanto sia necessario imparare dagli avversari, senza inseguirli sul loro terreno. Oggi questo significa dare spazio a questioni spinose come il rispetto delle regole e della legalità, la disuguaglianza sociale (che si traduce in una lotta tra poveri), il ricambio degli “addetti” alla politica, lo sradicamento delle cordate che uccidono la vitalità di una società, la riproposta di un Trentino aperto al futuro.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 17 marzo 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Hanno vinto le periferie arrabbiate
Tumblr media
“Nelle urne Dio ti vede, Stalin no”. Questo era uno dei più noti slogan che giravano durante le cruciali elezioni del 1948. A distanza di 70 anni oggi si potrebbe dire che, al momento del voto, giustamente nessuno ti vede: quindi dalle elezioni scaturiscono i veri sentimenti della gente.
Questa è la forza della democrazia. Quando la tornata elettorale si svolge secondo le regole, senza violenza o coercizione, l’esito del voto descrive le preferenze e i desideri della maggioranza dei cittadini. Diventa uno specchio fedele delle tendenze politiche (e culturali) in atto. E chi vuole analizzare la società deve prenderne semplicemente atto.
Più del 50% degli italiani ha scelto i cosiddetti partiti “anti sistema”. Definizione abbastanza ambigua perché il “sistema” descritto dalla Lega non è esattamente quello evocato e contrastato dal Movimento 5 stelle. Ci sono però alcune caratteristiche comuni. A cominciare dal linguaggio. Quante volte si è detto e scritto di un imbarbarimento dello stile comunicativo, del diffondersi della volgarità, dell’utilizzo di frasi sempre più elementari e immediate, quindi prive finanche della possibilità stessa di svolgere un ragionamento complesso. Cancellate tutte le buone intenzioni, le campagne della “pubblicità progresso”: i cittadini vogliono altro. Un linguaggio diretto, con qualche parolaccia, che non lascia spazio a mezze misure. Servirà questo per governare meglio? Vedremo.
In secondo luogo ha vinto l’evocazione della paura e del nemico esterno e interno. Anche in questo caso con sfumature diverse. È evidente che il quotidiano, incessante, coerente (dal loro punto di vista) incitamento al disprezzo dello straniero operato dalla Lega di Salvini ha premiato il partito. Al nord quasi il 30% ha sostenuto questa linea. Una percentuale molto significativa. Salvini ha capito il disagio diffuso? Forse, ma lo ha anche alimentato, per poi presentarsi come soluzione. Nel collegio di Macerata – quello dell’attacco contro gli immigrati a colpi di pistola – vince il centro destra con la Lega oltre il 20% (più del PD). Per molti dunque fanno più paura gli stranieri che l’intento omicida di un giovane estremista.
Sul tema migrazione il M5s è stato astutamente ambiguo. Non si sa quale sia la posizione di Di Maio. Ma la gente lo ha percepito come quello che vuole bloccare l’immigrazione. Un Minniti sorridente. Che comunque privilegerà gli italiani. Soprattutto quelli che si auto percepiscono come poveri, come impoveriti dal “sistema”. Gli esclusi della globalizzazione. Che hanno visto nell’ambiguo rapporto di Renzi con le banche vicine al suo entourage il simbolo di una politica prigioniera dei “poteri forti”. Inutile spiegare che – al di là delle scelte concrete dei governi targati PD – esiste un contesto economico da cui non possiamo prescindere. Niente di tutto questo: il M5s ha promesso che questi “poveri” si risolleveranno. Per questo ha dilagato al sud.
Parlare di soldi ha fatto la differenza. Salvini diceva: “Agli italiani interessano due cose: basta tasse e basta clandestini”. Molti gli hanno dato ragione. I pentastellati hanno fatto un ragionamento diverso ma non lontano: “Basta soldi ai politici, ai soliti noti: noi li daremo al popolo”. Sicuramente un bel programma, di difficile attuazione però. Il nemico su cui riversare la colpa aleggia già; naturalmente è “l’Europa”.
Non si sa se e come si formerà un governo. Intanto dobbiamo prendere atto che ha prevalso una visione del mondo e dell’Italia molto chiara. E non è quella della borghesia “illuminata”. È quella delle periferie arrabbiate che odiano gli stranieri senza averne mai visto uno, che puniscono i politici di professione in quanto tali. Non importano le competenze. Anche di questo dobbiamo tenere conto. I politici che parlano dai giornali, che discettano tra di loro sui massimi sistemi, vengono percepiti come lontani dalla gente. La loro colpa è irredimibile. Potrebbero cambiare stile, ma non sarebbero creduti. Gli altri invece sono creduti anche quando si comportano esattamente come i politici “di mestiere”.
I risultati del Trentino sono lampanti. Quante volte si è parlato di autonomia? Quante discussioni, quanti convegni, quanti tentativi di alimentare un sentimento di appartenenza? Le elezioni hanno sancito un’altra verità: a più del 50% dei trentini l’autonomia non interessa nulla. La Lega di Salvini – partito ormai nazionalista di destra ma che ha ancora il cuore nel lombardo-veneto – è contro l’autonomia speciale trentina. E il M5s? Si vedano le dichiarazioni di Fraccaro. Gli applausi a Mentana che attaccava l’Autonomia si sono tradotti in voti per queste due forze. Anche Panizza (a cui non si può rimproverare di non essere stato “tra la gente”), emblema dell’autonomismo “vecchio stile”, è stato travolto da questa ondata.
In politica, oggi più di ieri, bisogna guardarsi dal dare giudizi definitivi. Le svolte, le rivoluzioni, i terremoti avvengono troppo spesso. Eppure esistono tendenze molto chiare. Chi ha posizioni diverse da quelle degli odierni vincitori dovrà però interrogarsi a partire anche dagli elementi sopra accennati: il linguaggio, il rapporto con le classi meno abbienti, il fenomeno delle migrazioni e, qui da noi, l’autonomia. Non si tratta di inseguire l’approccio oggi vincente: no, si tratta però di capirlo. Per proporre un’alternativa.
Editoriale apparso sul “Trentino” il 8 marzo 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Partito democratico: game over
Tumblr media
Qualcuno ha paragonato le recenti elezioni politiche con quelle del 1994. Anche allora c’erano 3 poli con un consenso abbastanza ampio, anche allora parlamentari uscenti di lungo corso e di grande competenza venivano travolti da volti nuovi e sconosciuti. La coalizione progressista e quella centrista finivano per soccombere all’alleanza costruita da un Berlusconi appena sceso in campo. La legge elettorale di allora però – migliore dell’attuale – garantiva il formarsi di una maggioranza.
Oggi siamo alla fine di quel ciclo. Di Maio ha già parlato dell’inizio della terza Repubblica. Forse però gli auspici di Giggino non si tradurranno in eventi concreti. Benvenuti nell’era dell’instabilità. Eppure il giovane leader pentastellato coglie nel segno rivendicando l’apertura di una nuova stagione. Davvero molte cose sono cambiate. Il voto del 4 marzo segna la fine di quel progetto politico chiamato “Partito Democratico”.
Il rottamatore Renzi ha rottamato se stesso, diventando il commissario liquidatore del partito. Sarebbe però sbagliato incolpare il bullo di Rignano di ogni errore, trasformandolo in un capro espiatorio, utile per chiudere gli occhi su una crisi “di sistema”. Le tradizioni politiche che hanno costituito il PD sono in profondissima decadenza, se non già morte. Non si alzeranno in breve tempo. Forse mai più. Così anche la visione di Romano Prodi, quella di unificare le grandi tradizioni repubblicane sotto l’Ulivo, è tramontata definitivamente.
Il PD era nato per mettere sotto lo stesso tetto ex comunisti, cattolici democratici, cultura laica e riformista. Cosa resta oggi di questo impegno? Di queste diverse culture? Sì, perché prima di essere partiti politici queste tradizioni erano sostenute da precise e definite idee, ideologie, impostazioni forti e condivise. Avevano ceti sociali di riferimento.
Non voglio soffermarmi sulla crisi della social democrazia in Europa e in Italia. Ne parlano tutti. Pochi osservatori invece hanno analizzato la fine del cattolicesimo democratico. Non risorgerà al terzo giorno. Un solo esempio, forse il più lampante. La travolgente avanzata leghista è avvenuta proprio durante il pontificato di papa Francesco che – diciamolo chiaro – predica valori e atteggiamenti totalmente contrastanti da quelli di Salvini. Il Rosario e il Vangelo di papa Francesco non sono quelli che brandisce il leader leghista. Ma gli italiani, i cosiddetti cattolici, persino i fedeli praticanti, chi hanno ascoltato di più? Dove sono i buoni propositi delle Settimane sociali, dei convegni sulla Dottrina sociale della Chiesa? Vince un cristianesimo identitario, nazionalista, integralista: una novità per l’Italia. E questo vale anche per il Trentino. Ma la Chiesa, intesa nel senso più generale possibile, sembra non accorgersi di questo scenario.
Fin dal suo sorgere la Lega aveva conquistato territori del nord Italia già feudo della Democrazia cristiana. Oggi siamo in una fase ulteriore: non restano neppure le vestigia di quel consenso. Non solo: anche nelle regioni in cui il cristianesimo sociale poteva trovare e trovava un terreno comune con la sensibilità della sinistra, registriamo l’avanzare della destra. Al sud vince il M5s, forse la forza politica più lontana dalla prospettiva dell’impegno dei cattolici. Anzi il messaggio vincente del M5s è oltre quest’antico linguaggio. Non si fa più certe domande. Non è di certo anti religioso. È indifferente, come sono indifferenti i cittadini.
Il PD trovava nel cattolicesimo democratico una sua componente fondamentale. Questo mondo non esiste più, non incide più. Renzi, ma anche Franceschini o Rosy Bindi, e qui da noi Dellai come i rappresentanti del PD trentino, sono gli epigoni di un tempo che fu. La loro stagione si è conclusa. Non tanto per colpa loro, ma per fattori più grandi di loro. Certo resta il presidente Mattarella ma la sua figura di garanzia si colloca al di fuori dell’agone politico. Probabilmente la spinta propulsiva di questa area politica si è esaurita 40 anni fa con la tragica fine di Aldo Moro e con la morte di Paolo VI. Dopo si è gestita un’eredità, consumandola lustro dopo lustro senza riuscire ad alimentarla con nuove risorse. Fino all’odierno punto di non ritorno. Il glorioso passato del popolarismo non rinascerà nonostante le nostalgie. “Ritornare alle origini” è illusorio. I “valori fondanti” hanno perso significato.
Cosa potrà fare il PD? Rendersi conto che la sua “ragione sociale” non ha più senso. Occorre parlare nuovi linguaggi, cercare nuovi interlocutori, ricominciare daccapo. Imparare dagli avversari, senza inseguirli. La sinistra ha trascurato il bisogno dei cittadini di contare (o almeno di avere la parvenza di contare); non ha capito che la gente è stufa dell’ambiguità sulla corruzione, di comportamenti ambigui anche se magari non illeciti. Sia la Lega che il M5s hanno avuto al loro interno problemi giudiziari, ma sono riusciti a presentarsi come i campioni della legalità. Vicini al popolo, hanno dato un sogno al popolo. Si può trasformare in un incubo ma intanto la maggioranza ha creduto alle loro sirene.
Il PD non si salverà liberandosi di Renzi e neppure promettendo rinnovamento. È necessario ripartire da zero. Dall’impegno dei singoli. Sarebbe fuorviante rifarsi a questo o quel modello estero (praticamente ovunque fallito). Ma si può fare soltanto se si comprende quello che è successo.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 10 marzo 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Il pericolo è il tutti contro tutti
Tumblr media
Domenica siamo chiamati al rito civile e democratico delle elezioni. Questo però non è il tempo dei riti. Sono tutti in crisi, specie quelli collettivi. Resistono forse quegli sportivi, forse i concerti di musica. In realtà essi si sono trasformati.
Permangono a livello di “tribù”. Ma la tribù non è una comunità. Le democrazie tribali non possono esistere. Difatti questo è il maggiore problema dei Paesi africani dove spesso le differenze politiche tra avversari ricalcano quelle etniche.
Da noi le tribù si caratterizzano per altri elementi: sono gruppi di interessi variegati, piccole o grandi formazioni sorte intorno a qualche istanza particolare, corporazioni sedimentate da decenni, scheletri dei partiti di massa del bel tempo che fu. In termini elettorali probabilmente la tribù degli astenuti risulterà al primo posto della classifica, seguita a ruota da quella degli arrabbiati e dei rancorosi. Il rito diventa così l’occasione per sfogarsi, senza pensare al dopo.
Eppure bisognerebbe farlo. Ciascuno ovviamente voterà la lista che più si avvicina alla propria sensibilità. È giusto, direi obbligatorio dividersi. Poi sarebbe ugualmente necessario rinnovare una sorta di patto sociale basato su valori condivisi. Sembrano paroloni. Non lo sono. Stanno alla base della convivenza civile. Purtroppo in questi ultimi anni stiamo perdendo (o abbiamo già perso) questo terreno comune. Se non vogliamo proprio chiamare “antifascismo” questa base imprescindibile, chiamiamolo rifiuto della violenza, attenzione ai diritti dell’altro. A cominciare dal linguaggio. Poi dal rispetto delle istituzioni.
Qualcosa deve rimanere saldo al di là delle legittime e diverse scelte. Uno dei mali dell’Italia si concretizza proprio nell’assenza di una politica di lungo respiro. Da anni ormai i governi si succedono senza un minimo di continuità amministrativa. Se tutto quanto è sbagliato, se bisogna ricominciare sempre da zero, non vedremo mai i provvedimenti che servono per davvero.
Quasi 700 anni fa il pittore Ambrogio Lorenzetti affrescava la Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena con il ciclo delle allegorie sul buono e il cattivo governo della città. La discordia e la concordia segnano il destino contrapposto di comunità operose e coese in confronto con quelle dilaniate da lotte intestine. L’Italia quale strada vuole imboccare?
Si è parlato spesso di una “guerra civile simulata” analizzando il clima politico che si respira nel Paese. Scoppi di violenza fanno presagire non un ritorno agli anni 70, ma forse qualcosa di peggio, cioè una disgregazione complessiva. L’affermarsi della logica amico contro nemico. Così non funziona, così si accentua il declino. Inutile cercare i colpevoli se poi questo non serve a nulla. Inutile vagheggiare cambiamenti rivoluzionari. La politica non salva, non può salvare. Può però lavorare per garantire equilibrio e benessere per il maggior numero di persone. La politica può allontanare il demone peggiore, quello del conflitto senza vincitori, della guerra.
La responsabilità del cittadino è quindi qualitativamente uguale a quella dell’eletto, del rappresentante in Parlamento. Certamente se gli “onorevoli” e i leader vivono su insulti reciproci, purghe interne, promesse che durano poche ore, autoritarismo, non si può chiedere alla gente di comportarsi diversamente. Tutti siamo però chiamati a ragionare pensando al bene comune, un’altra categoria negletta in questa stagione. Che cosa è questo bene comune? Appunto il rifiuto della violenza intesa nella sua accezione più ampia. Purtroppo la violenza è insita nel cuore umano. Per questo, dagli albori della civiltà, ci siamo dati strumenti per arginare questa ansia distruttiva.
Oggi, in Italia, questo strumento si chiama democrazia parlamentare. Questo sistema prevede il formarsi di maggioranze e di opposizioni. Ha bisogno di capacità di fare compromessi, innanzitutto all’interno del proprio campo. Non ci servono altre rotture. La nascita della nostra Costituzione è un esempio di compromesso al rialzo. Negli ultimi decenni la politica ha perso gradualmente questa capacità.
Probabilmente dopo il 4 marzo in Parlamento non ci sarà una maggioranza certa. Il pericolo è il “tutti contro tutti”. L’instabilità permanente. Non cadrebbe il mondo se l’Italia stesse per mesi senza governo o se si ritornasse di nuovo alle urne. Ma il cittadino deve sapere che la comunità si fonda anche sul compromesso. E votare di conseguenza. Quando invece ogni accordo si chiama “inciucio”, se ogni alleanza diventa oscura cordata dei “poteri forti” sorta contro il “popolo”, ecco ritornare i fantasmi non dell’ingovernabilità, ma della disgregazione. Con la violenza dietro l’angolo. Per non parlare dei risvolti economici.
Allora domenica andiamo a votare. Diamo il voto a chi vogliamo purché esso si mantenga dentro il perimetro dei valori democratici. Che non sono astrazione. Sono vita quotidiana.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 2 marzo 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
Non basta sfogare il rancore
Tumblr media
“Tanto, peggio di così non può andare…”. “Vado a votare per sovvertire questo sistema che fa schifo”. Ecco queste affermazioni si potrebbero declinare in mille modi, ma il senso non cambierebbe. Così ci avviamo alle elezioni. Non contano dati, programmi, analisi sul contesto generale.
L’importante è la percezione soggettiva della realtà. La sensazione diffusa di malessere. Non serve essere psicologi per notare che di solito siamo portati a lamentarci, a sottolineare gli aspetti negativi, ad incolpare l’altro per invidia o per un senso di rivalsa.
Qualcuno voterà i cosiddetti partiti “antisistema” solamente perché taglierà le prebende varie dei parlamentari. Con i soldi risparmiati si finanzieranno mirabolanti promesse di redistribuzione del reddito. Peccato che questo taglio delle spese della politica sia davvero un’inezia rispetto alle risorse impiegate per le pensioni oppure solamente per pagare gli interessi dell’enorme debito pubblico. Sono però inutili i ragionamenti: colpire la casta dei politici dà un senso di liberazione. Anche solo per un istante. Ci farà sentire bene. Basta privilegi. Certamente lo sfarzo e lo spreco nel trattamento economico di chi ci rappresenta stridono con la fatica quotidiana di molti cittadini. Eliminare vitalizi e agevolazioni dei politici non cambierebbe però di una virgola la situazione del Paese. Solo un gesto propagandistico. Che funziona molto bene.
Facciamo un esempio. Prendiamo l’amministratore di un grande condominio. Un giorno la maggioranza dei condomini decide di tagliare il lauto stipendio dell’amministratore. Con quei soldi risparmiati tuttavia si paga soltanto una fioriera nuova. Forse allieterà l’ingresso per un’effimera mattina, ma tutto il resto rimarrà come prima. Qualcuno s’illudeva che l’amministratore diventasse improvvisamente più onesto e più efficiente. Addirittura certi sprovveduti, naturalmente in buona fede, pensavano che così facendo migliorassero i rapporti tra i condomini. Una nuova stagione di prosperità si sarebbe aperta. Insomma, la rivoluzione.
Chi sta male – davvero male – è logico che speri in un cambiamento, qualunque esso sia. Ma invece è impressionante notare come persone di una certa età, con un lavoro solido e ben retribuito, con una media o alta cultura, con un benessere non scalfito dalla crisi economica, credano che sia arrivato il momento di rovesciare il tavolo, dando il voto a chi urla di più, a chi digrigna i denti, oppure a quanti sono privi di esperienza, proprio perché privi di esperienza. “Lasciamoli provare”. Azzeriamo tutto allora, dalle macerie salterà fuori qualcosa di migliore.
Da osservatore mi domando se l’Italia sia messa così male. Se la gente stia così male. Si dipinge un quadro devastato e devastante, ignorando completamente quello che succede altrove. Le cose potrebbero cambiare… in peggio. E non ci vorrebbe molto tempo perché ciò accadesse. Così istantaneamente rimpiangeremmo i “burocrati di Bruxelles” oppure una stagione di governo che non ha portato il Paese sull’orlo della catastrofe. Sicuramente bisogna puntare al miglioramento della situazione presente, con provvedimenti seri, con un clima generale diverso, non con gli slogan, con l’agitare di spauracchi (l’invasione islamica, l’insicurezza nelle città, i voraci banchieri…) utili per generare paura non per risolvere i problemi.
I mali endemici dell’Italia – corruzione, familismo, mancanza di senso di comunità, logiche corporative, mafie, incertezza del diritto – non si risolveranno con un voto di protesta. Che allora trova la sua motivazione in qualcosa di prepolitico. Il clima di oggi si condensa in una visione oserei dire “vendicativa”. La vendetta, si sa, non porta a nulla. L’offesa non viene risarcita, il bene perduto non si recupera. Però si è contenti di vedere soffrire l’altro. Così per un attimo si è felici. Il rancore trova uno sfogo. Momentaneo, alla lunga perfettamente inutile. “Viva la morìa, e moia la marmaglia!” gridavano esaltati i monatti quando trasportavano gli appestati nel lazzaretto di Milano, come si racconta ne “I promessi sposi”.  
A livello collettivo si respira un clima da “odio sociale”, privo però di qualsiasi risvolto ideologico. Più che di “lotta di classe” siamo alla strenua (a volte maldestra) difesa del proprio orticello. La rabbia si riversa poi sul ceto politico, colpevole di tutto. Stiamo male e la colpa è del medico. Allora ci affidiamo al primo negromante che vende miracoli all’angolo della strada. Lui farà meglio del medico, giudicato preventivamente come un incapace o un corrotto.
C’è però qualcosa ancora di peggiore in questo insopprimibile desiderio di rivalsa. Cercare i presunti colpevoli, colpirli, rendere loro la vita difficile. E gioire per questo senza avere in cambio nessun vantaggio. Si chiama invidia: un male che distrugge l’individuo e la società. Prima di andare a votare proviamo a farci un esame di coscienza. Domandiamoci se anche noi siamo mossi da questo sentimento.
Editoriale pubblicato dal Trentino il 21 febbraio 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
L’arte del buon vicinato
Tumblr media
È davvero strano come in Italia stia diventando difficile sforzarsi di fare un discorso razionale, specialmente quando si parla di politica. Tutto deve essere considerato di parte. Ogni considerazione deve per forza essere determinata da qualche influenza esterna. C’è sempre qualche doppio fine, personale, di gruppo, di partito.
Così registriamo episodi – banali oppure inquietanti – di quello che si potrebbe definire come “analfabetismo di ritorno” rispetto al vivere civile. Si perde un lessico comune capace di sostenere la nostra comunità. Anzi, addirittura le strutture grammaticali esplodono. Le parole hanno significati diversi per chi è di destra o di sinistra. Possibile? Certo perché anche destra o sinistra per qualcuno non vuol dire nulla. Ma se abbiamo perduto le parole, come faremo a comunicare?
Nessuno crede più a nessuno: questa è la situazione generale. Pochi dei personaggi pubblici dicono la verità, eppure ci sono. Tuttavia non crediamo più neppure a loro. Invece inseguiamo i millantatori, quelli che dicono ciò che vogliamo sentirci dire. Così continuiamo imperterriti nel nostro declino. Una frana culturale prima che politica.
Limitarci alla denuncia è sterile. Abbiamo capito anche questo. Mi ha molto colpito il primo “Discorso alla città” che il nuovo arcivescovo di Milano, Mario Delpini, aveva pronunciato il 6 dicembre scorso. Già il titolo è sorprendente: “Per un arte del buon vicinato”. L’inizio può sconvolgere tanto appare controcorrente rispetto allo “spirito del tempo”: il presule invita a fare un “elogio” di quanti lavorano per la comunità. Anche dei politici.
Il finale è altrettanto spiazzante. Recuperando l’antica tradizione delle decime, Delpini scrive: “La regola delle decime invita a mettere a disposizione della comunità in cui si vive la decima parte di quanto ciascuno dispone”. Poi subito viene proposto un esempio: “Ogni dieci parole che dici, ogni dieci discorsi che fai, dedica al vicino di casa una parola amica, una parola di speranza e di incoraggiamento”. E, aggiungiamo noi, di sincerità, di verità. Senza nascondere la realtà ma cercando di trovare un punto d’incontro. Forse vale anche per i giornalisti.
Parliamo allora di un argomento molto scottante, l’immigrazione. Abbiamo visto come gli slogan che incitano all’odio possono armare le mani di chi è nostalgico di un tempo che non ha vissuto e che ha causato immani tragedie. L’odio nasce anche dalle parole. Ora siamo arrivati al totale travisamento dei fatti: alcune persone di colore vengono scelte come bersaglio solo perché sembravano (ma potevano non esserlo) africani. Potevano essere ricchi statunitensi, magari italiani adottati. Invece no, subito, automaticamente, rappresentati come fannulloni, clandestini, invasori. E la colpa è loro. La colpa di esistere, di essere qui. Vengono accusati di voler “sostituire” la nostra gente. Di creare insicurezza, di rendere le città invivibili. “Una volta non si spacciava droga al parco, poi sono arrivati loro”. Così si sente dire. Ma una volta i nostri giovani – i clienti italiani degli spacciatori – forse non cercavano così tanto la droga.
L’efferatezza dei delitti non è una prerogativa degli stranieri. Gliel’abbiamo insegnata noi. Non c’è assolutamente differenza in questo. Inutile sottolineare che i dati ci parlano di una considerevole diminuzione degli omicidi negli ultimi anni. Inutile dire (i lettori penserebbero che sono di parte) che la sensazione di insicurezza aumenta quando governa il centro sinistra e diminuisce quando sta al potere la destra, a prescindere dagli effettivi numeri dei reati. Come mai? Forse perché qualcuno soffia sul fuoco?
Cerchiamo però qualche parola di speranza e di incoraggiamento. Al di là del colore della pelle i migranti sono come noi. Semplicemente come noi. Lavorano; a volte, troppe volte lo fanno in nero. Esattamente come gli italiani, ma sono più sfruttati, più ricattabili. Tirano avanti, come possono. Secondo le leggi che noi abbiamo varato. Inutile ricordare che oggi l’immigrazione è regolata dalla legge Bossi/Fini. Sappiamo a quale schieramento appartenevano.
Sappiamo che il grande afflusso dei rifugiati e dei richiedenti asilo dalla Libia e dalla Siria è il prodotto di due guerre, delle quali l’Occidente non può dirsi sicuramente estraneo. Occorrerebbe forse prendersela con Sarkozy oppure con i contrapposti interessi di Russia e Stati Uniti in Medio Oriente. Sono scenari più grandi di noi. I comuni cittadini almeno potrebbero non lasciarsi abbindolare da chi immagina “piani strategici” per la distruzione dell’Europa.
Uno sforzo andrebbe fatto. Possibile che non conosciamo nessuno straniero ben integrato, che va a scuola con i nostri figli, che aiuta i nostri anziani? Allora si dirà che questi immigrati vanno bene. E i richiedenti asilo sono tutti spacciatori? Forse no, sicuramente no. Spendiamo inutilmente i nostri soldi per “loro”? Eppure molti italiani lavorano nel campo dell’accoglienza. Lo fanno per portare i voti alla sinistra? Non scherziamo. D’altra parte il disagio diffuso va considerato, non proponendo soluzioni securitarie o addirittura xenofobe. Sono controproducenti.
Mostriamo invece che “si può” vivere insieme. Che questa è l’unica difesa della parte migliore della nostra società. Su dieci pensieri, dedichiamone uno a questa possibilità. Troveremo molti esempi positivi. Forse potremmo pure ringraziare gli stranieri con cui abitiamo insieme. L’arte del buon vicinato si costruisce così.
Articolo pubblicato dal Trentino il 07 febbraio 2018
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Link
Tumblr media
Nell’epoca in cui vogliamo ogni cosa subito e disponiamo di tutto on demand è proprio lo spirito di sopportazione che può dare la forza di “ribellarsi”
0 notes
piergiorgiocattani · 6 years
Text
La politica e le scelte della sanità
Tumblr media
Ogni tanto in questa campagna elettorale si parla di temi concreti. Per esempio la sanità, un ambito che incide in maniera davvero significativa sulla qualità della nostra vita. In Italia poi il sistema sanitario nazionale (pubblico, tendenzialmente gratuito e universale) rappresenta una delle migliori realizzazioni del dettato costituzionale che sancisce il diritto alla salute.
Sarebbe bello confrontarsi sulla situazione effettiva di tale istituzione, sulla tendenza – sempre più evidente – a una privatizzazione di settori della sanità con il rischio di mettere in discussione l’intero sistema. Sul “come fare” a renderlo più efficiente ed inclusivo.
Su un altro versante è di pochi giorni fa l’allarme per la futura mancanza di medici di base e di medici in generale: frutto di una assenza di pianificazione che comincia dalle nostre università. Insomma gli argomenti da dibattere sarebbero numerosi.
Ahimè tuttavia ogni buona intenzione rischia di finire ancora una volta nello scambio di slogan, di accuse e di contraccuse. Questo veleno, sparso a piene mani da tutte le componenti della società (politici, cittadini, esperti), fatica a trovare un antidoto. Se poi aggiungiamo l’inguaribile malattia italica dell’incertezza del diritto, capiamo di non essere affatto pronti per il futuro. Si fa una legge, si cerca la deroga. Libertà, obbligo, dovere, facoltà si ingarbugliano in un gomitolo che avvolge la verità e anche la scienza. Non può però essere tutto piegato alla politica, intesa poi sempre nella sua parte meno nobile.
Prendiamo il caso dei vaccini. D’accordo, si può essere contrari con il modo con cui il governo ha scelto di garantire la copertura vaccinale necessaria per la sicurezza della comunità. Per qualcuno la coercizione e il divieto sono contro producenti per lo stesso obiettivo perseguito. Può essere, ma mi sembra fuori luogo dipingere uno Stato carnefice e liberticida che praticamente vuole strappare i bambini dalle braccia di amorevoli e iper protettivi genitori. Chi pensa o ha paura che il proprio figlio non tolleri i vaccini, di solito – per non dire sempre – è accolto con premura dalle strutture sanitarie. Certo non possono essere tollerati timori, fantasie, stravaganze irrazionali, in nome di un’astratta “libertà di cura”.
Eppure qualcuno, quasi per un’esasperazione ideologica che si autoalimenta, vuole sfidare la normativa iscrivendo il proprio figlio a scuola anche senza vaccinarlo. Una sorta di obiezione di coscienza, di disobbedienza civile che però non comprende di confliggere con un altro diritto, quello della maggioranza che vorrebbe essere sicura di non vanificare la vaccinazione dei propri figli. Sulla salute non si scherza. Ancora una volta possiamo trovare su internet studi “scientifici” che affermano con certezza l’inutilità di alcuni vaccini, l’insipienza di medici e di legislatori, il complotto latente di bigpharma. Possibile che tutti abbiano la mente annebbiata e siano, volenti o nolenti, plagiati?
La confusione aumenta quando gli enti locali cercano scappatoie per mostrarsi attenti e inclusivi alle esigenze dei cittadini. Così il Consiglio comunale di Trento approva una mozione affinché venga garantita la continuità scolastica ai bambini da 0 a 6 anni anche se non vaccinati nei termini della legge Lorenzin. Liberi dunque? La Giunta comunale minimizza. Così la Provincia di Bolzano, anche dopo il 10 marzo (che dovrebbe essere la scadenza per regolarsi), non applicherà né multe né esclusioni da scuola per i bambini non vaccinati.
Perché allora è stata criticata Virginia Raggi? Perché il Comune di Caldonazzo ha invece respinto un’iniziativa analoga a quella di Trento? L’assessore del paese lacustre Carlin spiega: “Il consiglio comunale si è espresso per tutelare quei genitori che rispettano la legge e non illudere gli altri rispetto alla deroga. Non ci si può liberamente muovere nell'alveo della legge nazionali”. Parole chiare.
Un discorso simile si potrebbe fare anche con i punti nascita. Ci sono regole nazionali (desunte dalle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, noto raggruppamento di lobbisti e cialtroni) per cui sotto un numero di nascite all’anno un reparto di ostetricia, un punto di cura, un quasi ospedale o come vogliamo chiamarlo, deve essere chiuso. Ci sono variabili, differenze, attenzione alle periferie, ci possono essere casi particolari. Tuttavia il problema non risiede nella penuria di medici e non si risolverà pagando a peso d’oro professionisti disposti ad andare a Cavalese o a Arco. Non c’entra nulla la “volontà politica”, non è “una questione di soldi”; c’entra la sicurezza del parto.
È necessario rendere consapevoli i cittadini della bontà delle scelte dell’ente pubblico. Perché, guarda caso, proprio l'assistenza a donna e bambino durante il parto e le vaccinazioni di massa sono conquiste della medicina moderna che hanno cambiato in modo radicale le nostre vite. Non si possono orientare le decisioni individuali solo con la forza della legge. Questo è vero. Ma è altrettanto vero che la gente comune deve collaborare. Perché il pericolo è quello di essere ingannati. E alla fine di rimetterci sulla qualità effettiva dei servizi. Ancora una volta ci vorrebbero dialogo, fiducia, capacità di dire la verità anche se scomoda. Atteggiamenti che mancano.
Editoriale apparso sul "Trentino" il 17 febbraio 2018
0 notes