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#Fede Cheti
fashionbooksmilano · 11 months
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Il design del tessuto italiano
Dal Déco al contemporaneo Il tessuto stampato
Vittorio Linfante, Massimo Zanella
Marsilio Arte, Venezia 2023, 240 pagine, oltre 500 illustrazioni, 24,8 x 29,8 cm, ISBN 9791254630907
euro 48,00
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Dalle sperimentazioni di Lucio Fontana e Gio Ponti ai motivi optical di Germana Marucelli e caleidoscopici di Emilio Pucci; dagli effetti trompe-l'oeil di Roberta di Camerino alle sensibilità pop di Ken Scott, Elio Fiorucci, Gianni Versace e Franco Moschino; dal lavoro sull'heritage di Prada, Valentino e Marni alla valorizzazione dell'archivio aziendale di Missoni, fino alle ibridazioni grafiche di Maison Laponte, Gentile Catone, Colomba Leddi e IUTER: artisti, stilisti, designer e aziende che hanno contribuito a costruire la fama del tessuto italiano nel mondo dai primi del Novecento al contemporaneo. Una storia che si intreccia profondamente con la nascita del concetto di made in Italy, contribuendo in modo significativo alla fama internazionale dell'Italia come baluardo della moda e del design di alta qualità. Oltre 500 illustrazioni, fotografie e disegni preparatori - molti inediti e provenienti da archivi aziendali e privati - raccontano i più importanti successi creativi del nostro Paese.
05/06/23
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jacopocioni · 1 year
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L'Oratorio della Congregazione dei Vanchetoni e un bruttissimo fattaccio di cronaca
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L'oratorio di San Francesco è chiamato anche "dei Vanchetoni", si trova in Via Palazzuolo ed è sede dell'Arciconfraternita di San Francesco. Venne fatto costruire dal tessitore Ippolito Galantini, fondatore della Congregazione della Dottrina Cristiana. La costruzione dell’Oratorio e degli ambienti annessi, risalgono tra il 1602 e il 1620, su progetto dei fratelli Matteo e Giovanni Nigetti e furono edificati su una parte degli orti concessi dai frati francescani di Ognissanti.
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Il complesso è composto da un ampio atrio, dall’aula confraternale o Oratorio, dalla Cappella del Beato e dalla sagrestia antica. Il Beato Ippolito ebbe sempre il sostegno morale e fattivo della famiglia Medici e grazie al loro contributo fece costruire la facciata, l’atrio, l’imponente altare e fu affrescato parte del soffitto.
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Il soffitto è suddiviso in tredici riquadri, dove sono riportate scene di Santi e del Beato, e furono dipinti da Domenico Pugliani, Giovanni Martinelli, Cecco Bravo, Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, Lorenzo Lippi e il pittore veneto Pietro Liberi che affrescò il grande ovato centrale con l’effige dei Medici. Questo grande affresco del soffitto è ritenuto dalla critica d’arte come una delle testimonianze più importanti della pittura fiorentina del seicento. Alle pareti, nella parte alta, vi sono affreschi di Niccolò Nannetti e Rinaldo Botti, mentre nella parte bassa, troviamo una ampia struttura lignea, gli stalli confraternali, che furono opera di Giovan Battista Paolesi e risalgono intorno al 1750.
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Sul retro dell’altare è posta la Cappella del Beato, che è stata modificata nel 1825 in occasione della Beatificazione di Ippolito Galantini; le sue spoglie furono ricomposte in un’urna che tutt’oggi è conservata su uno degli altari.
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La sagrestia conserva pregevoli mobili intagliati e intarsiati con lumeggiature in oro, che risalgono tra il XV e il XVI secolo. Il curioso nome pare derivare dalla frase "van cheti cheti", ovvero zitti zitti, con cui veniva descritto il comportamento, improntato ad estrema discrezione, dei seguaci del beato Ippolito Galantini. L'accezione "Bacchettoni", ancora oggi utilizzata in senso dispregiativo per indicare persone che ostentano una fede esasperata, più per ostentazione che altro, nasce dalla storpiatura del termine ed anche dalla bacchetta utilizzata a scopo penitenziale. Nel 1619, alla morte di Galantini, i suoi confratelli, laici come lui, si dedicarono all'assistenza dei poveri e all'educazione evangelica dei bambini. Le loro scuole erano aperte anche agli adulti ed esisteva anche una scuola del "noviziato", dove venivano formati i nuovi catechisti.
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Quando nel 1785 Pietro Leopoldo attuò la soppressione di tutte le confraternite religiose, l'Arciconfraternita della Dottrina Cristiana fu tra le poche ad essere risparmiata. Le attività caritatevoli diminuirono nel secondo dopoguerra, fino ad arrestarsi negli anni settanta. L'attività simbolo della Confraternita era la "cena dei cento poverelli", dal rigido cerimoniale. Se uno passava di lì verso le cinque di pomeriggio l'ultima domenica di carnevale, scorgeva una folla di persone che si assiepava dinanzi alla porta della chiesa per la curiosità di vedere, oltre alle autorità, molti signori dell'aristocrazia, noti professionisti e un buon numero di forestieri col loro biglietto in mano, perché l'accesso era limitato ad un dato numero di invitati, onde evitare confusione.
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Questa affluenza di pubblico era giustificata perché in chiesa si compiva un atto insolito, alquanto suggestivo e pieno di poesia, in una cornice di pregio artistico indiscusso. Dalla porta spalancata che dava sulla chiesa vera e propria, si ammirava uno spettacolo inconsueto: sullo sfondo, l'altare maggiore era illuminato a giorno e sopra, alcuni pezzi di argenteria composta di vassoi cesellati ed a sbalzo; poi, il palco delle autorità. Fra queste, significativa era la presenza di S.E. l'Arcivescovo, che per l'occasione metteva anche lui il simbolico grembiale bianco.
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Gli invitati stavano a sedere lungo le pareti laterali della chiesa sugli scanni di legno scolpito, lavoro certosino di Giambattista Paolesi, ed avevano sotto di loro, seduti più bassi, i convitati davanti a tavole apparecchiate. Erano infatti imbandite cinque tavole per lato, ad ognuna delle quali dieci poveri, che avevano superato i cinquant'anni di età, aspettavano con gioia e con compunzione la lauta mensa. La cena era sontuosa ed abbondante con stracotti, polli arrosto, salami, prosciutti, formaggi, frutta, dolci e vino toscano ed era servita in massima parte da bambini e ragazzi. I cento poveri venivano rasati, rivestiti dell’abito della congregazione (una cappa nera con un bavero bianco attorno al collo), confessati e comunicati, prima di venir fatti sedere al tavolo riccamente apparecchiato, dove la cena veniva consumata in silenzio, mentre venivano eseguiti brani di musica, canti e letture spirituali. In ricordo di questa usanza un ristorante vicino prende il nome appunto di "Osteria dei cento poveri". Accanto a questa nobile attività e alle altre della Congregazione, vi fu però uno scandalo sessuale del tipo più turpe che, nel 1875, coinvolse i Vanchetoni. Si trattò di un fatto che fece molto parlare, in tutta Italia. Dal periodico triestino "Alba" il resoconto dello svolgimento dei fatti: «Non è molto tempo, un individuo si presentava al delegato di pubblica sicurezza, nella sezione di S. Maria Novella, e gli rivelava certe nefandezze che si commettevano nella chiesa dei Vanchetoni in Palazzuolo. In questa chiesa si riuniva già una Confraternita e la sua amministrazione dipende dal Consiglio provinciale. Molti ragazzi andavano nella chiesa in certi dati giorni per impararvi il catechismo ivi insegnato ora da due ex frati, che vestono l'abito di preti. Ambedue gli ex frati hanno ciascuno l'età di circa 40 anni. Attiravano i fanciulli nella chiesa col pretesto dell'insegnamento religioso, mentre impartivano il quale la chiesa restava chiusa: e, allorché i fanciulli erano ivi raccolti, ne studiavano l'indole e cercavano famigliarità con quelli, che appunto sembravano loro di indole meno risoluta e più dimessa. Poi li facevano rimaner soli uno ad uno, e di questi fanciulli inesperti i due frati abusavano nel più orrido modo. Impossibile è il ridire le schifose brutture, le violenze, le turpezze di ogni sorta che questi due frati scellerati hanno commesso, abusando della innocenza di fanciulli in tenerissima età e adoperando perfino gli arredi e i simboli sacri della religione a sfogo delle loro sozzure. Mai la fantasia più sbrigliata dei più osceni novellieri è andata tant'oltre quanto le opere dei due ex-religiosi: ad essi debbono esser sembrate innocenti anche le pagine più salaci di Petronio. Appena la questura ebbe sentore che si commettevano tali enormità, fece indagini segrete e accurate e riuscì in poco tempo ad ottener confessioni e a distrigare i fili arruffati di questa matassa scompigliatissima. Varii sono i fanciulli che patirono onta e sfregii vituperevoli dalla incontinente e infernale lussuria fratesca: e non paghi di tanta strage i due frati si vituperavano a vicenda, l'un con l'altro, dinanzi ai fanciulli già stati loro vittime, obbligandoli, durante simili atti, che fanno raccapricciare, agli uffici più ignominiosi. Il giudice istruttore ha cominciato ad occuparsi degli obbrobriosi e non più misteriosi delitti, commessi nella chiesa dei Vanchetoni: la popolazione è indignatissima. Intanto, udiamo con sorpresa che nessuno dei due frati fu ancora arrestato e abbiamo anzi da buona fonte che uno di essi è fuggito.» Questo quanto descriveva, in modo tristemente dettagliato, il giornale triestino. Dalle cronache, si sa che il 19 novembre 1875 il prete don Mansueto Rossi, già frate, fu arrestato, di notte, "nella sua casa in Porta Rossa", per "turpissimi fatti avvenuti nella chiesa dei Vanchetoni". Il 21 novembre fu arrestato, con un appostamento in borghese nei pressi della sua abitazione, il cinquantenne don Filippo Conforti, che per non farsi riconoscere s'era vestito in abiti laicali. Il 3 giugno 1876 il primo sarebbe stato condannato a 12 anni di lavori forzati, e il secondo a 10 anni. Assieme a loro fu condannato, a sei anni, un valigiaio, certo Cappugi. L'episodio fu occasione di episodi di anticlericalismo spicciolo anche a livello popolare, come quello riportato il 26 giugno dalla "Nazione", relativo a un prete che aveva preso a pugni un vetturino che lo aveva apostrofato come "don Mansueto". La sentenza sarebbe stata confermata l'anno successivo, il 27 ottobre 1876, dalla Corte d'Assise di Arezzo, mantenendo invariata la pena per don Mansueto e per Cappugi, mentre la concessione delle circostanze attenuanti avrebbe ridotto la pena di don Conforti a sei anni e due mesi.
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Gabriella Bazzani Read the full article
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mudwerks · 4 years
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(via 1940 - 1950 | COOL COOL RAFFIA | SALVATORE FERRAGAMO | TheHistorialist)
1942 | Salvatore Ferragamo 
Hand woven synthetic fabric (Lin-Lan) designed by Fede Cheti 
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wildfolkprints · 6 years
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Althea McNish by Libby Sellers
“London, is the place for me,” extolled Lord Kitchener, one of Trinidad’s top calypsonians, as he disembarked the Empire Windrush at Tilbury docks in 1948. As part of a wave of colonial artists drawn to the “mother country” in search of London’s intellectual and creative center, Kitchener captured the optimism and joy the migrants brought with them. That this optimism infiltrated all corners of British life, and specifically the furnishing and fashion fabrics of homes from north to south, east, and west, owes much to Althea McNish. Born in Trinidad’s capital, Port of Spain, and living in London since 1951, within her textiles McNish “tropicalized” the gray British landscape with all the warmth, sunshine and vibrancy of fellow Trinidadian Lord Kitchener. Yet, in comparison with her textile contemporaries, McNish’s contributions to the transformation of postwar Britain have only recently begun to be acknowledged in her adopted country.
Descended from the Meriken settlers (former African American slaves who had fought for the British during the War of 1812), her father was the writer and publisher Joseph Claude McNish, and her mother, a well-regarded dressmaker. She grew up in a world of words, ideas, and fabrics that, from as young as three, she rendered through her passion for painting and drawing. Trinidad at the time was undergoing a cultural renaissance, inspired by the growing demands for independence and the consequent need of its people to forge their own national and cultural identity. As a junior member of the Trinidad Arts Society, McNish was at the center of this thriving scene, staging her first exhibition in her teens and receiving encouragement from her elders including Sibyl Atteck, M. P. Alladin, and Boscoe Holder. Despite her prodigious fine-art talent (she later worked as a cartographer and entomological illustrator with the British government in Trinidad), she dreamed of construction and engineering, studying architecture with a local town planner and taking a particularly unusual interest in septic tanks (developing blueprints for a homemade tank in the family’s backyard).
It was on the back of this fascination that she applied for a scholarship, earning a place at the Architectural Association School in London’s Bedford Square in 1951. She had a seven-year course ahead of her and a grant to last the duration, though dreading the cold, gray British winters McNish transferred to the (shorter) undergraduate courses at the London School of Printing and Graphic Arts. Her interest in textiles was awakened by a visit to an exhibition of student works at the Central School of Art, where British artist Eduardo Paolozzi taught textile design. Through her print studies at the London School of Printing, evening classes at Central, and then postgraduate degree at the Royal College of Art (RCA) she mastered the medium, learning how to develop colorways, create repeats, and prepare her artwork for production as well as learning the production process itself. This relatively rare understanding of both the design and production sides offered McNish inventive freedom, but it also safeguarded her inventiveness. Her ability to speak the printers’ language enabled her to “preserve the integrity of her chosen colors.” McNish added, “Whenever printers told me it couldn’t be done, I would show them how to do it. Before long, the impossible became possible.” At the time, the RCA’s studios were located within the Victoria and Albert Museum. That McNish had chosen to develop her artistic vocabulary surrounded by the museum’s collections, historically garnered from Britain’s Empire, was an awkward oxymoron she claims not to have noticed. Yet McNish is not easily discouraged; her forceful colors are demonstrative of an equally forceful will.
Her most celebrated design was inspired by a weekend visit to the home of her RCA tutors, Edward and Charlotte Bawden, in Great Bardfield, Essex. Sketchbook in hand, she was drawn to the sight of the sun glistening over the fields. As she said of the moment, “In Trinidad, I used to walk through sugar plantations and rice fields and now I was walking through a wheat field. It was a glorious experience.” Through her colorful lens, this bucolic English idyll was transposed, resulting in the design for Golden Harvest (1959). The design and its various colorways were later purchased by Hull Traders, who, through its continued patronage, were to become an important client for McNish, producing short runs of her avant-garde designs.
Her impressionistic lines and blaze of colors burned bright at the 1957 RCA degree show. Pat Bishop, the Trinidadian artist, described how, "Swinging London was on its way...McNish was there to satisfy that need with her big, beautiful splashy prints of every kind of flower and tropical pattern imaginable." Within a day of graduation, she was called to the offices of Arthur Stewart-Liberty, of the eponymous London department store. McNish recalls of the meeting, “He thought Britain was ready for color,” and through such designs as Cebollas (1958) and Hibiscus (1958), he made sure Britain could buy it through him. While her near contemporaries Lucienne Day (1917–2010), Jacqueline Groag (1903–1986), and Marian Mahler (1911–1983) were bringing much needed cheerfulness to the drab days of postwar Britain, McNish’s riot of color was like a volcano erupting through the center of conservative British modernism. “Color was mine,” she declared. Though Day, Groag, and Mahler were to be given more credit.
After their successful 1957 meeting, Stewart-Liberty sent McNish by taxi directly to Zika Ascher, the producer and retailer of extravagant and experimental textiles to the fashion industry. With clients including Cardin, Dior, Schiaparelli, Givenchy, and Lanvin, it was not long before McNish prints such as Tropic and Giselle of 1959 were gracing European fashion magazines. In 1966, when Queen Elizabeth II visited Trinidad in the early days of post-Independence, McNish designed fabrics for her high-profile, official wardrobe.
In her public and professional engagements, she was, as the author Alan Rice suggested, “a rare black and female presence.” Committed to developing her industry and offering a role model for future generations, McNish taught extensively and was a prominent member of various arts councils and bodies. As a founder member of the highly influential Caribbean Arts Movement (CAM) in the mid-1960s, she did much to promote Caribbean artists to the British public, including organizing works by herself and her peers for the 1973 BBC TV magazine program Full House, produced by John La Rose. Her position as the first black British textile designer of repute is something she shrugs off, claiming she never suffered any discrimination due to either her race or gender: “I was so rare, they were dumbfounded.”
In the 1960s, as textile manufacturing declined in the UK, giving rise to the import of plain cotton cloth, the demand for designers to produce patterns for the consumer boom grew. By offering complex patterns that she alone could achieve with the printers, McNish secured contracts with most of the UK’s leading firms, including Cavendish Textiles, Danasco, Heals, and the Wallpaper Manufactures Ltd. (for which she designed the Crystalline print for their Palladio range of 1960). On a 1963 Cotton Board scholarship she traveled to Europe investigating the state of British exports. It was not long before she was selling designs directly to upmarket European firms including Bucol in Lyon and Fede Cheti in Milan among others. Britain’s most successful postwar design consultancy, Design Research Unit, commissioned McNish to design murals for their public and corporate clients including British Rail and the Orient Steam Navigation Company. When the SS Oriana launched in 1959, she sailed McNish’s laminate panels, Rayflowers and Pineapples and Pomegranates, around the world on the walls of its restaurants.  
While she effectively retired from textiles in the late 1980s, throughout the intervening years her works have been included in a growing number of exhibitions exploring the under-recognized influence of artists from the African diaspora within British art. Within this context, McNish’s “tiny flowers picked from the British hedgerow transformed into tropical exuberance” take on an entirely new significance, both for the history of postwar textile design and British modernism in general.
Libby Sellers is a design historian, consultant, and curator based in London. The above chapter is an excerpt from her book Women Design, which was published by Frances Lincoln in June 2018.
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emme-malcolm · 6 years
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Sinagoga
28/05/2018
Malcolm: Pomeriggio importante per il giornalista che al seguito di Emmeline ha deciso, dopo una settimana, di dare compimento alla sua idea di incontrare i bambini che hanno realizzato il pupazzetto per lui e fare felice Emma. Certo è stata un’idea combattuta ed è un po’ buffo forse – se non fosse altrettanto “tragico” – che ci sia tanto nervosismo per affrontare un semplice manipolo di bambini. È molto ansioso Malcolm ed Emma di certo lo sa: ne hanno parlato molto questa mattina, tante domande per la rossa, tanta buona volontà quanto momenti di ripensamento, un tempo decisamente esagerato per prepararsi, un paio di sigarette bruciate. Ma, all’esterno, la solita compostezza di uomo glaciale sa davvero ingannare tutti; tutti tranne chiaramente Emma, lei può notare e decifrare l’indice e il medio della destra che picchiettano sempre più freneticamente man mano che si avvicinano alla porta della stanza dove probabilmente il vociare dei bambini si fa già sentire. Il passo del giornalista è lento e tremendamente misurato, un po’ marziale nella sua rigidità; ogni manciata di secondi le dita smettono di picchiettare sulla stoffa e vanno a sentire compulsivamente i contorni dei bigliettini che l’uomo ha in tasca, poi tornano al loro consueto picchiettare. La sinistra invece tiene in mano il pupazzetto a forma di sogliola diventato un portachiavi ad anello. Dato che Emma aveva posto l’enfasi sul colore grigio, Malcolm ha pensato bene di evidenziarlo, indossando per l’occasione un completo grigio chiaro, insieme ad una camicia bianca e alla cravatta anch’essa grigia, patinata. A pochi passi dalla porta, mentre le sta camminando di fianco o appena un passo indietro, si ferma: <Aspetta…> dice a bassa voce verso Emma. La voce serissima, come il volto granitico, curato come i capelli, al solito. Un uomo d’altri tempi. Si ferma, come indeciso, abbassa un po’ il capo e lo sguardo. <Ripetimi le cose principali per favore. Non vorrei dimenticare nulla.> le chiede, nella forte tensione del momento. Chiaro: non quello che è scritto sui bigliettini, ma ciò che non è scritto. La cosa più bella in tutto ciò è che si sente libero di far trapelare se stesso con Emma e di chiederle sostegno; non è certo solito farlo con tutti, come Emma sa bene, e quest’apertura nei suoi confronti, pur coi suoi limiti, dovrebbe essere perfetto indice di quanto sia profondo e sentito il legame che ha con lei.
Emmeline: E’ un pomeriggio particolare e di quelli che non ci si aspetterebbe e la sorpresa della rossa all’annuncio della mattina l’ha colta alla sprovvista, impreparata a quella che sa rivelarsi una programmazione intensamente meticolosa. Non ha trovato certo le sue resistenze l’idea e dopo qualche momento d’immobilità a statua gli si è lanciata al collo per abbracciarlo tuffandosi da subito in consigli utili e tranquilli nonché nella preparazione dei bigliettini con le domande per i bambini. Sono esserini irrequieti ma la rossa è lì per tenerli a bada e per ricordare loro l’importanza del rispetto, dell’educazione e della quiete. Nemmeno a dirlo le urla dei mostriciattoli attraversano la porta chiusa e si diffondono solo appena ovattate lungo tutto il corridoio. Gli cammina esattamente di fianco con un occhio azzurro che ha colto già da decine di passi prima il ticchettare delle dita sulla stoffa, un moto che lei non ha tentato di sottrargli, non lo ha giudicato, non ha cercato di rimproverarlo con un arresto ma che ha accompagnato con una carezza sfuggente sul dorso della mano lunga di Malcolm solo per tranquillizzarne il ritmo; lui è anche quello, le sue paure ed i suoi dubbi e l’enorme forza di volontà che infine gli ha fatto visita, spontaneamente, senza che lei dicesse nulla. E’ una ragazza composta ed elegante come solito, i capelli raccolti dal fermaglio, ballerine rosse con appena un po’ di tacco, dei calzoni di cotone blu con cintina rossa dentro ai quali s’infila una camicetta in seta bianca con una manichina corta a voilà, tutta perfettamente abbottonata fino al colletto, Sula spalla borsa e busta di tela con i lavori dei bambini e sottobraccio una boccia per pesci piena di caramelle. Lo adocchia nel suo grigio chiaro, una scelta cromatica che ai suoi occhi lo fa apparire come un cherubino sceso dal cielo a distribuire benedizioni e lei sorride in quel modo morbido e leggero prima di fermarsi per voltarsi verso di lui, flettendo appena le ginocchia per intercettare il suo sguardo che immagina già sfuggente. Una perfetta sogliola grigia, la sua sogliola grigia con il suo portachiavi personale, lo osserva con la benevolenza di una compagna fiduciosa, un’assoluta fede in lui e nella sua capacità di essere semplicemente com’�� ed è questo che si può ritrovare nelle sue parole <Tu sei l’uomo sogliola, te ne sta quasi tutto il tempo acquattato sul fondo ad osservare con i tuoi occhi tutto quello che c’è di sopra, sei curioso ma timido e schivo e parli raramente… oh ma quando parli sai affascinare tutti perché non dici mai nulla che non sia necessario dire. Per loro sei un bel mistero e dovrai rispondere con tutto ciò che sai.. a tenerli buoni ci penso io, tra due minuti questo caos non ci sarà più lì dentro> di nuovo gli sfiora il dorso della mano con le punte delle proprie dita e gli fa sentire un profondo respiro quasi si dovessero immergere entrambi, insieme, nessuno dei due da solo, sempre insieme. Ed aspetta che ci sia un cenno, anche solo un piccolo cambiamento nei suoi occhi chiari e nel suo viso che la porti ad avvicinarsi all’uscio aprendolo piano, molto piano <Gnnnnnniiiiiiiiik> imita il cigolio e si affaccia con la testa, i bambini urlano e le sedie si spostano [Aaahhhhh Emma, è Emma… Emma sei in ritardo] <Una Emma non è mai in ritaaardo, arriva sempre quando deve arrivare… hey qualcuno si sta scaccolando?!> le risa si alzano velocemente così come le vocine [Rudy!... Rudy, Rudy è Rudy] <Io vi osseeeeervoooo, Rudy ha attaccato il vizio a qualcuno. Oooooora, ascoltatemi bene, ricordate cosa vi ho detto, quiete ed educazione oggi dobbiamo essere particolarmente sssssilenziossssssi perché ci sono grossi premi per tutti quelli che risponderanno alle domande di un ospite importante> i premi e l’ospite importante gettano il silenzio dentro alla stanza, l’ospite è proprio dietro a lei, ancora nascosto dalla porta aperta solo un po’ <Se facciamo confusione lo spaventiamo, è timido e silenzioso ma se siamo buoni lui ci parla> [ooooohhhhh… chi è? Chi è? Emma dicci chi è, io muooooio dalla curiosità] <Sciocchezze! La curiosità non ha mai fatto del male a nessuno Maggie… ssssileeeenssssssiooooo… io ho qui… l’uomo sogliola> e di nuovo parte un [oooohhhh] lei fa segno con la mano libera di star cheti, un indice davanti alle labbra cominciando ad aprire la porta, lei china, curva sulla schiena, apre l’uscio entrando e mostrando chi c’è sulla soglia… una sogliola grigia.
Malcolm: Ogni qualvolta la mano di Emmeline ha sfiorato la sua che si muove incessantemente, di fatto le compulsioni si sono placate appena pur non riuscendo ad annullarsi e Malcolm ha espirato appena. Ogni pochi secondi, trova conforto nella sagoma, quasi impercettibile ma sensibile al tatto, che i bigliettini disegnano sulla stoffa dei pantaloni. Sono una protezione così come la presenza di Emma che viene fermata in uno dei tanti momenti in cui l’ansia si fa prevaricatrice. Il pensiero di tirarsi indietro, cambiare idea, rinunciare, scappare, e così tanti altre ossessioni negative schiacciano contro le pareti del suo animo, insidiosi, costanti. E il loro peso si può ben leggere negli occhi glaciali eppure dall’aura fragile e combattiva insieme. Anche più accentuata ora che Malcolm è fuori dalla sua ristretta zona di comfort che garantisce una maggiore tranquillità. Ha paura, per quanto possa essere considerata una cosa infantile. In questo caso proprio letteralmente. Ad ogni modo lo sguardo, anche se di soppiatto, è rivolto ad Emmeline e alle sue parole, quel riepilogo a cui sta in silenzio ed annuisce appena un paio di volte; tutte cose che già sa, ma che gli fa bene risentire, non fosse altro per restarsene ancorato coi piedi per terra. Spera tanto che funzioni, come quel nuovo tocco della rossa sembra suggerirgli. Mordicchia il labbro inferiore dalla parte interna, affossandoci i denti, a labbra strette. Prende in contemporanea ad Emma un respiro nervoso dalle narici, facendo pure involontariamente la figura della sogliola, muto, teso. E se li spaventasse i bambini? Se li mettesse solo a disagio? Tutti quegli occhi addosso. Dannazione. Una classetta di bambini. Una classe. No, no. Non ancora questo pensiero che torna e torna, proprio come gli altri. Un tremito, una smorfia fulminea sul volto, gli occhi per un attimo lucidi, un boccheggiare davvero da pesce che lo tiene inchiodato ancora lì, immobile, e per cui deve chiudere gli occhi e riprendere a respirare. Torna a sentire con le dita quei bigliettini, si calma quanto basta, e allora riesce a comunicarle, pur senza parlare e con un cenno affermativo del capo, che possono andare. Si tiene quindi dietro di lei, gradendo quel tempo che Emma impiega per parlare con i bambini, sia per ascoltarla – convinto che non parlerà ai piccoletti in modo idiota, in nessun caso – e un po’ per rafforzare la corazza, la finzione, motivarsi a far fronte a quei bambini. Deglutisce più volte, si tormenta le dita, tormenta il portachiavi. Curiosamente, proprio come lui viene nascosto ai bambini, così la porta impedisce a lui di vedere l’interno e i piccoli di cui può sentire le voci acquietarsi grazie ad Emma. Un paio di passi indietro lui rispetto alla rossa che da lì ad un attimo entra dentro, lasciandolo temporaneamente indietro, seppur di poco. L’aprirsi di quella porta è l’alzarsi del sipario, per entrambe le parti. Lui lì, a due passi dalla soglia, impalato, col cuore che ha fatto un grande balzo di potenza e se lo sente battere nelle tempie ora. Un passo. E ancora un altro. Non crede di riuscire a parlare al momento, non saprebbe neanche cosa dire, perché ogni pensiero è sospeso in quel probabile silenzio alienante pieno di sguardi fissati addosso alla sua vecchia figura bianca e grigia. Deglutisce ancora una volta, fermandosi ad appena un passo all’interno. Come un marziano, come d’altronde è sempre stato, come è ancora. Forse sentirà qualcuno di loro gridare che il re è nudo? Bambini disposti intorno ad uno spazio vuoto, bambini sulle cui facce i suoi occhi corrono freneticamente. Gli occhi appena più aperti, tondi, azzurro ghiaccio, scandagliano ciascuno di loro. Non se ne rende conto lui delle dita che continuano quella loro compulsione quasi indipendente da tutto il resto. Forse li sta inquietando, forse li sta spaventando come temeva, piantato lì senza riuscire a far altro che osservare i piccoletti sulle loro sedioline, dall’alto del suo magrissimo metro e ottantatré.  
Emmeline: I silenzi di Malcolm sarebbero capaci di mettere a disagio chiunque, la sua immobilità impostata frutto di un enorme lavoro di protezione di se stesso, la costruzione di quella patina attorno alla propria figura… forse ha sbagliato pesce, un pesce palla sarebbe stato più appropriato ed il pensiero istantaneo le aveva sollevato un sopracciglio; perché Malcolm Barnes potrebbe paralizzare tutti ma di certo non gli riesce con lei, non c’è mai riuscito e con lei quel film protettivo è servito a ben poco come se lei non l’avesse in realtà mai percepito. Ha atteso osservandolo il tempo giusto, pronta ad agire all’istante senza farsi spaventare o trarre nel dubbio dagli occhi lucidi e dal nervosismo delle dita sulla stoffa dei calzoni di cui potrebbe quasi indovinare i cambiamenti di tempo, un percussionista dell’ansia. Si è occupata di render quieta quella ciurma di scalmanati che tuttavia sembrano mostrarsi diligenti ed obbedienti, la rossa sa indubbiamente come attirare l’attenzione e come motivare ad un certa calma e stasi generando l’aspettativa ed il mistero giusti per calamitare quel momento di assoluto silenzio mentre la porta si è aperta. La cosa ha strappato a lei stessa un profondo, profondissimo respiro sotto quella camicetta chiara che ha nascosto un brivido ed una certa frustrazione nel non poter vedere i primi attimi ma quando al sua presenza consueta è ormai diventata praticamente insignificante, inesistente lì dentro le rimangono da osservare gli occhietti vergognosi dei più schivi, piccoli animi simili per timidezza a quello di Malcolm perché non tutti lo stanno fissando. Alcuni lo evitano o gli danno qualche occhiata sommaria, altri invece lo ispezionano con una curiosità del tutto neutra, i più irrequieti sono davvero curiosi e già tentano di fargli un sorriso. Lei osserva i passi incerti della sua sogliola grigia accompagnata da qualche bisbiglio [aveva ragione a dire che era magro] [ssshhh stai zitto] un paio di tipetti che comprendono un ranocchietto rosso che viene osservato con una certa severità da Emma che tiene ancora sottobraccio la boccia con i dolciumi [sono caramelle? Io le voglio vincere!] a qualcuno parte un collegamento mentale diverso, adocchia di sfuggita Malcolm e poi finalmente fissa Emma parlando ad alta voce e dando il coraggio ad una bambina dalla fronte perplessa ma dal sorriso ampio e accogliente, col visetto tondo rivolto proprio a Malcolm e le manine che giocano ad intrecciare le dita tra loro, si vergogna ma gli parla lo stesso [ma come fai a respirare fuori dall’acqua?] <Oh bene, quindi nessuno di noi è abbastanza educato da ricordarsi cosa diciamo a chi ci viene a trovare?> dopo lo stupore e la vergogna iniziali, sia da parte di alcuni bambini che da parte del bambinone più grande che è venuto a trovarli, la giovane Bowen ristabilisce un po’ di ordine mentale e lo fa nel più semplice dei modi facendo sollevare un coretto di vocine più o meno decise [Ciaaaaaooo, benvenuto tra noi!] una formuletta dell’accettazione e dell’accoglienza <Bravi! Una caramella extra per voi alla fine. Hey Susie la tua è un’ottima domanda e sono convinta che se gli diamo una sedia vorrà risponderci o ci farà una domanda per capire una differenza importante di cui abbiamo parlato> [la pendo io la sedia] il bambinetto rosso si alza e raccoglie una seggioletta avvicinandosi baldanzoso ma intimidendosi alla fine, diventa rosso mentre poggia la sedia dal lato corto di quel rettangolo centrale di banchi uniti con tutti i bambini attorno [ha haaaaa è diventato rosso] qualcuno commenta facendo ridacchiare gli altri [non è vero, Emma niente caramella a lei!] <Le caramelle sono mie e sono io che decido… non si prendono in giro le emozioni degli altri, giusto? Nessuno ha avuto il coraggio di prendere la sedia, mh?> e intanto aspettano tutti che l’uomo grigio si sieda, Emma poggia a terra le borse e mette la boccia sul banco andando a prendere una seggioletta per sé piazzandola accanto a quella per Malcolm alzando gli occhi su di lui in un’affermazione senza parole, lo tiene d’occhio e gli sorride, non è solo lì e quei bambini sono esattamente come li aveva descritti, pieni di stupore, di curiosità certo ma talmente schietti da dire subito quello che pensano come ad esempio [ti piace il grigio?] una bambina perplessa che probabilmente adora tutta la gamma di colori tranne quello.
Malcolm: Uno ad uno li osserva lui, in quel silenzio che si azzarda per lo più ad infrangersi con un bisbiglio impercettibile o quasi da parte dei bambini. Sono solo dei bambini Malcolm, solo dei bambini. Riuscito a staccarsi da quelle piccole figure, lo sguardo saetta nervoso nel resto della stanza, ma le mani smettono di muoversi freneticamente segno che forse quell’ondata di ansia paralizzante sta scemando. Tuttavia continua a restare in silenzio, e non certo per interpretare meglio l’uomo-sogliola, e per qualche momento si perde e si distrae nel guardare quella stanza, forse rintraccia i minimi segni di disordine. Gli serve persino quella distrazione, qualunque sia il pensiero o l’elemento che la provoca, per scaricare il senso di estraneità e alienazione nell’avere contatti umani, che siano bambini o adulti. È la bambina che con la sua domanda lo trascina di nuovo al qui ed ora, facendo saettare lo sguardo su di lei, sui segni di vergogna che riconosce al volo. Solo lo sguardo a muoversi nel resto della postura statuaria e composta, nel volto granitico. <…> fa per aprire la bocca, anche se con grande incertezza, ma Emma per fortuna fa da intermediaria con quei bambini. Quel coretto di voci che gli danno il benvenuto gli fa contrarre un momento la fronte e subito dopo accennare ad un vago sorriso, diviso fra la circostanza e l’apprezzamento dell’accortezza. Non ha guardato Emma neppure una volta fino ad ora. <Buon pomeriggio> ritrova l’uso della parole, voce graffiante e bassa. <Grazie> aggiunge, educato a prescindere da chi si trova di fronte. Nel frattempo le dita corrono ma senza frenesia a sentire i cartoncini nella tasca, manco potessero di punto in bianco sparire. Poi lascia parlare Emma e solo ora le dedica un’occhiata più prolungata, che lei se ne accorga o meno. Speriamo che la sedia che il bambino recupera riesca a reggere una settantina di chili. <Grazie… hm… qual è il tuo nome?> gli dà retta Malcolm, al poveretto che è arrossito, facendo un cenno con un dito giusto per fargli capire che sì, parlava con lui. E intanto va e cerca di comprimersi per farsi piccolo su quella sediolina. Scambia il proprio sguardo con quello di Emma e a sua volta fa un lieve cenno affermativo, per dire che si sente bene, forse è entrato nell’ottica della situazione, pur restando molto serio. Di nuovo una domanda per lui che punta gli occhi sulla bambina, senza tuttavia fissarla eccessivamente. <Innanzitutto…> esordisce, con una leggera incertezza iniziale nella voce. Poggia le mani sul tavolo e compare meglio in vista il pupazzetto che mostra ai bambini, attaccato al suo dito con un anello metallico da classico portachiavi: <volevo ringraziarvi per questo bel regalo.> che era lo scopo originario dell’incontro. Prende un respiro per regolare la tensione che sente, di certo minore di quella paralizzante di prima; per ora a fatica gli occhi si staccano dal pupazzetto. E segue del silenzio, parla in modo lento e ponderato, che Emma conosce. <Come respiro fuori dall’acqua…> riprende la domanda della bambina, cercandola di nuovo con lo sguardo. <Come ti chiami?> intanto, attendendo una risposta. Qualunque sia il nome, Malcolm prosegue, rivolgendosi direttamente alla piccola. <Respiro perché sono una persona, come voi.> anche se molti non ci giurerebbero, è il pensiero automatico che trattiene e lo ritarda un attimo. <Emma vi ha detto che… sono un… un u-uomo-sogliola.> un certo titubare nella sua voce perché continua a non concepire del tutto quella finzione, semmai la metafora. Non per niente ha chiesto ad Emma, perplesso, se i bambini ci credessero davvero a questa storia. <Non… non dimenticate che.. sono un uomo… comunque…> inspira, cercando in maniera indecisa lo sguardo di Emma, come per cercare una conferma, teso. Poi torna alla bambina che gli ha chiesto se gli piacesse il grigio, domanda a cui sembra un filo più sciolto: <Mi piacciono tutti i colori> dice lentamente <ma il tempo mi ha fatto diventare grigio> spiega, passando la mano destra fra i capelli, delicatamente, per indicarne il colore. <Tuttavia… le sogliole sanno mimetizzarsi.> aggiunge, abbassando lo sguardo <La loro pelle cambia colore a seconda dell’ambiente in cui si trovano. Come…> si interrompe, nel suo parlare basso e ponderato; torna a dare uno sguardo rapido ai bambini: <Qualcuno mi sa dire che altro animale sa fare la stessa cosa?> chiede.
Emmeline: Dopo essersi occupata dei bambini i suoi occhi chiari hanno avuto tutta la libertà di posarsi su di lui, nelle sue incertezze, attenta e scaltra nella scelta della parole e dei sorrisi e perfino nell’uso del tono della voce, caldo e calmo con le parole che scivolano attente e colme della sua capacità di farne buon uso anche solo col suono. Non importa che lui non stia osservando, impegnato com’è per lei, per farla felice, per ricacciare indietro chissà quanti pensieri che lei conosce e molti altri che non riuscirebbe nemmeno ad immaginare. Ma quando non gli è vicino con le parole lo è con lo sguardo, sempre su di lui, sempre fin dal giorno in cui ha scoperto che non poteva farne a meno. Essere arrivata fino a questo pomeriggio, insieme, legati senza nodi, insieme tra i bambini e coinvolti in un impegno reciproco ed in un’accortezza particolare verso di lui, è qualcosa che i suoi non smettono mai di voler osservare; sono piccoli pezzi di storia insieme, piccoli passi fatti all’unisono, e dove trema l’una c’è l’altro e viceversa, due vite che non possono essere più sciolte. Ha cominciato a fare il giro dei banchi passando dietro ai bambini e si è chinata avanti a poggiare una caramella davanti ad ognuno, cambiando gusto nel caso di qualche protesta. Lei è lì costantemente, trattenendo il respiro quando Malcolm comincia a parlare, preoccupandosi di chinare la testa da un lato quel tanto da poter indicare un incoraggiamento che non ha bisogno di parole ma solo d’inspirare un sorriso lieve e docile. Arriccia all’istante il naso quando la sua voce si fa sentire tirando fuori da cilindro una domanda che ha assolutamente senso, una curiosità che incontra la sorpresa tanto di Emma che affretta un paio di passi per arrivare a percorrere l’altro lato lungo riavvicinandosi al suo uomo grigio, quanto il bambino inizialmente spavaldo che ora corre al proprio posto [mi chiamo Rudy… prego] l’educazione di quell’uomo ha piegato perfino la natura forastica di quel rosso verso il quale lei sbuffa un sorrisetto continuando a camminare [ti è piaciuto?... L’abbiamo fatto noi, tutti noi, Emma ci ha detto che sei un amico speciale] i più piccoli se ne stanno più o meno a fissarlo mentre gli altri parlano, qualcuno annuisce [si, è vero] qualche bambina alterna lo sguardo da lui a Emma e sogghigna [lei è la sirenetta, ha i capelli rossi e lunghi!] e poi la bambina della domanda risponde con un filino di vocetta [Greta] a quel punto, superato lo scoglio del “respirare” che sembra piuttosto logico ed accettabile, si scivola tra i colori, quelli di Emma si avvicinano a lui, non deve più parlare e ora può rimanere in silenzio poggiando la boccia su un mobiletto, sempre più vicina fino a posare una mano bianca sulla spalla di Malcolm restandogli di fianco e appena indietro, con la testa china in avanti ed il mento proteso davanti al petto per poterlo guardare in quel gesto delle dita tra i capelli [allora anche Emma diventa grigia] sgrana gli occhi e di conseguenza anche l’agitazione di qualcun altro si fa sentire, distrazioni che agitano le vocette ed i movimenti che tornano concentrati [mimemizza.. mime… io lo so, io io] un tripudio di manine ma c’è chi si avvantaggia [come Randall che diventa come la parete!.. si è come Randall] <No no , Randall diventa anche a mattoncini ma è un mostriciattolo furbone non un animale, ci serve un animale che cambia colore> [Il polipo!] qualcuno ricorda il documentario [no ma quello faceva l’inchiostro nero… si ma cambia colore anche] alla fine è riuscito perfino a stuzzicarli, si agitano un po’ pur rimanendo al loro posto <Oh buoni, uno alla volta altrimenti il nostro ospite se ne va. Che ne dici? La piovra è un animale che si mimetizza, vuoi dirci qualche altro animale?... è un vero sapientone lui sugli animali> lo indica con un pollice tutta baldanzosa.
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fashionbooksmilano · 4 years
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Fantaisies.Jacques Henry Lartigue, décors et haute couture
Marianne Le Galliard, Laurent Cotta, Chiara Lecce, Pierre Vernus
Lienart, Paris 2019, 160 pages, 115 illustrations, ISBN  978-2-35906-262-5
euro 35,00
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Ouvrage publié à l’occasion de l’exposition présentée au musée Louis Senlecq de L'Isle-Adam, du 12 mai au 22 septembre 2019
Pour la première fois, un ouvrage s’intéresse à un aspect méconnu de l’œuvre de Jacques Henri Lartigue : sa production en lien avec les arts décoratifs et le monde de la Haute Couture. Une production foisonnante, hétéroclite et fantaisiste à l’image de son auteur. Car Jacques Henri Lartigue est bien un artiste à part : « touche à tout », il peint, dessine, photographie et écrit avec une grande liberté et un plaisir sans faille. Protéiforme, il incarne une figure infiniment moderne de l’artiste. Pour lui tout est affaire d’envie, de moments, de rencontres, d’amitiés, qui lui offrent la possibilité de déployer sa « fantaisie ». L’ouvrage regroupe ainsi une grande variété d’objets sous le titre de « fantaisies » : croquis de mode exécutés lors de ses promenades parisiennes et dessins décoratifs de coussins datant de ses années de jeunesse, photographies de décors éphémères de galas pour des casinos réalisés dans les années trente, pièces de tissus réalisées par la maison Bianchini-Férier en 1937-1938, illustrations pour des revues de mode, œuvres graphiques représentant des motifs de fleurs, de ballons, d’oiseaux… Les liens d’amitiés entretenus entre Jacques Henri Lartigue et la couturière Carven (1909-2015) et sa collaboration avec la maison de tissus d’ameublement italienne Fede Cheti dans les années soixante sont également abordées.
22/09/20
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