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Urbino, 10 aprile 2013. Fabio Vanni presenta la Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe). Introduce Alessandro Siciliano.
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Jacques Lacan lettore di Freud
di Alessandro Siciliano
  La storia della psicoanalisi è costituita da un unico punto di partenza e numerose diramazioni, alcune più affermate e riconosciute, altre meno. Le oltre settemila pagine dell’opera di Freud sono così ricche e dense che il quadro completo del lavoro freudiano risulta, per questi ed altri motivi, eterogeneo e sfaccettato. D’altronde non poteva che essere così, se pensiamo che un solo uomo si è trovato a dover sistematizzare - ex novo e nell’arco di una vita umana – una teoria, una scienza, una pratica terapeutica, uno studio dell’umano quale la psicoanalisi.
Se risulta difficile mettere a fuoco l’intera opera freudiana, per la sua vastità ed eterogeneità, è d’altro canto facile vedere come, in più di un secolo di storia, si siano formate ed individuate numerose scuole e numerose teorie, tanto che – come ribadisce Mario Rossi Monti – oggi sarebbe più esatto parlare delle psicoanalisi piuttosto che di una sola psicoanalisi.[1]
Le diverse scuole psicoanalitiche del dopo Freud si sono formate sulla base di diverse interpretazioni del testo freudiano; quello che differenzia una scuola da un’altra è principalmente l’enfasi su una particolare lettura e la maggiore o minore distanza dall’ortodossia. Il bivio ermeneutico più conosciuto è forse quello che vede da una parte l’attenzione privilegiata al mondo psichico, alla realtà psichica del soggetto, alle fantasie e alla costituzione del pensiero, in definitiva l’endopsichico; dall’altra parte la maggiore considerazione dell’ambiente esterno, dello spazio relazionale e delle influenze ambientali sulla costituzione del mondo psichico del bambino. Ancora, alcune letture si sono impegnate a rimanere ben ancorate alla parola di Freud, mentre altre hanno optato per la deriva verso zone inesplorate, chi con gli strumenti dati da Freud e chi rivisitando gli strumenti stessi.
La singolarità dell’approccio dello psicoanalista parigino Jacques Lacan alla psicoanalisi freudiana si colloca in questo contesto. Negli anni in cui la seconda generazione di psicoanalisti doveva raccogliere l’eredità lasciata da Freud, Lacan si fa autore di una lettura del testo freudiano permeata dalle nuove acquisizioni scientifiche del primo Novecento nell’ambito delle scienze umane. Egli affronta l’opera di Freud in primis utilizzando la lente della moderna linguistica strutturale inaugurata dall’insegnamento di Ferdinand De Saussure: lo studio del linguaggio – che Saussure intende nella doppia scansione significante/significato – applicato alla psicoanalisi. In questa ottica è possibile dare una rilevanza forte al fenomeno di parola – concetto diverso da quello di linguaggio – cogliendo tutto ciò che è implicito in esso.
Per Lacan come per molti altri pensatori del Novecento,  l’essere umano nasce, cresce e muore all’interno di una rete, di un contesto condiviso da tutti – e che caratterizza come “umano” il mondo della realtà – all’interno del quale si danno tutte le manifestazioni universali dell’umano: la cultura, i simboli, i rituali, la comunicazione. Questo universo coincide con il linguaggio, l’ordine simbolico del linguaggio. Non si dà esperienza umana, per Lacan, se non all’interno del linguaggio, inteso come dispositivo che mette ordine, simbolizza e rende condivisibile il mondo e la sua molteplicità ed eterogeneità.
Il fatto che l’uomo parli è un fenomeno tanto comune quanto denso di implicazioni. Che cos’è la parola? Si differenziano tra loro i fenomeni di parola ed il linguaggio? Uno studio sistematico di questi argomenti, quale quello di Saussure, ha portato chiarezza su concetti che il senso comune mescola facilmente: parola, linguaggio, lingua, senso, significante, significato ed altri ancora. Lacan fa tesoro – “tesoro dei significanti”, come suole definire il luogo dei significanti, ovvero l’Altro – della linguistica di Saussure e la applica, o per meglio dire, la implica alla scienza psicoanalitica: la catena di significanti che il soggetto srotola durante la sua talking cure [2] produce qualcosa di più di ciò che è nelle intenzioni comunicative del soggetto. L’essere umano parla tramite il suo io, la sua volontà, ma pure c’è una autonomia dell’atto di parola, un voler dire o un non voler dire, un malinteso, un inciampo, un lapsus.
Ecco allora l’inconscio, la grande scoperta freudiana. I punti nodali che Lacan accosta sono proprio l’inconscio e la struttura linguistica. Cosa significa, allora, dire che l’inconscio è strutturato come un linguaggio? Di questo universo simbolico, mondo umanizzato e reso tale dal linguaggio, deve far parte anche l’inconscio freudiano. Se il linguaggio prende l’uomo addirittura da prima della sua nascita biologica, come può l’inconscio non essere fatto anch’esso di linguaggio?
È questa la tesi di Lacan: l’inconscio risponde alle stesse leggi che regolano il discorso cosciente. «Quando Freud ci parla dell’inconscio, non ci dice che esso è strutturato in un certo modo, eppure ce lo dice, nella misura in cui le leggi che propone, quelle della composizione dell’inconscio, ricalcano alcune delle leggi di composizione fondamentali del discorso.»[3] Il punto in cui discorso cosciente ed inconscio si toccano sta nelle regole linguistiche alle quali, per essere tale, qualunque linguaggio non può non sottostare. Tra queste, di primaria importanza per spiegare gli effetti di produzione (o trattenimento) di significato sono le figure retoriche della metafora e della metonimia, descritte nella loro logica e funzionamento dal linguista russo Roman Jakobson e da lui definite come direttrici semantiche del discorso. La metafora e la metonimia sono proprietà linguistiche basilari che qualificano il linguaggio.
Dal canto suo, Freud era già venuto a conoscenza di meccanismi linguistici del genere quando ne L’interpretazione dei sogni descriveva le due operazioni fondamentali tramite cui il sogno prende forma: la condensazione e lo spostamento. Senza saperlo, Freud parlava di operazioni linguistiche dell’inconscio che sono perfettamente paragonabili a quelle del discorso conscio. Parlare di condensazione è come parlare di metafora; spostamento è sinonimo di metonimia. Così come il sogno, allora, tutte le cosiddette formazioni dell’inconscio possono essere interpretabili nella loro natura di operazioni linguistiche. Il sintomo, il lapsus, l’atto mancato, il motto di spirito, il sogno sono tutti fenomeni di linguaggio dove un contenuto inconscio assume una forma – di compromesso – per poter accedere alla coscienza, per essere espresso. Perché l’inconscio, in Freud come in Lacan, parla, spinge per esprimersi, chiama risposta.
Freud non ha potuto sovrapporre il campo della sua giovane scienza a quello della linguistica moderna semplicemente per motivi cronologici. Ma è rintracciabile, nella sua opera, un’ ideale formazione psicoanalitica all’interno di un contesto di studi letterari e linguistici, oltre che di antropologia, mitologia ed altri studi umanistici.
È Freud stesso, dunque, ad intravedere quel fondo in cui la natura umana è abolita dalla cultura, in cui l’animale uomo con il suo corpo è segnato irreversibilmente dal significante e trasformato in essere umano, sociale, culturale, diviso dalla sfera istintuale o pulsionale a vantaggio del programma della Civiltà, del legame sociale, della comunità. Il discorso che l’Altro tiene sul soggetto, ovvero le parole che sono state pensate ed enunciate per il neonato, è il primo passo verso la conquista del linguaggio: inizialmente passivo e parlato dall’Altro, il soggetto dovrà far proprio il linguaggio, soggettivarlo, pronunciare e pronunciarsi per, infine, collocarsi nel simbolico.
Il linguaggio, lungi dal’essere solo uno strumento di comunicazione, coincide in Lacan con l’ordine simbolico del mondo, vale a dire il mondo degli esseri parlanti che fanno legame sociale, si organizzano in comunità, rimandano il rapporto sessuale, dispongono del funerale e della sepoltura come rito per simbolizzare la morte. Il linguaggio è davvero l’origine della civiltà; è ciò che struttura il mondo umano.
Come ci si posiziona nel simbolico? Dal dialogo con l’antropologo Claude Lévi-Strauss, Lacan ricava una concezione strutturale dell’Edipo freudiano e lo descrive come il crocevia strutturale per eccellenza tra lo stato di natura e quello di cultura. Il bambino che vive appieno le fasi cruciali di questo periodo dell’infanzia ne uscirà «con i titoli in tasca»[4], con la possibilità cioè di fare appello, in futuro, alle identificazioni che lo sosterranno quando sarà il momento di prendere una posizione nel mondo simbolico degli esseri umani. L’Edipo è, secondo le indagini di Lévi-Strauss, un dispositivo universale. L’introduzione di un tabù, di una zona interdetta e, in definitiva, di un primo cardinale “No” sembra essere un dato presente in tutte le culture.
Un insegnamento in negativo di quanto detto finora è quello della psicosi. Al cuore della struttura di psicosi, sia per Freud sia per Lacan, c’è un buco, un rigetto nel simbolico, un significante fondamentale che non si è inscritto nell’apparato significante del soggetto. Il soggetto, cioè, manca letteralmente di un significante utile a leggere una parte del mondo, e quando dal mondo arriverà un appello al soggetto che chiama in causa questo significante, la risposta del soggetto psicotico sarà la confusione, la perplessità, quella perdita dell’evidenza naturale che in un secolo di psicopatologia fenomenologica è stata ampiamente descritta. In seguito la ricostruzione delirante, la metafora delirante e i fenomeni allucinatori, in cui ciò che era stato rigettato nel simbolico, mai inscritto nel simbolico, qualcosa di mai simbolizzato ritorna nel reale sotto forma di allucinazione uditiva.
Accedere alla realtà umana significa accedere al linguaggio. Accedere, cioè, all’ordine simbolico del linguaggio normativizzato dalla legge edipica, la legge della parola, di cui il padre è il rappresentante. Lo stesso padre che distoglie il bambino dall’identificazione narcisistica  all’oggetto del desiderio materno e gli propone un’identificazione simbolica nella forma dell’Ideale dell’io. Dal luogo e dal tempo in cui si è tutto e si ha tutto, la funzionalità dell’Edipo sta proprio nel fare del bambino un soggetto che rinunci al suo desiderio di essere Uno con il materno e che articoli un proprio desiderio nel linguaggio e nell’Altro.
Si potrebbe parlare, con Agamben, del linguaggio come di un dispositivo, ossia «qualunque cosa che abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi.» Come a dire, dal momento in cui c’è linguaggio, c’è istituzione, c’è una regola di comportamento, qualcosa che dispone l’essere umano in un dato senso. Per Agamben, infatti, il linguaggio è «forse il più antico dei dispositivi, in cui migliaia e migliaia di anni fa un primate probabilmente senza rendersi conto delle conseguenze cui andava incontro ebbe l’incoscienza di farsi catturare.»[5]
    [1] Rossi Monti M., discorso introduttivo al seminario La questione dell’analisi laica, ovvero della psicanalisi, Urbino, 11 dicembre 2012.
[2] Che la cura avvenga tramite la parola era chiaro già a Bertha Pappenheim, alias Anna O. nello scritto Studi sull’isteria di Breuer e Freud. Quello che Lacan apporta di nuovo è l’approfondimento logico di questo fenomeno.
[3] Lacan J., Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. 1957-1958,a cura di Di Ciaccia A., Einaudi, Torino 2004.
[4] Ivi, p. 172.
[5]  Agamben G., Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, pp. 21-22.
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