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vhsgrindhouse-blog · 12 years
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L' Alieno (Jack Sholder, 1987)
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In un ipotetico olimpo dei migliori b-movies di tutti i tempi, L’Alieno di Jack Sholder dovrebbe stare in alto, molto in alto, giusto a ridosso della vetta. E’ il 1987. La decade è ormai matura per un film del genere, capace di riprendere alcuni tratti caratteristici della sci-fi americana anni ’50 e di amalgamarli alla perfezione con l’aria dei tempi. Più o meno lo stesso aggiornamento che Carpenter proporrà un anno dopo con Essi Vivono. Ovvero una nuova versione “eighties” dell’invasione degli alieni. Un’invasione che è già avvenuta, di nascosto, senza che ce ne accorgessimo. Ovviamente, il sottotesto politico di They Live qui viene solo sfiorato. C’è giusto una consapevolezza istintiva che tende ad andare in quella direzione, perché per il resto, L’Alieno si presenta come un action flick poliziesco di metà anni ’80, con una coppia di poliziotti mal assortita, che sull’esempio di 48 ore e Arma Letale, cerca di far fronte ad una strana serie di omicidi inspiegabili.
Nello specifico, capiamo quale sia davvero il problema, dopo una sequenza d’apertura iper cazzuta, con uno dei migliori inseguimenti di macchina che si ricordino. Una rapina in banca, una folle corsa in auto con lo stereo che diffonde hard rock (The Lords of the New Church) a tutto volume. A interpretare il pazzo alla guida, Chris Mulkey, un volto abbastanza noto tra i caratteristi americani, che dopo qualche anno si ritaglierà un ruolo di contorno, ma abbastanza definito, in Twin Peaks. E il serial di culto firmato da David Lynch, casca alla perfezione perché dopo l’inseguimento in questione, vediamo arrivare l’agente Dale Cooper, o meglio una sua versione ante-litteram. In altre parole il buon Kyle MacLachlan, con lo stesso piglio ordinato, lo stesso taglio di capelli beneducato e la stessa aria stralunata di chi la sa più lunga di quanto dia a vedere. Lloyd Gallagher, questo il nome del personaggio del film, è un agente dell’F.B.I. che viene affidato ad un poliziotto del distretto locale, il Tom Beck interpretato da Michael Nouri, che invece è tutto l’opposto. Uno con i suoi modi spiccioli, molto schietto e senza tante sovrastrutture, e a cui proprio non va giù che ci sia il pivellino dell’F.B.I. a spiegargli dove andare e cosa fare. A maggior ragione poi, se il tipo in questione sembra conoscere davvero il problema all’origine. E quale sarebbe il problema, l’origine del male, il motore primo di tutti questi omicidi da parte di persone insospettabili? L’alieno, of course. Un disgustoso parassita insettiforme che passa da un corpo all’altro, saltando da una bocca all’altra, secondo un processo che ancora oggi fa il suo bravo effetto, grazie agli ottimi effetti dell’epoca.
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E non è un alieno qualunque. Si nasconde all’interno dei corpi umani come un piccolo feto di Alien, riuscendo a muoverli come pupazzi senza anima, come terminator indistruttibili e quando il corpo che lo ospita si è danneggiato troppo, migra in un altro e continua a fare quello che più gli piace, cioè andare in giro per le strade della Californa, correndo in fiammanti Ferrari, con musica rock ad alto volume e andando a belle donne. Inevitabile la svolta politica, quando il Nostro capisce che l’unico modo a questo mondo per fare quello che ti pare è diventare un politico di professione. Nel finale si candiderà addirittura alla Presidenza degli Stati Uniti d’America!
Di tutti i corpi ospitanti, che si vedono nel film, una menzione d’onore spetta a quello della spogliarellista di un night club, nelle sinuose forme di Claudia Christian, con abito mozzafiato, sguardo allucinato e mitra pronto all’uso. Altra medaglia d’onore a Ed O'Ross, altro volto visto un milione di volte al cinema, con il culmine di Danko di Walter Hill dove ha una parte principale da cattivo. Tra l’altro, impossibile non notare una delle prime apparizioni di Danny Trejo (Machete), che fa la parte di un criminale rinchiuso in una cella.
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Il film uscì al cinema nella stessa settimana del crollo di Wall Street e nello stesso periodo di Predator e Arma Letale, e non fece certo faville al box office, ma dato l’esiguo budget, meno di 5 milioni di dollari, il colpo non fu accusato più di tanto. Jack Sholder veniva da Nel Buio Da Soli (Alone In The Dark) e soprattutto da Nightmare 2. Dopo il parziale insuccesso de L’Alieno, non gli fu dato più modo di elevarsi dalle produzioni televisive, riuscendo a piazzare giusto qualche piccolo film di serie B, tra cui il poliziesco Faccia di Rame (Renegades) con Kiefer Sutherland e Lou Diamond Phillips e Wishmaster 2. Peccato perché la mano nei frammenti più action e orrorifici è decisa, a dispetto del poco credito che generalmente gli viene tributato. Lo stesso Nightmare 2, tutto era tranne che un brutto film, ma questa è un'altra storia. L’Alieno, come da prassi, grazie ai ripetuti passaggi televisivi (in Italia era programmato ripetutamente su Italia 1) diventerà nel corso degli anni un piccolo film di culto, giustificando anche un seguito, un The Hidden II, diretto nel 1994 da Seth Pinsker.
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vhsgrindhouse-blog · 12 years
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L’Assassino è Costretto Ad Uccidere Ancora (Luigi Cozzi, 1975)
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Luigi Cozzi è quello di Profondo Rosso, nel senso di negozio romano di memorabilia e souvenir giallo-horror messo in piedi insieme a Dario Argento, a cui è legato da anni di collaborazioni, da 4 Mosche di Velluto Grigio, a Le Cinque Giornate, fino alla serie televisiva La Porta Sul Buio. Cozzi è anche l’autore di uno dei trash-cult più citati di sempre, il leggendario Paganini Horror, e come se non bastasse è anche uno che ha divulgato il mondo della serie b italica con decine di pubblicazioni, alternate ad esperimenti più o meno riusciti nel mondo della sci-fi.
Una piccola formichina sempre attiva e pazienza se la maggioranza dei denigratori dal riso facile hanno visto, si e no, uno solo dei suoi film… qui alla sua opera seconda, scopriamo che Cozzi aveva anche le sue discrete capacità registiche e in epoca di thriller argentiano, aveva le palle di prendersi le sue dovute licenze. L’assassino è costretto ad uccidere ancora è infatti un piccolo giallo, scomposto e scoordinato, nella misura in cui sappiamo subito tutto quello che c’è da sapere. Non dobbiamo stare li a cercare di capire chi sia l’assassino, perché si viene subito messi a conoscenza di tutto. La vicenda vive sul crinale di una serie di fascinazioni hitchcockiane (Il Delitto Perfetto sicuramente, ma c’è spazio anche per citare Psycho, Frenzy e Il Sospetto) e secondo molti ricalca un vecchio romanzo di Scerbanenco (Al Mare Con La Ragazza).
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La storia è semplice. Un killer sta cercando di sbarazzarsi di un cadavere, ma viene visto da un sedicente uomo d’affari, che coglie la palla al balzo e propone all’uomo, in cambio del suo silenzio e di una discreta somma di denaro, di fargli fuori la moglie. Tutto procede quindi come dovrebbe, ma ad un certo punto il fato decide di giocare un jolly che innescherà una serie di vicende contorte…
Non sto proprio a dirla in maniera precisa e completa, perché parte del successo di questo film sta anche nel modo in cui gli avvenimenti vengono legati l’uno all’altro. Quello che c’è da sapere è che a causa di un bel po’ di efferatezze, inframmezzate da spinte e dettagliate sequenze sessuali, non ci fu modo di far passare al film di Cozzi il visto censura, bloccando di fatto la pellicola per due anni. In seguito, dopo una bella ripulitura e con un titolo diverso (quello originale era Il Ragno), si riuscì finalmente a farlo uscire nel 1975. L’ultima edizione in dvd della Mondo Macabro recupera però il master originale, per espressa volontà di Cozzi, e quindi è possibile finalmente vedere tutta l’opera al completo. Una fortuna, perché l’aspetto morboso del film è fondamentale.
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Fondamentale anche per capire che Cozzi non era per niente un cane dietro la macchina da presa, al punto che si permette una doppia sequenza incrociata, tra un amplesso consenziente tra la biondissima Femi Benussi e lo Scamarcio d’epoca Alessio Orano (in un incontro fortuito e gratuito che cede il passo subito alle effusioni, come nemmeno nei film porno con l’idraulico che bussa alla porta…) e uno stupro ai danni della sempre splendida Cristina Galbò da parte del killer interpretato da Antoine Saint-John (un volto incredibile difficilmente si scorda...). Montaggio serrato ed intelligente, nudo integrale della Benussi, abbondanza di dettagli dei corpi nudi, violenza psicologica dal taglio perverso, anche perché il personaggio di Cristina Galbò perde così la verginità, dopo che per tre quarti del film Alessio Orano cerca di spingerla al grande passo…
A tutto questo aggiungiamo il fascino dell’ambientazione decadente in riva al mare che fa da contraltare agli interni puliti e asettici della casa di Giorgio Meinardi, l’uomo che decide di uccidere la moglie ed è interpretato dal sempre affilatissimo George Hilton, qui non proprio al suo massimo, ma sempre efficace. Insomma, un film con diverse cose che non si buttano via. Anzi…
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vhsgrindhouse-blog · 12 years
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Horror Puppet (David Schmoeller, 1979)
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C’è un gruppo di ragazzi che sta andando in gita da qualche parte nella campagna americana. Si buca una ruota e uno di loro è costretto ad andare in cerca di qualcuno che li aiuti. Vede una casa, nel mezzo degli alberi. Decide di andare a chiedere. La porta è aperta e sembra non esserci nessuno. C’è una strana atmosfera. E' l’incipit giusto. Proprio quello di uno slasher anni ’70. Il ragazzo è entrato nella casa abbandonata e noi sappiamo benissimo che adesso arriverà il maniaco che lo farà a fettine sotto ai nostri occhi. E invece no. Perché Horror Puppet ovvero Tourist Trap è un film che vive dentro le regole del genere sapendo destreggiarsi a sufficienza tra i clichè e arrivando anche ad essere sufficientemente originale.
Tutto ruota attorno al personaggio di Mr. Slausen che è un campagnolo dall’aria solare nelle sembianze ultra yankee di Chuck Connors. Il Nostro amico se ne sta tutto da solo nel mezzo del bosco americano, con un negozietto di souvenir chiamato "Mr. Slausen Lost Oasis" (la trappola per turisti del titolo…) che è pieno di manichini e automi vari, di quelli che vedi nei musei delle cere e nei parchi a tema. Il tipo ha l’aria ok, ma non è tutto come sembra e nella casa adiacente al negozietto vive il fratello, che sembra avere qualche problema di troppo con i manichini. Si sa, la curiosità è femmina e per scoprire l’arcano le sciacquette in gita ci rimetteranno la pelle una ad una.
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Horror Puppet è una delle prime produzioni, se non proprio la prima, di Charles Band. Uno che nel corso degli anni ha dimostrato di avere una certa tendenza ossessiva vero i pupazzi e bambole. Qui prende la sceneggiatura scritta da David Schmoeller insieme a  J. Larry Carroll e affida al primo l’incarico di dirigere con pochi mezzi e tanta fantasia questo strano horror a base di manichini e pupazzi. Il risultato finale è un piccolo classico pieno di inventiva, che per uno strano scherzo del destino fa fiasco al botteghino salvo poi diventare, nel corso degli anni, un oggetto di culto per i giovani spettatori televisivi. Spettatori che se lo trovano programmato a tutte le ore, anche di pomeriggio, forte del fatto che la commissione censura lo valutò con un PG-13, salvo poi, molto tempo dopo, passarlo ad un Rated-R. E che il film facesse paura ai piccoli spettatori dell’epoca ci sono pochi dubbi, visto che ancora oggi sa regalare brividi e tensioni.
Merito soprattutto del reparto trucchi e in primis dei magnifici e macabri manichini che affollano tutte le inquadrature o quasi del film. Il responsabile numero uno del loro design è Robert A. Burns, un piccolo e attivo art director del settore, che qualche anno fa si è suicidato avvelenandosi. A lui si deve anche l’aspetto esteriore del maniaco, che da un lato ricorda Leatherface e dall’altro Michael Myers. Una sorta di ibrido, che dà la giusta inquietudine, salvo poi perdere gran parte della propria credibilità per colpa dell’assurda voce (sia in originale che doppiato in italiano) che restituisce più che altro, una certa apparenza grottesca al tutto. Del resto sono passati un bel po’ di anni e non si può reprimere il sopracciglio destro dall’incurvarsi al cospetto della sequenza di mummificazione con gesso, quando il nostro maniaco ricopre la faccia della ragazza di materia gelatinosa biancastra e recita la descrizione dell’abominio: “La cosa strana del gesso è che quando comincia a seccare diventa così caldo che quasi brucia la pelle. Il panico verrà quando ti sigillerò la bocca. E ora gli occhi. La tua pelle sta bruciando, vero? E' il gesso che comincia a tirare; ora sei in un mondo di tenebre e non vedrai mai più la luce”. E cosi sia! Va comunque dato atto a Schmoeller di sapersi muovere con la giusta dose di verve in mezzo ad una foresta di rimandi e suggestioni.
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Che il maniaco richiami Lethearface non è un mistero, tanto più che tutto il film respira un’evidente aria da primo Tobe Hooper. E poi ovviamente ci sono rimandi a La Maschera di Cera, a Psycho, a Carrie. L’atmosfera poi è stranissima, a tratti molto inquietante, a tratti molto simile ad un telefilm americano dell’epoca. La prima sequenza che gioca con il ragazzo come il gatto con il topo fa il suo effetto ancora oggi, e anche il finale ha un colpo di scena notevole e un final shot di quelli inquietanti ed intelligenti. Per il resto è un b-movie datato 1979 che presenta tutti i pregi e i difetti dell’epoca, con un gruppo di attori da sufficienza sindacale. Attorno ad un bravo Chuck Connors si muovono gli assai più amatoriali Jon Van Ness, Robin Sherwood, Dawn Jeffory e una Tanya Roberts, pre Charlie’s Angels, già notevole nel suo abitino azzurro stretto stretto. A musicare il tutto un Pino Donaggio che qui si mantiene sul classico, ottenendo uno score moscio e anonimo.
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vhsgrindhouse-blog · 12 years
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Cujo (Lewis Teague, 1983)
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Tra le trasposizioni dai romanzi di Stephen King, questa approntata da Lewis Teague (un piccolo aficionado dello scrittore del Maine, visto che dirigerà anche L’occhio del gatto) è una di quelle che cade nel mezzo. Né troppo buona, né troppo orrenda. Nonostante i diversi sforzi di sceneggiatura e l’impegno degli attori domina per tutto il film una tranquilla aria di mediocrità televisiva, da cui si salva parzialmente solo l’ultimo quarto d’ora a base di ferocia canina. La storia è abbastanza nota e a conti fatti altro non è che il consueto meccanismo di King, cioè quello di calare un elemento malefico, nella tranquilla e sonnolenta provincia americana, facendo in qualche modo detonare anche i piccoli vizi nascosti delle famiglie in apparenza felici.
Quello che proprio non funziona è la retorica che sta dietro la metafora. King passa per essere un democrat liberal, oltre che romanziere senza peli sulla lingua, ma qui l’intera faccenda dell’adulterio non funziona. Sa troppo di escamotage da romanzo rosa. Quello che lo scrittore aggiunge per insaporire il piatto è l’elemento perturbante. Il dionisiaco che irrompe nell’apollineo come teorizza egli stesso in Danse Macabre. Questo diverso elemento può assumere qualunque forma. Altrove è stato una ragazzina con capacità telecinetiche (Carrie), da un’altra parte è diventato una plymouth del ’58 (Christine), e ancora un albergo (Shining) e persino un cimitero per animali (Per Sematary). Qui è un San Bernardo che per inseguire un coniglio (notare l’allusione all’Alice di Carrol) rimane con il muso incastrato in una buca e viene punto da un pipistrello. Tanto basta per trasmettere a Cujo, questo il nome del cagnone, la rabbia. Ma non una rabbia qualsiasi, quanto piuttosto una rabbia vendicativa, del tipo peggiore: la rabbia moraleggiante.
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Cujo infatti fa strage di persone infime e a causa delle corna messe al marito, rischia di finire tra le sue fauci anche la graziosissima e sempre in parte Dee Wallace Stone, qui nei panni della mamma adultera, che con il figlioletto porta la macchina dal meccanico e rimane chiusa nell’abitacolo per ore intere, con l’auto rotta, il caldo asfissiante e senza traccia di anima viva nel raggio di km, con la paura di essere sbranati del cane infernale di cui sopra. Il film procede senza nessuna scossa, troppo piatto e sonnacchioso per quasi tutto il minutaggio e bisogna aspettare la parte finale, con il cane in preda ad una legione di demoni, per vedere un po’ di carne al fuoco. Da notare la sequenza sufficientemente shock dell’assalto dentro l’abitacolo con il cagnone che salta addosso a Dee e se la sbrana per metà sotto gli occhi allucinati del figlio. Una parentesi abbastanza veloce purtroppo, perché per il resto il meccanismo attesa in macchina – depistaggio del cane – sorpresa per la sua presenza dietro la ruota posteriore – rappresaglia dell’animale, si inceppa rapidamente e in qualche modo si finisce per guardar l’orologio aspettando che arrivi il marito (il cornuto) a salvare la situazione. Tra l’altro non salva proprio nulla, ma evitiamo gli spoiler.
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Va però dato atto al film di aver mostrato uno dei più riusciti cani aggressivi del cinema. Che poi in realtà furono usati qualcosa come cinque diversi animali, più una testa meccanica e persino un attore travestito da cane. Da notare la densa bava attorno al muso che fu ottenuta mischiando uova e zucchero. Infatti i tecnici ebbero non pochi problemi perché il cucciolone se lo leccava sempre tutto…  perdendo l'aria da cane infernale che necessitava nel film.
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vhsgrindhouse-blog · 12 years
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Un Minuto A Mezzanotte (Renè Manzor, 1990)
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Film di culto anni ’80, che ha avuto una circolazione assai limitata e pochissimi passaggi televisivi, ma un serpeggiante e insistente passaparola che lo ha trasformato in un piccolo oggetto cinematografico venerato dai consueti “pochi ma buoni”. Il film di Renè Manzor, che in apertura dei titoli di testa sfoggia subito i riconoscimenti ottenuti al Fantafestival di Roma del 1990 come miglior film e miglior regia, ottenne tra l’altro un piccolo ritorno di fama quando il regista francese, dopo aver visto Mamma Ho Perso L’Aereo di John Hughes, decise di fare causa ai realizzatori del film americano denunciandoli di avergli copiato il film. Non è dato sapere come andò a finire, ma certo i punti di contatto tra le due pellicole sono un po’ troppi e un po’ sospetti.
Sta di fatto che questo film francese sorpassa l’emulo americano di diversi punti, non foss’altro che per le qualità mitiche e metaforiche che mette in scena. La storia ruota intorno al piccolo Thomas (pronunciato ovviamente alla francese, quindi “Tomà”) bambino ipertecnologico e straricco, che vive isolato insieme al nonno quasi cieco, in un grande castello abbandonato da qualche parte in campagna, mentre la mamma, una rampante e sciovinista donna in carriera e manager di un centro commerciale, se la fa con il suo collaboratore, la notte della vigilia di Natale. L’ambientazione natalizia è fondamentale, perché ovviamente in quel centro commerciale arriverà il pazzo, ovviamente cercherà di trovare lavoro come finto Santa Claus, ovviamente darà di matto al primo pianto di bimbo, ovviamente sarà licenziato in tronco dalla mamma di Tomà, ovviamente lui se la legherà al dito e ovviamente si vendicherà andando a casa sua per fare la pelle a suo figlio.
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La concatenazione degli eventi è un po’ macchinosa e campata in aria, ma è tutto un pretesto perché il film inizia davvero quando il folle Santa Claus si cala giù dal caminetto. Qui scatta il tocco di genio di Manzor che ci presenta il piccolo Tomà, come un pargoletto innocente e viziato, costretto a crescere all’istante per salvare la pelle. Non si sprecano i riferimenti alla decade più consumista e plasticosa della storia dell’umanità. Tomà non è disposto a farsi fare a pezzettini e grazie alla sua conoscenza tecnica (che nostalgia quella grafica da commodore64!), ai trabocchetti di cui dissemina la casa e a un “venderò cara la mia pelle” con tanto di grasso in faccia e mini-armamenti, modello Rambo-Commando, ingaggerà una lotta all’ultimo sangue con il pazzo vestito da Babbo Natale.
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Lo stile di Manzor è quello tipico francese da videoclip stile eighties. Quindi molto chic, molto dark e molto efficace, in una maniera che avrà sicuramente il suo effetto su Luc Besson e tanti altri cineasti transalpini. Quindi taglio delle inquadrature ad altezza di coltello, movimenti di macchina vorticosi ed aerei, una scenografia che più gotica e dark non si potrebbe, e superlativi rallenty al cardiopalma. Tutto gestito al millesimo di secondo, in un modo che non lascia tempo all’occhio di riposarsi. Le continue correnti ironiche che serpeggiano per tutto il film evitano di far cadere tutto nel ridicolo e si rimane quindi sospesi tra le efferatezze di alcuni momenti e le strizzatine d’occhio cinefile, come ad esempio l’allenamento iniziale di Tomà al ritmo di una pseudo Eye Of The Tiger che nemmeno Rocky Balboa contro Ivan Drago. Rivisto oggi, il film non è invecchiato per niente, se non si sta a guardare appunto la grafica cheap dei computer di Tomà. Nelle mani giuste ci si potrebbe fare un remake con i controfiocchi di questo cult-movie, ma forse è meglio che lo lasciamo stare a riposo, come si fa con i vini di prestigio.
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vhsgrindhouse-blog · 12 years
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I corpi presentano tracce di violenza carnale (Sergio Martino, 1973)
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Mitico film di Sergio Martino, datato 1974, dall’indimenticabile titolo I corpi presentano tracce di violenza carnale, reso ancora meglio nella versione statunitense con il superlativo Torso (Più sciatta la versione internazionale con Carnal Violence). Per altro il titolo avrebbe dovuto essere I corpi NON presentano tracce si violenza carnale, ma quel vecchio marpione di Carlo Ponti, pensò bene che il “NON” sarebbe stato commercialmente controproducente. Considerato l’ultimo giallo diretto da Martino, I corpi… per quanto mi riguarda è il vero antesignano indiscusso dello slasher. Generalmente come capostipite ispiratore viene sempre preso in considerazione Reazione a Catena, film di Mario Bava del 1971, che tende a condividere questo ruolo con il film di Bob Clark, Black Christmas, altro lavoro del 1974, ma basta dare un rapido sguardo a Torso per accorgersi di alcune cose: 1. Il maniaco è mascherato per quasi tutto il film. 2. c’è un gruppo di ragazze avvenenti e sessualmente molto spregiudicate che ad un certo punto del film si trovano isolate. 3. una di queste, la più vecchia e saggia, se la contende con l’assassino in un vero e proprio ruolo da Final Girl. 4. il film è ambientato magistralmente nella provincia italiana (Perugia nella prima parte, Tagliacozzo nella seconda) restituendo quel giusto tocco rupestre che ci vuole. 5. l’assassino ha evidenti pulsioni sessuali.
Tutti questi elementi verranno poi presi in prestito in modo letterale negli slasher americani degli anni successivi. Nonostante il fatto che il film appaia un po’ datato, il lavoro di Martino è ancora oggi notevole. Non lesina in dettagli gore e dettagli sexy. Sa far crescere la tensione e soprattutto contestualizzare il rapporto vittima-carnefice, al punto che nella seconda parte del film, tocca vette claustrofobiche alla Aldrich (in questo senso la trovata della chiave… è un vero tocco di classe in quanto a crudeltà). Insomma, Torso, per quanto mi riguarda è un giallo fino ad un certo punto, per questo un Mereghetti che fa notare come si capisca dopo dieci minuti chi è l’assassino mi lascia abbastanza indifferente. Molti elementi del giallo rimangono, anche a livello iconografico (la mano guantata, la bambola macabra, la luce riflessa sulla lama del coltello), ma qui si va oggettivamente a parare da un’altra parte. Nello slasher appunto. In questo senso la scena madre del film è il secondo omicidio nel boschetto. Una delle mie sequenze preferite in assoluto. La splendida Conchita Airoldi, evidentemente strafatta dopo un festino in cui tutti si fanno canne, droga e rock’n’roll, esce fuori dal casolare sede del baccanale e si inerpica nel boschetto a due passi, incontrando l’assassino che non aspettava altro. La scena girata di giorno, credo intorno all’alba, viene ammantata di ombra con il classico effetto notte. Quindi le luci sono del tutto particolari e oniriche.
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Conchita Airoldi mi fa poi addentrare nello splendido harem del film. Che le allusioni sessuali siano evidenti, tanto a livello di sceneggiatura quando a livello grafico, lo si capisce immediatamente già dai titoli di testa, con una bella orgetta in sessione fotografica, virata in sfocatura (ma non nella versione statunitense). Da qui in poi passo a descrivere le splendide donne del film una ad una:
Patrizia Adiutori. Una presenza notevole, uno sguardo intenso, un corpo di tutto rispetto. Generalmente relegata in ruoli di corredo, la si ricorda nel classico di Zurlini, La prima notte di quiete,  nel giallo di Alfonso Brescia Ragazza tutta nuda assassinata nel parco e in un altro classico di Martino Giovannona coscialunga, disonorata con onore. Questa in Torso è la sua ultima apparizione sullo schermo stando alla scheda di imdb. Un vero peccato per come va a finire (nel film).
Conchita Airoldi. Dall’informatissimo Profondo Thrilling a cui rimando a fine articolo, è possibile trarre una biografia abbastanza dettagliata. La splendida Conchita nasce in Colombia e la si nota già in un altro film di Martino, Lo strano vizio della signora Wardh oltre che ne La Cugina di Aldo Lado. Poi prende una strada tutta sua in veste di produttrice. In questo film è la protagonista della sequenza migliore. Uno sguardo che non si dimentica il suo. Sia quando si fa civettuola e maliziosa (come nella sequenza in cui stuzzica il venditore ambulante mostrandogli le gambe) sia quando si perde nel boschetto, un po’ svagata, strafatta, perduta. Indimenticabile.
Carla Brait. E’ la negretta (detto in modo assolutamente non dispregiativo. Anzi…) protagonista del balletto sexy e della seguente e appena abbozzata scena lesbo con Angela Covello. Un volto già apparso nel thrilling italiano con Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? e L’etrusco uccide ancora. Poi appare in Fuga dal Bronx di Enzo G. Castellari. E’ inutile dire che qui porta una carica erotica/esotica che non si dimentica.
Angela Covello. Splendida. Non molto valorizzata in questo film, a parte il timido accenno saffico con Carla Brait, ma un volto e un corpo che certamente aiutano ad aumentare la carica erotica del film. Non a caso interprete di diversi decamerotici. Chissà cosa fa oggi.
Tina Aumont. Un mito. Ci sarebbero troppe cose da dire su di lei. In questo film è la vera Pandora che manda in rovina tutte le altre. Lo sguardo di Tina Aumont è di quelli che pietrificano. La vedi una sola volta e sei già morto.
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Suzy Kendall. Oh Suzy Kendall! Di donne come lei non c’è più traccia da troppo tempo. Oltre al fatto di essere uno dei volti più belli che l’horror/thriller anni ’70 ci abbiano dato (L’uccello dalle piume di cristallo, Spasmo) Suzy è capace di rendere il ruolo di scream girl assediata dall’incubo, senza mai perdere una traccia della sua connaturata eleganza britannica. Tutta la seconda parte di Torso senza di lei, avrebbe perso parecchio. Forse troppo.
Le attrici femminili del film sono queste e lo rendono speciale. Gli attori maschi, John Richardson, Luc Merenda, Roberto Bisacco, sono null’altro che dei comprimari. Forse è anche per questo e per la sua inevitabile carica misogina, che il film vanta tra i suoi più illustri sponsor Robert Rodriguez e Eli Roth, che per carità, non vuol dire un beneamato cazzo, ma fa certamente capire come robe tipo Hostel siano state pensate, elaborate ed ideate.
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vhsgrindhouse-blog · 13 years
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Guerriero Americano (Sam Firstenberg, 1985)
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“If you are watching this movie expecting anything more then action then you're a bit touched in the head. Action indeed, but a special form of action! IT'S 80'S ACTION!”  (anonimo sul web)
Come si può dare torto all’amico anonimo? Poche cose sono giuste a questo mondo come un film action anni ’80, visto negli anni ’80, in una tv locale o in vhs e ripescato ora in entusiastica e polverosa edizione nostalgia. Se poi l’action è a base di ninja si trascende del tutto e si toccano le vette delle produzioni mid-eighties targate Golan-Globus e Cannon Group, a base di ninja-action flicks da due lire, girati frettolosamente nel sud est asiatico, con un reparto tecnico-artistico da sufficienza stentata, ma di sicura riuscita finale. Guerriero Americano è il best seller del settore. Girato in fretta e furia nelle Filippine, al botteghino fa dieci volte quello che è costato prima di passare all’home video, dove spacca il culo a tutti e giustifica la serie di 5 sequel che ci verrà propinata da li in poi. Inizialmente quelli della Cannon avevano pensato a Chuck Norris come protagonista, ma questi all’epoca era troppo impegnato tra un cult movie e l’altro (Delta Force, Invasion U.S.A., Missing In Action…). I produttori si risolsero così a scritturare un signor nessuno, che però avesse qualcosa di James Dean. Uno giovane, silenzioso, con il profilo dell’eroe solitario e maledetto.
Il risultato delle ricerche fu Michael Dudikoff, attore alle prime armi, laureato in psicologia infantile e totalmente ignorante delle più elementari pratiche di arti marziali. Dettaglio non da poco per uno che doveva interpretare un campione di Ninjutsu, ma ai produttori non gliene fregava niente. Michael aveva la faccia giusta e il suo agente lo andava vendendo per gli uffici di casting di Hollywood come “Dean-Mcqueen”, ovvero un incrocio tra James Dean e Steve McQueen. Eccolo qui allora il guerriero americano, valorizzato come meglio si poteva fare dalla regia solida dello specialista di origini polacche Sam Firstenberg, che con l’aiuto del coreografo dei combattimenti Mike Stone, cerca di muoverlo nei modi più semplici possibili, ben sapendo che da Michael non può ottenere molto più di uno sguardo torvo in macchina.
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Joe, questo il nome del personaggio, arriva in una base americana di marines con un brutta nomea. E’ uno che non fa sconti e ha avuto guai con la giustizia. Scopriamo successivamente che da bambino è stato allevato al culto delle arti marziali da un maestro filippino, che gli ha insegnato tutti i segreti del ninjutsu, l’arte segreta dei ninja. Lo scopriamo perché Joe, solo contro tutti, sventa il rapimento della figlia del generale ad opera di una folla di ninja cattivissimi capitanati da un terribile ninja nero, il braccio armato del trafficante d’armi Ortega. Nel frattempo alla base militare Joe sta sul cazzo a tutti, per il suo fare solitario e il non profferire mai parola, oltre che per la mal celata tresca amorosa con la figlia del generale, ma fa amicizia con il caporale Curtis Jackson che aiuterà l’eroe a sconfiggere i piani criminali di Ortega.
La trama del film non significa nulla ovviamente. It’s 80’s Action, quindi occorre che ci sia soprattutto un forte dinamismo generale nelle sequenze, con zero introspezioni, personaggi caratterizzati con l’accetta e battute di dubbio gusto sparse un po’ qui, un po’ li. Ma è anche exploitation bella e buona, onde per cui Fistenberg riempie le inquadrature di ninja e combattimenti dappertutto, avendo però la mano severissima in quanto a spargimento di sangue. Nel film ci sono qualcosa come 114 morti, ma non c’è traccia di liquido rosso. Siamo nella metà degli anni ’80 e oggi tutto appare datato, però certe cose fanno ancora il loro bravo effetto, come Joe che blocca due frecce a pochi cm dalla faccia della malcapitata con il manico di una pala o il combattimento macchietta tra Joe e Jackson, con tutti i militari attorno e quest’ultimo che finisce a terra di continuo. E non per niente, ma stiamo parlando di Steve James, lo sparring parte d’eccellenza dei b-action d’epoca, che nel finale non può non svaccare totalmente, atteggiandosi come Rambo, con tanto di fascia legata in fronte. E vogliamo dire qualcosa del patetico frangente Harmony con Dudikoff che si traveste da galante uomo dei teleromanzi e seduce la figlia del generale (Judie Aronson) in un videoclip a metà tra Top Gun e una pubblicità Alpitour?
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Come detto il film produsse 4 seguiti. In Guerriero Americano 2, siamo ancora su buoni livelli (cioè livelli infimi ma a misura con il senso generale dell’operazione…) e c’è ancora tutta la banda del numero uno, compreso Fistenberg alla regia. Con Guerriero Americano 3 si cambia regia, via Fistenberg e dentro Cedric Sundstrom e scendiamo drasticamente di livello, perdendo Dudikoff e acquistando David Bradley, uno che era davvero un atleta, ma se possibile ancora più incapace di Dudikoff come attore. Guerriero Americano 4 invece vede il ritorno del nostro amato “Dean-McQueen”, ma perdiamo Steve James e in Guerriero Americano 5addirittura perdiamo sia lui che Dudikoff, ma in compenso acquistiamo Pat Morita (il leggendario maestro Miyagi di Karate Kid) e tra l’altro ritorna Tadashi Yamashita, ovvero quello che fa il ninja nero nel primo film. Che serie epica.
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