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#spregevole umanità
sofysta · 4 months
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È accaduto un fatto bruttissimo qualche giorno fa qui a Palermo. Un uomo ha legato il suo cane ad un palo vicino una villa comunale per poi dargli fuoco, si bruciandolo vivo. Dopo ore e qualche giorno di agonia e nonostante le cure tempestive dei veterinai, il povero canuzzo è morto. È morto dolorante e triste sapendo che quel padrone che lui tanto amava non lo desiderava più. Non c'è fine più atroce per un cane. Davvero la peggiore.
Aron non c'è l'ha fatta anche se ha tanto lottato come un guerriero
Non gli auguro di venire arrestato, multato o meno peggio preso per pazzo ( come molti stanno pensando), ti auguro solo la stessa fine tra le fiamme. Il Karma sta lavorando.
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corallorosso · 3 years
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Segretario Letta, prima di salire su certi palchi legga cosa scrive Gideon Levy Enrico Letta, segretario nazionale del Partito democratico farebbe bene a leggere e riflettere attentamente il possente j’accuse lanciato da uno dei più grandi giornalisti israeliani: Gideon Levy. (...) “Ogni ‘round’ porta con sé i suoi sanguinari – scrive Levy - durante ogni round escono dalle loro tane come topi, si tolgono le loro maschere politicamente corrette e il loro vero volto è esposto a tutti: Tutto ciò che vogliono è vedere sangue. Sangue arabo, il più possibile - sangue, più ce n'è meglio è - sangue, l'importante è che venga versato sangue arabo. Le torri residenziali stanno crollando come un castello di carte a Gaza, e i mondi in rovina sotto di loro sono un leggero scherzo per loro. Vogliono vedere sangue, non solo rovine, paura e distruzione. Decine di morti nelle prime 24 ore, circa la metà dei quali donne e bambini, non sono niente per loro. Vogliono molto più sangue. Finché fiumi di sangue non inonderanno Gaza, e con essa Lod, se possibile, il loro appetito sarà solo parzialmente saziato. Finché i palestinesi non si metteranno in ginocchio, non si inchineranno davanti a Israele e non si arrenderanno ad esso senza condizioni, per l'eternità - non saranno soddisfatti. Vogliono una foto della vittoria, la vittoria della menzogna che tanto desiderano, e che non sarà mai raggiunta. Quelli che hanno sete di sangue si dividono in due gruppi: gli esperti di sicurezza e i razzisti. Inondano gli studi televisivi e radiofonici e le reti sociali con grandi forze, generali, commentatori, esperti - in tempo di guerra non ci sono altri portavoce - e tutto incita a sempre più di questa cosa, la guerra, non importa perché, non importa a quale scopo. L'importante è bere il loro sangue. I signori della sicurezza vogliono più guerra possibile perché nel loro cuore amano le guerre, sono i loro ricordi più forti. Una guerra che non è mai abbastanza per loro, solo per colpirli, per dimostrare che siamo forti. Tutte le guerre a Gaza e in Libano, che non hanno portato a nulla, non hanno insegnato loro nulla. Si attaccano alle loro armi. Se solo li avessimo ascoltati all'epoca, ci sarebbero stati decine di migliaia di morti, e solo allora si sarebbe ottenuta la vittoria desiderata, che non si otterrà mai. Come una fata morgana nel deserto, si avvicinano alla vittoria ed essa si allontana da loro. Non sarà mai raggiunta con la forza. Visto che non li abbiamo ascoltati, ci riprovano. Colpire e distruggere, una caricatura ridicola dalle bocche di coloro che sono stati generali una volta, o di coloro che hanno sognato di essere generali e non lo sono stati. (...)Il secondo gruppo è quello dei razzisti. ‘Due arabi sono stati uccisi a Lod da un missile lanciato da Hamas. Io la chiamo giustizia poetica. ... Peccato che fossero solo due’, ha twittato mercoledì il giornalista Shimon Riklin a proposito dell'uccisione di due israeliani, un padre e sua figlia. ‘Perché non riducono l'elettricità a Gaza al 10%? Lasciateli stare al buio e soffrire. Lasciateli stare al caldo e soffrire, e in generale lasciateli soffrire’. Riklin ha un obiettivo, che è un crimine di guerra spregevole e anche inutile. Ben Caspit, invece, è presumibilmente un giornalista centrista, e ha urlato all'imam di Lod: ‘Dobbiamo davvero colpirti duramente, e mostrarti chi è il capo qui, mostrarti che non si brucia nulla che appartenga agli ebrei in Israele’. Il volto signorile e brutto è messo a nudo. Chi è il capo qui, non si brucia ciò che appartiene agli ebrei. Non li si sveglia nemmeno nel cuore della notte con le sirene. Lo stato ebraico, il sogno di 2000 anni. Che l'IDF vinca già”. Ecco cosa sta accadendo in quella martoriata terra, segretario Letta. La forza genera mostri. E uccide ogni sentimento di umanità. Ci pensi su. Umberto De Giovannangeli
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giancarlonicoli · 3 years
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19 apr 2021 18:10
"LA MAGISTRATURA? UN POTERE AUTOREFERENZIALE PIÙ INTERESSATO ALLA POLITICA INTERNA CHE A QUELLA NAZIONALE" - L'AVVOCATO FRANCO COPPI PRENDE A LEGNATE LE TOGHE: "VEDO TROPPA ANARCHIA NEI TRIBUNALI, OGNI GIUDICE FA QUEL CHE GLI PARE E I PROCESSI SFOCIANO IN SENTENZE IMPREVEDIBILI. AVREI PAURA A ESSERE GIUDICATO DA QUESTA MAGISTRATURA - NON È AMMISSIBILE CHE SI DIVENTI MAGISTRATI, ACQUISTANDO DIRITTO DI VITA E DI MORTE SUGLI ITALIANI, DOPO DUE O TRE COMPITINI DI LEGGE. IL PROCESSO AD ANDREOTTI? NON SI SAREBBE DOVUTO TENERE. QUELLO A BERLUSCONI L'HO VINTO SUI FATTI. LE CENE DI ARCORE? CI SAREI ANDATO, E MI SAREI PURE DIVERTITO"
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Pietro Senaldi per "Libero quotidiano"
«La carriera non può basarsi solo sull' anzianità: il lavoro e le sentenze devono avere un peso negli avanzamenti, sennò anche ad alti livelli ti trovi davanti certa gente...» «Non bastano due o tre esami di diritto per decidere della sorte degli altri per tutta la vita. Vanno testate la morale e l'equilibrio di chi è chiamato a giudicare i cittadini»
«La verità è che la politica ignora i problemi della giustizia, che si abbattono soprattutto sui cittadini comuni, e che ai magistrati interessa più la loro politica interna, correntizia, piuttosto che quella del Palazzo. E la prova è che tutti parlano dei mali dell'amministrazione dei tribunali, però sono discorsi che sento da più di cinquant'anni senza che sia mai stata trovata una soluzione. Anzi, ho l'impressione che, più se ne parla, meno si fa e più i mali della giustizia si aggravano. Prenda la lunghezza dei processi: sembravano eterni già negli anni Settanta, oggi durano ancora di più La ragione di tutto questo? Sciatteria, è la prima parola che mi viene in mente».
C'è un uomo solo che può parlare delle relazioni tra magistratura e politica senza essere accusato di imparzialità, perché ha difeso da pesantissime accuse dei pm i due leader più longevi della storia della Repubblica, Andreotti e Berlusconi, e li ha fatti assolvere, ma non ha mai ceduto alle lusinghe del Parlamento, che pure lo ha corteggiato. La sua toga è immacolata, il suo nome è Franco Coppi.
L'avvocato più famoso d'Italia è disincantato, la passione per il diritto è la stessa di un ragazzino, malgrado gli 82 anni, la disamina è amorevolmente spietata, la diagnosi lascia poche speranze perché non si intravede volontà di ravvedimento operoso. «Riforme ne sono state fatte negli anni», per una volta il tono è quello della requisitoria e non dell'arringa, «ma stando ai risultati sono state quasi tutte inutili, non ho visto miglioramenti».
Franco Coppi, 82 anni, avvocato, giurista e accademico italiano Devo dedurne che la giustizia italiana è irriformabile?
«Nulla lo è, a patto che ci sia la volontà. Riformare davvero richiede il coraggio delle proprie decisioni e la disponibilità a esporsi a critiche anche feroci. Se pensi a quanti voti perdi se separi pm e giudici o se togli l'abuso d' ufficio, non vai da nessuna parte.
Devi fare quel che ritieni giusto, senza curarti delle conseguenze».
I politici dicono che riformare la giustizia è impossibile perché i giudici non vogliono
«Io penso invece che temano di perdere il consenso se toccano la magistratura».
Ma la magistratura non ha perso credibilità negli ultimi anni?
«Comunque meno della politica».
I politici dicono di temere la reazione dei pm, pronti a indagarli se smantellano il suo potere
«Io non credo che ci sia una guerra della magistratura contro la politica tout court. Non creiamo falsi problemi: la magistratura ha un potere enorme ma quello del legislatore è ancora più grande. Se il Parlamento avesse la forza di cambiare la legge, alla fine Procure e Tribunali sarebbero costretti ad assoggettarsi».
Secondo lei quindi è stata la politica a cavalcare la magistratura più che la magistratura a tenere sotto scacco la politica?
«Questa è un'analisi che contiene della verità: certo alcune parti politiche hanno speculato sulle disavventure giudiziarie degli avversari. Sgradevole che quasi sempre sia avvenuto prima della sentenza definitiva, che spesso è stata di assoluzione, come nei processi che ho seguito per Andreotti e Berlusconi. Però, se intendo il senso provocatorio della sua domanda, il fatto che una giustizia così screditata sia in un certo senso funzionale agli interessi della politica è una tesi suggestiva e non infondata».
Ma se la politica non è ferma per timore della reazione della magistratura, perché allora la subisce?
«Sudditanza psicologica? O piuttosto anche una forma strana di indifferenza rispetto ai problemi. Il Parlamento oggi sembra avere dimenticato il motto latino "Iustitia fondamentum regni": con istruzione e sanità, il funzionamento dei tribunali è il cardine di un Paese civile. Noi invece abbiamo messo anche la giustizia in lockdown, ma i danni sono irreparabili».
È così difficile apportare queste modifiche?
«Basterebbero 24 ore. Però temo che uno dei grandi problemi sia il deficit di competenza. La politica in realtà non sa dove mettere le mani per migliorare il diritto. Non ha gli uomini, dovrebbe appaltare la riforma della giustizia a una commissione di una dozzina di giuristi».
I giudici insorgerebbero subito
«Se le proposte fossero concrete e ragionevoli, non potrebbero opporvisi. E anche se lo facessero, chi se ne importa?».
Ritiene che le toghe siano troppo politicizzate?
«Di magistrati ne ho conosciuti tanti. Sono una piccola parte quelli condizionati dalla politica».
Captatio benevolentiae?
«Guardi, ho visto molti più giudici influenzati dall'opinione pubblica, dai giornali o dalle mode che dalla politica. C'è chi mi ha confessato, prima dell' udienza, di essersi fatto un'opinione guardando i talkshow».
Le intercettazioni di Palamara però hanno rivelato che Salvini è a processo perché ritenuto un avversario politico e non un sequestratore di immigrati
«Sarebbe una cosa spregevole».
Cosa pensa di quello che sta venendo fuori sulla magistratura?
«Non tutto è una novità, di certe cose si parlava da tempo. La cosa più sgradevole è il sistema di nomine, tutte raccomandazioni, dispute, calcoli: se fosse davvero così, sarebbe sconcertante».
Che quadro ne emerge della magistratura?
«Un potere autoreferenziale concentrato su se stesso, più interessato alla politica interna che a quella nazionale».
Vede segnali di pentimento nella casta in toga?
«Vedo imbarazzo nei molti magistrati onesti. È auspicabile che l' intera categoria si senta ferita».
Cambierà qualcosa?
«Per cambiare serve volontà. Quel che vedo non mi fa essere ottimista».
Bisognerebbe abolire l'Associazione Nazionale Magistrati?
«L' abolizione del parlamentino delle toghe è un problema che non mi sono mai posto. La sua esistenza mi lascia indifferente: se c'è, è naturale che si divida in correnti, ma i problemi veri della magistratura sono altri».
Quali, secondo lei?
«Vedo troppa anarchia nei tribunali, ogni giudice fa quel che gli pare e i processi hanno spesso sviluppi cervellotici, sfociano in sentenze imprevedibili. Avrei paura a essere giudicato da questa magistratura».
Colpa del Consiglio Superiore della Magistratura?
«Il Csm non può intervenire sui processi ma sui comportamenti deontologici dei giudici. È il capo degli uffici, il Procuratore o il Presidente del Tribunale che deve far lavorare i suoi sottoposti e mettere un argine a decisioni e comportamenti stravaganti. Solo che, appena lo fa, si parla di attentato all' indipendenza del giudice. Invece secondo me è indispensabile un capo che riprenda e metta ordine».
La sua ex collaboratrice, Giulia Bongiorno, ha detto che nell' esame di magistratura bisognerebbe inserire un test psicologico. Lei sarebbe d' accordo?
«Sono d' accordo che servirebbero mezzi di selezione più rigorosi. Non è ammissibile che si diventi magistrati, acquistando diritto di vita e di morte sugli italiani, dopo due o tre compitini di legge. Ci vorrebbero esami più articolati attraverso i quali saggiare anche la preparazione morale e spirituale e l' equilibrio psicologico e politico del candidato».
Ipotizza anche verifiche nel corso della carriera?
«Queste dovrebbero farle i capi dei giudici. In realtà credo che bisognerebbe dare più importanza alla produzione di un giudice per valutarne gli avanzamenti di carriera. Oggi si procede solo per anzianità, ma questo ti porta in processi importanti, magari in Cassazione, a trovarti davanti a giudici che mai avresti immaginato a certi livelli. Dovrebbero contare anche i processi vinti o persi e le sentenze impugnate o cassate. Come in tutti i lavori, il risultato deve avere un peso nella carriera. Trovo molte diversità nei livelli di preparazione di una toga rispetto a un'altra».
Si dice che i giudici non pagano mai per i loro errori
«Lavorare sotto il timore di uno sbaglio che può costare caro toglie serenità e distacco».
Però lei se sbaglia, paga
«Io non ho mai desiderato fare il giudice perché mi angoscerebbe l'idea di decidere sulla sorte di un uomo. Pensi che ci sono certi processi, dove non sono riuscito a far assolvere imputati che ritenevo innocenti, per i quali ancora non dormo la notte a distanza di anni».
Che qualità dovrebbero essere indispensabili per un giudice?
«A parte la preparazione tecnica, che non sempre riscontro, un giudice deve avere equilibrio e umanità, per ricostruire i fatti e valutarli. Deve essere dotato di un alto valore morale e sociale, perché diventa interprete della realtà che sta vivendo».
Si ha l'impressione che certe sentenze vogliano cambiare la società anziché seguirne l'evoluzione
«Talvolta nelle motivazioni dei verdetti c'è la volontà di impartire qualche lezioncina. Però quando parlo di valore morale non voglio dire intento moralizzatore, che è una cosa dalla quale il giudice dovrebbe sempre rifuggire».
Le mutazioni della società hanno portato anche a una proliferazione delle fattispecie di reato
«Alcuni nuovi reati sono inevitabili, come quello che punisce le comunicazioni sociali che manipolano il mercato. Altri sono gratuiti».
Tipo il femminicidio o i reati della legge Zan?
«Talvolta introdurre un nuovo reato serve al legislatore per levarsi il pensiero. C'è un problema sociale? Creo un reato e sparo una condanna, così ho la coscienza a posto e mi mostro sensibile. La realtà è che bisognerebbe depenalizzare, non creare nuovi reati; oggi abbiamo liti di condominio che finiscono in Cassazione».
Com'è cambiata la giustizia da che ha iniziato lei?
«Essendo anziano non vorrei passare per un laudator temporis acti, ma non posso evitare di constatare un degrado generale, nella magistratura quanto nell'avvocatura. Ricordo che un tempo, quando andavo ad ascoltare i grandi per imparare, c'erano livelli di discussione giuridica ben più alti. Oggi, a causa anche del carico di lavoro eccessivo, i tribunali sono diventati delle fabbriche del diritto, le sentenze vengono scritte in fretta. Ma sono nostalgico anche per quanto riguarda la cifra stilistica: girando per le aule mi sembra che manchino l'eleganza e il decoro di un tempo».
È stato più facile far assolvere Andreotti o Berlusconi?
«Quello di Andreotti è un processo che non si sarebbe dovuto tenere».
E quello di Berlusconi, l'ha vinto in punta di diritto?
«No, l'ho vinto sui fatti: quelli contestati non configuravano un reato».
Però si era messa male
«Per vincere non ho dovuto scalare le montagne, molto lavoro era stato fatto dai miei predecessori, io ho dovuto solo convincere i giudici che la qualificazione giuridica dei fatti portava necessariamente all' assoluzione».
Fortuna che quella volta non si è imbattuto in un giudice moralista?
«Non sono un mondano, la sera preferisco stare a casa con mia moglie e le mie figlie, abitiamo tutti vicini. Però alle cene di Arcore ci sarei andato, e mi sarei pure divertito».
Perché ha chiamato il suo cane Ghedini?
«Perché me l' ha regalato proprio Niccolò. Io sono un grande cinofilo. Il cane si chiama Rocki, io gli ho dato un cognome, ma è un gesto d' affetto verso chi me l' ha donato. Mi ha fatto un regalo che mi ha commosso e del quale gli sarò sempre grato».
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Parola di Dante 316/365
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"[…] ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura."
Nell’abisso concentrico di Malebolge sono dannati per l’eternità i fraudolenti contro chi non si fida (distinti dai traditori di chi si fida, nell’ultimo cerchio infernale). Nel catalogo di colpe di una spregevole umanità, nel feroce disordine del male, la parola "baratto" compare in quest’unico passo della "Commedia". Il termine, dal verbo "barattare", di origine controversa e variegata semantica, non è adoperato nel senso di ‘scambio di beni senza uso di moneta’, ma in quello negativo di ‘inganno’, e vale "baratteria": il peccato, i barattieri, i loro sordidi maneggi. Truffa, ribalderia e azzardo: ma soprattutto qui, in accezione più specifica, la "baratteria" è il commercio della cosa pubblica, il reato di corruzione per il quale Dante fu condannato. I barattieri, che usarono il proprio ufficio per illeciti guadagni, sono puniti nella quinta bolgia ("Inferno" XXI e XXII), custodita da diavoli neri con ali di pipistrello e acuminati uncini: demoni e peccatori della terra, persi in un affannoso, avido agitarsi nell’aria buia e densa di pece bollente.
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mrbelli · 7 years
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L’APOCALISSE VIENE DALLA SARDEGNA Intervista a Gianni Tetti, autore di “Grande Nudo” di Alessio Belli / 24 aprile 2017
Grande nudo di Gianni Tetti (Neo Edizioni, 2016) è un romanzo capace di radicarsi subito e profondamente nel lettore. Le tenebre che iniziano a incombere nelle lande sarde avvolgono subito il lettore. Di seguito, le vicende dei personaggi lo inabissano in una narrazione che non lascia scampo. La situazione è drammatica: spietati attentati, la Terra infetta e un’umanità sempre più spregevole. In tutto ciò, l’avvento di una donna, Maria: forse l’unica speranza in quest’imminente Apocalisse. Grande nudo è romanzo di poetica e violenta intensità e vista la mole di spunti che offre, il modo migliore per affrontarli è sicuramente discuterne con l’autore…
Un romanzo corale con un minimo comune denominatore: la Sardegna. Ci racconti cosa lega così visceralmente le tue opere a questa terra?
Non potrei scrivere di nessun altro luogo. In Sardegna risiede il mio spirito, il mio nucleo ancestrale, non c’è niente che conosca meglio della mia isola e quindi niente che possa raccontare con maggiore cognizione di causa. Non parlo della geografia dell’isola, ma delle facce, delle voci, della lingua, del carattere dei luoghi e delle persone. Questo mi permette di essere onesto con i lettori, di dare qualcosa di me in ogni pagina e scendere in profondità nella narrazione e nell’animo dei personaggi. Detto questo, i miei non sono libri sulla Sardegna. La mia isola diventa un mondo, un teatro per parlare di umanità, di tempo e di anima.
Il tempo ci appare come una variabile costante ma lontana, indefinibile: non abbiamo riferimenti precisi, solo accenni alla contemporaneità – dal Tg2 a Bonolis. Come mai questa scelta?
La storia parte dai nostri giorni, e racconta di questi tempi burrascosi, riferendosi anche a fatti temporalmente vicinissimi e di stretta attualità. Tuttavia amo creare il mio tempo, filtrare la realtà attraverso i miei occhi, creare un mondo altro per parlare del nostro. La narrazione si discosta presto dal presente per immaginare un futuro ma non ho voluto perdere di vista neppure per un attimo la realtà che ci circonda. Penso che l’avventura descritta dal mio libro avesse bisogno di un mondo trasfigurato e di un po’ di magia.
Il tempo che rima con l’altro protagonista astratto del romanzo: il vento.
E qui torniamo alla Sardegna. Il vento è un elemento che caratterizza la mia isola e di conseguenza le vite dei suoi abitanti. Il vento è anche il collante principale dei miei tre libri. In I cani là fuori è un vento forte, che disturba i personaggi e agita gli alberi. In Mette poggia è un vento di scirocco, caldo e sferzante. Lo scirocco, secondo alcune credenze popolari porta il diavolo per le strade, ed è questa la paura di molti dei protagonisti del libro. In Grande nudo il vento muove letteralmente i fili di alcuni personaggi, che lo seguono, come fossero marionette. Ma è anche un vento che parla, sussurra un nome: Maria. Maria è la protagonista di Grande Nudo, uno donna portata dal vento.
In Grande nudo abbiamo delle scene di violenza estrema: come ti sei approcciato alla scrittura di questi momenti, soprattutto nell’ottica degli altri passaggi estremamente poetici e delicati presenti nel romanzo?
La mia convinzione è che la violenza sia insita nella natura umana, e ne sia una parte imprescindibile, una delle caratteristiche peculiari. Per cui non mi spaventa, non mi scandalizza, non mi sembra per niente strano parlarne o descriverla. Mi pare anzi che sia l’unico modo onesto per parlare di essere umani. Ci siamo dotati di strutture complesse al solo scopo di arginare questa violenza. Ma, a ben vedere, ci siamo riusciti solo in minima parte. In Grande nudo la violenza non è più presente o efferata di quanto non lo sia in una tragedia di Sofocle. Ma sono presenti anche altri lati peculiari del nostro essere, la forte tendenza ai legami, il bisogno di amare, la necessità di credere in qualcosa oltre noi, qualcosa che giustifichi le nostre miserie e le renda meno misere, l’inguaribile tensione verso il bello, lo spavento, lo stupore verso l’enormità della natura, tanto spettacolare quanto spietata. Così sono nati nel libro, in modo molto naturale, spontaneo, momenti duri e momenti poetici. I primi necessitavano di uno stile secco, senza scampo, i secondi avevano bisogno di lirismo e morbidezza.
Grande nudo è un romanzo dalle potenti simbologie…
La simbologia è uno dei motori dell’opera, e racchiude, in buona parte, elementi dei miei studi preparatori per il libro. È anche un gioco in cui mi diverto a coinvolgere il lettore. In generale sono i personaggi stessi che colgono simboli, spesso sbagliando, spesso per paura o ignoranza.
Circa settecento intense pagine: com’è stato il rapporto con l’editor?
Angelo Biasella è il mio editor fin da I cani là fuori. Otto anni di rapporto intenso, spesso contrastato ma ricco di soddisfazioni. Ormai siamo due vecchi amici, ci conosciamo bene, e basta poco per capirci. Come ogni editing tra noi, anche questo è stato duro, lungo, sofferto e non privo di contrasti anche forti. Ma c’è massima fiducia reciproca e siamo arrivati sempre a scegliere la strada migliore per il libro. Sono molto soddisfatto del lavoro di editing e credo (non sono l’unico a crederlo) che Biasella sia uno dei migliori editor in circolazione.
Hai avuto dei modelli, dei riferimenti letterari (o non letterari) che ti hanno ispirato prima o durante la composizione del libro?
In ordine sparso i romanzi di Ágota Kristòf e Sergio Atzeni sono state letture di ispirazione per Grande nudo e lo sono, in generale, per la mia scrittura fin da quando ho iniziato. Tra le letture preparatorie, che sono state tante e diversissime tra loro, ci sono alcune parti della Bibbia, Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond così come i fumetti di Enki Bilal. Infine adoro il cinema di Haneke, Kubrick, Fellini, Lars Von Trier e Pasolini e penso che qualche suggestione sia arrivata da ognuno di loro.
Un aspetto che ho molto apprezzato di Grande nudo è il ruolo salvifico del libro calato nel disperato contesto apocalittico dell’opera: pensi la stessa cosa anche nella realtà dei giorni nostri? Riponi la tua fiducia nella letteratura?
Ripongo fiducia in ognuno di noi, con la sua storia e i suoi pensieri. Il libro, in fondo, non è propriamente un’opera letteraria, quanto più un raccoglitore di voci, vite, pensieri, ma finisce per esserlo, quando va nelle mani di un uomo che ama i libri e leggere, e si perde tra quelle pagine scritte male, a mano. Il libro ha solo un affidatario che lo cede a chi vuole scrivere qualcosa, e nessuno firma quel che scrive, quindi i pensieri sono anonimi, eppure sempre diversi e connotati. Se non fosse per questo anonimato, assomiglierebbe alla bacheca di Facebook: migliaia di storie, di vite, racchiuse in poche righe, senza censure, senza vergogna, senza una mano univoca che li guida. Solo voci, e ogni voce parla per sé. Alla fine il risultato è una sorta di puzzle dove i frammenti si fanno eco l’uno con l’altro. Volevo far parlare la varia umanità che ruota attorno ai protagonisti, i diseredati con le loro vite che, parallelamente alla storia principale, scorrono, nascono, terminano. Volevo che il libro suonasse come un bisbiglio, prima misterioso poi via via sempre più forte. Volevo che fosse un elemento di speranza, la speranza legata a un libro, alla scrittura, al racconto di sé, rivedersi, raccontarsi, reclamare la propria esistenza, e la propria dignità, volevo che i protagonisti del libro arrivassero a credere in qualcosa: nella cultura, in loro stessi, e nell’umanità che li circonda, perché siamo, in fondo, una gran bella cosa.
Grande nudo è stato candidato al Premio Strega… sensazioni, emozioni?
Ho saputo della candidatura nel corso di una presentazione del Biblio tour che ogni settimana mi porta a visitare un paio di biblioteche in piccoli centri. Ero di fronte a molta gente, ed è stato emozionante, quanto improvviso. La candidatura in sé rappresenta un momento importante nel mio percorso di narratore e una spinta enorme a proseguire su questa strada: lunga, stretta, imprevedibile, ma piena di soddisfazioni. Detto questo, l’euforia è passata dopo qualche ora, c’è tanto da fare ancora.
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