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#solitudine tatuata
carmy77 · 1 year
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"SOLITUDINE TATUATA" RACCOLTA POETICA DI ROBERTA MATASSA DISPONIBILE PRESTO PER L’ACQUISTO!- Tutti i dettagli su questa opera speciale dell'artista emergente del progetto “Luce dell’Arte Edizioni” sui siti web sottostanti: https://manoscritti.wixsite.com/lucedellarteedizioni
http://www.lucedellarte.altervista.org
Il libro può essere richiesto direttamente all'email del sig. Antonio Matassa! Per ogni ulteriore richiesta scrivere a: [email protected] o telefonare al n. 3481184968
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nonhovogliadiniente · 5 months
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E mi chiedo se anche tu come me mi pensi.
E mi chiedo se guardando ogni tramonto ti viene in mente il fatto che io ti abbia dedicato ognuno di essi.
E mi chiedo se ti colpisce dentro quel vuoto e quel senso di solitudine quando alla mattina appena sveglia non c'è il mio buongiorno o la notte prima di andare a dormire non c'è la mia buonanotte.
E mi chiedo se durante la giornata mi trovi nelle piccole cose , in quelle che sarebbero piaciute a me, in quelle che sarebbero piaciuto a noi.
E mi chiedo se hai ancora le nostre foto sulla tua scrivania , perché anche se io mi sono sbarazzata delle tue foto , conservo ancora la nostra nel mio portafoglio e le altre come un ricordo di immenso valore.
E mi chiedo se anche a te manco tanto quanto tu manchi a me, se senti nel cuore quel posto vuoto che nessun altra persona può colmare.
Mi chiedo tante di quelle cose che non immagini nemmeno , ma non riesco mai a trovare una risposta che non sia " sta meglio senza di me ".
Ho la tua chat archiviata e il tuo profilo di insta silenziato ma non ha senso perché controllo quella chat ogni singolo momento della giornata , e controllo il tuo profilo solo per vederti.
E spero sempre di incontrarti ma so che se ti avessi avanti potrei anche morire.
E nonostante questo io continuo ad amarti , forse più di prima e quindi mi ci metto con molta calma e penso che forse è giusto che le cose vadano cosi come devono andare.
La tua assenza mi toglie il sonno, la fame, la voglia di fare qualsiasi cosa ma la tua presenza mi uccide, il non averti nel modo in cui voglio io mi uccide dentro.
E quindi alla fine di tutta questa situazione penso solo che il tempo possa curare tutte le ferite che ci siamo fatte l'un l'altra.
Spero un giorno tu possa perdonarmi per tutto quello che ho sbagliato con te e altrettanto spero di poterlo fare io con te. Perché si , ci siamo fatte male a vicenda .. ognuno con i suoi errori e con i suoi sbagli.
Ti starò lontana ma sarò dietro le quinte per seguire ogni tuo traguardo, voglio vederti brillare.
Doveva andare cosi , la tua mancanza la sentirò per il resto della mia vita perché sei stata il capitolo più bello , più brutto , più impegnativo, più felice, più libero , più sicuro , più tutto della mia vita. Ti ho tatuata nel cuore e anche sulla pelle, non hai via di scampo.
Adesso capisco il senso della frase " se ami qualcosa lo lasci andare" ed io avrei dovuto farlo molto prima, lasciarti andare prima perché io ti amo oltre ogni limite e l'unica cosa che ho sempre voluto era farti sentire amata nel modo più sincero e giusto che ci sia. Ho sbagliato molte cose e forse l'errore più grande che ho commesso è stato pensare che l'amore enorme che provo per te avrebbe fatto nascere la stessa cosa nei miei confronti. Ho pensato che amare per due potesse bastare, senza sapere che quell'amore enorme avrebbe consumato me.
Voglio chiudere questo capitolo delle mia vita perché ho bisogno di dimenticarti, di andare avanti e di trovare un modo per resistere.
Ti auguro il meglio dalla vita perché te lo meriti. E ti auguro di riconoscere sempre il valore che hai , l'immensità del tuo cuore.
Ti auguro di trovare quella pace che da tanto tempo cerchi.
Ti auguro di trovare una persona da chiamare " casa " perché io non posso più esserlo , ho fallito anche in questo e mi dispiace.
Ti auguro di rialzarti sempre e di non mollare mai ,perché tu puoi tutto.
Ti auguro di trovare una persona che ti ami nel modo giusto, nel modo in cui meriti.
Spero tu non ti dimentica mai di me, di noi, di quello che siamo state, che saremmo potute essere e che non saremmo mai.
Spero che nonostante l'ultima conversazione tu possa non odiarmi e conservarmi quel posto speciale nel tuo cuore.
Spero tu abbia il coraggio di intraprendere la strada che nel tuo cuore già sai qual'è.
Spero tu possa viaggiare il mondo e fare quel viaggio che tanto desideri , fare quelle esperienze che ti cambiano la vita.
Ti auguro il meglio anche se quel meglio non sarò mai io.
Ti ho amato e ti amo con tutte le forze possibili , e continuerò a farlo e per questo quando ti sentirai non amata ricordati che qui c'è una personcina che lo farà per sempre contro ogni distanza e circostanza.
Vorrei che ti amassi tanto quanto lo faccio io e spero che la persona che hai al tuo fianco possa renderti felice , tranquilla e serena.
Ciao amore mio, sii felice e sii libera.
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Potrei dirti che mi piace il modo in cui ti sta bene il cielo addosso, il modo in cui i colori si mischiano tra di loro e rendono la tua pelle tatuata terribilmente affascinante.
Potrei dirti che faccio attenzione ai tuoi dettagli anche se tu non lo sai, che so che ami la cioccolata fondente e che ne mangeresti in quantità, perché quella non fa ingrassare. So che ami la pasta con le zucchine fritte, che poi io sono molto bravo a cucinare, quindi se vuoi preparo la tavola per due per tutta la vita. So anche che scappi sempre, che non sei abituata alle cose che durano, che ami il rumore del mare, ma anche quello della pioggia a fine estate. Potrei dirti che odio i tuoi momenti di solitudine, che non mi basta rincorrerti per venirti a prendere, ma vorrei che ti fermassi in un punto preciso, dove so che quando ti senti sola posso correre da te per essere soli in due.
Potrei dirti che non è vero che le coppie perfette sono quelle che non litigano mai, io con te ci vorrei litigare tutti i giorni, per poi fare pace quando siamo stanchi di stare lontani, e tu che sei brava a stare lontana da tutti, e io che non sono bravo a stare lontano da te. Potrei dirti che non so mai come iniziare un discorso, allora mi limito a guardarti, e a sorriderti. Potrei dirti che mi piace, quando per caso ci sfioriamo le mani e io vorrei tenerle forte, per non lasciarti andare mai.
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#adessoscrivo
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L’amore non basta. Anni fa lessi questa frase, non ricordo più né dove né di chi fosse, ma ricordo che mi colpì. Mi segno in modo indelebile. Non l’ho mai dimenticata, e credo che sia una grande verità. Io sono un’inguaribile romantica, al che potrebbe apparire strano che creda in una sentenza che sbaraglia in tal modo il fondamento stesso del mio essere, ma tant’è. Sono profondamente convinta che l’amore sia la più grande forza al mondo, che sia il motore di ogni azione nobile e che innalzi lo spirito come null’altro; sono altresì profondamente convinta del fatto che ci sia qualcosa ancor prima dell’amore, forse non egualmente grande e potente, ma abbastanza importante da potersi trasformare in un ostacolo. Amore non conosce ostacolo di pietra, diceva Shakespeare. Io credo di sì, e credo che tale ostacolo sia l’uomo stesso. Più precisamente, l’individuo, il suo mondo e tutto ciò che gravita attorno a esso; il microcosmo che si crea e che si porta dietro; le ferite e i traumi che seppellisce durante gli anni e che riemergono dalle crepe di quella cortina di fumo costruita unicamente allo scopo di difendersi. Il problema di ogni cortina è che crea una frattura, un non-luogo invalicabile per chiunque, in grado di nasconderci dallo sguardo altrui, ma anche di separarci da esso definitivamente. L’immagine del fumo è eloquente – la lingua raramente commette errori; quello ci intossica, lentamente e inesorabilmente, finché non ci ritroviamo asfissiati: vorremmo gridare, ma non possiamo più farlo. C’è una linea sottile che divide l’autoconservazione dall’allucinazione, dalla paranoia. Difficile stabilire quale sia, come riconoscerla quando la si incontra per la prima volta, ancora più difficile sapere come non arrivarci mai o come non superarla. Le persone oggidì temono l’introspezione, la consapevolezza li spaventa, la possibilità di essere fragili, di mostrarsi vulnerabili. Ci vogliamo cavalieri dalla lucente armatura, sempre retti, sempre indefessi, sempre vittoriosi; nessuno pensa mai che l’armatura possa essere un peso, che possa immobilizzarci. E d’altronde, non esiste armatura in grado di resistere ai nostri colpi, questi ci afferrano e ci dilaniano dall’interno, non hanno bisogno di un arciere che li scocchi o di una mano che affondi la lama: noi siamo al contempo l’arciere e la freccia, la mano e la spada. Non puoi fuggire dai tuoi stessi dardi, non puoi schivarli o bloccarli prima che ti trapassino: provare dolore, come infliggerlo, è connaturato all’uomo. Il progresso non sarebbe stato altrimenti possibile. Forse non avremmo saputo neanche cosa farcene dei pollici opponibili, se non avessimo imparato che con essi potevamo fare del male, che potevamo uccidere. Ma queste sono sciocchezze, riflessioni di una notte appena iniziata e che doveva essere già terminata. Solo che a volte è difficile accettarlo, accettare l’ineluttabilità della sofferenza, sapere che, nonostante tutto, non può essere ignorata, che richiede di essere sentita, vissuta, e che non può essere estinta. A volte la nostra mente, analitica più che mai, smette di resistere ai colpi, depone le armi, si lascia andare al piacere lancinante della carneficina. Ci si sente sopraffatti. Mi sento spesso sopraffatta, sapete? Mi impegno per non darlo a vedere, ma è così. Ci sono cose, frasi, domande, che mi stordiscono, inaspettatamente, che disseppelliscono timori e mi costringono a pensare a ciò che mi rende infelice. Temo di essere una persona profondamente infelice. Amo la vita, ma non riesco a goderne a pieno. In fondo, lo so, è colpa mia. Sono cresciuta in fretta, troppo in fretta, perché potessi arrivare a ventidue anni sperando di non sentirmi così. Mi sembra di non essere più in grado di provare emozioni, emozioni intense, vere, trascinanti; mi sento come una fiamma spenta d’un colpo, a cui è stato violentemente sottratto l’ossigeno, ma da cosa, o da chi? Non sono una persona che cerca giustificazioni, o che tenta in ogni modo di deresponsabilizzarsi, al contrario, sono cresciuta assumendomi sempre più responsabilità di chiunque intorno a me, e questo mi ha resa forte, solida, fiera, mi ha fatto credere di poter affrontare tutto, mi ha donato determinazione, rigore, organizzazione, ma mi ha allontanata dal rischio. Una frase di Leopardi che porto tatuata sul braccio sinistro recita: bisogna vivere eikè, témere, à l’hasard, alla ventura. À l’hasard, ho scoperto di recente cosa significhi, la trovo un’espressione magnifica, infatti, quando mi chiedono di tradurla, non uso mai altre parole, dico letteralmente all’azzardo. All’orecchio di qualche esteta potrebbe suonare male, ma credo che ne trasmetta la potenza, l’ispirazione. Ho sempre creduto che sia questa la parte migliore della vita: l’ispirazione. Ma ho smesso di vivere secondo quell’idea, ho smesso di lasciarmi ispirare. Forse non so più come si fa, forse è solo una questione di assuefazione: ho vissuto tanto tempo senza sentire nulla di grande che non riesco più a capire dove trovarlo. E’ come se un’ombra fosse discesa su ogni cosa: è tutto grigio, né bianco né nero, solo un’infinita e triste gamma di grigi. E credo sia per questo che qualunque segno di vita mi ferisce, vedo negli altri ciò che mi manca, la scintilla, l’ardore, la prepotenza del sentimento, qualunque esso sia, che sia gioia o dolore, poco importa. E’ quella forza a mancarmi. La forza che rende tutto significativo, ogni parola, ogni suono, ogni lacrima; le persone credono che il dolore sia la cosa peggiore, non è così, la cosa peggiore è questa: sentirsi anestetizzati, guardare gli occhi di una persona innamorata e sentire i contorni della voragine che si ha nel petto bruciare. A tratti è insostenibile. Ed è qui che si torna alla cortina di fumo. E’ quel tipo di sensazione che ti rende insopportabile la gente, la sua compagnia, la sua mera presenza. Quel tipo di sensazione che ti fa desiderare di stare da sola per non dover più incontrare le tue mancanze sotto forma umana. D’altronde, è più semplice interferire con la voce di uno spettro che con quella di una persona in carne e ossa, si può al limite anche far finta di aver davanti un’allucinazione, se ne può discorrere geometricamente, si può fare della filosofia spicciola pur di esorcizzarla. Con la realtà è diverso, la realtà raramente accetta di essere ricacciata nelle maglie dell’astrazione: la realtà è dirompente, ti colpisce in pieno viso senza che tu abbia il tempo di accorgertene. Non hai scampo, è un ring che non puoi abbandonare. Cosa dovrei fare? Non so gestire la solitudine, ma non so neanche gestire tutto questo. Le due cose sono senza dubbio interdipendenti, dunque?
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cappottoestivo · 3 years
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Imparare a stare nascosti. In disparte. Tornare a giocare. Fare della innocua follia una legittima risorsa. Stare fermi e zitti a guardare e ascoltare. Smettere di far paura a tutti gli altri esseri e agli umani che non stanno in riga. Smettere di parlare solo con chi ci fa eco. Lasciarci vedere brutti come siamo, crudeli come siamo, per fiducia nella trasformazione e nella bontà fondamentale, quella che non lo fa apposta. Non cercare scuse, ma smettere e rammendare. Farci domande, tante domande e aspettare silenziosi che arrivino le risposte, aspettare tutta la vita e forse scoprire che la nostra esistenza così com’è e come siamo è la risposta, e non le parole con cui ricopriamo il nostro spavento raccontando la storia della storia della storia. Sapere che la paura che gli animali hanno di noi è la stessa che noi abbiamo della nostra nuda solitudine. Lasciare che la nostra vera storia non occhieggi soltanto nel disastro.
Non confessarla, ma offrirla con dignità perché è il nostro ponte più solido verso la storia degli altri. Rianimare la storia tatuata nel corpo, nella voce, negli sguardi. Non ignorare quello che bussa nelle buie notti e stenderlo al sole di giorno. Entrare nel nostro mancare e conoscerlo anziché riempirlo costantemente di futilità. “Lei non sa chi sono io.” Oh sì che lo so e mi si stringe il cuore sapendolo. Le opere sono gradini in discesa non in salita. Rivoluzionare la coscienza, non essere un carattere, ma un fiume, con tanti affluenti, e agire partendo dall’attesa e dal silenzio. Intonarsi alle azioni, riconoscendo le intenzioni. Risvegliarci ogni momento. Cosa cerchiamo quando anziché annusare le scie e poi seguirle corriamo dietro alle illusioni umane di appropriazione e accumulo, di ascesa? Restare fedeli alla sete senza confonderla con l’evaporazione dell’acqua. Quando disseto curo la mia arsura.
Di riuscirci prego.
Chandra Livia Candiani
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tindara0799-blog · 5 years
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So che forse, non avrei dovuto scriverti. Che magari, nemmeno leggerai. Ma ti chiedo un'ultima volta, se ne avessi voglia, di ascoltarmi. Già saprò che lo farai. Che starai sdragliata sul lettone e ti cadrà sicuramente dell'acqua dal viso che andrai ad asciugare strofinandoti il volto col piumone invernale che ancora indossi perché il freddo tu lo soffri fino a Luglio. Volevo dirti che tu sei stata per me, il mio primo vero amore. Ho capito che il passato, quello prima che conoscessi te, era tutto un bluff. Come se avessi puntato tutto avendo in mano un 2 di fiori e un 7 di cuori. Ma che un giorno. Un giorno. Il destino mi abbia regalato in mano una coppia d'Assi, me e te. E allora ho capito che questa nostra storia m'ha lasciato col culo per terra, anche con una coppia d'Assi. Perché il destino siamo noi. Perché non ci sono carte vincenti. Perché il vincente è chi lotta per cambiare le carte in tavola. Io e tu siamo stati la storia d'amore mai esistita. Troppi pazzi per appartenersi. Troppi folli per crederci. Quello che m'hai lasciato non si vede. Nessuno può riuscirci. Nessuno può lontanamente neppure pensarlo. Ciò che m'hai lasciato è l'essere stato felice. Io con te, sono stato felice. Tu hai reso felice la mia persona. E per questo, non esiste amore paragonabile. Il nostro non è stato amore. La nostra è stata vita. Vita vissuta. Vita tatuata nell'anima. Ricordi di noi, in angoli impressi nei nostri occhi. E quello che siamo stati, noi, non potremmo mai esserlo più con nessun altro. Quel tempo vissuto assieme è quello che sognavamo fosse futuro. E ora, ora non basta più nulla per riprenderci. Distanti quanto Sole e Luna. Inesistente come l'Alba per il Tramonto. Indifferente quanto guardare una stella caduta dinanzi a miliardi ancora lassù in alto. Ora siamo questo. Sembriamo distanti. E lo saremo pure. Ma siamo entrambi essenziali, l'uno per l'altra. E lo saremo per sempre. Perché certe emozioni fanno sorridere il cuore. E allora ti chiedo un caffè. Fosse l'ultimo, anche bene. Ma voglio vivere l'ultima eclissi. Quella distanza apparentemente cancellata da occhi che s'incrociano e lasciano il mondo intero stupefatto da immensa bellezza. E scusami se mentre verserai il caffè nella tua tazzina io metterò due cucchiaini di zucchero. Scusala, la mia abitudine. Che ormai si è fatta solitudine.
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psychic-insane · 5 years
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"Sufficit Animus" in latino vuol dire Basta il Coraggio.
Mi sono tatuata questa frase su un braccio pieno di cicatrici per ricordarmi che basta il Coraggio per affrontare la vita.
Basta il Coraggio per scoprirsi, per capire che persone siamo realmente, perché bisogna avere Coraggio per mostrare a tutti chi siamo, per andare in giro anche nei giorni bui, per non rinchiudersi in se stessi.
Bisogna avere Coraggio nell'apprezzarsi, nell'accettare tutti i difetti che ci caratterizzano e sopratutto nel metabolizzare le emozioni che ci travolgono giorno per giorno.
Bisogna avere Coraggio ad essere così fragili, perché ormai quasi nessuno lo è più, ma il Coraggio è alla base di tutto.
Bisogna avere Coraggio quando si sceglie la solitudine per lavorare su se stessi, perché la via più facile ci sembrerà sempre quella di affiancarci a qualcuno, qualcuno di importante, ma se non si ha il Coraggio di vivere la propria vita da soli, si rimarrà sempre fermi alla prima fase.
Io ho avuto Coraggio, mi sono scoperta, mi sono amata e odiata, ma sono ancora qui perché ho avuto CORAGGIO.
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viaggiatricepigra · 2 years
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𝑳𝒆 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒑𝒆𝒄𝒄𝒂𝒕𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆 𝒅𝒐𝒏𝒏𝒆, 𝒅𝒂𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝑬𝒗𝒂 𝒆' 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒂 𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒊𝒎𝒂 𝒂 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒓𝒆 𝒖𝒏 𝒑𝒆𝒄𝒄𝒂𝒕𝒐, 𝒃𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒇𝒂𝒕𝒕𝒊𝒔𝒑𝒆𝒄𝒊𝒆 𝒊𝒍 𝑭𝒓𝒖𝒕𝒕𝒐 𝑷𝒓𝒐𝒊𝒃𝒊𝒕𝒐. 𝑪'𝒆' 𝒄𝒉𝒊 𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒆' 𝒑𝒆𝒓 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒕𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒄𝒊𝒃𝒊 𝒂𝒔𝒔𝒐𝒄𝒊𝒂𝒕𝒊 𝒂 𝒑𝒆𝒄𝒄𝒂𝒕𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒇𝒓𝒖𝒕𝒕𝒊. Non sapevo cosa aspettarmi, ma la copertina e la trama mi hanno immediatamente conquistato, attirandomi verso questa novità che non mi è dispiaciuta. Il romanzo è molto scorrevole e piacevole. La storia è tutta narrata da May, una quattordicenne che si trova orfana, sola e disperata dalla fame che un giorno tenta di rubare del pane. Ciò sarà l'inizio di una nuova "maledizione" per lei, poiché la sua pena sarà diventare una mangiapeccati. Una figura molto importante nella società, ma una reietta: porta conforto a chiunque stia per morire facendosi confessare i peccati commessi (ognuno con una pietanza di riferimento) che verranno cucinati alla morte e che lei dovrà mangiare per assumerli su di sé, liberando l'anima del peccatore da quel fardello. La mangiapeccati viene marchiata con un collare con una S (Sin Eater) e la stessa lettera tatuata sulla lingua. Le viene imposto il silenzio e la solitudine, poiché nessuno la vuole ascoltare né vedere, figuriamoci essere toccato... Continua ⬇️ https://instagr.am/p/CZB11wOMwn4/
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tuaccendiedioscrivo · 4 years
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Pensieri, parole, fogli, libertà, solitudine, mancanza, assenza, amore, gioia, dolore. La felicità non è forse anche questo? Riscoprirsi ogni giorno, cercare un nuovo equilibrio, inebriarsi della vita, lasciare alle spalle il passato per gettarsi nelle braccia del nostro futuro, gettarsi a quest'ultimo completamente, senza nessuna paura, senza nessuna pretesa, consapevole di dover ancora sbagliare e di dover rifiorire un'altra volta ancora come la rosa tatuata nel mio corpo come inno alla vita.
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sciatu · 7 years
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Edicole votive siciliane
Penso che ho bisogno di te. Me lo dice di giorno la tua ombra che porto nel cuore, il vuoto che provo se tu manchi in una piazza piena di gente e voci,  i viali in cui corrono i tram che diventano spiagge vuote se ti vedo solo nella mia memoria. Per questo motivo, ho creato un’edicola votiva nel mio cuore e ogni minuto le porto un fiore, un sorriso, un pensiero, un ricordo, un bisogno, una rima. La gente mi guarda mentre recito litanie amorose e versi carnali dal sapore di cardo e di lava. Mi vede danzare sulle ragnatele appiccicose del loro astio, navigare controvento, dentro le loro storie noiose e non sanno che tutto questo accade perché ti ho tatuata nell’anima. Perché tu sei quella parte di mondo che vince l’odio, perché tu hai il tuo cuore legato al mio in quest’edicola votiva con la tua immagine, in questa sorgente di passione, in questa tensione continua verso chi riassume la vita. Folle perciò chi pensa che l’amore sia un istante, se tu sai essere sincero con te stesso, puoi fermare il tempo, se tu sai vedere oltre te stesso puoi avere il suo cuore. Per questo ho scavato questa edicola votiva nel mio cuore: per non dimenticarmi di adorarti e vi porto ogni giorno fiori di campo avvolti in versi di stagione, pregandoti di salvarmi dal mio egoismo , perché la solitudine non è non avere, ma non sapere dare.
I think I need you. I recognize this by your shadow that I bring in my heart, by the void I feel if I am in a square full of people and voices but without you, by the fact that the avenues in which the trams run become empty beaches when I only see you in my memory. For this reason,  I have created a votive stand with your image in my heart and every minute I bring to it a flower, a smile, a thought, a memory, a need, a rhyme. People look at me while I play loving lilies and carnal ballads with lava and thistle flavor. They see me dancing on the sticky cobwebs of their hate, surfing in their boring stories, and they do not know that all this happens because I've tattooed you in my soul. Because you are that part of the world that wins the hate, because you have your heart tied to mine in this votive stand with your image, in this source of passion, in this continuing tension to who summarizes the life. Crazy who thinks love is an instant, if you know how to be honest with yourself, you can stop the time, if you can see beyond yourself you can have her heart. That's why I dug this votive stand into my heart, so I do not forget to worship you and I bring you every day wildflowers wrapped in season rhyme, begging you to save me from my selfishness, because solitude is not to haven’t, but in don’t give.
PICTURES BY  PACO FALCO, COSIMO CALABRESE, PALERMO OH CARA
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carmy77 · 1 year
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Carissimi amici, eccovi in anteprima la copertina di "Solitudine tatuata" l'opera prima della poetessa Roberta Matassa in uscita  prossimamente con Luce dell'Arte Edizioni nella collana editoriale "Farfalle"! Un'opera di straordinaria intensità letteraria, che fa vibrare subito il cuore di emozioni dolci! Prefazione a cura della dr.ssa Carmela Gabriele, giudizio critico del prof. Fernando Stella e recensioni della scrittrice Milena Ziletti e del membro di Associazione Caterina Leone.
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itsalrighttoshake · 7 years
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Le parti peggiori della notte sono il buio, il silenzio e soprattutto la solitudine... quando nessuno ti da la buonanotte e cadi automaticamente nel dimebticatoio di una persona. Lì è tosta. È veramente dura da affrontare. Ci sei tu e te stesso quando prima c'eravate tu e un'altra persona. È orribile essere dimenticati ma ancor di più dimenticare. Un amore fulmineo dal cielo al suolo. Niente di più niente di meno. Forse qualcosa di più poteva esserci ma non ora. Ora c'è solo il meno. E pensare che mi sarei tatuata il suo nome sul cuore... non gliel ho mai detto e mai lo saprà, ormai... ma lo volevo fare. Chissà se un giorno lo farò. Magari scriverò solo metà. Perchè l'altra non c'è più. L'altra è morta. Ma chi sei? Chi sei stato? E chi sarai... semplicemente una... persona...
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nuvoleverticali · 4 years
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11/11
L’ultima vita, meravigliosa La sera, tornato a New York, sono andato a Broadway per ascoltare Bruce Springsteen in teatro. Il Walter Kerr è una delle bomboniere intorno a Times Square. Il pubblico aveva, più o meno, l’età dell’artista: quasi tutti sopra i sessanta. Molti erano spettatori seriali, avevano visto decine, addirittura centinaia, di concerti nel mondo. Non so che cosa facessero nel tempo libero. Il mio vicino era a quota 287 e aveva una delle chitarre di Springsteen tatuata sul braccio. Non era un teatro, piuttosto una chiesa. Non un pubblico, un’adunata di fedeli. E non un concerto, nemmeno una messa, ma un incontro tra due anime, una individuale e l’altra collettiva, una lunga confessione a tratti accompagnata dalla musica, inevitabile prodotto – molto più che colonna sonora – del racconto. L’artista ha parlato a lungo dei suoi genitori e del loro amore sbilenco: lui sempre furioso con il destino, lei sempre pronta per il prossimo ballo. Ha raccontato la sua irresistibile voglia di correre lontano dalla trappola dov’era nato per poi finire a vivere a dieci chilometri da lì. Ha ricordato tutti quelli che ha perduto, con slanci d’affetto. In sostanza: la vita e la morte. Ogni raccolta di canzoni, ogni dipinto, ogni libro, ha questo per tema di fondo. Un libro di viaggi è un libro sulla vita e la morte. Un libro di cucina è un libro sulla vita e la morte. Questo è un libro sulla vita e la morte. A essere più precisi, un libro sull’ultima vita prima della morte. Siccome non puoi sapere quando morirai, tocca a te decidere quando sei entrato nella fase finale, poi può durare un anno o trenta, non è quello il punto. È la fase in cui superi le incertezze, cancelli dal retrovisore il rimpianto, sei a posto. Se non ci arrivi, vuol dire che sei morto prima e hai continuato a camminare come uno zombie in una serie televisiva registrata, che ti sei dimenticato di guardare. Tempo sprecato. Hai vissuto invano, confessalo pure. L’ultima vita è quella in cui non hai più tempo da perdere, non importa quanto te ne resti. Nel film di Paolo Sorrentino La grande bellezza, il protagonista Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo, lascia anzitempo la casa di una futile conquista e declama tra sé: “La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”. Ci ha messo molto, ma ci è arrivato. È come arrivare all’ultimo amore: smetti finalmente di perdere tempo, trovi un senso, non ti tormenti più. Non è una questione di età, ma di consapevolezza. Non ogni amore produce questo effetto, esiste una differenza tra un grande amore e un amore definitivo. Così come tra il picco più alto di un’esistenza e quello in cui ci si assesta e, alleluia, si sa chi si è. Si tende a credere, perché te lo fanno credere, che la vita abbia un percorso “morale” predefinito, un po’ come quello fisico. Il più diffuso dei luoghi comuni è quello per cui “si nasce incendiari, si finisce pompieri”, tradotto politicamente con “se hai vent’anni e non sei rivoluzionario non hai cuore, se ne hai quaranta e non sei conservatore non hai cervello”. Perché non il contrario, perché non morire rivoluzionari e rivoluzionati? E perché sprecare sessantacinque anni a fare cose che non ci andava di fare, con il rischio di continuare a cambiare senza mai diventare noi stessi, ma soltanto proiezioni e brutte copie? Proprio perché ho cambiato molto, ho anche cominciato a diffidare di chi non smette di farlo. A un certo punto subentrano svolte che sanno più di matrimoni d’interesse che d’amore. A cinquant’anni diventi un liberista moderato perché hai la seconda casa, o viceversa un contestatore furioso perché hai perso il posto di lavoro a causa di una crisi di mercato. Ti scopri una fede politica in cambio di un incarico di sottogoverno o un posto nella pubblica amministrazione. A settant’anni ti converti perché hai paura di morire, a venti perché hai paura di vivere. È vero: solo gli idioti non cambiano mai idea, ma lo sono altrettanto quelli che la cambiano sempre. A un approdo devi arrivare. Come? Come in tutte le scelte della vita: intanto, procedi per esclusione. Nel romanzo di Dave Eggers Eroi della frontiera ho sottolineato questo passaggio: “Le si svelò una verità: gli uomini anziani non sono confusi. Non vanno in sette direzioni diverse. Un pensionato sa che cosa non vuole, e per chi di noi è stato ridotto in polvere una, o anche più volte, e ha trovato comunque il modo di tirare avanti, sapere che cosa non vuoi è molto più importante che sapere che cosa vuoi”. Sottolineato due volte: Sapere che cosa non vuoi è molto più importante che sapere che cosa vuoi. Occorre davvero diventare anziani, andare addirittura in pensione, per riuscirci? Come occorre il trauma (essere ridotto in polvere una o più volte) per capire che cosa è importante? Non possiamo fare uno sforzo d’immaginazione e smettere molto prima di andare “in sette direzioni diverse”? Smetti di provare nuove droghe, hanno un effetto comune: ti rendono schiavo. Smetti di cercare un’altra religione: vedi sopra. Dopo due incontri al buio con persone conosciute su internet, il terzo che incroci ti ammazza o vorresti ammazzarlo tu. Stai bene con il bianco, con il blu, con i due colori abbinati, lascia perdere i pantaloni rossi, le giacche verdi, i maglioni grigi e, soprattutto, i calzini fantasia, la fantasia non si calpesta mai. Se non sopporti più la metropoli vai a vivere in campagna. Se la campagna ti ha estenuato di grilli, non uccidere l’usignolo, trasferisciti in città, ma lascia perdere l’andirivieni selvaggio e i ripensamenti notturni alla luce dei fari. Fermati, prima di diventare un Barigazzi in servizio permanente. Se, come elettore, hai votato per tre partiti diversi, non dare la colpa a loro, e soprattutto non dire che i politici sono tutti uguali – lo sono per te. La storia delle dottrine politiche, come quella degli individui, propone un numero limitato di modelli tra cui scegliere. Se continui a sperimentare e non ti accorgi di essere ripassato dal via, il problema sei tu. Non inventeranno un nuovo modello di individuo o di società apposta per te, dovrai scegliere tra quelli esistenti, con le opportune variazioni di colore, interni e qualche optional. Se pensi che il punto sia fartela piacere, sei fuori strada. Il punto è: piacerti, riconoscerti in quello che sei diventato, proporre una versione evoluta di te stesso, dando un senso a tutti i tuoi errori, senza mai giustificarli. Se non hai sprecato gli anni arriverai all’ultima vita (il più in fretta possibile) e la farai durare (il più a lungo possibile), accanto al tuo ultimo amore. Indecisione e illusione sono avversarie della felicità. Mi affiora un ricordo lontano, che con l’amore ha a che fare poco, un po’ sì, ma molto poco. Ero in Germania per seguire i Mondiali di calcio del 2006 e mi trovavo per qualche giorno a Francoforte. Nella strada parallela al mio albergo sorgevano quattro palazzi di cinque o sei piani completamente adibiti a bordelli. Per curiosità una sera entrai nel primo, accodandomi a una rumorosa comitiva di tifosi olandesi. L’edificio era scarno, come fosse incompleto o in corso di abbandono. I pianerottoli erano nella semioscurità e su ciascuno si affacciavano una decina di porte. Su quelle aperte sostava una prostituta retroilluminata che invitava a entrare. Primo palazzo, primo piano, tutti proseguivano per vedere che cosa poteva riservare il secondo piano, il terzo, l’ultimo, il palazzo seguente, dal basso all’alto, il terzo, il quarto. Le gambe si stancavano. Le facce e i corpi visti si confondevano. Come in quei giochi di memoria in cui si sparpagliano sul tavolo le carte coperte e devi accoppiarle alzandone due alla volta, ognuno cercava infine di ricordare dove avesse visto la maliziosa malese o la procace bulgara con cui avrebbe voluto congiungersi, ma era impossibile riuscirci. Terzo piano del secondo palazzo o secondo piano del terzo? Bisognava prendere un appunto, come quando si lascia l’automobile nel garage multipiano di un centro commerciale. Potevano fare le strisce colorate sui muri almeno, no? Tornare indietro era una dannazione, perché magari s’indovinavano palazzo e piano, ma la porta nel frattempo si era chiusa per l’arrivo di un indigeno esperto e deciso. Gli olandesi continuarono a vagare, avanti e indietro, su e giù, cercando la perduta dea della perfezione o qualcuna che le somigliasse. Invano. Non ritrovandola, finirono per uscire, sedersi all’esterno di un bar tristemente essenziale, sotto ombrelloni colorati nella notte tedesca, e ordinare un giro di birre. Ci sono tre pericoli sulla strada: fermarsi prima di partire immaginando che il percorso riserverà amarezze, modello Kierkegaard; fermarsi alla prima stazione per paura del dopo, della solitudine o di James Dean; non fermarsi mai e morire vagando in un bordello multipiano di Francoforte inseguendo una divinità su misura, un movimento politico di duri e, soprattutto, puri – la porta aperta oltre la quale sta la perfezione altrui, miraggio per non riconoscere il deserto in se stessi. Bruce Springsteen racconta: “Sono stato laggiù nel deserto, cercando nella polvere, aspettando un segnale. Inseguendo un miraggio, guidando tutta notte molto presto prenderò il controllo della situazione”. E a quel segnale, sulle note di Promised Land, la terra promessa, entra silenziosamente sul palco Patti Scialfa, la donna promessa, seconda moglie, ultimo amore. Si conobbero giovanissimi. Lui la respinse a un provino, ma più tardi la accolse nella band. Mentre si esibivano insieme era evidente a tutti, da subito, la chimica che li univa. Eppure lui sposò un’altra. Impiegò otto anni per disamorarsene e correre, finalmente, da Patti. Hanno avuto i loro alti e bassi, come è normale che sia, ma ora è acqua passata, appaiono inseparabili e perfetti mentre, ancora insieme, suonano la stessa musica. Niente potrebbe essere più simbolico, alla fine di un percorso: avere imparato a suonare la stessa musica. Ho detto all’inizio che l’amore non si può racchiudere in una definizione, ma soltanto in una storia, forse. O in una serie di storie. Per l’ultimo amore esiste una possibilità. La trovai nella primavera del 2003, in una libreria di Beirut, sfogliando il libro più venduto in una lingua che conoscessi, un testo in inglese dal titolo: The Last Migration, l’ultima migrazione. Autore: un tal Jad El Hage. Era un romanzo autobiografico. Il protagonista lasciava il Libano durante la guerra civile e iniziava un lungo esodo a tappe che lo portava in vari Paesi, in una prigione, in un ospedale dove si curava il cancro. Francia, Canada, Svezia, Australia. Attentati falliti, vendette sfiorate, nostalgia. Si sposava, aveva un figlio, si separava. Emigrava, lottava, soffriva. Infine tornava in Libano e conosceva la donna con cui fermarsi, in una casa di pietra fra le montagne, vicino a quella che fu la residenza del poeta Khalil Gibran. Pacificato infine, Jad El Hage scriveva: “Love is the end of waiting”, l’amore è la fine dell’attesa. Quando lessi quella frase mi fermai, come accade di fronte alla possibile soluzione di un enigma. Ecco. Forse ci siamo. Basta aggiungere un aggettivo: l’ultimo amore è la fine dell’attesa. Tu vivi aspettando qualcosa che ti tolga l’affanno, ti faccia smettere di cercare, di pensare che esista un’altra, migliore possibilità. Di stare alla fermata della metropolitana e guardare le porte chiudersi, i vagoni affollati, i volti ai finestrini, con un misterioso rimpianto, come se tra quelli che irrimediabilmente fuggono via potesse esserci quello giusto, soave, definitivo, quello che aspettavi da una vita, la fine dell’attesa. Smetti di aspettare non quando perdi la speranza, ma quando l’hai trovata. Quando non ti giri più a guardare chi va nell’altra direzione sulla scala mobile. Quando non invochi più il domani perché domani è adesso. Quando non hai più paura di morire perché hai vissuto. A pacificarti possono essere soltanto l’amore o la morte. Meglio l’amore, no? Per un’altra persona, per una causa, per gli altri, alla fine per te stesso, ma in un modo nobile e duraturo. Ho poi conosciuto Jad El Hage: aveva baffetti inaffidabili e si rivelò corrispondente alla fisiognomica. Tuttavia, lasciando Beirut lo abbracciai: non serbavo rancore, non avrei avuto nostalgia. Anch’io migravo un’altra volta. Non avevo idea se e quando l’attesa sarebbe finita. Me ne andai che era notte, pensando che in volo l’alba sarebbe arrivata prima, che in un certo senso le stavo andando incontro, che stavo accorciando la notte. Amo la notte, soprattutto se è estate alle Isole Lofoten, in Norvegia, e non devi aspettare che arrivi la luce: è sempre con te. Le Lofoten d’estate, il luogo della luce permanente. È sempre la stessa storia, è sempre lo stesso viaggio, non a caso diciamo di quando nasciamo che veniamo alla luce. Poi camminiamo a zigzag, inciampiamo, prendiamo scorciatoie sbagliate e finiamo in vicoli oscuri, dove proviamo a innamorarci del buio. Ci agitiamo, non stiamo fermi un attimo, procedendo verso quella che abbiamo immaginato come l’oscurità definitiva, la perenne notte nera. E se avessimo sbagliato proiezione? Una sera al tramonto mi trovavo su una spiaggia della Virginia, a Cape Charles. Decine di persone intorno a me erano sedute sulla sabbia e guardavano l’orizzonte cambiare colore: un altro teatro-chiesa, un altro spettacolo-cerimonia. A pochi passi da me una madre stringeva il suo bambinetto, gli indicò la luce rosa che invadeva il cielo mentre il sole sprofondava nell’acqua e gli disse: “Vedi, è lì che sono tutti, è lì che andremo tutti, non saremo persone, ma faremo parte di quello...”. Il figlio la guardava incantato. Sarebbe meraviglioso se anche finire fosse un altro modo di venire alla luce. Al termine del concerto Bruce Springsteen non saluta con una canzone. Fa una cosa inattesa. Dice a tutti di evocare le persone che hanno perduto, garantisce che sono lì, intorno a noi, la loro energia come luce. China lo sguardo e invita a seguirlo, non in un ritornello familiare ma in una preghiera. Credo che tutta la nostra esistenza sia una preghiera, che tocca a noi esaudire. L’ultimo amore è una grazia che non viene concessa, ma conquistata. L’ho vista negli occhi di Alvin e Gertrud, in quelli dei miei genitori, in quelli di Lana, ma soprattutto in quelli di Carlo, che stavano entrando nell’oscurità, per andare incontro alla luce. Senza affanno, senza paura, senza fine.
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pangeanews · 5 years
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“Noi che viviamo senza fine”. Con Maria Antonietta le storie miracolose di donne imperdonabili. Da Cristina Campo a Emily Dickinson, da Etty Hillesum a Sylvia Plath e Antonia Pozzi, il genio di sparire e il coraggio di essere antipatiche (contro le nostre misere ambizioni)
La prima cosa è la necessità della riconoscenza, la tratta dei maestri, la caccia. Dico questo a Maria Antonietta, la cantante, intanto. Un cantautore pare sul trono dell’ego, spavaldo agli occhi dei fan, spadroneggia quartine, endecasillabi, intelligenza. Lei, invece, si cela all’ombra dei maestri. Tra le Sette ragazze imperdonabili (Rizzoli, 2019) incuneate da Maria Antonietta nel suo “Libro d’ore” c’è anche Etty Hillesum, la donna capace di vedere una benedizione nello sterminio.  “Talvolta, ora, inginocchiarsi diventa un’urgenza irresistibile”, scrive la Hillesum nel suo diario. Di questa necessità di abbandonarsi, di cedere, bisogna dire, aderire. E scrive, poi. “Io, sono di un’ambivalenza sconvolgente”.
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Rimini, sabato, primo incontro del ciclo “Nemesis”, Museo della Città. Vorrei convincere Maria Antonietta ad adorare la Pietà del Giambellino, ma lei si orienta verso le crocefissioni, così crude, del Trecento riminese. Io paganeggio, sto nei paraggi dell’idea del corpo, lei è incarnata: il cristianesimo è pasto.
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Davide come Shining visto da Alessandro Carli
Mi parla degli anni della solitudine, del desiderio di concludersi al di là della musica, di scendere dal palco tuffandosi in altre vertigini. Quattro anni. Tra Sassi e Deluderti, suppongo. “Quattro anni nel mondo della musica sono una eternità”, dice. Agli occhi degli altri pare riottosa. È una che non arretra. Sul braccio destro si è tatuata Giovanna d’Arco. Così fa parlare la vergine guerriera nel suo libro: “Io assomiglio a un sasso, uno di quelli freddi e inermi dall’inizio del mondo, entità incapace di pensare, un grumo di essere solo lievemente consapevole della propria stessa vita. In uno stato quasi d’incoscienza, ripercorro la strada di terra che attraversa il villaggio, questa volta al contrario, nel fresco della notte, superando le case e i piccoli recinti delle capre sul fianco del ruscello d’argento”.
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Quando dice “sono cattolica”, lo dice senza indecisioni. Così, le parole che ci scambiamo, dedizione, obbedienza, stare nell’arte come in un monastero, hanno un valore diverso. Non più astratto – per indorare una intenzione vaga, a vigore di pubblico, uno yoga dell’assoluto – ma di claustrale concretezza.
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Se si è sé, riconosciuti al proprio talento, a un destino che è un viaggio indirizzato dall’altro, si diventa ostacolo, spina, contraddizione, carne che ulcera. In fondo, Maria Antonietta scrive del privilegio di essere antipatici, atipici. “Non si sono piegate ad alcuno stereotipo, non si sono conformate a nessun cliché, non hanno compiaciuto nessuna aspettativa. Sono state per lo più impazienti. Sono state radicali e poco accomodanti. Sono state tremendamente oneste. A dirla tutta sono state piuttosto antipatiche”.
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Come si sa, le poesie di Cristina Campo sono rade, rare. La sua attività lirica, piuttosto, è un gesto di costante, penetrante riconoscimento. Ha prestato il suo verbo, che tintinna come una legge e un canto, instaurando patti con John Donne e Giovanni della Croce, con Emily Dickinson e William Carlos Williams, tra i tanti. Amo questa poesia, che ha letto con nitore malatestiano Gianluca Reggiani:
Maria Luisa quante volte raccoglieremo questa nostra vita nella pietà di un verso, come i Santi nel loro palmo le città turrite?
La primavera quante volte turbinerà i miei grani di tristezza dentro le piogge, fino alle tue orme sconsolate – a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non basterà tutto un Natale A scambiarci le favole più miti: le tuniche d’ortica, i sette mari, la danza sulle spade.
“Mirabilmente il tempo si dispiega…” ricondurrà nel tempo questo minimo corso, una donna, un àtomo di fuoco: noi che viviamo senza fine.
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La parte consistente dell’opera di Cristina Campo è un atto di gratitudine, parola in cui lei non si esprime, si comprime e scompare. Le traduzioni, in cui vive all’ombra di parole di altre. I testi – folgoranti – in cui introduce alla lettura dei padri del deserto, dei mistici, dei ‘folli di Dio’. Soprattutto, le lettere. L’opera memorabile della Campo, totalmente postuma, si sviluppa nelle lettere. La lettera, per sua natura, è una relazione privata, si priva di altro pubblico che il destinatario di quel foglio. Ed è lì, con gratitudine imperdonabile, che la Campo si cede senza cessioni, si sbriciola. La lettera non ha altra ambizione che svanire, dopo che è stata letta – se sarà letta – è tutta lì sulla cresta del rischio.
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Scrive Maria Antonietta: “Ho il dovere della stabilità, come un benedettino, come tutte le piante che dove radicano restano e assolvono al proprio dovere”. Il bello delle radici è che partono da un luogo preciso, ma poi dove attraccano, dove arrivano? Ci sono radici verticali, atte al profondo, altre che si spalancano come mani, in sequenza, o come labirinti. E che sviluppo ha la chioma?
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Ci si dedica all’arte soltanto con una totalità selvatica, feroce agli altri, finché i volti di chi ci ama diventano lupo, vogliono azzannarci.
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Allineo i ‘maestri’, le sante laiche censite da Maria Antonietta. Emily Dickinson si trincera in casa, scrive nascondendo; Marina Cvetaeva “Fu sepolta in una sorta di fossa comune del cimitero di Elabuga, su una collina, tra alberi di pino. Senza una lapide. La tomba di Marina Cvetaeva non esiste” (Serena Vitale); Etty Hillesum scompare nel ventre nero di Auschwitz; Giovanna d’Arco è incenerita dal fuoco; Antonia Pozzi si ammazza davanti all’abbazia di Chiaravalle, cedendo ai posteri le sue poesie rarefatte; Cristina Campo fa eremo nel proprio appartamento romano; Sylvia Plath s’inghiotte nella voragine del forno, lasciando i sopravvissuti a celebrarla. Ciascuna di queste grandi personalità ambisce alla sparizione, si annienta, in un modo o in un altro. La loro opera è un tormento di torce nel vuoto: ci lasciano un cartiglio in cenere. Sopravvalutiamo l’inutile, senza capire che il complimento è un sopruso. Stare alla grazia della sparizione è spaventoso, è miracolo. (d.b.)
*In copertina: Maria Antonietta a Rimini, fotografata da Alessandro Carli
L'articolo “Noi che viviamo senza fine”. Con Maria Antonietta le storie miracolose di donne imperdonabili. Da Cristina Campo a Emily Dickinson, da Etty Hillesum a Sylvia Plath e Antonia Pozzi, il genio di sparire e il coraggio di essere antipatiche (contro le nostre misere ambizioni) proviene da Pangea.
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Ho talmente tanto bisogno di coccole e affetto che, per venire a fare pipì, ho chiuso la porta di camera mia per non far andare via il cane dalla stanza e potermelo abbracciare finchè non mi addormento. Questi sono seri problemi di solitudine e non mi porteranno a niente di buono perchè la solitudine fa accontentare e io non voglio accontentarmi del primo che passa. È vero che le cose facili non mi sono mai piaciute, quindi mi prendo le conseguenze dell'aver sempre scelto le strade più difficili, ripide ed insidiose, ma così non reggerò per molto.
"Ma come sarai" mi rimbalza in ogni lato della testa e mi domando: come sarò? Dimmelo tu perchè io penso di conoscermi abbastanza bene. Son curiosa di vedere cosa avverrà da domani in poi ma la fretta che porto dentro non fa per niente bene a nessuno, non a caso mi son tatuata "one step at a time".
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viaggiatricepigra · 2 years
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𝑳𝒆 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒑𝒆𝒄𝒄𝒂𝒕𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆 𝒅𝒐𝒏𝒏𝒆, 𝒅𝒂𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝑬𝒗𝒂 𝒆' 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒂 𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒊𝒎𝒂 𝒂 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒓𝒆 𝒖𝒏 𝒑𝒆𝒄𝒄𝒂𝒕𝒐, 𝒃𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒇𝒂𝒕𝒕𝒊𝒔𝒑𝒆𝒄𝒊𝒆 𝒊𝒍 𝑭𝒓𝒖𝒕𝒕𝒐 𝑷𝒓𝒐𝒊𝒃𝒊𝒕𝒐. 𝑪'𝒆' 𝒄𝒉𝒊 𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒆' 𝒑𝒆𝒓 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒕𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒄𝒊𝒃𝒊 𝒂𝒔𝒔𝒐𝒄𝒊𝒂𝒕𝒊 𝒂 𝒑𝒆𝒄𝒄𝒂𝒕𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒇𝒓𝒖𝒕𝒕𝒊. Non sapevo cosa aspettarmi, ma la copertina e la trama mi hanno immediatamente conquistato, attirandomi verso questa novità che non mi è dispiaciuta. Il romanzo è molto scorrevole e piacevole. La storia è tutta narrata da May, una quattordicenne che si trova orfana, sola e disperata dalla fame che un giorno tenta di rubare del pane. Ciò sarà l'inizio di una nuova "maledizione" per lei, poiché la sua pena sarà diventare una mangiapeccati. Una figura molto importante nella società, ma una reietta: porta conforto a chiunque stia per morire facendosi confessare i peccati commessi (ognuno con una pietanza di riferimento) che verranno cucinati alla morte e che lei dovrà mangiare per assumerli su di sé, liberando l'anima del peccatore da quel fardello. La mangiapeccati viene marchiata con un collare con una S (Sin Eater) e la stessa lettera tatuata sulla lingua. Le viene imposto il silenzio e la solitudine, poiché nessuno la vuole ascoltare né vedere, figuriamoci essere toccato... Continua ⬇️ https://www.instagram.com/viaggiatricepigra/p/CZB11wOMwn4/?utm_medium=tumblr
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