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museoweb · 3 years
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Giovanni Boldini - Il conte Robert de Montesquiou - 1897
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chez-mimich · 5 years
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HELLA JONGERIUS A LAFAYETTE ANTICIPATION
In fatto di “concept store” (anche se in realtà si tratta di una fondazione), forse non è un’idea nuovissima, ma è certo che “Lafayette Anticipation” nella sua strategica collocazione nel cuore del Marais, è davvero un gran bel posto. Lasciate perdere la consueta idea di lusso, che qui, nel quartiere più esclusivo/inclusivo di Parigi, è davvero poca cosa, qui tutto è “ricercato” nel senso etimologico del termine. Nello spazio di duemila e duecento metri quadrati, realizzato con il solito minimalismo impalpabile dal grande Rem Koolhaas (per quei pochi che non lo ricordassero, l’architetto della Fondazione Prada di Milano), sono ospitati un atelier di produzioni artigianali, una “torre” per le esposizioni, un “passage” all’aria aperta che richiama la tradizione dei piccoli “passages” parigini del XIX secolo, un ristorante il “Wilde & the Moon” con ingredienti esclusivamente “bio”, chef nutrizionisti e naturopati, lo store il cui nome è tutto un programma: “À Rebours” (chi non ricorderà, il romanzo di Joris-Karl Huysmans, detto “la Bibbia del decadentismo?), che mette in vendita pochi, pochissimi oggetti e suppellettili dalle forme nuove e soprattutto, rispettosi dei materiali e del saper fare dei suoi realizzatori. Oggi, non posso perdere l’occasione di visitare, nella essenziale e post-industriale torre, le creazioni di Hella Jongerius che intitola la sua esposizione “Entrelacs, une recherche tissée”. Si tratta proprio di nuovi tessuti e quando si dice nuovi si intende davvero nuovi. L’artista-artigiana ha redatto con Louise Schouwenberg un manifesto d’intenti intitolato “Beyond the New York” che contesta fermamente il desiderio frenetico di novità a favore dei cosiddetti “saper fare fragili”, ovvero l’attenzione verso considerazioni etico-sociali e il bisogno di referenze comuni anche nella creazione artistica e “tessile” in particolare. Non si tratta solo, come si può essere indotti a credere, di materiali riciclati o eticamente corretti, ma anche di grandi idee come il rapporto con la luce, la semplicità dei materiali, la loro economicità e, soprattutto, una certa presa di coscienza del processo produttivo. Certo se venite una volta a Parigi potete sempre andare a fare una fotografia sotto la cupola dei magazzini sul Boulevard Haussman, ma se ci venite spesso, ricordatevi del numero 9 di Rue du Plâtre nel Marais.
Parigi, agosto 2019
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pangeanews · 5 years
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Senzatetto, mezzo gangster, dandy, fratello in spirito di Rimbaud e seguace di Lanza del Vasto: ecco chi è stato Luc Dietrich. Oggi compie gli anni, pubblicatelo come si deve, please
Avevo sistemato sul letto i miei vestiti spazzolati e con le pieghe stirate, la mia camicia preferita e la cravatta di seta […].
Mi avvicinai allo specchio, per distendere sotto il rasoio la barba di un giorno che mi adombrava la guancia.
Ma rimasi immobile con la lama in sospeso, perché l’occhio, colpendo l’occhio in quello specchio, tornò indietro e si fece largo fin nella cavità interiore. E per la prima volta, in mezzo alla sua oscurità e al suo fruscio, scoprii una sala con un alto soffitto a volta nella cavità interiore: una cappella che non aveva mai visto la luce del giorno. E da che essa si aprì, dovetti indietreggiare a causa dell’odore che emanava. Il primo raggio di luce non vi discese dritto fino al suolo, ma tremò e si offuscò a metà strada, nell’aria densa. Le immondizie ingombravano l’altare, e vi regnavano le blatte e gli animali lividi che si nutrivano di marciume e i suoi flaccidi vegetali dalle spine di ferro.
Sotto la loro massa si sentiva però la nitidezza delle lastre di pietra, l’ossatura delle colonne e lo slancio delle arcate.
Deposi il mio rasoio senz’averlo usato.
Mi stupii d’aver levato ogni singolo giorno, con tanta minuzia e vigilanza, ogni singola macchia con la punta delle mie unghie, intonato il colore delle stoffe con cui mi vestivo, e messo a distanza dai miei sensi ogni polvere e odore, e di non essermi mai preso cura di quella cripta, né saputo che esistesse e che richiedesse delle cure.
Lasciai sul letto i miei vestiti già pronti, mi tenni addosso quelli che avevo e che mi sembravano fin troppo buoni.
***
“Va’ pure dove vuoi, cerca quel che ti piace, […] ma altro non troverai che dover sopportare qualcosa”, insegna l’Imitazione di Cristo, libro II, paragrafo 12, versetto 2.
“Per sopportare questa città voglio costruirmi un sorriso incrollabile. Porto in me questo grande amore”, recita un passo de L’apprendistato della città di Luc Dietrich.
Queste due sentenze sono l’architrave spirituale su si regge il romanzo autobiografico di questo misconosciuto autore francese, nonché grande fotografo in particolare della natura, di piante, fiori e foglie, finora mai tradotto in italiano ma più volte riedito nel suo paese e oggetto tra l’altro di una riscoperta da parte della stessa municipalità di Parigi, luogo (raggiunto in giovane età salutando Digione – dov’era nato nel 1913 da madre tossicomane) di un apprendistato, come recita il titolo, certo della città, ma da leggersi anche e se non altro per la chiara assonanza nella lingua originale, della vita.
Un romanzo che con Le Bonheur des tristes [La felicità dei tristi] (libro che fu candidato al premio Goncourt – in una metà anni Trenta piena di fermento) va a comporre un dittico di volume diseguale e ad aggiungersi alla lunga serie di odissee metropolitana della letteratura del Novecento, dai capolavori di Hamsun (La fame), Miller (Tropico del cancro), Céline (Morte a credito), Cendrars (Rapsodie gitane), ai racconti di Bukowski, definendo un naturalismo sui generis, anche “interiore” che aggiorna le esperienze di Zola (Il ventre di Parigi), Huysmans (In cammino) e Bloy (Il disperato).
Certo, pure in presenza di non poche affinità, il confronto con i grandi d’inizio secolo (Proust, Joyce, e quelli già citati), specie dal punto di vista formale, può vedere Dietrich soccombere, essendo un “romanziere maldestro ed eccessivo”, come ha scritto Lanza del Vasto, filosofo e pensatore religioso d’origine brindisina e nobile, che incontrò nel parc Monceau e che molto aiutò Luc (o meglio l’allora Raoul-Jacques), e per esempio spronandolo a rielaborare quest’opera, che gli metterà tra le mani un manoscritto d’amanuense.
*
La scrittura di Dietrich, certo a tratti rapsodica e a un tempo aspra, solo in parte influenzata dal clima avanguardista della Parigi letteraria di quegli anni, trova una coesione tra forma e senso che sbalordisce, e pure in periodo di scuole (su tutte quella surrealista), è corpo, anima e scrittura individuale, autonoma da ogni movimento e velleità “sperimentali” in senso stretto, e (questo è ciò che importa) privo di ogni complicazione, per non dire di volontà di rivoluzione, nel definire il proprio stile personale.
Tale stile è coerente col suo corpo (si dirà: i suoi stati corporei) e la sua anima (si dirà: i suoi stati d’animo), in un apprendistato della città e della vita che lo vede poveraccio senzatetto, trafficante-politicante mantenuto, mezzo gangster e mezzo seduttore (spesso pure di ragazzine), dandy mai totalmente disinvolto e noncurante, eterno vagabondo, vero fratello in spirito di Arthur Rimbaud e Joseph Roth, ed è l’esito dello sguardo di un uomo che tutto ha visto e udito, sofferto e riflettuto, disperato e sperato.
Quella di Dietrich è una sincerità ai limiti del masochismo, più prossima a quella del sonnambulismo dandy del Baudelaire dello spleen – in Histoire d’une amitié del Vasto parla letteralmente de “l’immunità e l’innocenza del sonnambulo” – e, via Quincey, di certe pagine de I paradisi artificiali, nonché di Drieu, o alla scrittura visionaria del Dostoevskij recluso nelle Memorie della casa dei morti, ed è da annoverare tra i grandi saggi, pazzi e santi laici, spesso pure martiri, di cui scrivono sia Miller, con riferimento a L’idiota dostoevskijano, che del Vasto, e tra i grandi autori di una confessione.
Con semplicità di sguardo (certo non di meditazione), Dietrich dice l’intimità anche umiliante e la vera condizione umana, senza ideologia ma con religiose (Dio e la Grazia esistono), da uomo-bambino, da bambino-uomo, vittima di un mondo i cui ingranaggi (non di metallo ma umani) tendono allo stritolamento di quel debole che dice di essere, lui che passò due anni in un asilo per bambini anormali, dopo la morte del padre, cui seguirà quella della madre, per tetano, a Parigi…
*
È il 1931 e Luc si è già trasferito a sua volta a Parigi, dove, caduto da un ponte in un folle gesto d’amore, fa un incontro capitale per la sua vita. È il medico e scrittore Luc Durtain, che lo cura, lo sprona e gli fa anche pubblicare una plaquette di poesie, Huttes à la lisière [Capanne sui margini]. Il futuro scrittore vive però da vagabondo, solitario e in povertà finché non incontra Rose, l’Arlette de L’apprendistato della città, alla quale si lega. In una fase di agio economico ma anche di tentativi di rottura da quella vita falsa, l’incontro con del Vasto, la cui povertà è per lui una rivelazione.
Il filosofo gli farà da guida tanto a Parigi quanto in un viaggio in Toscana e nella scoperta dell’arte di Piero della Francesca e di Paolo Uccello. E dall’arte pittorica e architettonica approda alla fotografia, cui si appassiona, immortalando i monumenti italiani così come le sue amate piante. È dall’alto dei suoi due metri che si china per fotografare i vegetali, cogliendo nella loro capacità di sofferenza uno specchio del proprio vissuto. Ma a metà anni Trenta, tornati a Parigi, del Vasto è insegnante e poi precettore a Versailles, mentre Dietrich, in miseria, lavora come lavapiatti.
Rose, cui Luc resterà legato per tutta la vita per le sue elargizioni, gli propone del denaro, che riceve invece da Denoël per Le Bonheur des tristes. Andrà in Alsazia, Olanda e Inghilterra per dei reportage fotografici in cui accosta immagini e parole, come in Terre [Terra], sempre per Denoël. Ma ogni volta che l’amico, sorta di figura paterna, è in viaggio, in un caso per un intero anno in India, Luc si ritrova solo, depresso, in ospedale. Non lavora e medita il suicidio, e poi si mette a vagare per la Francia e a Marsiglia conosce la contessa Lily Pastré, una ricchissima mecenate.
Sarà più volte ospite nel suo palazzo, che, venendosi a trovare in “zona libera”, durante la Guerra darà rifugio a musicisti, intellettuali e artisti. Tra di essi, René Daumal, l’autore de La grande bevuta, che morirà nel maggio del 1944 e la cui ultima foto sarà uno scatto dello stesso Dietrich. In quegli anni tenta per la prima volta di stabilirsi in un posto e di disciplinarsi secondo gli insegnamenti di Georges Gurdjieff, e lavora a un libro. È tuttavia più volte ricoverato per la sua salute cagionevole, l’ultima per una ferita rimediata sotto il bombardamento di Saint-Lô, in Normandia.
È il giugno del 1944 e sta lavorando a un progetto dedicato a malati di mente: come ricorda Patrice Delbourg ne Les Désemparés, vero e proprio catalogo di scrittori sventurati, Dietrich, “gioca al dottore, vestito di un camice bianco, distribuendo parole di conforto ai feriti”, quando d’improvviso dal cielo piove una nuova ondata di obici che va a straziare il villaggio della Manica e la vita del poeta; il piede sinistro resta ferito e gli s’infetterà: la setticemia gli arriverà al cervello.
Marco Settimini
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Dicevo, certo, ho fatto cose di cui non vado fiero. Cose ingiuste, crudeli, è ovvio. Ma guardate qui. In A Rebours, il romanzo di Huysmans, c’è questa storia: il protagonista, Des Esseintes, incontra un ragazzo, un orfano della Parigi di fine Ottocento, in mezzo alla strada e lo porta in un bordello di alta classe, gli offre vini pregiati, gli regala abiti costosi. Per un paio di mesi paga tutto lui, realizza ogni desiderio dell’orfano. Poi basta, scompare. Si mette a leggere la cronaca ogni giorno, in attesa della notizia che l’orfano, ormai incapace di rinunciare alla bella vita, ha ammazzato e rapinato qualcuno.
Dicevo, questo sì che è crudele, vero? Non da un punto di vista meccanico, certo: tutto sommato, l’orfano ci ha guadagnato. Eppure no, perché gli uomini non sono macchine: la disperazione li scalda come una coperta, abitano l’infelicità come una casa. C’è una responsabilità della consolazione. Fra il canile e l’abbandono non c’è un numero sufficiente di carezze, una giustificazione. 
Ora immaginate, dicevo ancora, quanto è facile sperimentare questa crudeltà mostruosa. Immaginate che qualcuno dica di amarvi, in modo abbastanza convincente da scardinare la vostra incredulità. Immaginate che questo qualcuno vi renda immensamente felice, immaginate di dirgli mi stai rendendo felice, vero che non te ne andrai? Immaginate che dica, è chiaro, no, non me ne andrò. Immaginate che vada via poco dopo, senza nessuna particolare ragione. Così, che si dimentichi della vostra stessa esistenza, smetta di rispondervi alle lettere, al telefono, che diventi irraggiungibile. Come Falstaff ed Enrico V, nell’atto quinto, scena quinta del dramma quasi omonimo:
- Parlo a te, cuor mio! - Non ti conosco, vecchio.
Vedete, è semplicissimo. Farlo, subirlo. Potete provare oggi stesso. Dicevo, ecco, nonostante sia così facile, io questo non l’ho mai fatto. Sono un uomo cattivo, ma ho dei limiti.
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chrt-3 · 4 years
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Giovanni Boldini, Ritratto di Robert de Montesquiou, Parigi, Musée d'Orsay
Il conte Robert Joseph Marie Anatole De Montesquiou-Fézensac, più comunemente noto come Robert de Montesquiou (Parigi, 7 marzo 1855 – Mentone, 11 dicembre 1921), è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese. Omosessuale ed esteta elegante e superbo, imparentato con tutti i più bei nomi dell'aristocrazia francese, e colui che aveva ispirato a Huysmans il personaggio di Des Esseintes.
Il dandismo è un comportamento diffusosi durante la Reggenza inglese e la Restaurazione francese. Proprio dei dandies, consiste in un'ostentazione di eleganza dei modi e nel vestire, caratterizzato da forme di individualismo esasperato, di ironico distacco dalla realtà e di rifiuto nei confronti della mediocrità borghese.
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blogexperiences · 6 years
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Huysmans - Repulsione per la volgarità e l’orrore della banalità
Huysmans – Repulsione per la volgarità e l’orrore della banalità
  FLIP, come scrivevamo ieri, è un angolo di Experiences dove mettere in risalto alcune buone letture. Oggi questo spazio è dedicato a Joris-Karl Huysmans, autore fra l’altro del famosissimo “À rebours” (Controcorrente), che Guy de Maupassant definì come la «storia di una nevrosi», vissuta nella Parigi fin de siècle dall’unico personaggio del romanzo, Jean Floressas Des Esseintes , ma in realtà…
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enjoyyourart-blog · 7 years
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Paul Gauguin, Autoritratto del 1893 e Autoritratto nell'anta dell'armadio 1889  (Musée d'Orsay, Parigi)
« L'anno scorso, P. Gauguin espose per la prima volta; era una serie di paesaggi, una diluizione di opere ancora incerte di Pissarro; quest'anno, P. Gauguin si presenta con una tela tutta sua, che rivela un incontestabile temperamento di pittore moderno. Porta il titolo: Studio di nudo: non ho timore di affermare che tra i pittori contemporanei che hanno lavorato sul nudo, nessuno ha ancora dato una nota così veemente [...] Che verità, in ogni parte del corpo, in quel ventre un po' grosso che cade sulle gambe »  ( Joris-Karl Huysmans )
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museoweb · 3 years
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Jean-Louis Forain - Joris-Karl Huysmans - 1878
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museoweb · 3 years
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Henri Gervex - Rolla - 1878
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museoweb · 3 years
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Pierre Puvis de Chavannes - Giovani donne al mare - 1879
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museoweb · 3 years
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Gustave Moreau - L’apparizione - 1876
Moreau
Finché la feroce Salomè del Museo d’Orsay, quasi nuda nell'ardore della danza, giorno dopo giorno sensualmente trasforma il suo ingrato amore in morte e cupo dolore, il Mondo non merita la fine del mondo.
Fryderyk Leposki
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museoweb · 3 years
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Edgar Degas - Assenzio - 1875
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museoweb · 3 years
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Odilon Redon - Cristo in croce - 1910
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museoweb · 3 years
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Edouard Manet - Stéphane Mallarmé - 1876
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museoweb · 3 years
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Joris-Karl Huysmans critico d’arte Da Degas a Grünewald
Museo d’Orsay Parigi 26 Novembre 2019 - 1 Marzo 2020
Musée des Beaux Arts Strasburgo 2 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021
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Francesco Vezzoli rilegge la mitica figura del critico d'arte e scrittore Joris-Karl Huysmans, per una mostra  dal fascino decadente
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chez-mimich · 7 years
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LE SERATE DI MEDAN
Ho cominciato a leggere questo bel volume rilegato solo perché me l'ero ripromesso. Era una promessa che mi ero fatto nel dicembre del 1971 quando arrivò in casa mia un'imponente collezione di classici della letteratura che mio padre volle comprare. Insieme alla collezione di più di cento volumi, arrivò anche una libreria, nemmeno troppo pacchiana. E così con quasi cinquant'anni di ritardo, qualche settimana fa ho preso tra le mani il volumne in brossura e ho incominciato a leggerlo. Certo che la descrizione del mulino del vecchio Merlier, nel primo racconto proprio di Zola, "L'attacco al mulino", può provocare due reazioni opposte: o ci si appassiona alla scrittura "naturalista" del suo caposcuola, oppure ci si rimangia la promessa, si ripone il bel volume e si passa ad altro, poiché "...I, fascino di Reocreuse è la frescura di questa buca di verzura nelle giornate più calde di luglio e agosto. La Morelle scende dai boschi di Gagny e sembra che si porti via il freddo del fogliame sotto il quale scorre per leghe, reca i rumori mormoranti, l'ombra gelida raccolta nelle foreste... (pagina 19), è qualcosa per stomaci forti o per grandi lettori, e non avendo lo stomaco forte, presumo di essere un grande lettore. Anche perché la vicenda proprio originalissima non è. Nella guerra franco-prussiana, il paese viene circondato dai prussiani e all'arrivo dei francesi per difendere il paese, pensano bene di fare del mulino di Merlier (che è anche sindaco del paese), il loro quartier generale. Naturalmente la figlia di Merlier che il traduttore si ostina a chimare Francesca (del resto cento classici più la libreria qualche sorpresa dovevano pur riservarla), si innamora di un fannullone belga, tale Domenico (nome tipicamente belga). Questo Domenico invece di farsi gli affari suoi, al sopraggiungere delle truppe francesi decide di mettersi a combattere col risultato di essere fatto prigioniero. Francesca tenta invano di farlo fuggire e alla fine Domenico, Francesca e Merlier vengono fucilati dai prussiani. E uno. Il secondo racconto è "Palla di sevo" (almeno nella traduzione di Franco della Pergola), l'autore Guy de Maupassant. Anche qui, sullo sfondo la Guerra franco-prussiana e un gruppetto di "sfollati", borghesotti e bottegai che cercano riparo dalla guerra trasferendosi da Rouen a Dieppe. Palla di Sevo è una mignotta che, una volta fermati ad un posto di blocco, l'allegra combriccola supplica perché si sacrifichi in nome della "causa" che null'altro è che la tranquilla prosecuzione del viaggio. Come si dovrebbe sacrificare? Beh nel modo che si sacrificano tutte le mignotte del mondo: "Non staremo mica qui a morire di vecchiaia! Dato che è il suo mestiere, di quella baldracca, di far questo con tutti gli uomini, penso che non abbia il diritto di rifiutare l'uno piuttosto che l'altro..." (pagina 92). Il gioco riesce e tutti vissero felici e contenti. Ma cos'è il sevo? È la traduzione più ridicola che elegante di "sego", cioè una sorta di strutto bovino che contiene una non proprio elegantissima allusione alla mignotta. E così arriviamo a Karl Huysmans, l'autore del decadentissimo "À rebours", che si cimenta con "Zaino in spalla" che dovrebbe essere , almeno nelle intenzioni dell'autore, una feroce critica antimilitarista ma che si rivela essere ben poca cosa, diario di un soggiorno in ospedale di due commilitoni tra suorine, infermieri, medici burberi e chinino. Francamente ho letto di meglio, anche di molto meglio. Subito dopo lo stucchevole "Zaino in spalla" ecco la chicca di tutto il volumone; si tratta di "Il salasso" del poco conosciuto e dell'ancor meno celebrato Henry Cèard. Parigi è assediata dai Prussiani e "l'uomo gallonato" che altri non è che la caricatura del generale Trochu che è il signor tentenna della situazione e che, più interessato alle grazie di M.me Pahauen e meno interessato alle sue truppe le manda al massacro durante l'assedio di Parigi del 1870. Ed è proprio nel ritratto della frivola M.me Pahauen che Cèard sembra dare il meglio di sè: "...Il suo piacere era di gabbare il pubblico, nascondendo vizi eccessivi e raffinatezze che arrivavano sino alla bestialità, sotto l'apparenze di una piccola esistenza borghese virtuosa e tranquilla, poi di riprendere, attaccandosi ad un amante, il tumulto di una vita smarrita (pagina 166). Insomma la figura centrale dell'intero racconto non è l'impacciato generale Trochu, ma lei, M.me Pahauen: "...Alcune sue eccentricità rimasero celebri: una sera ad una cena, era uscita assolutamente nuda da un pasticcio colossale la cui crosta gigantesca si arrotondava sulla tavola; per prima ella aveva fatto quei bagni di champagne che furono poi imitati da dalle attricette in cerca di fantasia e a corto di immaginazione..." (pagina 166). Peccato che M.me Pahauen fosso solo una prostituta e, nonostante il romanticismo, le prostitute il mondo non lo hanno mai redento: "...Le corte intelligenze popolari", taglia corto Céard, ".,,semore portate alla glorificazione e al simbolismo, vedevano in lei non si sa quale personaggio straordinario che jncarnava nella città in armi la gaiezza francese resistente agli scacchi, che trionfava in tutti i disastri..." (pagina 173). Nonostante "grazie all'onnipotenza del suo sesso e alla strapotenza della sua depravazione", ella dominasse ancora, M.me Pahauen non poté impedire di vedere la sua Parigi, mortificata e offesa sotto i colpi dei Prussiani. Racconto triste, la cronaca di guerra sacrificata con successo alla costruzione del suo personaggio. La pratica de "La faccenda del Gran 7" di Léon Hennique si può chiudere in due parole: la cronaca di uno scontro tra truppe su una piazza d'armi. Una cronaca appunto, forse più degna di un giornale d'epoca che ad una raccolta di racconti. "Dopo la battaglia" di Paul Alexis, conclude l'antologia dedicata al conflitto franco-prussiano è la cronaca di un soccorso quello del soldato Gabriel Marry, raccatato sul campo di battaglia dalla vedova del barone di Plémoran che lo carica sul calesse dove ha già preso posto il marito, appunto il barone di Plémoral, morto. Con quella amabile compagnia lo sventurato Marry riesce a fuggire dal luogo della battaglia e corona la sua fuga con un bacio alla vedova-vetturina (delle pompe funebri). La descrizione "naturalista" sembra essere spesso troppo "naturalista", quasi una caricatura della realtà. Nessun sussulto nella narrazione, solo quello della carrozza in fuga ad eccezione di qualche bella "madleine" della vedova, come quando rimemora i primi appetiti sessuali: "...Attraverso una siepe ella aveva ascoltato i gridolini di una contadina, rovesciata, nell'erba falciata, da un garzone della fattoria..." (pagina 230). Parafrasando Eco pochi clamori tra il Rodano e la Loira...
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