Tumgik
#dispute sulla verità e la morte
ilmomentoingiusto · 1 year
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Ognuno di noi abita una «casa» - chiamiamola così. Attorno, a perdita d’occhio, la brughiera. Il fuoco è acceso, la tavola imbandita. Ma capita, guardando verso la finestra, che il vento ci faccia credere di trovarci là fuori - e ci si dimentichi di dove siamo davvero. Si è a «casa». Sin da prima dell’inizio dei tempi. Ci rimarremo in eterno; la casa sarà sempre più accogliente. E invece crediamo di vivere nella terra inospitale che ci ha ghermito con il vento. Stando là fuori diciamo: «Ecco il mondo; questa è la vita che ci è toccata». Ci crediamo mortali. Ma quando si muore non si va da qualche parte. Ci si risveglia accanto al fuoco. Non più ingannati dal vento. Né intimoriti dalle ombre e dal gelo della brughiera.
Emanuele Severino, Dispute sulla verità e la morte
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ilquadernodelgiallo · 3 years
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Naturalmente si deve accettare come presupposto l'esistenza di dispute tra psicologi cognitivi, filosofi della mente e neuroscienziati su cosa sia la coscienza. Il fatto che la suddetta domanda venga posta almeno dai tempi dell'antica Grecia e dai primi buddhisti indica che la specie umana presuppone, da un certo punto in poi, la propria coscienza, e che la coscienza ha un certo effetto sul nostro modo di vivere. Per Zapffe, l’effetto è «una violazione nell’unità della vita, un paradosso biologico, un abominio, un’assurdità, un’esagerazione di natura disastrosa. È la vita che oltrepassa il suo scopo, e lo fa a pezzi. Una specie è stata armata troppo pesantemente, da uno spirito onnipotente esterno a essa, ma ugualmente minaccioso per il suo benessere. La sua arma è come un gladio senza l’impugnatura o la lama, una spada a doppio taglio che fende qualsiasi cosa; chi la brandisce però deve afferrare la spada e volgere una lama contro di sé.» [Wessel Zapffe, L'ultimo messia] _______________ «Perché» si chiede Zapffe «l’umanità non si è estinta già da tempo nel corso delle grandi epidemie di follia? Perché soltanto un numero discretamente piccolo di persone muore non riuscendo a sostenere lo sforzo del vivere? La coscienza dà loro un carico più difficile da portare?» Questa la risposta di Zapffe: «La maggior parte delle persone impara a salvare se stessa limitando artificiosamente la capacità della coscienza». _______________ Sappiamo di essere vivi e sappiamo che moriremo. Sappiamo anche che soffriremo durante la vita, prima della sofferenza – lenta o veloce – che ci condurrà alla morte. Questa è la conoscenza di cui «gioiamo» in quanto organismi più intelligenti a nascere dal ventre della natura. Stando così le cose, ci sentiamo imbrogliati se per noi non c’è altro che sopravvivere, riprodursi e morire. Vogliamo che ci sia qualcosa oltre a questo, o almeno pensare che ci sia. È questa la tragedia: la coscienza ci costringe alla posizione paradossale di doverci sforzare a vivere inconsapevolmente ciò che siamo, pezzi di carne destinata a corrodersi su ossa che vanno disgregandosi. ________________ Come accennato sopra, Zapffe arriva a due centrali conclusioni riguardo al «problema biologico» dell'umanità. La prima è che la coscienza era andata troppo oltre per essere un attributo tollerabile dalla nostra specie, e minimizzando questo problema siamo costretti a minimizzare la nostra stessa coscienza. Tra i tanti modi in cui questo può essere fatto, Zapffe sceglie di dedicarsi a quattro principali strategie: «1. ISOLAMENTO. Per non vivere precipitando nella trepidazione, isoliamo i fatti terribili dell’essere vivi, relegandoli in un remoto comparto della nostra mente. [...] 2. ANCORAGGIO. Per stabilizzare le nostre vite nelle acque tempestose del caos, cospiriamo per ancorarle in verità metafisiche e istituzionalizzate – Dio, Moralità, Legge naturale, Patria, Famiglia – che ci inebriano facendoci sentire solenni, autentici e al sicuro nei nostri letti. 3. DISTRAZIONE. [...] 4. SUBLIMAZIONE. […] In così tante parole, questi artisti e pensatori confezionano prodotti che offrono una fuga dalla nostra sofferenza, attraverso una sua simulazione artefatta – una tragedia o una distrazione filosofica, per esempio.» _______________ «Nessuno vuole ascoltare quelle ansie che teniamo chiuse dentro di noi. Soffocate l’urgenza di andare in giro a raccontare a tutti le vostre pene e i vostri brutti sogni. Seppellite i vostri morti ma non lasciate tracce. E assicuratevi di continuare a tirare avanti oppure andremo avanti senza di voi» [Zapffe, UM]. Nella sua dissertazione dottorale del 1910, pubblicata postuma con il titolo La persuasione e la rettorica (1913), il ventitreenne Carlo Michelstaedter verificò le tattiche con cui falsifichiamo l’esistenza umana in modo da barattare quello che siamo, o potremmo essere, con una speciosa visione di noi stessi. _______________ Sono i limiti dell’individuo in quanto essere, non l’atto di superarli, a creare l’identità della persona e a preservare in essa l’illusione di essere speciale, non uno scherzo del destino, prodotto di cieche mutazioni. […] La lezione: «Amiamo i nostri limiti, perché senza di essi a nessuno sarebbe permesso essere qualcuno» [Zapffe, UM]. _______________ La seconda delle due conclusioni centrali di Zapffe – che la nostra specie dovrebbe smettere di riprodursi – ci fa venire subito in mente un insieme di personaggi della storia teologica noti come gnostici. _______________ …Philipp Mainländer […] previde un'esistenza non coitale come il più sicuro patto di redenzione per il peccato di essere congregati in questo mondo. Tuttavia la nostra estinzione non sarebbe la conseguenza di un’innaturale castità, ma un fenomeno naturale che si verificherà quando l’uomo si sarà abbastanza evoluto da comprendere che la nostra esistenza è così vana, così senza speranza e insoddisfacente, che non saremo più soggetti a impulsi generatori. Paradossalmente, tale evoluzione verso un disgusto per la vita, verrebbe agevolata dal diffondersi della felicità tra gli uomini. Questa felicità si raggiungerebbe più velocemente seguendo gli insegnamenti evangelici di Mainländer al fine di ottenere la giustizia e la carità universali. Solo realizzando ogni possibile bene ottenibile in vita – così ragionava Mainländer – potremo comprendere quanto poco siano preferibili alla non-esistenza. _______________ Mainländer era certo che la Volontà di morire, che secondo lui sarebbe sgorgata nell’umanità, fosse stata innestata nel nostro spirito da un dio che ha pianificato la propria morte dal principio. L’esistenza era un orrore per lo stesso Dio. Sfortunatamente, Dio era immune agli effetti del tempo. L’unico modo che aveva per liberarsi di Se stesso era attraverso una forma di suicidio divino. Il piano di Dio per suicidarsi non poteva però funzionare fintanto che Egli fosse esistito come entità unica al di fuori dello spazio‑tempo e della materia. Nel tentativo di annullare la Propria unità in modo da potersi dissolvere nel nulla, Si frantumò – come una sorta di Big Bang – nei pezzi dell’universo soggetti al tempo, ovvero tutti gli oggetti e gli organismi che si sono accumulati in giro lungo miliardi di anni. Nella filosofia di Mainländer, «Dio sapeva di poter passare da uno stato di superrealtà al non‑essere soltanto attraverso lo sviluppo di un mondo reale e multiforme». Attraverso questo stratagemma Egli riuscì a escludere Se stesso dall’esistenza. «Dio è morto» scrive Mainländer «e la Sua morte è stata la vita del mondo.» […] Sotto questa luce, il progresso umano non è altro che il sintomo beffardo del fatto che la nostra caduta verso l’estinzione procede di buon passo, poiché più le cose cambiano in meglio, più progrediscono verso una fine certa. _______________ Il bisogno di queste idee nasce dal fatto che l’esistenza è una condizione priva di qualsiasi qualità redentrice. Se così non fosse, nessuno sentirebbe la necessità di idee come la nonesistenza ecumenica, un aldilà felice o il cammino verso la perfezione in questa vita. _______________ Ogni altra creatura del mondo è insensibile al significato. Ma quelli come noi, sul più alto gradino dell’evoluzione, sono saturi di questa brama innaturale, che ogni esauriente enciclopedia filosofica riporta alla voce VITA, SIGNIFICATO DELLA. _______________ Forse potremmo avere una giusta prospettiva sulla nostra scadenza terrena se smettessimo di pensarci come delle entità che mettono in scena una «vita». Questa parola è carica di sfumature di significato a cui non ha alcun diritto. Invece, dovremmo sostituire «esistenza» a «vita» e lasciar perdere quanto bene o male la mettiamo in scena. Nessuno di noi «ha una vita» nel modo narrativo‑biografico in cui intendiamo queste parole. Quello che abbiamo sono un certo numero di anni di esistenza. Non ci verrebbe mai da affermare che un uomo o una donna sono «nel fiore della loro esistenza». Parlare di «esistenza» invece che di «vita» spoglia quest’ultima parola del suo fascino. _______________ In parole povere, non possiamo vivere se non autoingannandoci, mentendo a noi stessi su noi stessi, e anche sull’invincibilità della nostra condizione in questo mondo. […] Isolamento, ancoraggio, distrazione e sublimazione sono tra i sotterfugi che usiamo per impedirci di lasciar dissolvere tutte le illusioni che ci tengono in piedi e in funzione. Senza questo imbroglio cognitivo saremmo messi a nudo per quello che siamo. _______________ A opporsi agli standard assolutisti del pessimismo, per come li abbiamo qui delineati, troviamo i pessimisti «eroici», o piuttosto gli eroici «pessimisti». […] Lo scrittore spagnolo Miguel de Unamuno, nel suo Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli (1913), parla della coscienza come di una malattia generata dal conflitto tra razionale e irrazionale. Il razionale viene identificato con le conclusioni a cui giunge la coscienza, principalmente con il fatto che moriremo tutti. L’irrazionale rappresenta tutto ciò che vi è di irrazionale nell’umanità, compreso il desiderio d’immortalità in uno stato fisico o non fisico. La coesistenza del razionale e dell’irrazionale trasforma l’esperienza umana in un groviglio di contraddizioni davanti alle quali possiamo chinare il capo rassegnati, o sfidarle eroicamente, e futilmente. La preferenza di Unamuno andava alla scelta eroica, posta l’implicita condizione che un individuo possedesse il fegato, fisico e psicologico, per affrontare la lotta. _______________ L’unica differenza è nel fatto che Unamuno, Dienstag e Brashear acconsentono volontariamente a una finzione che la gente comune non riconosce, almeno come regola generale, dato che talvolta anche i comuni mortali sono costretti ad ammettere l’esistenza di questa finzione: è solo che non ci si soffermano abbastanza da farne un punto d’orgoglio filosofico per poi complimentarsi con se stessi. Sodale filosofico di Unamuno, Dienstag e Brashear è il filosofo francese Albert Camus. Nel saggio Il mito di Sisifo (1942), Camus vede nello scopo irraggiungibile del personaggio del titolo una scusa per continuare a vivere anziché smettere. Nel suo commento all’orrenda parabola, insiste: «Dobbiamo immaginare Sisifo felice» mentre spinge il suo masso sulla sommità della montagna da cui rotolerà poi giù, infinitamente, per sua disperazione. _______________ L’obiezione che il pessimista debba uccidersi per essere all’altezza dei suoi ideali è spia, crediamo, di un tale crasso intelletto da non meritare risposta. Risposta che non è tutto questo affanno dare, peraltro. Semplicemente perché qualcuno ha raggiunto la conclusione che la quantità di sofferenza nel mondo è tale che sarebbe meglio non essere mai nati, questo non significa che per forza di logica o per sincerità costui debba uccidersi. Significa solo che ha raggiunto la conclusione che la quantità di sofferenza nel mondo è tale che sarebbe meglio non essere mai nati. […] La morte volontaria può apparire come una linea d’azione totalmente negativa, ma non è così semplice. Ogni negazione è adulterata o furtivamente innescata da uno spirito affermativo. _______________ «Per questa palese sproporzione tra la fatica e la sua ricompensa, la Volontà di vivere ci appare, da questo punto di vista, come una follia, se la consideriamo oggettivamente, oppure, intendendola soggettivamente, come un’illusione, che cattura ogni essere vivente e lo porta a esaurire le sue forze, per conseguire un risultato che non ha alcun valore. Se però esaminiamo le cose con più attenzione, troveremo anche qui che essa è piuttosto un impeto cieco, un impulso completamente infondato e immotivato.» [Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione] _______________ Per gli ottimisti la vita umana non necessita di spiegazioni, non importa quanti dolori si accumulino, perché possono sempre dirsi che le cose andranno meglio. Per i pessimisti non c’è abbastanza felicità – sempre che una cosa simile alla felicità possa essere raggiunta dagli uomini se non attraverso un errato luogo comune – che possa compensarci dei dolori della vita. _______________ In Better Never to Have Been: The Harm of Coming into Existence (2006), Benatar sostiene in modo convincente che, siccome una certa misura di sofferenza è inevitabile per tutti coloro che nascono, mentre l’assenza di felicità non danneggia quelli che potrebbero essere nati ma non lo sono, il piatto della bilancia pende a favore del non mettere al mondo figli. Quindi, chi si riproduce viola ogni sistema morale ed etico concepibile perché è colpevole di infliggere una sofferenza. Per Benatar la quantità di questa sofferenza, che si verifica sempre, non ha importanza. Una volta che la sofferenza è diventata inevitabile con la procreazione di un bel fagottino, è già stato oltrepassato il confine tra un comportamento morale ed etico e un comportamento immorale e non etico. Questa violazione della morale e dell’etica esiste in ogni caso di procreazione, secondo Benatar. _______________ «Le orrende visioni del folle sono tratte dalla materia dei fatti quotidiani.» [William James, Le varie forme dell'esperienza religiosa] _______________ Nella sua conferenza La vita è degna di essere vissuta, James sosteneva che gli esseri umani,  a differenza dei cani, possono immaginare un ordine di esistenza superiore al loro, che possa legittimare le peggiori avversità della vita. _______________ Una volta che i meccanismi repressivi sono stati riconosciuti, devono essere cancellati dalla memoria – o nuovi meccanismi devono sostituire i vecchi – affinché si possa continuare a essere protetti dai bozzoli delle nostre vite. […] Anche se talvolta ammettiamo i mezzucci ingannevoli con cui continuiamo a fare quello che facciamo, si tratta solo di un livello ancora superiore di autoinganno e paradosso, e non della dimostrazione del fatto che risiediamo sulla cima di una metarealtà dove siamo davvero reali. […] Troppi di noi devono intorpidire la propria coscienza in modo da essere molto meno coscienti di quanto potrebbero, questa è la tragedia della razza umana, se qualcuno se lo fosse dimenticato. Quelli che non riescono a farlo ne pagheranno le conseguenze. _______________ Infine, molti di coloro che studiano l'autoinganno credono che noi non siamo in grado di autoingannarci, perché non possiamo consapevolmente sapere qualcosa e non saperla allo stesso tempo, poiché questo genererebbe in noi un paradosso. Ma altri studiosi. Hanno cercato di venire a capo di questo supposto paradosso. Un esempio di tale ragionamento è quello di Kent Bach (An Analysis of Self‑Deception, in Philosophy and Phenomenal Research, 1981), che illustra tre metodi per evitare quei pensieri indesiderati che sarebbero comunque accessibili alla coscienza di un individuo: razionalizzazione, evasione e interferenza. Questi sono identici alle strategie di isolamento, ancoraggio e distrazione evidenziate nella vita umana da Zapffe. Ognuno di questi metodi può mantenere il soggetto in uno stato di autoinganno. _______________ [David Livingstone] Smith è infatti uno psicoanalista e questo è chiaro dalla sua affermazione secondo cui la «costante possibilità dell’inganno è una dimensione cruciale di qualsiasi relazione umana, anche nella più centrale di tutti: la relazione con noi stessi». Per mettere in pratica tale inganno l’individuo deve reprimere la coscienza dell’inganno, cosa che non esclude un autoinganno a proposito della coscienza stessa e di cosa ciò svela sulla vita umana. _______________ «Non è l’anima a essere malata, sono le sue difese che cedono o che vengono rigettate essendo – correttamente – percepite come un tradimento del potenziale più elevato dell’ego.» [Zapffe, UM] _______________ In quanto specie ossessionata dalla sopravvivenza, il nostro successo è calcolato in base a quanto abbiamo allungato l’esistenza media, e la riduzione della sofferenza è solo un effetto collaterale di tale scopo. Restare in vita in ogni circostanza è una malattia che ci consuma. ________________ Per certe persone un sistema che comprende un aldilà di beatitudine eterna non è inutile. Potrebbero affermare che questo sistema è necessariamente utile perché gli dà la speranza di cui hanno bisogno per attraversare questa vita. Ma un aldilà di beatitudine eterna non è, e non può essere, necessariamente utile perché qualcuno ha bisogno che sia così. Fa solo parte di un parametro relativo, nulla di più. _______________ Nessun filosofo è mai riuscito a dare una risposta soddisfacente alla domanda: «Perché deve esistere qualcosa piuttosto che il nulla?». A prima vista sembrerebbe una domanda legittima, ma in fondo qualcuno di noi trova inspiegabile, addirittura illogico, che si arrivi a porla. Il quesito è un chiaro sintomo del nostro disagio nei riguardi del Qualcosa. Al contrario, nel Nulla non c’è niente di preoccupante, perché non siamo in grado di prenderlo in esame. […] Il perturbante genera una sensazione di erroneità. Traspira una violazione che allarma l’autorità interiore riguardo a come una certa cosa dovrebbe accadere, esistere o comportarsi. _______________ Un giorno le scarpe sul fondo dell’armadio attraggono la tua attenzione come mai prima. In qualche maniera si sono separate dal tuo mondo, sono apparizioni a cui non sai dare un posto, brandelli di materia senza qualità e significato stabili. Ti senti confuso mentre stai lì a fissarle. Che cosa sono? Qual è la loro natura? Perché deve esistere qualcosa piuttosto che il nulla? Ma prima che la coscienza possa fare altre domande viene azzerata in modo che le calzature tornino a essere, nella loro esistenza, familiari e non più straordinarie. […] La genialità dell’esempio di Jentsch [Ernest Jenstsch, Sulla psicologia del perturbante] sta nel fatto che egli spiega il perturbante non come qualità oggettiva di un qualcosa situato nel mondo esterno, ma come esperienza soggettiva di chi percepisce il mondo esterno. Così va nella vita reale: il perturbante è un effetto della mente, e basta. Eppure, in questo caso, almeno per l’osservatore medio, il perturbante ha un’origine efficace nello stimolo oggettivo, in qualcosa che sembra sprigionare un potere proprio. _______________ Trasformando traversie naturali in soprannaturali troviamo la forza di affermarne e simultaneamente negarne l’orrore, di assaporarle e al contempo patirle. […] Tramite l’orrore soprannaturale possiamo tirare, senza collassare, i fili del nostro stesso destino di marionette naturali, le cui labbra sono dipinte con il nostro stesso sangue. _______________ Coloro che con più veemenza si oppongono alla declinazione pessimista del determinismo sono i seguaci dell’indeterminismo libertario. Sostengono che noi disponiamo del libero arbitrio assoluto e possiamo divenire individui capaci di scegliere di voler fare una certa scelta e non un’altra. Dichiarano che siamo ciò che Michelstaedter negava potessimo diventare: individui incontestabilmente padroni di se stessi, e non il prodotto di un’indeterminabile serie di eventi e condizioni che risultano nella possibilità, per noi, di fare una sola scelta piuttosto che un certo numero di scelte, perché fattori al di là del nostro controllo hanno già badato a chi siamo come individui e a quali scelte, infine, faremo. Nella storia delle elucubrazioni filosofiche le tesi a favore del determinismo sono tradizionalmente le più contestate. Per quale ragione, a parte il fatto che esso trasforma l'immagine umana in immagine di marionetta? Il motivo è che le tesi a favore del determinismo vanno oltre la sacrosanta fede nella responsabilità morale. […] Nella vita di tutti i giorni il determinista duro e puro non è mai esistito, perché nessuno può affrancarsi dalla sensazione di disporre del libero arbitrio. Il massimo che possiamo fare è dedurre che subiamo determinazioni basandoci sull’osservazione della normale legge di causalità tra le cose del mondo e applicandola a noi stessi. Ma non possiamo percepire noi stessi in quanto determinati (un filosofo ha detto, e forse altri hanno pensato, tra sé: «Si può davvero credere al determinismo senza diventare pazzi?»). Il determinismo nel pensiero e nelle azioni non si può distinguere con l’esperienza, ma può essere soltanto dedotto sul piano astratto. Sarebbe impossibile per chiunque dire: «Io non sono altro che una marionetta umana». L’unica eccezione sarebbe un individuo che, vittima di una malattia psicologica, creda di essere controllato da una forza estranea. Se questo individuo dicesse: «Io non sono altro che una marionetta umana», egli verrebbe spedito seduta stante al più vicino ospedale psichiatrico, presumibilmente colto dall’orrore di aver percepito di essere una marionetta umana controllata da una forza estranea che opera al suo esterno o al suo interno o in entrambi. […] Odiare le nostre illusioni o tenercele strette non fa che legarci più saldamente a esse. Chi tiene al proprio mondo non può contrastarle senza vederlo poi crollare. _______________ In mancanza della sensazione di essere o possedere un io, sarebbe inutile discutere se siamo o non siamo liberi, determinati o una via di mezzo. Perché abbiamo un senso dell’io è stato spiegato in vari modi (per una delle spiegazioni possibili si veda il prossimo paragrafo). Possederlo è ciò che mette sul tavolo il dibattito «libero arbitrio contro determinismo». Anzi, è ciò che mette tutto sul tavolo, perlomeno sul tavolo dell’esistenza umana, perché nient’altro che esista ha la sensazione di essere un io che può fare o non fare qualsiasi cosa a piacimento. _______________ Non ci limitiamo a vivere le esperienze: le possediamo. Questo significa essere una persona. […] Ma la logica non può esorcizzare l’«Io», l’ego che ti guarda dallo specchio, così come la logica non può rimuovere l’illusione del libero arbitrio. _______________ Forse l’unico motivo di interesse nei confronti dell’io è questo: qualunque cosa ci faccia pensare di essere ciò che pensiamo di essere dipende dal fatto che possediamo una coscienza, la quale ci dà la sensazione di essere qualcuno, nello specifico un qualcuno umano, qualunque cosa esso sia, perché una definizione di «umano» condivisa e universale non l’abbiamo. Ma conveniamo che, anche se solo in pratica, siamo tutti io reali perché siamo coscienti di noi stessi. E una volta varcate tutte le soglie che qualificano in qualche modo il nostro io – siano essi il nome, la nazionalità, il genere o il numero di scarpe – eccoci sulla soglia della coscienza, genitrice di tutti gli orrori. E la nostra esistenza è tutta qui. _______________ Nel saggio The Shadow of a Puppet Dance: Metzinger, Ligotti and the Illusion of Selfhood (in Collapse, vol. IV, maggio 2008), James Trafford riassume così il paradosso di Metzinger: «L’oggetto “uomo” consiste di densissimi strati di simulazione, profilattico necessario alla quale, se si vuole tenere a bada il terrore concomitante con la distruzione delle nostre intuizioni a proposito di noi stessi e della nostra condizione nel mondo, è il realismo ingenuo: “La soggettività conscia è il caso in cui il singolo organismo ha imparato a soggiogare se stesso”». La frase che chiude Being No One di Metzinger si può considerare un’estensione del paradosso di Zapffe, per effetto del quale reprimiamo dalla coscienza tutto ciò che nella vita è sconvolgente e orribile. Per Metzinger questa repressione prende la forma del già citato realismo ingenuo, che maschera quella che in assoluto è la più sconvolgente e orribile rivelazione per un essere umano: che non siamo ciò che pensiamo di essere. A mitigare la vertigine di fronte a una così deplorevole illuminazione, Metzinger conferma che è «praticamente impossibile» per noi giungere alla consapevolezza della nostra irrealtà, per via delle manette della percezione umana che abbiamo dentro e che tengono la mente imprigionata nel sogno. _______________ «Un modo – tra un’infinità di modi – di guardare all’evoluzione biologica sul nostro pianeta è considerarla il processo che ha creato un oceano in continua espansione di sofferenza e confusione dove prima non c’era. Poiché a crescere senza sosta non è soltanto il numero dei soggetti consci individuali ma anche la dimensionalità dei loro spazi‑stati fenomenici, questo oceano aumenta anche in profondità. A mio giudizio è una robusta tesi contro la creazione dell’intelligenza artificiale: non dovremmo aumentare questo terribile caos senza prima aver capito a fondo che cosa sta davvero succedendo qui.» [Metzinger, BNO] _______________ Appare improbabile che uno possa mai vedere se stesso com’è nei termini di Metzinger. Vedrebbe l’orrore, allora, e saprebbe di saperlo: gli sarebbe impossibile credere che non è nient’altro che una marionetta umana. E adesso? Risposta: adesso diventi pazzo. […] Adesso sappiamo di essere paradossi perturbanti. Sappiamo che la natura ha sconfinato nel soprannaturale fabbricando una creatura che non può e non dovrebbe esistere secondo le leggi naturali, e invece esiste. Lo sprezzo di Metzinger per il volgare materialismo sembra basarsi sulla convinzione ottimista che la futura tecnologia della coscienza ci porterà in luoghi dove la «forma biologica della coscienza, nel grado di evoluzione a cui è giunta sul nostro pianeta» non ci ha condotti. […] Metzinger deve avere fede nel fatto che quando il resto dell’umanità avrà capito come funziona, giocheremo – in tutta sincerità e senza fingere – in un mondo nel quale, di giorno in giorno, in ogni modo, le cose andranno sempre meglio. Ma ci vorrà del tempo, e parecchio. _______________ Il significato che la nostra vita sembra avere è opera di un sistema emotivo di costituzione relativamente robusta. Mentre la coscienza ci dà l’impressione di essere persone, la nostra psicofisiologia è responsabile del renderci personalità convinte che al gioco dell’esistenza valga la pena di partecipare. Possiamo avere ricordi unici e distinti da quelli di chiunque altro, ma senza le emozioni giuste a rivitalizzarli essi hanno lo stesso valore dei file digitali nella memoria di un computer, frammenti sconnessi di dati che non si uniscono mai in un individuo confezionato su misura per il quale le cose sembrano avere un senso. Puoi concettualizzare che la tua vita abbia un significato, ma se quel significato non lo percepisci allora la concettualizzazione non ha senso e tu non sei nessuno. […] Una brutta depressione invece fa evaporare le emozioni e ti riduce a guscio di persona abbandonata in un panorama brullo. Le emozioni sono il sostrato dell’illusione di essere un qualcuno tra altri qualcuno, oltre che della sostanza che vediamo nel mondo, o crediamo di vedere. _______________ Senza emozioni cariche di significato a tenere il cervello sulla strada maestra, perderesti l’equilibrio e cadresti in un abisso di lucidità. E per un essere cosciente la lucidità è un cocktail senza ingredienti, un intruglio cristallino che lascia i postumi di una sbronza di realtà. Nella perfetta coscienza non c’è che il perfetto nulla, conclusione perfettamente dolorosa per chi cerca di dare un senso alla sua vita. _______________ Questa è la grande lezione che impara il depresso: niente al mondo è intrinsecamente irresistibile. Qualunque cosa ci sia davvero «là» non ha il potere di proiettarsi come esperienza affettiva. È tutta una faccenda vacua dal prestigio unicamente chimico. Niente è buono o cattivo, desiderabile o indesiderabile o chissà cos’altro, tranne ciò che è reso tale dai laboratori interiori che producono le emozioni di cui ci nutriamo. E nutrirsi di emozioni è vivere in maniera arbitraria, inaccurata: attribuire un significato a ciò che non ne è provvisto. E però, che altro modo c’è di vivere? Senza lo sferragliante e inarrestabile macchinario delle emozioni tutto andrebbe in stallo. Non ci sarebbe nulla da fare, nessun luogo dove andare, niente da essere, nessuno da conoscere. Le alternative sono chiare: vivere nel falso, da pedine degli affetti, o vivere nei fatti come depressi o individui a cui è noto ciò che è noto al depresso. _______________ Il motivo: a intimidirci è la depressione, non la follia; a impaurirci è la demoralizzazione, non la follia; a mettere in pericolo la nostra cultura della speranza è la disillusione della mente, non la sua alienazione. _______________ Nonostante sia Schopenhauer che Nietzsche parlino a un pubblico di soli atei, sul piano delle pubbliche relazioni l’errore del primo è il non concedere all’umano alcun prestigio speciale nel mondo delle cose organiche o inorganiche, o di non agganciare alcun significato alla nostra esistenza. Al contrario di Schopenhauer, Nietzsche non soltanto prende le letture religiose della vita tanto sul serio da poterle criticarle in lungo e in largo, ma ha la caparbietà di rimpiazzarle con valori che tendono a un fine e a un senso ultimo, che persino i non credenti bramano come cani: un progetto in cui l’individuo possa perdere (o trovare) se stesso. La chiave della popolarità di Nietzsche tra gli amoralisti atei è il misticismo materialista, un trucchetto mentale che tramuta l’insensatezza del mondo in qualcosa di significativo, e rimodella sotto i nostri occhi la sorte a guisa di libertà. ________________ «In certi casi una persona può sviluppare un’ossessione per la gioia distruttiva, rimuovere del tutto l’apparato artificiale della propria vita e cominciare a farne piazza pulita con orrore ed entusiasmo. L’orrore deriva dallo smarrimento di tutti i valori che gli davano riparo; l’entusiasmo dalla sua ormai spietata identificazione e armonia con il segreto più profondo della nostra natura – l’instabilità biologica, la costante predisposizione a una fine tragica». [Zapffe, UM] In quanto negazione della vita, il pessimismo ha perso un grande portabandiera quando Nietzsche ha cominciato a gioire di ciò che dovrebbe far rabbrividire, una posizione psichica che di per sé è la più paradossale di tutte. __________ Come chi crede nel libero arbitrio libertario, i transumanisti credono che noi possiamo fare noi stessi. Ma è impossibile. Noi siamo stati fatti, lo testimonia l’evoluzione. Non ci siamo tirati fuori da soli dalla poltiglia primordiale. E tutto ciò che abbiamo fatto da che siamo una specie è una conseguenza dell’essere stati fatti. Non importa cosa facciamo: sarà ciò per cui siamo stati fatti e nient’altro. […] Ma non è che l’essere postumani sia un’idea del tardo XX secolo. Nella sua ricerca del «bene» o, come minimo, del meglio, essa ricapitola le nostre più antiche fantasie. […] Per definizione, i transumanisti sono insoddisfatti da ciò che siamo in quanto specie. Naturalmente credono che essere vivi vada bene – anzi, lo credono a tal punto che non sopportano l’idea di non essere vivi e hanno architettato strategie per restare vivi per sempre. Il loro problema è che vorrebbero rendere l’essere vivi qualcosa vada enormemente meglio di ora. E il potere del pensiero positivo non basta a portarli dove vogliono andare. Sono oltre tutto questo, o vorrebbero esserlo. Sono anche oltre la fede in Dio o in un aldilà di eterna beatitudine. […] I transumanisti hanno rimpiazzato l’alternativa alla disperazione del credente con la propria. Partono dal presupposto che trarremo un beneficio enorme dall’autotrasformazione in postumani, ma l’approdo del loro programma rimane sconosciuto. Esso potrebbe inaugurare un nuovo e dinamico capitolo nella storia della nostra razza, così come annunciare la nostra fine. Comunque sia, il balzo che profetizzano sarà anticipato da congegni di ogni genere e in qualche modo coinvolgerà l’intelligenza artificiale, la nanotecnologia, l’ingegneria genetica e altre declinazioni dell’alta tecnologia. Saranno, questi, gli strumenti della Nuova Genesi, il Logos del domani. […] Il transumanesimo incapsula un errore diffuso e longevo tra i portabandiera della scienza: in un mondo che va verso l’ignoto, non ci è dato neanche di iniziare i lavori della nostra Torre di Babele; mettiamoci pure tutto l’impeto e la fretta che possiamo, ma non cambierà niente. Andare verso l’ignoto non è una malattia curabile; se il problema fosse l’andarci alla velocità più alta possibile, forse potremmo risolverlo, anche se probabilmente no. E che differenza farebbe rallentare la progressione verso l’ignoto? […] Ma una possibilità che i transumanisti non hanno preso in considerazione è che l’essere ideale posto al termine dell’evoluzione possa dedurre che il migliore dei mondi possibili è inutile, o persino maligno, e che la miglior strada da imboccare sia l’autoestinzione del nostro futuro io. […] Questo mondo è pieno di gente che non smette di rivolgersi alla scienza chiedendole che la salvi da qualcosa. Altrettanta gente, forse anche di più, preferisce chiedere la salvezza ai vecchi e rispettabili sistemi di credenze, con le loro derivazioni settarie. [...] Crede in qualsiasi cosa comprovi la sua importanza come persone, tribù, comunità, e in particolar modo come specie che resisterà in questo mondo e forse in un aldilà che sarà pure incerto nella sua realtà e poco chiaro nella sua struttura, ma che sazia nella gente la brama di valori non di questa Terra: il deprimente, insignificante posto che la sua coscienza è costretta ogni giorno a schivare. _______________ La prima Nobile Verità [del buddismo] è l’equiparazione tra la vita del comune mortale e il dukkha (che significa pressappoco «sofferenza» ma a conti fatti indica qualunque condizione di pena vi possa venire in mente). La seconda è che a questo mondo bramare qualunque cosa – la salute fisica o mentale, la longevità, la felicità, persino l’eliminazione della brama stessa – è l’origine di ogni sofferenza. Queste due Nobili Verità stanno in cima a una religione che, quanto a disposizioni da seguire per la salvezza, non ha paragoni. Tali disposizioni cominciano con la terza Nobile Verità: che esiste un modo per cessare di soffrire; e continuano con la quarta Nobile Verità: che per liberarsi dai ceppi della sofferenza occorre seguire il Nobile Ottuplice Sentiero, una lista di cose da fare e cose da non fare molto simile al Decalogo dell’Antico Testamento, ma non altrettanto accomodante né espressa in parole altrettanto semplici. […] Eppure buddhismo e pessimismo non si possono districare l’uno dall’altro. Si somigliano troppo per non notarne le affinità. I buddhisti sostengono di non essere pessimisti ma realisti. Lo stesso dicono i pessimisti. _______________ Tutte le religioni devono avere eccezioni, altrimenti imploderebbero sotto il peso delle loro stesse dottrine. _______________ Ma qui sta il vero inghippo: se vuoi diventare illuminato non lo diventerai mai, perché nel buddhismo volere una cosa è esattamente ciò che ti impedisce di ottenere la cosa che vuoi. Detta meno tortuosamente, se vuoi porre fine alla tua sofferenza, non lo porrai mai. È il «paradosso del volere» o «paradosso del desiderio» e i buddhisti sono già pronti a fornire spiegazioni razionali e irrazionali del perché questo paradosso non è un paradosso. […] Non c’è niente di più futile che cercare consciamente, in qualcosa, la salvezza. Ma la coscienza fa sembrare che non sia così. La coscienza fa sembrare che 1) c’è qualcosa da fare; 2) c’è un posto dove andare; 3) c’è qualcosa che si può essere; 4) c’è qualcosa da sapere. […] Il «paradosso del volere» buddhista si può assimilare a un correlativo del paradosso di Zapffe (il paradosso degli esseri consci che cercano di rinunciare alla coscienza delle possibilità palesemente tristi della loro vita). La differenza tra il paradosso del buddhismo e il paradosso di Zapffe è che quest’ultimo non è disponibile a farsi risolvere, spiegare o negare, né razionalmente né irrazionalmente. ________________ Al mercato della salvezza, almeno a prima vista, l’illuminazione sembra l’offerta più conveniente di sempre. Piuttosto che dibatterti in un mondo che non vale il vuoto su cui è scritto, puoi impegnarti a ottenere una visione finale di cosa è e cosa non è. In termini generali, l’illuminazione è la correzione della coscienza e la costituzione di uno stato d’essere in cui l’illusione torbida viene spazzata via e soltanto un diamante di comprensione risplende. È il deserto supremo… se soltanto lo si potesse avere, se avesse una realtà al di fuori dello scalpiccio di locuzioni critiche che vi fanno riferimento. _______________ Come aveva scritto Zapffe molto prima che U.G. [Krishnamurti] cominciasse a fustigare ogni credenza del mondo, qualsiasi attività mentale andata oltre i programmi basilari del nostro animalismo non ha portato che alla sofferenza. («Nell’animale, la sofferenza è confinata in se stessa; nell’uomo apre squarci sulla paura del mondo e sulla disperazione per la vita».) _______________ Ma allora perché continuare a vivere? Naturalmente nessuno lo domandò in maniera così diretta a U.G. Ma la sua risposta giunse: non c’è alcun «tu» che vive, soltanto un corpo la cui unica occupazione è essere vivo e obbedire alla biologia. Ogni volta che qualcuno gli chiedeva come si diventava come lui, U.G. rispondeva che per loro era impossibile anche soltanto desiderare di diventare come lui, perché a spingerli verso l’obiettivo era l’interesse personale, e fintanto che avessero creduto in un io interessato a cancellare se stesso, quell’io si sarebbe mantenuto vivo e non avrebbe voluto la morte dell’ego. _______________ Come cerca di spiegare Segal parlando di sé: «L’esperienza del vivere senza un’identità personale, senza esperire un qualcuno, un “Io” o un “me”, è straordinariamente difficile da descrivere, ma assolutamente originale. È davvero un’altra cosa rispetto a una giornata storta, all’avere l’influenza o al sentirsi turbati, arrabbiati o in estasi. Quando l’io personale sparisce, dentro non c’è più nessuno che si possa localizzare e identificare con te. Il corpo è un semplice contorno, privo di tutto ciò di cui fino a poco prima si era sentito così pieno. La mente, il corpo e le emozioni non si riferivano più a nessuno: non c’era nessuno che pensava, nessuno che provasse sensazioni, nessuno che percepiva. La mente, il corpo e le emozioni continuavano a funzionare indenni, però; all’apparenza non avevano bisogno di un “Io” per continuare come sempre.» [Suzanne Segal, Collision with the Infinite: A life beyond the personal self (1996)] _______________ Gli ego‑morti tornerebbero al punto di partenza della specie: sopravvivere, riprodursi, morire. La consuetudine della natura si ristabilirebbe in tutta la sua insensatezza marionettesca. Ma sebbene si possa considerare il modello perfetto di esistenza umana, di liberazione da noi stessi, l’ego‑morte resta un compromesso con l’essere, una concessione all’errore madornale della creazione. _______________ «Lo scopo della vita umana è stato rivelato. La vastità ha creato questi circuiti umani per avere un’esperienza di se stessa fuori da se stessa che in loro assenza non avrebbe potuto avere» [Segal, CWTI]. Vivendo nella vastità come lei, nulla era inutile per Segal, perché tutto serviva allo scopo della vastità. Ed era una bella sensazione, superata la paura iniziale di essere uno strumento della vastità anziché una persona. _______________ «Trovai che per gli uomini della mia cerchia vi sono quattro vie d’uscita dalla terribile situazione in cui tutti ci troviamo. La prima via è quella dell’ignoranza. Essa consiste in ciò, nel non sapere, nel non comprendere che la vita è male e nonsenso. [,…] La seconda via è quella dell’epicureismo. Essa consiste in ciò: pur conoscendo la situazione disperata della vita, nel profittare per il momento dei beni che ci sono, nel non guardare né il drago né i topi, ma nel leccare il miele nel miglior modo possibile, specialmente se sul cespuglio ce n’è molto. […] La terza via è quella della forza e dell’energia. Essa consiste in ciò, nel distruggere la vita, dopo aver compreso che la vita è un male e un nonsenso. […] La quarta via è quella della debolezza. Essa consiste in ciò, nel continuare a trascinare la vita, pur comprendendone il male e l’insensatezza, e sapendo in anticipo che non ne può risultare nulla. » [Lev Tolstoj, La confessione (1882)] _______________ Il piano qui è cambiare la cornice nella speranza di creare l’illusione che la propria vita abbia un qualche valore. È un piano ateo, non dichiaratamente ma lo è. I teisti non hanno bisogno di cornici per affibbiare alla loro vita un significato, perché credono di poter identificare una cornice assoluta nel Potere Superiore anche se, in fondo, non ci credono. […] La fede in un assoluto o, in alternativa, la fede in una cornice di significato non teistica rischia di zoppicare senza preavviso. Crollata la cornice, ci tocca affidarci alle nostre risorse e cercarne un’altra. Nessuna di queste cornici garantisce protezione costante al nostro benessere mentale né assistenza mentre cerchiamo di dare un senso alla vita. Passare di cornice in cornice può darci un po’ di sollievo e di senso, almeno per qualche tempo, ma rimane sempre quell’ultima cornice, da cui non ci libereremo mai perché è un luogo di prigionia che attende di riempirsi di dolore e infine, in qualche forma, di morte. _______________ Nella sua opera più nota, Il rifiuto della morte (1973) Ernest Becker scrive: «A mio parere, chi ipotizza che conoscendo in pieno la propria condizione l’uomo impazzirebbe ha ragione, letteralmente ragione». Zapffe concludeva che riusciamo a non perdere la testa «limitando artificialmente il contenuto della coscienza». Becker trae la sua identica conclusione così: «[L’uomo] si va letteralmente a cacciare in uno stato di cieca indifferenza grazie a giochi sociali, trucchi psicologici, preoccupazioni personali così lontane dalla realtà della sua situazione che sono forme di pazzia, ma pur sempre pazzia». _______________ Nelle sue ricerche e studi clinici, la TMT [Terror Management Theory] indica la radice del comportamento umano nella tanatofobia, la paura di morire che determina l’intero panorama della vita. Per placare l’ansia di morte abbiamo quindi inventato un mondo che, con l’inganno, ci convince di poter continuare a esistere – anche solo simbolicamente – anche dopo la distruzione del corpo. […] All’immortalità personale siamo disposti a preferire la sopravvivenza di persone e istituzioni che consideriamo nostre estensioni: le nostre famiglie, i nostri eroi, le nostre religioni, le nostre nazioni. […] Neanche a dirlo, però, i nostri teorici della gestione del terrore indicano una scappatoia ottimista quando dicono che «le migliori visioni del mondo sono quelle che apprezzano la tolleranza del diverso, quelle flessibili e aperte alle modifiche, che aprono percorsi verso l’autostima in cui la prospettiva di nuocere al prossimo è ridotta al minimo». (Handbook of Experimental Existential Psychology, a cura di Jeff Greenberg et al.) _______________ Come specie condividiamo la preferenza per la differenza piuttosto che per l’unità. (Vive la différence! Vive la guerre!) Nessuno ci ha progettati per essere così: è soltanto il modo in cui siamo approdati, tentoni, all’incubo dell’essere. La vita fa preda della vita, come dicono Schopenhauer e la storia naturale. Il corpo di un organismo è il pasto di un altro. _______________ Uno dei grandi svantaggi della coscienza – della coscienza in quanto genitrice di tutti gli orrori – è senza dubbio che essa esacerba le sofferenze necessarie e ne crea di superflue, come la paura della morte. Sprovvisti di quel che serve a togliersi la vita (domandatelo a Gloria Beatty), coloro che soffrono pene intollerabili imparano a nascondere i propri patimenti, necessari e superflui, perché il mondo non batte il ritmo del dolore ma della felicità, poco importa se sincera o indossata come una maschera a coprire il più cupo abbattimento. ______________ «Verrà il giorno» ci diciamo «in cui disferemo questo mondo dove siamo sballottati tra lunghi tormenti e brevi gioie, e vivremo nel piacere tutti i giorni.» La fede nella possibilità di piaceri durevoli, elevati, è una ciancia ingannevole ma adattiva. Sembra che la natura non ci abbia fatti per stare troppo bene troppo a lungo, cosa che non gioverebbe alla sopravvivenza della specie, ma soltanto per stare bene quel tanto che basta a non farci lamentare che non stiamo bene tutto il tempo. […] Forse il messaggio ti sarà chiaro, allora: se non stai abbastanza bene abbastanza a lungo, meglio che tu finga di stare bene e che addirittura pensi come se stessi bene. […] Hai due scelte: comincia a pensare come Dio e la società vogliono che pensi, o sii abbandonato da tutti. _______________ Nell’Ultimo messia Zapffe ipotizza che con il passare delle generazioni diverranno più licenziose le maniere in cui l’umanità nasconde a se stessa la disillusione: più stupido e fittizio il suo isolamento dalle realtà dell’esistenza; più rimbecillenti e rozze le distrazioni da ciò che sbalordisce e terrorizza; più maldestro e scriteriato l’ancoraggio all’irrealtà; più grette, autoironiche e distanti dalla vita le sue sublimazioni nell’arte. Questi sviluppi non renderanno il nostro essere più paradossale di così, ma potrebbero rendere le manifestazioni della nostra natura paradossale meno efficaci e più aberranti. _______________ Che porre fine a tutta la sofferenza umana e animale piuttosto che farla continuare sarebbe una tragedia ancora più grande è un’opinione spacciata per fatto. Ammesso che «con questa fine qualcosa andrebbe perso» rimane da stabilire se quel «qualcosa» sarebbe meglio perderlo o conservarlo. _______________ Nel saggio Happiness Is for the Pigs: Philosophy versus Psychotherapy (in Journal of Existentialism, 1967), Herman Tønnessen cita la domanda in un’altra forma: «Che senso ha?». Poi spiega il contesto e il significato della domanda: «[…] Pertanto, più umana di qualsiasi altra brama umana è la ricerca di una visione totale della funzione – o disfunzione – dell’Uomo nell’Universo, il posto e l’importanza che egli potrebbe avere nel disegno cosmico più ampio possibile. In altre parole è il tentativo di rispondere o perlomeno di articolare qualsiasi domanda sia implicita nel gemito morente della disperazione ontologica: che senso ha? Ciò rischia di rivelarsi biologicamente dannoso o addirittura fatale per l’Uomo. L’onestà intellettuale e le grandi pretese spirituali di ordine e significato rischiano di condurre l’Uomo alla più profonda antipatia per la vita e rendere necessario, come sceglie di definirlo un esistenzialista: «un no a questo scatenato, banale, grottesco e disgustoso carnevale nel cimitero del mondo». La frase che chiude questo estratto da Tønnessen viene da Sul tragico di Zapffe. _______________ «A rendere tragica la razza umana non è il suo essere vittima della natura, ma l’esserne conscia. Far parte del regno animale alle condizioni poste da questa Terra va benissimo, ma appena scopri la tua schiavitù, il dolore, la rabbia, la fatica comincia la tragedia. Non possiamo tornare alla natura perché non possiamo cambiare il nostro posto in essa. Il nostro rifugio è nella stupidità… non c’è moralità, né sapere né speranza; c’è soltanto la coscienza di noi stessi a mandarci avanti in un mondo che… è sempre e soltanto apparenza vana e fluttuante.» [Joseph Conrad, lettera a R.B. Cunninghame Graham (1898)] _______________ Nessun’altra forma di vita sa di essere viva, né sa di dover morire. È una maledizione tutta nostra. Senza questo malocchio non ci saremmo mai allontanati così tanto dalla natura: a tal punto e tanto a lungo che diventa un sollievo ammettere ciò che abbiamo provato con tutti noi stessi a ammettere, cioè che da quel momento siamo stati stranieri nel mondo naturale.
Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana
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giancarlonicoli · 3 years
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19 apr 2021 18:10
"LA MAGISTRATURA? UN POTERE AUTOREFERENZIALE PIÙ INTERESSATO ALLA POLITICA INTERNA CHE A QUELLA NAZIONALE" - L'AVVOCATO FRANCO COPPI PRENDE A LEGNATE LE TOGHE: "VEDO TROPPA ANARCHIA NEI TRIBUNALI, OGNI GIUDICE FA QUEL CHE GLI PARE E I PROCESSI SFOCIANO IN SENTENZE IMPREVEDIBILI. AVREI PAURA A ESSERE GIUDICATO DA QUESTA MAGISTRATURA - NON È AMMISSIBILE CHE SI DIVENTI MAGISTRATI, ACQUISTANDO DIRITTO DI VITA E DI MORTE SUGLI ITALIANI, DOPO DUE O TRE COMPITINI DI LEGGE. IL PROCESSO AD ANDREOTTI? NON SI SAREBBE DOVUTO TENERE. QUELLO A BERLUSCONI L'HO VINTO SUI FATTI. LE CENE DI ARCORE? CI SAREI ANDATO, E MI SAREI PURE DIVERTITO"
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Pietro Senaldi per "Libero quotidiano"
«La carriera non può basarsi solo sull' anzianità: il lavoro e le sentenze devono avere un peso negli avanzamenti, sennò anche ad alti livelli ti trovi davanti certa gente...» «Non bastano due o tre esami di diritto per decidere della sorte degli altri per tutta la vita. Vanno testate la morale e l'equilibrio di chi è chiamato a giudicare i cittadini»
«La verità è che la politica ignora i problemi della giustizia, che si abbattono soprattutto sui cittadini comuni, e che ai magistrati interessa più la loro politica interna, correntizia, piuttosto che quella del Palazzo. E la prova è che tutti parlano dei mali dell'amministrazione dei tribunali, però sono discorsi che sento da più di cinquant'anni senza che sia mai stata trovata una soluzione. Anzi, ho l'impressione che, più se ne parla, meno si fa e più i mali della giustizia si aggravano. Prenda la lunghezza dei processi: sembravano eterni già negli anni Settanta, oggi durano ancora di più La ragione di tutto questo? Sciatteria, è la prima parola che mi viene in mente».
C'è un uomo solo che può parlare delle relazioni tra magistratura e politica senza essere accusato di imparzialità, perché ha difeso da pesantissime accuse dei pm i due leader più longevi della storia della Repubblica, Andreotti e Berlusconi, e li ha fatti assolvere, ma non ha mai ceduto alle lusinghe del Parlamento, che pure lo ha corteggiato. La sua toga è immacolata, il suo nome è Franco Coppi.
L'avvocato più famoso d'Italia è disincantato, la passione per il diritto è la stessa di un ragazzino, malgrado gli 82 anni, la disamina è amorevolmente spietata, la diagnosi lascia poche speranze perché non si intravede volontà di ravvedimento operoso. «Riforme ne sono state fatte negli anni», per una volta il tono è quello della requisitoria e non dell'arringa, «ma stando ai risultati sono state quasi tutte inutili, non ho visto miglioramenti».
Franco Coppi, 82 anni, avvocato, giurista e accademico italiano Devo dedurne che la giustizia italiana è irriformabile?
«Nulla lo è, a patto che ci sia la volontà. Riformare davvero richiede il coraggio delle proprie decisioni e la disponibilità a esporsi a critiche anche feroci. Se pensi a quanti voti perdi se separi pm e giudici o se togli l'abuso d' ufficio, non vai da nessuna parte.
Devi fare quel che ritieni giusto, senza curarti delle conseguenze».
I politici dicono che riformare la giustizia è impossibile perché i giudici non vogliono
«Io penso invece che temano di perdere il consenso se toccano la magistratura».
Ma la magistratura non ha perso credibilità negli ultimi anni?
«Comunque meno della politica».
I politici dicono di temere la reazione dei pm, pronti a indagarli se smantellano il suo potere
«Io non credo che ci sia una guerra della magistratura contro la politica tout court. Non creiamo falsi problemi: la magistratura ha un potere enorme ma quello del legislatore è ancora più grande. Se il Parlamento avesse la forza di cambiare la legge, alla fine Procure e Tribunali sarebbero costretti ad assoggettarsi».
Secondo lei quindi è stata la politica a cavalcare la magistratura più che la magistratura a tenere sotto scacco la politica?
«Questa è un'analisi che contiene della verità: certo alcune parti politiche hanno speculato sulle disavventure giudiziarie degli avversari. Sgradevole che quasi sempre sia avvenuto prima della sentenza definitiva, che spesso è stata di assoluzione, come nei processi che ho seguito per Andreotti e Berlusconi. Però, se intendo il senso provocatorio della sua domanda, il fatto che una giustizia così screditata sia in un certo senso funzionale agli interessi della politica è una tesi suggestiva e non infondata».
Ma se la politica non è ferma per timore della reazione della magistratura, perché allora la subisce?
«Sudditanza psicologica? O piuttosto anche una forma strana di indifferenza rispetto ai problemi. Il Parlamento oggi sembra avere dimenticato il motto latino "Iustitia fondamentum regni": con istruzione e sanità, il funzionamento dei tribunali è il cardine di un Paese civile. Noi invece abbiamo messo anche la giustizia in lockdown, ma i danni sono irreparabili».
È così difficile apportare queste modifiche?
«Basterebbero 24 ore. Però temo che uno dei grandi problemi sia il deficit di competenza. La politica in realtà non sa dove mettere le mani per migliorare il diritto. Non ha gli uomini, dovrebbe appaltare la riforma della giustizia a una commissione di una dozzina di giuristi».
I giudici insorgerebbero subito
«Se le proposte fossero concrete e ragionevoli, non potrebbero opporvisi. E anche se lo facessero, chi se ne importa?».
Ritiene che le toghe siano troppo politicizzate?
«Di magistrati ne ho conosciuti tanti. Sono una piccola parte quelli condizionati dalla politica».
Captatio benevolentiae?
«Guardi, ho visto molti più giudici influenzati dall'opinione pubblica, dai giornali o dalle mode che dalla politica. C'è chi mi ha confessato, prima dell' udienza, di essersi fatto un'opinione guardando i talkshow».
Le intercettazioni di Palamara però hanno rivelato che Salvini è a processo perché ritenuto un avversario politico e non un sequestratore di immigrati
«Sarebbe una cosa spregevole».
Cosa pensa di quello che sta venendo fuori sulla magistratura?
«Non tutto è una novità, di certe cose si parlava da tempo. La cosa più sgradevole è il sistema di nomine, tutte raccomandazioni, dispute, calcoli: se fosse davvero così, sarebbe sconcertante».
Che quadro ne emerge della magistratura?
«Un potere autoreferenziale concentrato su se stesso, più interessato alla politica interna che a quella nazionale».
Vede segnali di pentimento nella casta in toga?
«Vedo imbarazzo nei molti magistrati onesti. È auspicabile che l' intera categoria si senta ferita».
Cambierà qualcosa?
«Per cambiare serve volontà. Quel che vedo non mi fa essere ottimista».
Bisognerebbe abolire l'Associazione Nazionale Magistrati?
«L' abolizione del parlamentino delle toghe è un problema che non mi sono mai posto. La sua esistenza mi lascia indifferente: se c'è, è naturale che si divida in correnti, ma i problemi veri della magistratura sono altri».
Quali, secondo lei?
«Vedo troppa anarchia nei tribunali, ogni giudice fa quel che gli pare e i processi hanno spesso sviluppi cervellotici, sfociano in sentenze imprevedibili. Avrei paura a essere giudicato da questa magistratura».
Colpa del Consiglio Superiore della Magistratura?
«Il Csm non può intervenire sui processi ma sui comportamenti deontologici dei giudici. È il capo degli uffici, il Procuratore o il Presidente del Tribunale che deve far lavorare i suoi sottoposti e mettere un argine a decisioni e comportamenti stravaganti. Solo che, appena lo fa, si parla di attentato all' indipendenza del giudice. Invece secondo me è indispensabile un capo che riprenda e metta ordine».
La sua ex collaboratrice, Giulia Bongiorno, ha detto che nell' esame di magistratura bisognerebbe inserire un test psicologico. Lei sarebbe d' accordo?
«Sono d' accordo che servirebbero mezzi di selezione più rigorosi. Non è ammissibile che si diventi magistrati, acquistando diritto di vita e di morte sugli italiani, dopo due o tre compitini di legge. Ci vorrebbero esami più articolati attraverso i quali saggiare anche la preparazione morale e spirituale e l' equilibrio psicologico e politico del candidato».
Ipotizza anche verifiche nel corso della carriera?
«Queste dovrebbero farle i capi dei giudici. In realtà credo che bisognerebbe dare più importanza alla produzione di un giudice per valutarne gli avanzamenti di carriera. Oggi si procede solo per anzianità, ma questo ti porta in processi importanti, magari in Cassazione, a trovarti davanti a giudici che mai avresti immaginato a certi livelli. Dovrebbero contare anche i processi vinti o persi e le sentenze impugnate o cassate. Come in tutti i lavori, il risultato deve avere un peso nella carriera. Trovo molte diversità nei livelli di preparazione di una toga rispetto a un'altra».
Si dice che i giudici non pagano mai per i loro errori
«Lavorare sotto il timore di uno sbaglio che può costare caro toglie serenità e distacco».
Però lei se sbaglia, paga
«Io non ho mai desiderato fare il giudice perché mi angoscerebbe l'idea di decidere sulla sorte di un uomo. Pensi che ci sono certi processi, dove non sono riuscito a far assolvere imputati che ritenevo innocenti, per i quali ancora non dormo la notte a distanza di anni».
Che qualità dovrebbero essere indispensabili per un giudice?
«A parte la preparazione tecnica, che non sempre riscontro, un giudice deve avere equilibrio e umanità, per ricostruire i fatti e valutarli. Deve essere dotato di un alto valore morale e sociale, perché diventa interprete della realtà che sta vivendo».
Si ha l'impressione che certe sentenze vogliano cambiare la società anziché seguirne l'evoluzione
«Talvolta nelle motivazioni dei verdetti c'è la volontà di impartire qualche lezioncina. Però quando parlo di valore morale non voglio dire intento moralizzatore, che è una cosa dalla quale il giudice dovrebbe sempre rifuggire».
Le mutazioni della società hanno portato anche a una proliferazione delle fattispecie di reato
«Alcuni nuovi reati sono inevitabili, come quello che punisce le comunicazioni sociali che manipolano il mercato. Altri sono gratuiti».
Tipo il femminicidio o i reati della legge Zan?
«Talvolta introdurre un nuovo reato serve al legislatore per levarsi il pensiero. C'è un problema sociale? Creo un reato e sparo una condanna, così ho la coscienza a posto e mi mostro sensibile. La realtà è che bisognerebbe depenalizzare, non creare nuovi reati; oggi abbiamo liti di condominio che finiscono in Cassazione».
Com'è cambiata la giustizia da che ha iniziato lei?
«Essendo anziano non vorrei passare per un laudator temporis acti, ma non posso evitare di constatare un degrado generale, nella magistratura quanto nell'avvocatura. Ricordo che un tempo, quando andavo ad ascoltare i grandi per imparare, c'erano livelli di discussione giuridica ben più alti. Oggi, a causa anche del carico di lavoro eccessivo, i tribunali sono diventati delle fabbriche del diritto, le sentenze vengono scritte in fretta. Ma sono nostalgico anche per quanto riguarda la cifra stilistica: girando per le aule mi sembra che manchino l'eleganza e il decoro di un tempo».
È stato più facile far assolvere Andreotti o Berlusconi?
«Quello di Andreotti è un processo che non si sarebbe dovuto tenere».
E quello di Berlusconi, l'ha vinto in punta di diritto?
«No, l'ho vinto sui fatti: quelli contestati non configuravano un reato».
Però si era messa male
«Per vincere non ho dovuto scalare le montagne, molto lavoro era stato fatto dai miei predecessori, io ho dovuto solo convincere i giudici che la qualificazione giuridica dei fatti portava necessariamente all' assoluzione».
Fortuna che quella volta non si è imbattuto in un giudice moralista?
«Non sono un mondano, la sera preferisco stare a casa con mia moglie e le mie figlie, abitiamo tutti vicini. Però alle cene di Arcore ci sarei andato, e mi sarei pure divertito».
Perché ha chiamato il suo cane Ghedini?
«Perché me l' ha regalato proprio Niccolò. Io sono un grande cinofilo. Il cane si chiama Rocki, io gli ho dato un cognome, ma è un gesto d' affetto verso chi me l' ha donato. Mi ha fatto un regalo che mi ha commosso e del quale gli sarò sempre grato».
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cerchiofirenze77 · 4 years
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A chi ha perso una persona cara
Rivolgo queste mie parole a coloro che si avvicinano a noi addolorati dalla cosiddetta perdita di una persona a loro cara, sperando di mettersi in comunicazione con lei per lenire il loro dolore col trovare la prova della sua sopravvivenza.
Quello che io spero di riuscire a darvi non è tanto il sollievo alla vostra sofferenza quanto farvi comprendere che quello che vi è accaduto deve essere il fermento per la vostra trasformazione, che deve condurvi a vedere la vita da un nuovo punto di vista. Uno degli interessi che spingono l'uomo ad accostarsi e ricercare il fenomeno medianico è quello di trovare una conferma della sopravvivenza dell'essere alla morte del corpo. Tale conferma può essere ricercata, fra l'altro, per fugare la propria paura di cessare di esistere, oppure per lenire il dolore che la morte di persone amate ha determinato.
In più occasioni ci siamo espressi sulla validità del fenomeno medianico, che si può chiamare spiritico solo di rado, quando raggiunge il contatto con un essere disincarnato. Infatti, anche nei casi in cui non c'è frode cosciente, il che è abbastanza raro, la comunicazione può avere origine nella psiche dei presenti, che dirige le facoltà paranormali del soggetto medianico.
La ragione della frode involontaria sovente risiede nel desiderio di mettersi in contatto con chi non vive più fisicamente, oppure di avere la prova della sopravvivenza, cioè nel desiderio che la realtà sia quale si vorrebbe che fosse. Tuttavia, anche la prova che il raro fenomeno realmente spiritico costituisce ha, quasi sempre, valore soggettivo, cioè non è assolutamente probatoria per chi non ha vissuto di persona l'esperienza; perciò non dà alla scienza umana, costituita da certezze oggettive, un arricchimento, un punto fermo per la conquista di ulteriori mete. D'altra parte, siccome le azioni degli uomini non traggono origine solo e sempre dalle certezze oggettive, tutto questo non deve impedire all'uomo di avere una sua opinione in merito e, conseguentemente, un suo comportamento.
Il fatto che noi rappresentiamo costituisce una proposta di opinione e, conseguentemente, una proposta di vita, nella quale l'uomo è consapevole di far parte di una collettività in cui i più dotati che detengono un qualsiasi potere non sopraffanno i deboli, ma colmano le loro deficienze; in cui si invocano maggiori diritti solo quando si adempiono nel miglior modo tutti i propri doveri; in cui gli errori degli altri non diventano giustificazione dei propri ed invito ad errare, ma incentivo a perseguire un mondo migliore cominciando a migliorare se stessi. Non è, questa, una comoda concezione della vita; tutt'altro; però è una concezione che ha il pregio di rispecchiare l'ordine naturale delle cose; che non chiude la realtà in schemi fissi sacrificando l'individuo ma, via via, l'adatta alle sue reali esigenze evolutive. Chi si rivolge a noi, più che la prova della sopravvivenza trova una simile concezione della vita, che è molto di più della certezza che l'essere non cessa di esistere. Chi, invece, cercasse solo tale conferma, o la comunicazione con qualche caro trapassato, perderebbe il suo tempo. Anzi, vi dirò di più: esorto a diffidare dei medium che si dichiarano capaci di evocare a piacimento i disincarnati. Acciocché il contatto avvenga non basta che vi sia il tramite: la comunicazione deve essere prevista dall'ordine generale secondo cui si svolgono le cose.
Chi conosce la storia dello spiritismo sa che vi sono stati medium che hanno servito da tramite per le comunicazioni di molte entità e non sono essi riusciti a mettersi in contatto con una che, più delle altre, amavano e desideravano sentire. Noi siamo una delusione per chi avesse tali aspettative. Tuttavia, non possiamo ignorare la dolorosa aspirazione di chi soffre per il trapasso di una persona amata. Con tutto ciò, più che permettere il contatto con essa, invitiamo chi soffre di questo a riflettere sul suo dolore. Naturalmente, parlo nel presupposto che chi mi ascolta sia una persona ragionevole perché, altrimenti, a nulla servirebbe il mio dire.
Comincerò il mio discorso invitando a riflettere sul fatto che la vita dell'uomo deve avere uno scopo, che non può essere quello di soddisfare tutti i desideri umani e di pensare o preoccuparsi solo per se stessi. La vita sociale e di relazione in cui l'uomo viene a trovarsi, gli avvenimenti stessi che gli accadono, il suo stesso modo di reagire agli stimoli, lo inducono a dedicare uno spazio più o meno grande agli altri. E gli altri sono - almeno in principio dell'evoluzione della coscienza - coloro la cui vita in qualche modo si riflette sulla propria, in qualche maniera la condiziona. E un dedicarsi egoistico, quindi, allorché il legame non sia stabilito dall'affetto; ma anche quando l'interesse all'altro è originato dall'amore, non sempre è spoglio di egoismo; anzi, spesso si tratta di amore possessivo. Il vero amore desidera il bene di colui che si ama anche se ciò si concretizza in una situazione in cui l'amato non si può più avere vicino come prima. Credo che nessuna persona ragionevole possa contraddire tale affermazione. La vita presenta degli avvenimenti che non sono conseguenza della volontà di alcuno ed altri che, pur essendo conseguenza del comportamento di qualcuno, coinvolgono certi che non vi parteciperebbero se non fosse il caso che li ha messi a tiro.
Di fronte a tali eventi si ripropone il quesito che indubbiamente ogni uomo si è posto nel corso della sua vita, e cioè se l'esistenza di tutto abbia un suo significato, oppure se tutto sia un non-senso. Quelli che non accettano il significato trascendente della vita si giustificano dicendo che non è dimostrato questo significato trascendente della vita; tuttavia, quando la loro esistenza li mette di fronte a dover accettare o no qualcosa di indimostrabile, suppliscono alla mancanza di certezza con la plausibilità offerta da un ragionamento logico. E non si può certo affermare che logico sia pensare che all'origine di tutto quanto esiste vi sia una fortuita circostanza che dal nulla - in senso organico - non solo avrebbe creato la materia e la vita, ma avrebbe soprattutto composto quel codice genetico secondo cui tutto si sviluppa ordinatamente. Cioè, è assurdo pensare che dal caos il caso abbia creato, o quanto meno avviato, il procedere ordinato, ossia l'ordine e il fine.
Se, invece, si volesse supplire a tale mancanza di logica pensando che tutto quanto esiste, esiste da sempre - cioè senza origine -, allora ne conseguirebbe che tutto sarebbe eterno, al di là della caducità delle singole forme, e quindi l'esistere sarebbe eterno, al di là della caducità delle singole esistenze: ossia si affermerebbe, implicitamente, ciò che si vuol negare. Perciò, il negatore del senso trascendente della vita in nessun caso fonda la sua opinione sulla logica, come fa invece tranquillamente quando nella vita deve prendere partito di una cosa inaccertabile oggettivamente.
La logica conforta, invece, l'opinione di chi crede che l'esistenza del Tutto abbia un significato trascendente. Non è certo il caso di addentrarci in dispute religiose o filosofiche, che nascono da una simile convinzione; tuttavia credo che si possano accettare, senza scomodare troppo la fede, alcune plausibili affermazioni come, per esempio, che se l'esistenza del cosmo ubbidisce a precise leggi, cioè ha un ordine, lo stesso ordine non può mancare nella vita dell'uomo, elemento di tale cosmo; e che al di là dell'incomprensibile, per noi, significato degli avvenimenti che ci capitano, a cui prima facevo cenno, vi sia un preciso significato, una profonda ragione. In altre parole: o Dio non esiste, ma è illogico; oppure, se esiste, non può essere dispettoso e crudele. Cosicché quello che si reputa un castigo, una cattiveria della vita, al di là del suo sapore immediato deve nascondere un fine degno della Divinità, cioè un fine di amore e di vero bene per chi lo subisce. Tutto ciò è quanto suggerisce la logica e il buon senso.
Allora, voi che siete schiantati dal dolore per la perdita di una persona amata, se siete creature ragionevoli, se veramente amate chi è trapassato, dovete arginare il vostro dolore nel pensiero che la sofferenza che state vivendo ha un senso per la vostra vita, e che la morte di chi amate è un evento necessario al suo vero bene. Se veramente amate chi è trapassato non potete essere tanto egoisti da pensare che sarebbe stato meglio che il suo bene non si fosse compiuto.
Ripeto: tutto questo è quanto una persona di buon senso può accettare senza scomodare la fede, semplicemente seguendo il raziocinio, strumento che appunto è dato all'uomo per fargli capire il senso della realtà nella quale vive. Se poi, per bontà vostra, credete che la voce che vi parla giunga da quella dimensione di cui prende coscienza l'essere dopo la morte del suo corpo fisico, e se ancora credete che questa voce conosca, se non tutto, almeno parte della Verità, perché non basta essere trapassati per essere nel Vero; allora vi dico, sapendo che mi credete, che la separazione dai vostri cari trapassati è solo per voi, che rimanete nel mondo fisico, perché loro vi sentono e vi vedono in forza del legame amoroso che vi unisce. Non pensateli quindi con dolore, perché li rattristereste; ricordateli nei momenti in cui erano sereni, nella certezza che li ritroverete, perché il legame creato dall'amore è un legame che non si spezza mai e che, nelle future esistenze, conduce chi si ama a ritrovarsi in amore.
Come l'esistenza di chi è trapassato continua, così la vostra deve proseguire a beneficio di coloro che vi sono vicini fisicamente. Se vi sembra che il destino sia stato crudele con voi, avete un motivo di più per non essere crudeli con gli altri facendo pesare su loro il vostro dolore.
Ora mi fo' portavoce di un ideale messaggio che tutti i vostri amati, che hanno lasciato il piano fisico, potrebbero rivolgervi. Accoglietelo nella convinzione che corrisponde al loro sentire:
« Amore mio, non potermi vedere più fisicamente ti ha lasciato in un dolore che ti fa rifiutare la vita. Sappi che questa è l'unica cosa che può farmi soffrire, e perciò promettimi che troverai la forza necessaria per reagire e continuare a vivere come quando mi vedevi, mi toccavi, mi interrogavi, ed io ti rispondevo. Sappi che sono egualmente vicino a te; anzi, più di prima; e che l'amore che ci unisce ci lega indissolubilmente e ti condurrà a rivedermi, riabbracciarmi, riavermi. Le nostre strade sono solo momentaneamente ed apparentemente divise, ma al di là del velo che ti separa da me, e che dà corpo al romanzo della vita, noi siamo una cosa sola. Ora tu non puoi più dedicarti a me fisicamente, e se rimpiangi di non averlo fatto in passato più di quanto potevi, promettimi che da ora in poi ti dedicherai di più agli altri a cui sei vicino, ed offrimi quel di più che farai. Un giorno, quando tutto questo anche per te sarà compiuto e trascorso, volgendoti indietro nel ricordo tutto ti sembrerà un brevissimo sogno, quasi non vissuto, e solamente la pienezza data dalla consapevolezza di aver pagato un debito, la gioia della comprensione del perché è potuto accadere, la felicità di ritrovarsi quale frutto del tuo dolore, saranno ciò che ne rimane.   Ti amo. Per sempre tuo »                                                                                                                                            DALI
Qui c'è il link di questa comunicazione registrata in voce: http://www.cerchiofirenze77.org/Voci/A%20chi%20ha%20perso%20una%20persona%20cara.mp3
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outoftuna · 5 years
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De alterius vita, de alterius morte disputatis et ad nomen magnorum ob aliquam eximiam laudem virorum, sicut ad occursum ignotorum hominum minuti canes, latratis; expedit enim vobis neminem videri bonum, quasi aliena virtus exprobratio delictorum vestrum omnium sit.
Seneca, De vita beata
Voi disputate sulla vita dell’uno e sulla morte dell’altro e abbaiate di fronte al nome di uomini divenuti insigni per qualche lodevole merito, come fanno i cagnolini all’avvicinarsi di persone sconosciute. La verità è che a voi fa comodo che nessuno risulti virtuoso, perché la virtù degli altri suona come un rimprovero alle vostre malefatte.
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cassandrablogger · 6 years
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Giambattista Vico e il fenomeno della lucidità terminale
stamattina, mentre studiavo per l'esame di Filosofia Moderna, ho associato un po' di conoscenze pregresse agli studi correnti. la biografia di Giambattista Vico potrebbe costituire l'esempio storico di un fenomeno assai raro e, forse per conseguenza della sua rarità, ancora poco approfondito dalla comunità medico-scientifica: è il fenomeno della lucidità terminale. a testimoniare non ci sono certo grosse autorità giuridiche: ci sono i suoi figli, dei quali possiamo invero dubitare, ma possiamo a più ragione credere che questi non avessero alcun motivo di inventare un improvviso rinsavimento sensorio e coscienziale del Vico poco prima di morire. ma chiariamo il passo della biografia che ci interessa approfondire:
"[...] Cominciò adunque ad essere indebolito in tutto il sistema nervoso in guisa che a stento poteva camminare e, quel che più lo affligea, era di vedersi ogni giorno infiacchire la reminiscenza... Il fiaccato corpo del saggio vecchio andò in seguito ogni giorno più a debilitarsi in guisa che aveva perduto quasi interamente la memoria fino a dimenticare gli oggetti a sé più vicini ed a scambiare i nomi delle cose più usuali... Né possibil fu togliere o render men forte un sì pertinace malore col presidio dell’arte salutare, ad onta di efficaci rimedi che gli venivan suggeriti da valentissimi medici, suoi colleghi nella regia università; ché anzi sì disperata infermità, sempre più avanzandosi, ridusse l’ infelice Vico a non riconoscere i propri figli, da lui teneramente amati. Durò in un tale penosissimo stato un anno e due mesi, allorché, mancandogli le vitali forze per la somma ritrosia che aveva ad ogni qualità di cibo, dovè sempre giacer nel letto, bevendo a lenti e dolorosi sorsi la morte. Alcuni giorni prima di esalare l’ultimo fiato, riacquistò l’uso dei sensi, e, come da lungo sonno destato, riconobbe i figliuoli e quei che gli eran d’intorno; del quale accidente quanto costoro rallegrati si fossero non è da dimandare. Ma un tal miglioramento però non gli fu ad altro giovevole se non a farlo avvertito della sua prossima fine."
dalla documentazione sopracitata si evince un irrimediabile stato di demenza dovuta probabilmente all'invecchiamento cerebrale (Vico aveva circa 74 anni), anche se non è possibile azzardare ipotesi sul tipo di demenza alla quale fu soggetto. sappiamo che la durata di questo "penosissimo stato" fu di un anno e due mesi, per cui risulta verosimile pensare ad un processo degenerativo; che se si fosse trattato, chessò, di un attacco ischemico transitorio, sarebbe stato assolutamente normale il ripristino della coscienza e dei sensi. peccato/fortuna che l'attacco ischemico transitorio non duri più di qualche minuto (con le dovute eccezioni)! se è vero che lo stato quasi cachecticus in cui versava Vico ebbe una durata superiore all'anno, e se è vero che peggiorava di giorno in giorno, si deve per lo meno pensare a una patologia ad andamento regolarmente progressivo e degenerativo. malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson, di Alzheimer, la demenza senile o la demenza vascolare ci insegnano che quel che c'è di cerebralmente degenerato non può rigenerarsi; il processo degenerativo può solo rallentare con l'assunzione dei farmaci adatti, ma quel che è miseramente perduto è miseramente irrecuperabile. allora come spiegare il fenomeno della lucidità terminale sulla base di queste incontestabili verità biologiche? come spiegare le testimonianze dei medici incaricati di assistere malati terminali che d'improvviso vedono i pazienti, nonostante i loro cervelli deteriorati e danneggiati, riacquisire lucidità e memoria poco prima di spirare? come spiegare la testimonianza del dottor Haig che, sul Time Magazine, racconta di un paziente che aveva completamente perduto qualsiasi facoltà di intendere e volere a causa di un tumore cerebrale in metastasi da mesi, che cinque minuti prima di morire aveva ripreso a intendere e volere, e persino a parlare e ricordare, per poter dire addio alla propria famiglia? la strada più facile da percorrere sarebbe quella di diffidare di queste testimonianze, perché se venissero prese in seria considerazione ci sarebbe da rivedere e riformulare l'intero paradigma della moderna fisiologia meccanicistica che vede la coscienza un mero prodotto del cervello. ma non è altrettanto facile diffidare di una testimonianza storica del 1744 che narra di un Vico morente che "riconosce i suoi figli e tutti quelli che gli erano intorno" dopo un anno e mezzo di completo oblio, in un'epoca che non conosce ancora le dispute ideologiche fra gli uomini di scienza di questo secolo, che non conosce il potere di un titolo clickbait di una testata giornalistica sul web, che parla dell'accaduto non come di un fatto assolutamente straordinario ma come di un uomo "da un lungo sonno destato", perché all'epoca i confini fra coscienza e cervello erano ancora caratterizzati da una spiccata labilità, fluidità, non erano ancora netti e definiti come lo sono oggi. nel frattempo, possiamo ben dire che il fenomeno della lucidità terminale non è affatto trascurabile nelle sue implicazioni epistemologiche. analizzato nella sua complessità, si delinea da un lato inquietante perché distruttore di certezze della scienza riduzionista ormai radicate, però più di tutto appare consolatorio, perché ri-dischiude una finestra sulla remota nozione di anima intesa nel senso platonico, immortale e indipendente dal corpo fisico, ma in un tempo e in un territorio nuovo, dove l'anima può identificarsi con la coscienza.
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paoloferrario · 3 years
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Vasco Ursini: Nel 2013 pubblicai il mio saggio "Il dilemma verità dell'essere o nichilismo?, Book Sprint Edizioni ... Ho risposto ai rilievi critici di Emanuele Severino ...
Vasco Ursini: Nel 2013 pubblicai il mio saggio “Il dilemma verità dell’essere o nichilismo?, Book Sprint Edizioni … Ho risposto ai rilievi critici di Emanuele Severino …
Ecco qui di seguito ciò che ho preannunciato qualche ora fa Nel 2013 pubblicai il mio saggio “Il dilemma verità dell’essere o nichilismo?, Book Sprint Edizioni, a cui rinvio. Nel suo “Dispute sulla verità e la morte”, Rizzoli, 2018, p. 74, ed anche nel n. 02/2014 della rivista “La filosofia futura”, pp. 144-145, Emanuele Severino nel recensire quel mio saggio scrive: “C’è anche la situazione…
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pangeanews · 4 years
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“Quando Gesù sparì dissero, usa la magia!”. Tabari, il genio che voleva raccontare tutta la storia del mondo
La storia siamo noi. Di certo, siamo come raccontiamo la storia. Secondo Erodoto, l’incessante viaggiatore, leggenda e “dati di fatto” sono entrambi eventi storici. Le vicende riesumate in un papiro trovato ad Alessandria o ad Antiochia, le parole raccolte dalla bocca bavosa di un conciatore di pelli, i detti sghembi di un astrologo o l’elmo scoperto in Scizia, istoriato con strane lettere, hanno la stessa dignità. Tucidide, al contrario, ci insegna che solo ciò che è sottoposto a testimonianza diretta coincide con la verità delle cose. Solo il mio sguardo (ciò che ho visto e toccato e certificato) è storico: il resto è vaga possibilità, ineffabile menzogna. Eppure, Tucidide, il padre della storiografia moderna, resta un narratore memorabile, degna fonte narrativa di un Manzoni e di un Tolstoj. La storia, in effetti, esiste grazie ai narratori più che per merito degli archeologi del tempo perduto, dei recensori dei cocci. Non basta tradurre una iscrizione millenaria: affinché viva, oggi, per me, occorre saperla raccontare.
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Secondo Lucano la storia è un poema che gronda profezie gravi di sangue, per Tacito lo storico sa varcare le auree stanze del potere, scombinandole, scorticando i potenti, distillandone il niente. La disciplina storica diventa, alla latina, affronto politico. Negli stessi secoli in cui a Bisanzio lo storico si scopre voyeur, più interessato alle perversioni degli imperatori e alle loro alcove che ai moti delle masse – geniale, in questa ambizione nel vizio, l’opera di Michele Psello – a Bagdad il teologo Abu Giafar Mohammed-ben-Garir-ben-Yezid Tabari (839-923) scrive il capolavoro della storiografia islamica, l’immenso libro de I profeti e i re, qualcosa che, per sottigliezza analitica e vertigine di orizzonte, tende all’infinito. “Non voleva raccontare soltanto la storia dei suoi tempi, o di un’epoca limitata, ma tutta la storia del mondo, cominciando dalla creazione fino alle guerre che ai suoi tempi insanguinavano il mondo arabo. E non voleva narrare nemmeno una versione di ogni fatto, ma tutte le versioni che gli uomini raccontano di ogni evento, così che il suo libro diventasse quell’intreccio di realtà e di eventualità, di possibilità e di impossibilità, o di possibilità opposte, che forma l’universo”, scrive Pietro Citati spiegando il fine, divino, percorso da Tabari.
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Nei gangli della storia, Tabari cercava Dio. Il suo compito, probabilmente, era quello di annientare la storia – affinché non restasse altro che Dio. E Dio, alla fine dei tempi, leggendo la storia compilata da Tabari, la rifilasse, permettendo all’uomo, di volta in volta, diverse scelte, alternative vie di salvezza. Un libro che contenga l’intera storia umana: l’impresa, patetica e pazzesca, suggerisce un racconto di Jorge Luis Borges. “Confesso di aver sempre collegato la gigantesca figura di Tabari a un personaggio scaturito dalla fantasia di Borges”, scrive Sergio Noja introducendo la sua versione, luminosa, de I profeti e i re, per Guanda, nel 1993. Di questo libro in cui l’acribia dello storico si fonde con quella del narratore del deserto, dove tra Tucidide e Sherazade non c’è differenza, colpisce la vicenda biblica di Gesù. Leggendola, scopriamo in controluce la mole di testi consultati da Tabari: quanti vangeli del folto Oriente ci sono preclusi per sempre?
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Il punto di vista islamico riguardo alla corcefissione è indiscusso: “Non Gesù è stato crocefisso, ma qualcuno che gli somigliava. E Dio ha innalzato Gesù al cielo prima che fosse messo sulla croce”. Le divisioni tra i cristiani – di cui è squadernata con precisione la mappa del dilagare, dall’Iraq a Roma – sono generate dall’opera di Iblis, il diabolos, Satana: è stato lui a confondere le menti dei fedeli con astute sottigliezze teologiche, perciò “tutti i cristiani sulla questione di Gesù sono diventati miscredenti. Non conoscono né Dio né Gesù”.
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Al di là delle dispute, colpisce la frase di Gesù riguardo al suicidio di Giuda, il traditore: “Non avrebbe dovuto uccidersi. Non c’è peccato al quale il perdono di Dio non ponga rimedio”. Il Dio che si rivela nel roveto del Sinai, in una culla a Betlemme e nella mano di Maometto esercita il proprio potere attraverso il perdono, è lì dove chi sbaglia si ammazza, erge il dolore, deterge le colpe. Pervaso dall’uomo, Dio lo perdona. Spadroneggia nel promuovere il bene.
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Consola e conturba la prospettiva storica di Tabari, quando le labbra di un uomo potevano raccontare l’umanità fino a infilare la catena umana nella bocca di Dio. Adesso la disciplina storica, che non ha dèi da cantare né discipline morali da incidere, è disgraziata. Prendete, chessò, la reggenza di Trump o quella di Putin o quella della Merkel. Siamo zittiti dalle testimonianze. Video, giornali, registrazioni. Atti pubblici e sms privati. Troppa verità rende tutto fasullo, cariato. Zuppi di fatti, non sappiamo più cosa raccontare. Privi di storia, siamo niente. (d.b.)
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Ascensione di Gesù al cielo
I Giudei decisero di ucciderlo. Si legarono col re di Gerusalemme, Erode il giovane, seguace della religione dei Greci. Gli dissero: “Gesù è un mago che seduce il popolo”. Erode ordinò che lo uccidessero. Allora cercarono di catturare Gesù, ma lui si nascose. Non lo trovarono in nessuna casa. Una notte era in una casa con i suoi discepoli e disse loro: “Questa notte pregate per me”. Ma quelli caddero in un sonno pesante. Gesù disse loro: “Mi avete consegnato ai miei nemici. Mi rinnegherete. E mi tradirete”. Il giorno successivo uno dei discepoli, chiamato Simeone, uscì. I Giudei lo presero e dissero: “È un compagno di Gesù. Dicci dov’è Gesù!” Simeone rispose: “Ho abbandonato Gesù, non sono fra i suoi amici”. Rinnegò, dunque, e divenne miscredente. I Giudei presero anche un altro discepolo che era uscito, e gli dissero: “Dicci dov’è Gesù o ti metteremo a morte”. Il discepolo rispose: “Se mi darete una ricompensa vi dirò dov’è”. Acconsentirono. Quel discepolo vendette Gesù per trenta dirham. Guidò i Giudei alla casa dov’era Gesù. Presero il profeta e lo legarono dalla testa ai piedi. I discepoli fuggirono.
I Giudei dissero a Gesù: “Tu hai esercitato la magia dinanzi agli uomini, e hai detto che resusciti i morti. Perché ora non ti liberi dalle mani degli uomini?” Lo trascinarono in un luogo dove avevano preparato una croce per crocifiggerlo. Un gran numero di Giudei lo attorniò. Avevano un capo chiamato Isou‘a, Giosuè. Anch’egli era fra loro. Decisero di attaccare Gesù alla croce, ma Dio lo sottrasse ai loro sguardi e diede la forma e l’aspetto di Gesù a Giosuè, il loro capo. Quando Gesù sparì stupirono e dissero: “Usa la magia, grazie ad essa si è sottratto ai nostri sguardi; aspettate un po’, ben presto l’effetto della magia passerà, ed egli riapparirà, perché la magia non ha durata”. Guardarono, videro Giosuè ormai del tutto simile a Gesù, e lo afferrarono. Disse: “Sono Giosuè”. Risposero: “Tu menti, tu sei Gesù, ti sei sottratto ai nostri sguardi con la magia; ora la magia è passata e sei diventato visibile”. Invano protestò di essere Giosuè. Lo uccisero e lo attaccarono alla croce. Quanto a Gesù, Dio lo innalzò al cielo, com’è detto: «Né lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai loro occhi simile a Lui (…), ma Iddio lo innalzò a sé» (IV, 157-158).
Giosuè rimase sulla croce per sette giorni. Ogni notte Maria, la madre di Gesù, andò e pianse ai piedi della croce, fino al mattino. L’ottavo giorno Dio fece discendere Gesù dal cielo, ché andasse da Maria. Quella notte Maria lo vide, seppe che non era morto, e provò consolazione nel cuore.
Tabari
*La porzione del testo qui riprodotta è pubblicata come: Tabari, “La storia di Gesù” (Raffaelli, 2015); il testo ripropone la traduzione dello scrittore Sergio Atzeni, già raccolta in: Tabari, “I profeti e i re” (Guanda, 1993)
**In copertina: una illustrazione dall'”Ascensione di Maometto”, 1540 ca.
L'articolo “Quando Gesù sparì dissero, usa la magia!”. Tabari, il genio che voleva raccontare tutta la storia del mondo proviene da Pangea.
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simonettiwalter · 6 years
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Emanuele Severino Dispute sulla verità e la morte, mentre il Messia del Nulla legge i tarocchi forse... Già è stanco! "Lì dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva" F. Holderlin #emanueleseverino #simonettiwalter #segretodistato #rigenerazione #ringiovanimento #holderlin
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luisalanzarotta · 6 years
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LA SALVEZZA DIPENDE DALLA SCELTA DELLA PERSONA?
ROMANI 1:18-32 | “Perché l’ira di Dio si rivela dal cielo sopra ogni empietà e ingiustizia degli uomini, che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che si può conoscere di Dio è manifesto in loro, perché Dio lo ha loro manifestato. Infatti le sue qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, essendo evidenti per mezzo delle sue opere fin dalla creazione del mondo, si vedono chiaramente, affinché siano inescusabili. Poiché, pur avendo conosciuto Dio, non l’hanno però glorificato né l’hanno ringraziato come Dio, anzi sono divenuti insensati nei loro ragionamenti e il loro cuore senza intendimento si è ottenebrato. Dichiarandosi di essere savi, sono diventati stolti, e hanno mutato la gloria dell’incorruttibile Dio in un’immagine simile a quella di un uomo corruttibile, di uccelli, di bestie quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità nelle concupiscenze dei loro cuori, sì da vituperare i loro corpi tra loro stessi.Essi che hanno cambiato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura, al posto del Creatore che è benedetto in eterno. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami, poiché anche le loro donne hanno mutato la relazione naturale in quella che è contro natura. Nello stesso modo gli uomini, lasciata la relazione naturale con la donna, si sono accesi nella loro libidine gli uni verso gli altri, commettendo atti indecenti uomini con uomini, ricevendo in se stessi la ricompensa dovuta al loro traviamento. E siccome non ritennero opportuno conoscere Dio, Dio li ha abbandonati ad una mente perversa, da far cose sconvenienti, essendo ripieni d’ogni ingiustizia fornicazione, malvagità, cupidigia, malizia; pieni d’invidia, omicidio, contesa frode, malignità, ingannatori, maldicenti, nemici di Dio, ingiuriosi, superbi, vanagloriosi ideatori di cose malvagie, disubbidienti, al genitori, senza intendimento, senza affidamento, senza affetto naturale, implacabili, spietati. Or essi, pur avendo riconosciuto il decreto di Dio secondo cui quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non solo le fanno, ma approvano anche coloro che le commettono“: LA COLPA UNIVERSALE DELL’UMANITA’ CONFUTA IL LIBERO ARBITRIO.
Possiamo affermare e asserire dalle epistole di Paolo e di Giovanni evangelista che il libero arbitrio non è dato dalla grazia di Dio (Romani 1:18 “Perché l‘ira di Dio si rivela dal cielo sopra ogni empietà e ingiustizia degli uomini, che soffocano la verità nell’ingiustizia”), in questo passaggio biblico l’apostolo Paolo sta asserendo che tutti gli uomini siamo sotto la collera e la punizione di Dio a motivo del peccato originario che ci allontana dalla sua presenza e che per il solo dono della sua grazia e del suo infinito amore che ci ha dati per mezzo della croce possiamo essere riconciliati a Lui attraverso la fede in Cristo. Infatti l’Evangelo della potenza di Dio è necessario sia agli ebrei che ai giudei perché chiunque crede sarà salvato dalla collera di Dio (Romani 1:16 “Infatti io non mi vergogno dell’evangelo di Cristo, perché esso è la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco”) Paolo non fa distinzioni fra ebrei e giudei ma pone tutti alla medesima posizione al cospetto di Dio Padre, inoltre questo passo biblico pone l’accento sul fatto che tutti gli uomini siamo ingiusti e ignoranti della giustizia e della fede in quanto dimoriamo nelle tenebre e da soli non ci è possibile conoscere la giustizia della salvezza di Dio in quanto ci può essere rivelata solo dal suo Spirito.
E’ dimostrabile che in tutto il genere umano non esiste un solo uomo giusto e che tutti necessitiamo di “credere” in Colui che è nello stesso tempo Dio e uomo cioè Gesù Cristo, che ha donato la sua vita a favore della nostra, che è morto per i nostri peccati e che è risuscitato il terzo giorno , siede alla destra del Padre ed è “vivo”, “regna” e “governa” sovrano su tutte le cose nei cieli e sulla terra. Qui subentra nuovamente l’atto della fede, di credere unicamente che Cristo ha compiuto il sacrificio della croce per renderci da ingiusti a giusti al cospetto di Dio Padre (1Corizi 1:18 “Infatti il messaggio della croce è follia per quelli che periscono, ma per noi che siamo salvati è potenza di Dio”), Paolo scrive esplicitamente che molti si danno a vani ragionamenti e a dispute filosofiche perché i loro cuori sono ottenebrati e si danno a falsi ragionamenti (Romani 1:21 “ Poiché, pur avendo conosciuto Dio, non l’hanno però glorificato né l’hanno ringraziato come Dio, anzi sono divenuti insensati nei loro ragionamenti e il loro cuore senza intendimento si è ottenebrato”).
Dunque l’apostolo Paolo afferma che tutti (ebrei e giudei):
siamo sotto la schiavitù del peccato e che nessuno ne è esente (Romani 3:9 “Che dunque? Abbiamo noi qualche superiorità? Niente affatto! Abbiamo infatti dimostrato precedentemente che tanto Giudei che Greci sono tutti sotto peccato”);
indica l’ira di Dio contro tutti coloro che lo rinnegano (Romani 1:18 “ Perché l’ira di Dio si rivela dal cielo sopra ogni empietà e ingiustizia degli uomini, che soffocano la verità nell’ingiustizia”);
condanna gli ingrati verso Dio che si sono resi schiavi dei loro peccati (Romani 2:17 “Ecco, tu ti chiami Giudeo, ti fondi sulla legge e ti glori in Dio”);
condanna alla lettera i trasgressori della legge perché i loro frutti non sono quelli che predicano anzi ne sono molto lontani (Romani 2:21 “Tu dunque che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi che non si deve rubare, rubi?”).
Siamo tutti sotto il peccato e chi afferma il contrario è un bugiardo (Romani 3:9,12 “Che dunque? Abbiamo noi qualche superiorità? Niente affatto! Abbiamo infatti dimostrato precedentemente che tanto Giudei che Greci sono tutti sotto peccato come sta scritto: «Non c’è alcun giusto, neppure uno. Non c’è alcuno che abbia intendimento, non c’è alcuno che ricerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti quanti sono divenuti inutili; non c’è alcuno che faccia il bene, neppure uno), in questi passi biblici il profeta mostra Dio nell’atto di guardare su tutti gli uomini e pronunciare su di loro questa sentenza, ma ci è data la soluzione nell’essere riscattati da Gesù Cristo dobbiamo compiere un gesto di volontà che consiste in un’azione concreta di fede perché Dio non può tendere al bene di coloro che non si curano di Lui, non lo ricercano, lo ignorano, lo disprezzano, così come pure di coloro che si sono sviati dalle sue vie.
Ignorare Dio significa: non comprenderlo, non cercarlo e non temerlo.
Queste sono parole chiare e racchiudono un’intera verità “la verità sulla grazia” (Romani 3:19 “E conoscere l’amore di Cristo che sopravanza ogni conoscenza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio  perché nessuna carne sarà giustificata davanti a lui per le opere della legge; mediante la legge infatti vi è la conoscenza del peccato”).
La grazia ha annullato la legge. Tutti coloro infatti che procedono secondo le opere della legge vengono ugualmente condannati perché hanno compiuto le opere della legge e le opere della legge non li giustificano, vengono quindi considerati da Dio empi e colpevoli della sua collera.
QUINDI LE OPERE CHE NON GIUSTIFICANO NON SONO SEMPLICEMENTE LE OPERE CERIMONIALI MA ANCHE LE OPERE DELLA LEGGE.
Paolo scrive chiaramente che le “opere della legge” dopo la morte di Cristo non giustificano e che davanti a Dio non sono di alcun aiuto all’uomo per liberarsi dalla propria empietà, coloro che le compiono rinnegano il sacrificio di Gesù che ha abolito la legge (Galati 3:10 “Tutti coloro che si basano sulle opere della legge sono sotto maledizione”).
Le” opere cerimoniali” erano comandate e pretese nell’Antico Testamento esattamente come le leggi del Decalogo, dunque se la legge è stata abrogata di conseguenza anche le opere cerimoniali lo sono state.
Il sacrificio di Gesù Cristo ci ha liberati dalla legge per farci entrare nello stato di grazia quindi davanti a Dio coloro che applicano le opere della legge, meno adempiono la legge, per il fatto che sono privi dello Spirito il solo che può adempierla. Paolo con questa distinzione divide gli uomini in due categorie: coloro che operano secondo lo Spirito e coloro che operano secondo la carne (Romani 3:20 “Per le opere della legge nessuno sarà giustificato al suo cospetto”; Galati 3:2 “Avete voi ricevuto lo Spirito per via delle opere della legge o per la predicazione della fede?”; Romani 3:21 “Ora, però, indipendentemente dalla legge è stata manifestata una giustizia di Dio”; Romani 3:28 “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede, senza le opere della legge”), questi versetti biblici esprimono concretamente che le opere della legge, le opere del cerimoniale così come pure tutte le altre cose non spirituali incluse tutte le forze e manifestazioni della carne non giovano affatto agli uomini perché si contrappongono allo Spirito (Giovanni 3:6 “Ciò che è nato dalla carne è carne; ma ciò che è nato dallo Spirito è spirito”).
Resta quindi assodato che Paolo per “opere della legge” intende non solamente le opere cerimoniali ma tutte le opere dell’intera legge perché sono prive dello Spirito e quindi condannate da Dio (Romani 3:20 “Perché nessuna carne sarà giustificata davanti a lui per le opere della legge; mediante la legge infatti vi è la conoscenza del peccato”).
Luisa Lanzarotta
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Titolo: Dispute sulla verità e la morte Autore: Emanuele Severino Editore: Rizzoli "L'uomo teme soprattutto la morte. È così da sempre. La paura viene da lontano, dall'inizio. Se la morte è l'estrema minaccia che il Dio veterotestamentario rivolge ad Adamo, ciò significa che Dio sa che la morte è quel che Adamo teme di più." Sin dai suoi primi passi l'uomo ha tentato di difendersi dalla morte e di comprenderne il senso. Così, partendo dai miti, attraverso le religioni sempre si è confrontato con questa sconcertante evidenza del venir meno, dell'assenza di ciò che era presente, delle metamorfosi. Ma è solo con il pensiero filosofico che nel popolo greco è stato messo a fuoco il rapporto delle cose e degli eventi con il nulla. Un nulla, una assenza totale, che ha conferito un carattere tanto più radicale alla morte e alle riflessioni su di essa. Si incomincia a morire — e a nascere — di fronte al nulla e ha così inizio la paura estrema della morte. Per il nichilismo contemporaneo, al quale perviene lo sviluppo estremo — e più coerente — del pensiero filosofico, ogni cosa è destinata ad andare nel nulla. Eppure, discutendo anche con molti suoi interlocutori, Emanuele Severino fa capire i motivi per i quali si deve affermare che l'andare nel nulla delle cose e degli eventi non è qualcosa di "evidente", di "sperimentabile". Un'affermazione che solo apparentemente è paradossale, perché al contrario essa esprime la maggiore fedeltà all'apparire del mondo. Non solo: "Si dice che 'ognuno di noi' sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l'esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita)". Nelle pagine di questo saggio, Severino si rivolge al lettore con un linguaggio chiaro e suggestivo, guidandolo nel labirinto delle grandi domande, delle questioni irrisolte a cui da sempre la filosofia cerca di dare risposta. #bookstagram#instabook#instagram#instaread#bookphoto#bookphotography#bookliver#review#book#booktalk#bookporn#bookish#photo#libri#lettori#lettura#igeritalia#igers#libriesapere
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lauchum-blog · 6 years
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paoloferrario · 4 years
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Vasco Ursini: Risposta agli amici che mi hanno chiesto come acquistare il mio libro "Il dilemma verità dell'essere o nichilismo ?
Vasco Ursini: Risposta agli amici che mi hanno chiesto come acquistare il mio libro “Il dilemma verità dell’essere o nichilismo ?
Vasco Ursini Amministratore
 · 10 maggio alle ore 22:11 · 
Risposta agli amici che mi hanno chiesto come acquistare il mio libro “Il dilemma verità dell’essere o nichilismo ?” e la rivista “La filosofia futura” n.03/2014 della Mimesis, dove c’è la mia “Risposta a Emanuele Severino, che lo aveva recensito sia nel suo “Dispute sulla verità e la morte”, Rizzoli sia nel n. O2 della suddetta…
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paoloferrario · 4 years
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Vasco Ursini, Il dilemma verità dell'essere o nichilismo?. Nel suo "Dispute sulla verità e la morte", Rizzoli, 2018, p. 74, ed anche nel n. 02/2014 della rivista "La filosofia futura", pp. 144-145, Emanuele Severino nel recensire quel mio saggio scrive
Vasco Ursini, Il dilemma verità dell’essere o nichilismo?. Nel suo “Dispute sulla verità e la morte”, Rizzoli, 2018, p. 74, ed anche nel n. 02/2014 della rivista “La filosofia futura”, pp. 144-145, Emanuele Severino nel recensire quel mio saggio scrive
Ecco qui di seguito ciò che ho preannunciato qualche ora fa
Nel 2013 pubblicai il mio saggio “Il dilemma verità dell’essere o nichilismo?, Book Sprint Edizioni, a cui rinvio.
Nel suo “Dispute sulla verità e la morte”, Rizzoli, 2018, p. 74, ed anche nel n. 02/2014 della rivista “La filosofia futura”, pp. 144-145, Emanuele Severino nel recensire quel mio saggio scrive:
“C’è anche la situazione in…
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paoloferrario · 4 years
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Vasco Ursini: L' amico Giulio Zucchelli due anni fa mi scriveva, 8 feb 2018
Vasco Ursini: L’ amico Giulio Zucchelli due anni fa mi scriveva, 8 feb 2018
L’ amico Giulio Zucchelli due anni fa mi scriveva:
Complimenti vivissimi professor Ursini. Lei e il suo bellissimo libro: ” Il dilemma, verità dell’essere o nichilismo?” citati da Emanuele Severino nel suo libro: “Dispute sulla verità e la morte”, a pagina 74!
Ed io, ancora oggi, lo ringrazio vivamente
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paoloferrario · 5 years
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La fede dominante, in Emanuele Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018, pp. 204-205
La fede dominante, in Emanuele Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018, pp. 204-205
  E’ ormai dominante la fede che gli essenti provengono dal loro essere stati nulla, ‘nihil absolutum’. Domina sia la tradizione dell’Occidente, sia il mondo presente che a tale tradizione ha da tempo voltato le spalle. Tutte le cose sono create ‘ex nihilo sui’ (dalla loro assoluta nullità): esista un creatore o non esista (sì che, in questo secondo caso, esse siano precedute soltanto dalla loro…
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