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#associazioni a delinquere
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La Cannabis Legale è 'pericolosissima': aumenta il rischio di malattie coronarie per le associazioni a delinquere e la politica italiana corrotta.
Attualmente, in Italia, l'alcool è un grosso problema sociale - causa di incidenti, molestie anche a minori, risse in locali pubblici, decessi per l'abuso... - ma viene demonizzata, ridicolmente, la droga leggera, solo per fare un piacere alle associazioni a delinquere.
Un comune cittadino di Amsterdam, smette di lavorare e può andare a ricrearsi coi colleghi in uno dei molti locali dove si vende cannabis certificata (che non comporta danni alla salute) e poi prendere un mezzo pubblico, fra i tanti a disposizione, per tornare a casa.
In Italia, l'alcool (che è DROGA e sostanza ALTAMENTE tossica) è venduto liberamente, ma NON sono state apportate le DOVUTE modifiche urbane NECESSARIE affinché chi decide di consumarlo in un locale possa poi usufruire, ovunque, di un ECONOMICO mezzo di trasporto PUBBLICO.
E' giusto fare informazione, anche a scuola, sui pericoli da uso di 'sostanze'? Si: i più giovani vengono a contatto con alcool, tabacco, e pure caffè in famiglia: spesso i familiari non hanno adeguati argomenti per educare un ragazzo ad una Libertà Consapevole.
NON POSSIAMO vietare alle persone di ricavare PIACERE, Relax dall'uso di sostanze - soprattutto in una realtà esistenziale COMPLESSA per i molti (per chi non è nato privilegiato), dove hai bisogno di staccare la spina dai quotidiani problemi per non cadere in depressione.
L'uso di sostanze è trasversale: può farlo un comune cittadino, quanto un intellettuale; la ricerca del Piacere è connaturata negli esseri umani: gli ESSERI UMANI cercano il Piacere, non il sacrificio, non il dolore, non il martirio - che sono distorsioni morali.
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catsloverword · 8 months
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Voglia di te
Pesca o Limone?
Per il tè 🍑 , ma un 🍋 con te non sarebbe male 😎
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Io traviata dalla gang di "quelle brave ragazze" (forse una volta) 😜
@mina-s-vagante @nonsonoioblog @lastrega71 @annaeisuoipensieri @libere-fantasie
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charlievigorous · 2 years
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PSICOLOGIA SUBLIMINALE
Ieri mi è passato davanti un autobus con proprio questo manifesto enorme sulla fiancata. Però era diverso. C'era nella parte nera "con Putin" e nella parte rossa "con l'Europa" ed a fianco la foto di non so chi, presumo Enrico Letta... Allora, in precedenza hanno fatto questa cosa della pancetta o guanciale, mozzarella o bufala, eccetera, per arrivare a Russia o Europa, in modo da creare un collegamento neuronale quasi inconscio in cui, in automatico, scegli l'Europa e di conseguenza scegli Enrico Letta. Come dire di scegliere tra giusto e sbagliato... Queste sono strategie psicologiche disgustose. Associazioni a delinquere legalizzate con la collaborazione di pubblicitari e la supervisione di amministratori delegati perversi... E il bello è che questi cartelloni se ne vanno in giro sulle fiancate degli autobus comunali che in realtà sono privatizzati. Malattie mentali ambulanti.
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lamilanomagazine · 24 days
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Genova. Operazione ROS Carabinieri: 20 arresti per traffico internazionale di cocaina e detenzione illegale di armi
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Genova. Operazione ROS Carabinieri: 20 arresti per traffico internazionale di cocaina e detenzione illegale di armi. Ritenuto che sia di interesse pubblico la divulgazione di informazioni riguardanti le dinamiche connesse al traffico di rilevanti quantitativi di sostanze stupefacenti che coinvolgano associazioni per delinquere e dinamiche transnazionali, fatta salva la presunzione di innocenza – in base agli artt. 27 della Costituzione, 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, 47 e 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea – delle persone sottoposte ad indagini preliminari, nonché la possibilità per le medesime di far valere, in ogni fase del procedimento, la propria estraneità ai reati per cui si procede; si comunica che nelle prime ore della mattinata odierna, il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, supportato dai militari dell’Arma territoriale di Genova, Como e Reggio Calabria, ha dato esecuzione ad un’ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Genova, su richiesta della Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo, nei confronti di ventidue persone, tra cui uno di nazionalità dominicana, due di nazionalità colombiana, sette di nazionalità albanese. Sei degli indagati arrestati sono accusati di essere componenti di una associazione per delinquere, operativa dal 2014 a Genova, nonché a Panama; Colombia e Venezuela finalizzata: - alla importazione dall’America Latina di ingenti quantitativi di cocaina, che veniva caricata su navi dirette al porto di Genova, e, una volta recuperata, grazie all’illecita collaborazione di lavoratori operanti negli scali portuali cittadini, rivenduta a terzi, oppure, - al recupero di carichi di droga destinati ad altre organizzazioni criminali, grazie alla possibilità dell’associazione di Assicurare anche tali servizi, in tal caso facendosi ricompensare con una percentuale (in denaro o in cocaina), variabile, ma aggirantesi attorno al 20% del prodotto importato o con una somma equivalente, come corrispettivo per il recupero del carico presso il porto. L’associazione era diretta da Gabriele Puleo. Questi ha potuto disporre di una rete di contatti con organizzazioni di narcotrafficanti sudamericani. Anche dopo il suo arresto, avvenuto il 7.10.2015 a seguito del sequestro di un rilevante quantitativo di cocaina, (mentre cercava di recuperare un carico di Kg. 147, 970 di cocaina, in concorso con il latitante Bellocco Giuseppe) Puleo, pur essendo detenuto, comunicava con gli altri associati (tra questi Marco Cuoco, Vincenzo Puleo) per mezzo di criptofonini o di sistemi artigianali di comunicazione crittografata, continuando ad organizzare e finanziare per conto dell’organizzazione l’importazione di nuovi carichi di cocaina provenienti dalla Colombia e dalla Repubblica Dominicana, e destinati all’Italia, tramite il porto di Genova, l’aeroporto di Parigi, l’aeroporto di Amsterdam. Il pagamento dello stupefacente era effettuato attraverso un metodo di interposizione consistente nella consegna del contante ad un intermediario in Italia, indicato dai fornitori, il quale si occupava della rimessa a questi ultimi, avvalendosi di canali extrabancari e consegnando ricevuta agli acquirenti. Agli indagati vengono contestati: - nove episodi di importazione di cocaina da Colombia, Repubblica Dominicana, Panama, connotati dalla transnazionalità, complessivamente per circa 670 kg e un valore commerciale di 25 milioni di euro; - 38 episodi di detenzione e cessione di droga (per due di questi viene contestata l’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cp ed in particolare la finalità di agevolare l’attività della cosca di ndrangheta BELLOCCO); le condotte erano compiute in autonomia sia da appartenenti all’organizzazione che da soggetti legati ai membri di questa che, a loro volta, distribuivano stupefacente di varia tipologia (cocaina, hashish e marijuana) alle proprie filiere di spaccio; - la detenzione di armi quali due pistole a tamburo Smith & Wesson mod. 686 cal. 357 magnum con canna da 4”, una bomba a mano M75; una pistola mitragliatrice Zastava mod. M56 cal. 7,62x25 mm (tokarev); due fucili d’assalto Zastava mod. M70 cal. 7,62x39 mm, riproduzioni del più noto AK-47 (Kalašnikov). pistole semiautomatiche Beretta cal. 9, un revolver marca Smith & Wesson cal. 38SP pistole marca Colt mod. 1911 cal. 45 ACP e Beretta mod. 70 cal. 7,65 I reati contestati sono stati commessi in un arco temporale da settembre 2014 a dicembre 2022. L’indagine ha beneficiato: - del prezioso contributo informativo di Europol, che ha tempestivamente veicolato le informazioni provenienti dalle indagini avviate dalle Autorità francesi su gruppi criminali che utilizzavano un sistema di comunicazione criptato denominato EncroChat e alimentato il flusso informativo relativo ai dispositivi SkyEcc; - della preziosa collaborazione di Eurojust che ha facilitato l’agevole e tempestiva acquisizione, tramite ordine di indagine europeo, di comunicazioni criptate sequestrate dalle Autorità francesi ed intercorse sulle piattaforme EncroChat e SkyEcc. Su richiesta della DDA sono stati sottoposti alcuni beni riconducibili all’indagato Cuoco ed in particolare quote nominali di una società, una polizza assicurativa, due veicoli, un conto corrente ed un anello in oro bianco con diamante. Nel corso delle perquisizioni è stato sequestrato materiale documentale, dispositivi informatici, armi bianche ed una pistola semiautomatica.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Scommesse illegali,tre arresti e 23 milioni euro sequestrati
Beni per oltre 23milioni di euro sono stati sequestrati a presunti appartenenti a due distinte associazioni per delinquere dedite alle scommesse sportive clandestine a Marsala, con raccolta di denaro anche all’estero.     Il provvedimento, finalizzato alla confisca, è stato emesso dal gip su richiesta della locale Procura nell’ambito di un’inchiesta con 12 indagati, nove dei quali raggiunti…
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spinelliditalia · 1 year
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@SpinellidItalia (il meglio).
https://twitter.com/SpinellidItalia
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Lo stigma sul consumo di droghe leggere nasce dal comportamento di chi ne fa uso: l'irrazionalità ha un prezzo ed è quello di essere considerati persone inaffidabili, su cui non si può riporre fiducia.
Per la sicurezza sul lavoro, il consumo di droghe tollerato è pari a zero.
Un imprenditore serio non vuole avere a che fare con chi faccia uso di droghe: può diventare un pericolo per se stesso e per gli altri sul posto di lavoro - questo non per stigma sociale, ma poiché previsto anche dalle norme per la sicurezza sul lavoro, con controlli a campione.
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Una campagna seria per la cannabis legale deve puntare a motivi di salute (soprattutto per le persone gravemente malate); ad una normativa che protegga i minori dall'approccio e sottragga alle associazioni a delinquere lo spaccio: non a video e foto che invitano al consumo.
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Bere una tazzina di caffè, o tè, mangiare la cioccolata, non è la stessa cosa che fumarsi una canna o bere alcool. Il termine droga ha una connotazione al negativo, associata a comportamenti non ordinari.
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marymolinari · 1 year
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ONG= associazioni a delinquere https://www.instagram.com/p/ClA2nGzjUe5/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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tifatait · 2 years
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Frosinone/Latina: Associazioni a delinquere, coinvolte le 2 province | www.extratv.it
Frosinone/Latina: Associazioni a delinquere, coinvolte le 2 province | www.extratv.it
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corallorosso · 3 years
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Buzzi e Carminati firmano i referendum sulla Giustizia: «Basta eccessi di carcere. Sono radicale, ma su questo mi ritrovo vicino a Salvini» Forse vi siete persi una storia. La foto che pubblichiamo a corredo di questo articolo spiega molto, non tutto. Poi ci sono le parole. Certe parole («Siamo felici di condividere un percorso politico con Salvini»: ecco subito la voce di Salvatore Buzzi, a sorpresa di nuovo con Massimo Carminati — «Er cecato», «Il nero», l’ex terrorista dei Nar — stavolta insieme non nel Mondo di Mezzo ma in un sit-in referendario; con Buzzi, comunque, parleremo meglio tra poco). Intanto, la scena in cui la coppia si ricompone (un po’ di situazionismo aiuta): una settimana fa, mezzogiorno e sole a picco su piazza Cardelli, centro storico di Roma, gabbiani in picchiata, macchine in tripla fila, cassonetti infetti nei vicoli, Montecitorio è a pochi passi. All’angolo della piazza, un banchetto: quelli del Riformista raccolgono firme per il referendum Giustizia Giusta, indetto dal Partito Radicale e da Matteo Salvini in persona, a nome della Lega. I quesiti che vogliono portare in cabina elettorale sono sei: la riforma del Csm; la responsabilità diretta dei magistrati; l’equa valutazione dei magistrati; la separazione delle carriere; i limiti agli abusi della custodia cautelare; l’abolizione del decreto Severino. (...) Se non seguite le cronache giudiziarie e vi state chiedendo come sia possibile entrare in un bar e ritrovarseli accanto, sappiate che è successo questo: dopo gli arresti, l’inchiesta di Mafia Capitale e il processo nell’aula bunker di Rebibbia, tre gradi di giudizio fino al clamoroso ribaltamento (ottobre 2020) della Cassazione; secondo i giudici di piazza Cavour, il cosiddetto Mondo di Mezzo si componeva di due comuni associazioni a delinquere finalizzate alla corruzione e all’estorsione. Evaporata l’accusa di mafia, sono rimaste le pene, severe ma non ancora definitive, stabilite in un processo bis dalla Corte di Appello e in attesa di essere rideterminate dalla Cassazione: Carminati ha una condanna a 10 anni di reclusione (però con buone probabilità di non tornare in carcere), per Buzzi ci sono invece 12 anni e 10 mesi. (...) Il santino di Buzzi anche no. «Infatti: restiamo alle notizie certe. Dopo 228 udienze e oltre 300 testimoni è stato dimostrato che non ero il mostro descritto, ma solo uno che ha pagato tangenti per 65 mila euro, a fronte di fatturati per decine di milioni. Certo, sono il primo a riconoscerlo: pagare tangenti non è bello. Ma c’è una bella differenza tra uno che allunga una mazzetta e un orco del male». Buzzi, senta: perché con Carminati ha firmato per quel referendum? «Perché sono, siamo contro certi eccessi della carcerazione preventiva, perché riteniamo inevitabile la separazione delle carriere e perché vogliamo che i giudici, quando sbagliano, paghino. La mia firma spero serva a questo. Del resto, dopo una vita passata a sinistra, dal Pci al Pd, ora sono iscritto al Partito Radicale. La loro battaglia è la mia». E della Lega. «È un vero piacere condividere con Matteo Salvini questo percorso politico. Averlo al fianco ci rende più forti. È noto per cambiare idea con una certa disinvoltura, ma spero proprio che stavolta resti accanto a noi, a me, a Massimo, e a tutti quelli che vogliono cambiare la giustizia in questo Paese». (...) di Fabrizio Roncone per Corriere della Sera
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3nding · 3 years
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RIACE
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Per la gestione dei migranti, per questo suo famoso sistema di accoglienza diffusa, un sistema ammirato in tutto il mondo, e su cui è venuto a girare un cortometraggio persino Wim Wenders, qui sono arrivati fino a 3 milioni di euro l'anno. E però, colpisce. Provi a capire come era Riace, ora che è tutto finito, cosa era, cosa non ha funzionato: e non trovi un numero. Quanti abitanti effettivi ha, per esempio, a prescindere dal dato formale dei residenti? Cioè, quale era realmente la proporzione tra italiani e stranieri? E gli italiani, che età hanno, in media? E che reddito? Quanti migranti sono stati qui? Più di 6mila, dicono. Ma che significa? Per quanto tempo? E ora, dove sono? Riace gli è stata utile? Hanno imparato, tipo, un po' di italiano? E queste associazioni a cui era affidato tutto, che bilancio avevano? E quanti dipendenti? Selezionati come? Quante spese organizzative rispetto alle spese sostanziali?
In tutti questi anni, è stato rendicontato poco o niente.
E spesso, in modo solo generico.
L'unico numero certo qui è quello che il 26 maggio, quando è stato eletto il nuovo sindaco, è stato battuto dalle agenzie di stampa di mezzo mondo. 24. I voti per Mimmo Lucano.
Ed è un numero sbagliato.
24 sono i voti che ha avuto la lista di Fratoianni alle Europee.
Eppure, Riace non ha che 2.313 abitanti. La stazione è un binario e basta, senza biglietteria né niente. Poi c'è una farmacia, e di fronte, un bar e un tabaccaio. Fine di Riace Marina. Che è una delle due parti di cui si compone Riace, ed è sostanzialmente una fila di villette strette tra il mare e la statale. 300 metri più su, a sette chilometri, c'è Riace Superiore. Con la piazza del municipio, la chiesa, un bar, una salumeria e un piccolo alimentari, altri due bar e il tabaccaio. Sono collegate da due corriere al giorno. E cioè, dall'autostop.
Il primo che si ferma ha un fuoristrada da oltre 40mila euro. E quando gli dico che sono una giornalista, mi dice subito: L'ho comprato a rate. Fa il muratore.
Sono quasi tutti operai, qui. E, curioso: molti hanno un SUV. Moltissimi.
E hanno tutti lavorato nell'accoglienza.
Tra progetti ordinari e progetti di emergenza, tra SPRAR e CAS, Riace aveva circa 300 posti. Ma a tratti, in base agli sbarchi, in base a guerre e carestie, i migranti erano più del doppio. Gestiti da Città Futura, l'associazione fondata nel 1999 da Mimmo Lucano, e altre sei associazioni minori. Ma capire come, è complicato. Google non ha molte informazioni. E quindi, l'unica è telefonare alle associazioni. Una a una. Inizio dal Girasole. Da Maria Taverniti, la sua presidente. Mi hanno detto che è a casa, vorrei chiederle se posso passare un momento. Ma mi dice: Non sono a Riace. Dico che sto qui tutta la settimana, mi dice: Non so quando torno. Chiedo allora se posso passare in sede. Mi dice che è chiusa. Se posso parlare con uno degli operatori. Mi dice che non c'è più nessuno. Chiedo se c'è un sito web da cui avere un'idea delle attività. Non c'è. Un documento, un volantino, un vecchio articolo di cronaca locale: niente.
Non trovi un pezzo di carta, qui.
In compenso, trovi le intercettazioni della Guardia di Finanza. Che ha indagato su Riace per 18 mesi. Il 2 settembre 2017 Mimmo Lucano è con Cosimina Ierinò, la sua segretaria. Ed è inferocito. Sono arrivati i fondi da Roma, e ha girato al Girasole 95mila euro: ma i fornitori continuano a chiamarlo, perché non sono stati pagati. E anche gli operatori. 95mila euro. E non bastano? "Sono dei ladri matricolati!", dice.
Dal Girasole si difendono, dicono che hanno pagato quello che hanno potuto. Che quella è solo parte dei fondi. Che quando da Roma arriverà il resto, pagheranno il resto. Ma Cosimina Ierinò è lapidaria. "Si sono fregati tutto", dice.
E la Guardia di Finanza ha decine di intercettazioni così.
Secondo la Procura di Locri, guidata tra l'altro da una toga rossa, Luigi D'Alessio, che ha ripetuto più volte alla stampa che su Riace spera davvero di essersi sbagliato, nei tre anni esaminati quasi il 30 percento dei fondi è stato usato per tutto tranne che per i migranti. Per intestarsi case. Per ristrutturare e arredare immobili estranei ai progetti di accoglienza, per concerti e festival vari. E dai conti correnti delle sette associazioni mancano all'appello 2 milioni di euro: prelevati senza giustificazione contabile. Di certo, parte sarà stata spesa per i migranti. E sarà dimostrato in aula. Ma altrettanto di certo, molte delle fatture in archivio sono, diciamo, discutibili. Per una delle case risultano comprati 87 materassi e 131 cuscini, un cartolaio ha venduto mobili. E una Fiat Doblò ha avuto rimborsi benzina per 695 km al giorno.
Il 30 agosto 2016 una 32enne del Ghana ha incassato un assegno di 10.591 euro per due mesi di lavoro. Fa treccine ai capelli.
Il 22 agosto 2017 Tonino Capone, presidente di Città Futura, parla con un amico, e spiega che preferisce spendere i fondi che avanzano, piuttosto che restituirli a Roma a fine anno. "Se si deve trovare qualcosa andiamo, e troviamo un po' di fatture [...] Che so, ci sono 3mila euro, ci sono 10mila euro che devono ritornare indietro. Andate, e vi scegliete una camera per i ragazzi [...] Ma mica gli torno i soldi indietro".
Si sente Mimmo Lucano dire: "Quello che ho scoperto è devastante".
Con altri 26 imputati, è accusato ora di associazione a delinquere per reati contro la pubblica amministrazione. Il processo è iniziato l'11 giugno.
Bahram Acar aveva 32 anni, quando è sbarcato sulla spiaggia di Riace. E ricorda ancora quella notte. In cui al buio, cercava la strada per Roma. Era il 1998. All'epoca, non esistevano SPRAR e CAS, CIE e CARA, e quindi, semplicemente, si è trovato un lavoro. "Negli ultimi tempi", ammette, "Riace non era che un parcheggio. I migranti avevano tutto pagato. Anche le sigarette. E quindi, ciondolavano tutto il giorno", dice. "Ma anche le associazioni. Assumevano amici e parenti, invece di operatori qualificati. Erano in 10 per 10 migranti. Non aveva più senso", dice. Dicendo quello che ti dicono tutti, qui. Ma proprio tutti. Delineando una parabola che inizia nel 1998. Inizia con quel primo peschereccio alla deriva. E per dieci anni, tutto viene gestito in modo artigianale. Ma inappuntabile. Di quei 2.313 residenti, 470 sono stranieri che si sono fermati qui. Di 38 diverse nazionalità. "Poi, però, i numeri sono cambiati", dice Adelina Raschellà, l'edicolante. "Ed è saltato tutto", dice. E per numeri, non intende i numeri dei migranti: intende i fondi. I fondi pubblici. Perché sono aumentati i migranti, sì. Ma il denaro: è quello che ha sfasciato tutto. Qui che così tanto denaro non si era mai visto. Era il 2011. Era la Primavera Araba. "Si era sparsa la voce che a Riace aprivano la porta a tutti, e telefonavano da tutta Italia, magari alle due di notte, chiedendo: possiamo inviarvene altri duecento, domani?", dice. E qui nessuno si tirava indietro. "Perché qui siamo tutti migranti noi per primi", dice.
"Ma è stato un disastro".
Anche perché i fondi, qui come altrove, arrivavano con mesi di ritardo. E quindi Mimmo Lucano ha rimediato con i cosiddetti bonus: i migranti ricevevano delle banconote con Marx e Mandela che i commercianti poi convertivano in euro quando Roma, infine, pagava. "Ma era insostenibile", dice Maria Chillino, della macelleria. "Un conto è se sei la Conad, coperto da una sede centrale. Ma noi intanto dovevamo saldare la merce. Le bollette". Tira fuori scatole e scatole di banconote colorate. Ha ancora 16mila euro di crediti. "E mentre, sostanzialmente, era tutto a nostro carico, per il resto era come non avere un sindaco. I migranti assorbivano ogni energia. Spesso, per esempio, qui manca l'acqua: ma nessuno veniva neppure a domandarci se avevamo bisogno di aiuto. Si limitavano ad affittare case, e stiparci dentro magari dieci ventenni che non avevano mai vissuto prima da soli. E lì, o sei africano, o sei italiano, è uguale: è ovvio che avrai problemi", dice. "Chiamavamo le associazioni, e non rispondevano mai". Giuro, dice. Domanda ai carabinieri. Domanda agli avvocati. Qui protestavano tutti.
I carabinieri, in effetti, hanno ricevuto decine di segnalazioni.
E il Comune, decine di richieste di risarcimento. Entra un cliente. Si chiama Cosimo Romano. Gli pagavano 300 euro al mese per un appartamento di 140 metri quadri. La ristrutturazione gli è costata 15mila euro. I danni superano i 10mila.
"Non abbiamo votato contro i migranti", dice Maria Chillino. "Ma contro chi gestiva i migranti". "Contro chi fingeva di gestirli".
E colpisce. Perché quello che racconta, e che racconta come fosse normale, è drammatico. Tre, quattro volte al giorno entravano in macelleria. E chiedevano un po' di carne, o degli spiccioli per un biglietto di treno. Il significato di un certo documento. Di tutto. "E tu aiutavi il primo, aiutavi il secondo, il terzo. Il quarto. Ma poi, eri costretto a dire no", dice. "E magari era poco più di un bambino. E ti restava lì, fuori dalla porta. Senza sapere dove andare e... e..." - le si spezza la voce. "Giuro. Giuro", dice. "Abbiamo dato più del possibile".
La sconfitta della sinistra è stata tutto, qui, tranne che una vittoria della destra. E non solo perché Claudio Falchi, il segretario della Lega eletto in consiglio comunale, migrante anche lui per 24 anni in Venezuela, è stato eletto con 25 voti: i numeri sono questi, a Riace - più che il partito con cui ti candidi, conta quanti amici hai. Ma soprattutto, perché tutti vogliono indietro i migranti. Ed è anche per questo che hanno scelto la Lega. Perché è al governo: è dalla Lega che ora dipendono i fondi da Roma. Perché per il resto, nessuno ha dubbi, qui: i migranti sono una ricchezza. E l'unica di Riace. Persino il nuovo sindaco, Antonio Trifoli, 49 anni, vigile urbano, uno che tra l'altro, è stato tra i fondatori di Città Futura, non ha che parole belle per Mimmo Lucano. Nessuno, qui, contesta il suo valore. Ha rianimato Riace. Solo che oltre alle parole belle, nel suo nuovo ufficio Antonio Trifoli ha anche faldoni e faldoni di debiti. 3 milioni di euro. "Per anni, il Comune non ha pagato l'acqua, la luce. Ma anche cose minime. Tipo l'impianto di aria condizionata. Nessuno si occupava più dei cittadini", dice. E per cittadini, intende tutti: italiani e stranieri. "Perché alla fine, eravamo tutti senz'acqua", dice.
Riace è stata capofila della battaglia per l'acqua bene pubblico. E gratuito. Per questo l'acquedotto, alla fine, ha ridotto la pressione. Perché il Comune ha 850mila euro di arretrati.
Qui anche la sinistra, dice, ha le sue responsabilità. E lo dice dopo una vita a sinistra. "Non avendo più leader, ha trasformato Mimmo Lucano in un simbolo. E ha finito per chiedere a Riace troppo rispetto a quello che Riace, realisticamente, era".
Perché in questi anni sono venuti tutti, qui. Registi, musicisti, scrittori. Artisti. Ma anche semplici attivisti: che ora, nelle intercettazioni, compaiono qui e lì, mentre chiedono se per caso una delle case per i migranti è libera per un weekend. Erano tutti incantati dai laboratori di artigianato. Dal vetro, le ceramiche. Le stoffe. Senza pensare, come hanno contestato più volte gli ispettori, che se sei un ingegnere iracheno, imparare a usare un telaio ti è completamente inutile. Non ha senso definirla, e soprattutto, finanziarla, come attività di "formazione professionale". Mimmo Lucano ha sempre ribattuto che la Calabria è questa. Che non c'è lavoro, qui. Non c'è niente. Ma allora, evidentemente, bisognava ricalibrare il sistema, gli hanno risposto. E per esempio, inviare qui i migranti appena sbarcati, per poi smistarli altrove. Il dibattito, è ovvio, è aperto. Anche perché in Italia, l'alternativa a Riace sono spesso i campi di pomodori in cui si è pagati 3 euro l'ora per 12 ore al giorno. "Ma alla sinistra non è mai interessato niente di tutto questo", dice Antonio Trifoli. "Ancora oggi, è vietato criticare. Anche se nessuno neppure sa dove siano ora i migranti che sono stati qui. Nessuno gli ha mai chiesto se Riace gli sia stata utile o meno".
E ora, dopo averci usato, ci hanno dimenticato, dice.
Ora stanno tutti sulla Sea Watch. Ora si sono trovati un'altra icona.
Nel momento difficile, sono spariti tutti.
Perché poi, per dieci anni qui ha funzionato tutto. Fino a quando prima lo stato, e poi la destra e la sinistra, non hanno deciso che i migranti erano un problema. Il problema.
E hanno sfasciato tutto.
E se Riace parla, ora, se racconta infine quello che tutti sapevano, ma tutti, per interesse, tacevano, incluso, appunto, lo stato, che poteva inviare qui tutti i migranti che non aveva idea di dove altro inviare, è proprio per difendere Mimmo Lucano. Che non si è intascato un euro, giurano. Mai. Di altri, noti un tenore di vita incompatibile con il reddito. Fuoristrada. Viaggi. Case nuove. Ma Mimmo Lucano no, giurano. Quello che aveva, ha. E cioè, niente. Quando il tribunale, a ottobre, gli ha vietato di stare a Riace, i primi giorni ha dormito in auto. Profugo tra i profughi. Sotto una pioggia a dirotto. Solo. E non è giusto, dicono. Non è giusto che paghi per tutti. E quando spiego che sì, mi ripetono tutti le stesse cose, la stessa storia, e però poi vogliono restare anonimi, e così sono non sono che voci di paese, dico, quando dico che ho bisogno di nomi e cognomi, si avvicina un uomo. "Scrivi", dice. "Mi chiamo Cosimo Nisticò. Lavoravo per la cooperativa L'Aquilone. Busta paga di 1200 euro, effettivi 300". Ora basta, dice. "Non è giusto".
"Non è giusto che paghi per tutti".
Perché la tesi di Mimmo Lucano, è nota. Con il costo della vita di Riace, i famosi 35 euro al giorno a migrante ricevuti dallo stato erano più che sufficienti: e quindi, era possibile investire anche in altro. Senza togliere niente a nessuno. Anzi. Perché aprire, per esempio, botteghe di artigianato, significava rilanciare l'economia. Per tutti. Anche per gli italiani. Il problema è che il laboratorio del cioccolato alla fine non solo non è stato aperto che per l'arrivo di una delegazione dell'ONU: la cui grigliata di carne, in più, è stata pagata con i fondi per i minori non accompagnati - per anni, il sistema ha funzionato, sì: ma poi, complice uno stato che fino a poco tempo fa non imponeva molti obblighi di rendicontazione, né molti vincoli di spesa, questo "altro" coperto dai 35 euro, questo extra, è diventato anche, per dire, tre appartamenti e un frantoio che ora risultano intestati a Città Futura. Comprati con scritture private non registrate. E 360mila euro di fondi pubblici. Come anche Palazzo Pinnarò. La sede di Città Futura. Il 10 luglio 2017, Mimmo Lucano parla con il suo presidente. Ha mezza Riace che gli domanda in che senso un frantoio benefici i migranti, a cosa serva, e ammette: "Non serve a niente".
Ma è tardi, ormai. Il sistema è fuori di ogni controllo.
Perché poi, anche se i presidenti delle associazioni non parlano, è sufficiente parlare con i pochi migranti che sono ancora qui. O meglio: provare a parlarci. Tento prima con un'eritrea, poi con tre nigeriane, altri due nigeriani. Due siriani. E sono qui da mesi, a volte da anni: ma non parlano una parola di italiano.
Che poi è la vera ragione per cui alla fine è saltato tutto. Quando a Riace si è capito che i primi a essere danneggiati, erano i migranti stessi. Perché qui, in realtà, a nessuno importa quello di cui discute la stampa. Le carte di identità rilasciate anche ai clandestini. I profughi ospitati anche a termini scaduti. Sono illeciti che avrebbero compiuto tutti. E per cui sono orgogliosi di Mimmo Lucano. Non sono visti come illeciti: ma come forme di disobbedienza civile. Se gli hanno votato contro, è per tutto il resto. O più esattamente: per tutti gli altri. Domenico Arcadi, il ragioniere del Comune, mi riporta giù a Riace Marina con la sua auto da 540mila chilometri. Sa meglio di chiunque altro come è andata, ma a inchiesta in corso, non può dirmi niente. Mi dice solo, amaro: Però intanto altri, altrove, trattavano con la Libia. "Qui risponderanno di abuso d'ufficio, magari. Di truffa. Ma altrove, di crimini contro l'umanità".
"Che follia", dice. "Sprecare tutto per un SUV. E ora che le indennità di disoccupazione finiranno, come camperanno? I migranti erano il solo modo per non diventare anche noi migranti".
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[Agosto 2019]
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bicheco · 3 years
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Mimmo il pasticcione
Una persona legge i titoli delle notizie, o i resoconti superficiali o le analisi a caldo e si fa un'idea sbagliata: Mimmo Lucano il grande sindaco paladino dell'accoglienza, l'eroe buono che viene schiacciato da una giustizia ingiusta e prepotente?! Che mostruosità! Poi però arriva Travaglio il quale, come spesso capita, ha approfondito e spiega alcune cose, in questo modo tutto quanto appare più chiaro e comprensibile.
"Se giudichiamo la sentenza Lucano col senso comune, magari paragonandola alle pene molto inferiori inflitte a grandi corrotti come Formigoni, frodatori come B., bancarottieri come Verdini, complici della mafia come Dell’Utri, per non parlare della Trattativa, possiamo tranquillamente dire che 13 anni e 2 mesi (sia pure in primo grado) sono un’enormità.
Se però leggiamo il dispositivo della sentenza del Tribunale di Locri, comprendiamo che quei 13 anni e 2 mesi sono il cumulo delle pene per i singoli reati – quasi tutti molto gravi – per cui è stato condannato l’ex sindaco di Riace. Sgombriamo subito il campo dalle falsità.
1) Lucano non è stato condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: per la violazione della legge Turco-Napolitano è stato assolto, come per aver fatto carte false per far entrare illegalmente clandestini in Italia o munirli di documenti farlocchi.
La sua battaglia contro le leggi sull’immigrazione – ammesso e non concesso che sia ammissibile da parte di un sindaco – non c’entra nulla. E nemmeno il “modello Riace”, cioè il meritorio ripopolamento di un comune depresso con l’integrazione dei migranti.
2) Difficile immaginare che i tre giudici del Tribunale nutrissero intenti persecutorii, come già si era detto dei pm (ora quasi rimpianti perché hanno chiesto la metà della pena poi inflitta dal Tribunale). Al netto di quelli contestati ai suoi 26 coimputati, Lucano rispondeva di 16 capi di imputazione.
È stato assolto per 5, condannato per 10 (in parte alleggeriti di diversi fatti, per cui è stato pure assolto) e prescritto per uno.
3) La condanna riguarda non gli aiuti ai migranti, ma una serie impressionante di pasticci finanziari con denaro pubblico. Il primo è l’associazione a delinquere per commettere “un numero indeterminato di delitti contro la Pa, la fede pubblica e il patrimonio” e “soddisfare gli indebiti e illeciti interessi patrimoniali delle associazioni e cooperative” create e controllate da Lucano e dai suoi amici come “enti gestori dei progetti Sprar, Cas e Msna” (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati, Centri accoglienza straordinaria, Minori stranieri non accompagnati), con “indebite rendicontazioni delle presenze degli immigrati”, “derrate alimentari falsamente indicate come destinate agli immigrati ma sistematicamente utilizzate per fini privati”, “costi fittizi per spese carburante”, “numerose false fatturazioni”, nessun “controllo delle spese” né “documentazione dei costi sostenuti dalle associazioni”, “prelievi di denaro contante e assegni bancari dai conti correnti senza alcuna giustificazione”, “indebita destinazione di fondi ottenuti per fini diversi” dall’accoglienza.
L’altro – che forse spiega la discrepanza tra pena richiesta e pena inflitta – è la truffa aggravata allo Stato, cioè alla Prefettura e al Viminale (prima era “solo” abuso d’ufficio) per far versare 2,3 milioni indebiti o ingiustificati alle varie associazioni.
Poi c’è un’altra truffa allo Stato da 281mila euro per una miriade di “costi fittizi o non giustificati”, “false fatture”, false annotazioni sui registri Inail di ore lavorate, “fittizi acquisti di bombole, materiale di cancelleria, mobili e schede carburante false”.
Ne consegue l’accusa di falso ideologico in atto pubblico per ben 56 determine “propedeutiche al rimborso dei costi di gestione dei progetti Cas e Sprar” in cui Lucano “attestava falsamente di aver effettuato controlli sui rendiconti di spese” fantasiosi.
Un altro reato che porta alle stelle la pena è il peculato, per essersi “appropriato in modo sistematico” di “ingenti fondi ottenuti dallo Stato per l’accoglienza dei rifugiati”, “non meno di 2,4 milioni, distraendoli alle predette finalità” per l’“acquisto, arredo e ristrutturazione di tre case e un frantoio non rendicontati”, più “prelievi in contanti per 531.752 euro”, in parte usati “per il viaggio in Argentina di Lucano”, in parte per “i concerti estivi organizzati dal Comune di Riace”. Concerti che poi il sindaco “attestava falsamente” non essersi svolti “al fine di non pagare i diritti Siae”: altro falso.
L’ultimo reato grave è l’abuso per aver “affidato il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti nel comune di Riace alle cooperative sociali Ecoriace e l’Aquilone, prive dei necessari requisiti richiesti” dalla legge, “dell’iscrizione all’Albo regionale delle cooperative sociali” e “di autorizzazioni alla gestione ambientale”, senza l’ombra di una gara (la turbativa d’asta è prescritta).
Infine Lucano rilasciò a Tesfahun Lemlem, sua compagna etiope, un certificato falso: “lo stato civile di nubile anziché di coniugata, a lui noto”.
Fin qui il giudizio penale di primo grado, che potrà essere rivisto in appello.
Sul piano politico e morale, a parte qualche spesa privata con soldi pubblici, non si può dire che Lucano sia un corrotto o che agisse per interessi propri, anche se quel sistema di soldi allegri a pioggia drogava certamente i suoi consensi. È possibile che agisse con le migliori intenzioni.
Ma questo incommensurabile pasticcione era pur sempre un sindaco, cioè un pubblico ufficiale tenuto a rispettare e a far rispettare le regole. L’impressione è che la nobile missione del “modello Riace” gli abbia dato alla testa, convincendolo di essere al di sopra, anzi al di fuori della legge. Che si può sempre contestare e persino, per obiezione di coscienza, violare. Ma senza la fascia tricolore a tracolla. E affrontando poi le conseguenze delle proprie azioni."
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lamilanomagazine · 7 months
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Operazione “Malerba”: 41 le custodie cautelari in carcere per traffico illecito di stupefacenti aggravata dal “metodo mafioso”
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Operazione “Malerba”: 41 le custodie cautelari in carcere per traffico illecito di stupefacenti aggravata dal “metodo mafioso”. Catania. Alle prime ore di questa mattina, su delega di questa Procura Distrettuale della Repubblica - Direzione Distrettuale Antimafia, oltre duecento militari del Comando Provinciale Carabinieri di Catania, supportati dai reparti specializzati dell’Arma (Compagnia di Intervento Operativo del XII° Reggimento “Sicilia”, Squadrone Eliportato “Cacciatori” Sicilia, Nucleo Elicotteri, Nucleo Cinofili), hanno dato esecuzione ad un’ordinanza applicativa di misure cautelari personali emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Catania, nei confronti di 41 soggetti indagati, con differenti profili di responsabilità, a vario titolo, per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti aggravata dal “metodo mafioso” e dalla finalità di agevolare l’attività delle associazioni mafiose, nonché per acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio. Contestualmente è stata eseguita un’altra ordinanza applicativa di misure cautelari emessa dal GIP presso il Tribunale per i Minorenni di Catania, su richiesta della Procura della Repubblica per i Minorenni, nei confronti di 5 soggetti, all’epoca dei fatti minori, due dei quali collocati in comunità e tre in Istituto penitenziario minorile, che sarebbero stati inseriti nel medesimo contesto associativo criminale e partecipi di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti. A corollario dell’attività, è stato inoltre notificato l’avviso di conclusione indagini preliminari ad altri 20 soggetti nei confronti dei quali, pur essendo stata riconosciuta la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, non sono state emesse misure cautelari personali per assenza di esigenze cautelari. L’operazione denominata “MALERBA” ha consentito di disarticolare i vari gruppi criminali che gestivano numerose “piazze di spaccio” di sostanze stupefacenti (cocaina e marijuana) nel popoloso quartiere di San Giovanni Galermo di Catania, le quali costituiscono la principale fonte di guadagno per la criminalità organizzata radicata sul territorio, e sono la causa del profondo degrado, che caratterizza l’agglomerato urbano e il contesto sociale di riferimento. È stato accertato come “Cosa nostra” catanese, nonostante le continue operazioni di polizia sul territorio, sfruttando la peculiare morfologia dell’area, caratterizzata da complessi edilizi “chiusi” non facilmente permeabili dalle forze di polizia, come la nota via Capopassero, continua a controllare il territorio e ad imporre ai singoli sodalizi criminali regole, prezzo e quantitativo della droga da smerciare, creando un vero e proprio sistema di controllo del mercato. L’indagine, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e condotta dal Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Catania Fontanarossa da marzo 2021 a ad aprile 2022, si pone in continuità con la maxi operazione Scanderbeg, che nel 2020 ha visto l’arresto di 101 soggetti, e si sviluppa da una qualificata attività di osservazione a distanza svolta affiancata da una parallela attività tecnica di intercettazione e da numerosi riscontri oggettivi (arresti in flagranza di reato, controllo degli acquirenti, sequestri di droga, denaro e armi), permettendo in tal modo di ricostruire il “modus operandi” delle piazze di spaccio, delineando struttura ed organigramma dei vari sodalizi criminali che vi operavano, alternandosi in diversi turni orari nell’arco dell’intera giornata, con una copertura h 24. Sempre secondo l’impostazione accusatoria, accolta dal Gip, allo stato degli atti con riguardo alla fase processuale che non ha ancora consentito l’instaurazione del contraddittorio innanzi al Giudice, al vertice dell’associazione criminale, col ruolo di coordinatore e supervisore di molte piazze di spaccio, vi sarebbe il noto pluripregiudicato Raimondo Antonino – responsabile della fornitura, in modo esclusivo e continuativo, della sostanza stupefacente per conto del gruppo Nizza, inserito nella famiglia mafiosa SANTAPAOLA-ERCOLANO. L’imponente e lucroso traffico illecito di stupefacenti, ha dunque garantito la pacifica convivenza di organizzazioni criminali ben strutturate, che avevano stipulato un accordo teso ad evitare la concorrenza sleale tra le piazze di spaccio e l’insorgere di possibili conflitti tra gruppi mafiosi (infatti, in base alle regole sulla leale concorrenza di mercato imposte dai clan, i pusher su strada non possono chiamare gli automobilisti/acquirenti che giungono lungo la via, che possono autonomamente scegliere la piazza di spaccio cui rivolgersi). Alcune “piazze di spaccio” attive senza soluzione di continuità, consentivano a circa 2.500 clienti giornalieri, di acquistare a qualsiasi ora la loro dose quotidiana di marijuana, cocaina o crack, incrementando con proventi di tutte le piazze di spaccio il volume d’affari della criminalità organizzata, per circa 240.000 euro al giorno, prevalentemente destinati al sostentamento degli associati ed al mantenimento dei detenuti mafiosi e delle loro famiglie. La piazza di spaccio veniva gestita da un responsabile (cd. capo piazza), al quale il coordinatore delle piazze (Raimondo Antonio) avrebbe assegnato una determinata fascia oraria nella quale organizzare la vendita di stupefacente (marijuana, cocaina e crack). Nell’ambito di tali turni predefiniti il responsabile di ciascuna piazza individuava gli addetti alle cessioni (pusher) che, coadiuvati dai corrieri responsabili del trasporto dello stupefacente dal luogo di stoccaggio al luogo di vendita, dagli addetti alla custodia delle sostanze stupefacenti (che avveniva in abitazioni limitrofe o altri luoghi) e dalle vedette che li avvisavano tempestivamente per consentire loro una fuga immediata, ponevano in essere innumerevoli cessioni di stupefacenti, nell’ordine delle centinaia per ogni turno. La fitta rete di vedette radiocollegate - sia quelle statiche posizionate all’interno di abitazioni private o sulle terrazze dei palazzi, sia quelle dinamiche operanti su strada a bordo di motocicli messi a disposizione dalle organizzazioni e preposte al controllo delle vie di accesso carrabili e pedonali - garantiva un servizio a favore dell’intera collettività criminale del quartiere, retribuito dai responsabili di tutte le piazze di spaccio. L’indagine ha inoltre consentito di accertare la disponibilità e l’utilizzo, da parte di alcuni sodali criminali, di armi da fuoco all’interno delle piazze di spaccio come testimonia il sequestro operato in data 24 marzo 2022 di una pistola semi-automatica marca cal.380 con matricola abrasa, ed il rinvenimento nella stessa circostanza di una pistola semiautomatica cal.7.65 carica e pronta all’uso. Con l’odierna esecuzione delle ordinanze del GIP che ha disposto 41 misure di custodia cautelare in carcere, e con la notifica della conclusione delle indagini preliminari nei confronti di altri 20 indagati, è stato inferto l’ennesimo colpo alla criminalità organizzata ed in particolare al gruppo Nizza, facente parte del clan SANTAPAOLA-ERCOLANO, che da sempre trae dalle fiorenti piazze di spaccio site nel territorio di San Giovanni Galermo un costante e significativo finanziamento delle casse della consorteria criminale per il pagamento dello stipendio degli affiliato detenuti.  ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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normandofcalvillo · 7 years
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De Martino, il re del Lido vicino alla ’ndrangheta
di Gianni Belloni wVENEZIA Di certo non è passato inosservato. Antonio De Martino, quarantenne imprenditore e immobiliarista originario di Lamezia Terme, al Lido di Venezia si è dato da fare raccogliendo consensi, sospetti e (poche) pubbliche avversioni. Estroverso, loquace, di una gentilezza un po' chiassosa ed esibita, Antonio De Martino si è occupato un po' di tutto: affari immobiliari, costruzioni, turismo, locali e ristoranti, politica. Un ciclone di attivismo che si è abbattuto su questa quieta isola lagunare tra la fine degli anni '90 e l'inizio del duemila. All'inizio si tratta di una presenza intermittente perché deve scontare una pena per l'omicidio accidentale, avvenuto nel 1993 nella natia Lamezia Terme, di un ragazzo, Giuseppe Giampà. Contando su periodici permessi dal carcere, mette piede al Lido mettendo a segno i primi affari in campo edile con la vigile ed esperta assistenza del padre Saverio, imprenditore reduce a sua volta, nel settembre del 1995, da un attentato in cui rimase gravemente ferito. Questi burrascosi precedenti non impediscono ai De Martino, il figlio Antonio in particolare, di "entrare in società". Dal punto di vista economico, avviando diverse attività tra cui una agenzia immobiliare con sede sul Gran Viale, il ristorante La Pagoda, un negozio di souvenir a Venezia, la costruzione di case e, recentemente, la gestione delle spiagge più belle e rinomate dell'isola lagunare, quelle dei grandi alberghi Des Bains e Excelsior. Negli anni, Antonio De Martino ha animato una associazione di commercianti – l'associazione "Vivere il Lido" - e una serie di iniziative di promozione che hanno stupito. L'età media dei 17mila abitanti del Lido è più alta di quella, già altissima, dei residenti del centro storico veneziano. L'attivismo di De Martino, in una società un po' ripiegata su se stessa, balza all'occhio. Giochi e animazioni serali lungo il viale d'estate, la tessera annuale «Venezia Lido Card», che da diritto a sconti per le famiglie: niente di che, elementari principi di marketing territoriale, ma al Lido non ci aveva pensato nessuno. Non poteva mancare la politica nel suo curriculum: e infatti nel 2006 De Martino apre una sezione dell'Udc, partito che a Venezia fa riferimento a Ugo Bergamo, politico di lungo corso, sindaco negli anni '80. Si parla di un consistente pacchetto di tessere che De Martino avrebbe portato in dote al partito. La sua militanza politica è reale: per dieci anni siede infatti nel direttivo cittadino dell'Udc. Ci sarebbe però una "storia notturna" che scorre parallela e, alle volte, incrocia la brillante carriera imprenditoriale. La racconta l'interdittiva antimafia emanata un paio di settimane fa dal prefetto di Venezia nei confronti della Venice Top Management srl, una delle società dell'imprenditore: "Antonio e Saverio De Martino - si legge nel documento prefettizio - continuano a mantenere rapporti con numerosi esponenti della malavita organizzata calabrese e con soggetti agli stessi sodalizi criminali facendo emergere un intreccio di cointeressenze personali ed economiche". Il padre Saverio e Antonio, negli anni, sarebbero rimasti legati da vincoli di amicizia e riconoscenza al boss della cosca Iannazzo di Lamezia Terme, Vincenzo Iannazzo. Tanto da ospitarlo a Venezia nel 2009 quando Vincenzo lasciò per un periodo Lamezia per contrasti con i suoi sodali o finanziarne il soggiorno in Irlanda. Il documento del Prefetto sottolinea il legame d'affari esistente tra Iannazzo e i De Martino, in particolare per quanto riguarda la Regit srl - società con sede legale a Lamezia, ma attiva nel Veneziano – con cui la famiglia De Martino farà diversi affari tra il 2001 e il 2004. E questo sarebbe avvenuto, secondo la Prefettura, in seguito alla visita, nel 2001, di Iannazzo in alcuni cantieri della Regit. La loro rete di conoscenze nel Veneziano sarebbe stata sfruttata, secondo quanto scrive la Prefettura, varie volte da sodali della rete 'ndranghetista. Come quando Gennaro Longo di Lamezia Terme - "sospettato di essere contiguo alla consorteria 'ndranghestita Iannazzo-Giampà", titolare della ditta ElleDue costruzioni, vince nel 2011 l'appalto la costruzione della caserma dei carabinieri di Dueville nel vicentino. Grazie ai buoni uffici di Antonio De Martino (dice l'interdittiva), la ElleDue costruzioni ottiene la certificazione necessaria per concorrere agli appalti pubblici. I nodi della rete di conoscenze di De Martino sembrano ben piazzati: lo scorso 23 settembre è stato condannato a quattro mesi di reclusione per aver utilizzato informazioni coperte dal segreto. Antonio Cairo, sotto capo della capitaneria del porto di Venezia, avrebbe infatti avvertito in anticipo l'imprenditore sui futuri controlli nei suoi stabilimenti balneari. Della "storia notturna" dei De Martino, al Lido, si vociferava almeno da una decina d'anni. Voci sempre più insistenti dopo l'arresto, il 14 maggio 2015, del padre Saverio nell'inchiesta Andromeda della procura di Catanzaro a carico delle cosche di Lamezia Terme, con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Saverio è poi stato ritenuto estraneo alle accuse dal Tribunale del Riesame di Catanzaro e scarcerato il 2 giugno. Si era alla vigilia delle elezioni e De Martino aveva seguito la parte dell'Udc fedele al centrosinistra, si era candidato per la municipalità del Lido, ma il candidato del centrosinistra, Felice Casson, aveva posto il veto sulla sua candidatura. "Antonio Provenzano mi faceva l'esempio, no?, se De Martino aveva preso tutti questi appalti, come fa a prenderli? Qua come li prendiamo gli appalti? Con l'amicizia. E la stessa cosa è là". A parlare è Angelo Torcasio, collaboratore di giustizia, le cui confessioni hanno dato il via all'inchiesta Andromeda. L'amicizia di cui parla Torcasio è in realtà un saldo rapporto con rappresentanti del mondo politico che – al sud come al nord – rimangono figure decisive per l'assegnazione degli appalti. "Dalle risultanze investigative emerge – scrive il prefetto - che De Martino Antonio avrebbe richiesto ad un politico ed amministratore locale di intercedere sul funzionario a capo della struttura competente al fine di velocizzare al procedura di concessione dell'autorizzazione a costruire nell'area del Parco delle Rose (…). Di fatto l'autorizzazione venne rilasciata dieci giorni dopo". Siamo nel 2010 e l'affare del Parco delle Rose è l'occasione, forse l'unica, in cui Antonio De Martino si scontra con una parte degli abitanti del Lido, i componenti del battagliero comitato ambientalista locale. De Martino progetta di costruire in un'area verde nella zona centrale del Lido due edifici ad uso commerciale e residenziale compreso dei garage sotterranei. Il progetto di De Martino verrebbe ricompreso in tutta la serie di interventi previsti dall'anniversario dell'Unità d'Italia, un "Grande Evento", occasione per nominare commissari straordinari e velocizzare procedure. Al Lido alla costruzione del nuovo palazzo del Cinema il commissario straordinario Vincenzo Spaziante accumula altre competenze tra cui la decisione sul Parco delle Rose. Il progetto di De Martino viene fieramente osteggiato dal coordinamento delle associazioni ambientaliste, ma supera lo scoglio delle autorizzazioni (semplificate dal regime commissariale). Alla fine De Martino non riuscirà a reperire il capitale sufficiente e ad accordarsi con i proprietari dell'area e il progetto – forse il più ambizioso dei suoi - rimarrà sulla carta. I De Martino, padre Salvatore, madre Angela Perri, la sorella Vincenza con il marito Ferdinando Estini (fratello di Ottavio Estini, genero di Pasquale Giampà, capo della famiglia ndranghetista omonima) vivono insieme in un complesso residenziale, dal disegno architettonico un po' vanitoso, alle "terre perse", zona in bilico tra la cittadina del Lido e il borgo veneziano di Malamocco. Da pochi anni ha aperto, con buone speranze, un locale – Lidò – sul Gran Viale. Sia chiaro: il provvedimento della Prefettura è una misura preventiva, i fatti descritti sono frutto di attività investigativa, ma non hanno validità al fine di dichiarare Antonio De Martino appartenete alla 'ndrangheta. De Martino potrà ricorrere al Tar per dimostrare le sue buone ragioni. Che la "storia notturna" esista davvero nessun tribunale lo ha ancora stabilito. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Droga da Olanda e Spagna per le piazze del Napoletano, 29 misure
Blitz contro il narcotraffico internazionale dei Carabinieri e della Dda di Napoli, che hanno sgominato due associazioni a delinquere che importavano droga dall’Olanda e dalla Spagna per le piazze di spaccio più fiorenti del Napoletano, tra cui quella del Parco Verde di Caivano.     Complessivamente sono state eseguite 29 misure cautelari. La Procura ipotizza a vario titolo i reati di…
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paoloxl · 4 years
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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta
La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.
Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.
Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.
A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.
Il decreto Salvini- Uno
Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.
Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.
Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.
Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.
Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!
Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).
Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.
All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…
Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?
Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.
Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.
E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).
Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…
Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.
Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.
Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.
E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.
Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…
Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due
Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.
Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).
E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.
Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.
E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.
Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!
Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.
Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.
Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.
E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.
Il DL Minniti-Orlando
Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.
I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.
In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…
In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.
L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).
Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.
Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.
L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas
Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.
Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.
La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.
Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.
Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).
Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.
A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.
Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.
A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.
Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.
E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.
L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.
Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.
Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.
Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.
L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.
Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.
Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.
SI Cobas
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