Tumgik
#aneddoto
libero-de-mente · 2 years
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Come Jova!
Lorenzo Jovanotti Cherubini è creativo, Jovanotti balla e canta, Jovanotti sembra sempre un "jovanotto".
Jovanotti mangia fiori di glicine e foglie di alloro, così... colte direttamente dal suo giardino.
Jovanotti ha la mia età, io e Lorenzo Cherubini siamo coetanei. Per dirla tutta io sono più anziano di cinque mesi. Lui è alto, magro e pieno di vitalità. Io no.
Così questa mattina sulle note di "I love you baby", approfittando della passeggiata mattutina delle chihuahua in giardino, mi sono avvicinato al cespuglio di alloro che costeggia il vialetto d'ingresso.
Ho guardato l'alloro, l'alloro guardava me, ci guardavamo; poi l'alloro deve aver compreso, dal mio sguardo simile a quello di una cocciniglia pronta ad attaccare le sue foglie, quello che stavo per fare.
Allungo la mano deciso, il ritornello "I love you baby" incalza nella mia testa dandomi coraggio, e poi ha anche piovuto quindi "l'insalata è lavata", come quella imbustata lavata e pronta dei supermercati.
Mentre sto afferrando una foglia, all'improvviso la sua voce "Ciao papà cosa stai facendo", mio figlio appena svegliato dal terrazzo mi saluta, lo guardo mentre deciso con un "no look" strappo con la mano una foglia dalla siepe e me la metto velocemente in bocca al grido "come il Jova, guarda!".
Ora. Vorrei comprendere cos'ha spinto il giardiniere tempo fa a piantare un arbusto di alloro e uno di pungitopo così vicini, negli anni le due piante si sono intrecciate dando origine a una siepe unica, con due varietà di foglie.
 Logicamente nella mia bocca ci è finita la foglia sbagliata.
Non chiamatemi al cellulare, non risponderò, per lo meno fino a quando non smetterò di avere la pronuncia di Jovanotti.
Giufo fu ciò che ho di fiù cafo che non masjerò più folie di punfitofo. Fanno fanfo male. Ho la lingua fonfia da faura.
Faffanfulo Jofanoffi. (voglio bene al Jova)
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Sabato siamo andati in un parco acquatico, nella discesa di uno scivolo si è rovesciato il gommone. Io sono rimasta sotto, non so cos'ho fatto ma alla fine L. mi ha detto che nel dimenarmi, gli ho praticamente tirato un calcio.
Sì, io non so nuotare e ho una paura allucinante
Sì, l'acqua era alta solo un metro (se ci arrivava)
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ilmondodishioren · 2 months
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Senza parole 😂
Sono in coda alla posta. A una signora di circa 70/75 anni cadono per terra gli occhi, un uomo si china mentre si china anche lei, ma non fa in tempo a raccoglierli, e la signora: «Sí ma ce la faccio ancora, eh?» Lui, visibilmente in difficoltà: «Immagino, ma io…» Lei: «Ho capito, ma ce la faccio, grazie.» L’uomo si arrende, vola gli occhi al soffitto e borbotta: «povera Italia.» Io ero tipo…
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Questo ritratto porta dietro di sé un aneddoto folle. Fu colpo di fulmine a prima vista, chissà perché poi 🙄🤷🏻‍♀️, ma le dinamiche della vita sono molto strane. Comunque mi capitó solo un alta volta in tutta la vita, forse 2 ma quella è un altra storia perché fu il mio grande amore (fin'ora) e si sa che l'amore è altra cosa e che l'attrazione mentale sta ad un livello superiore. Beh cmq il ritratto l'ho finii in poco tempo ma lui non seppe mai nulla, ne del ritratto ne della cotta. Vabbè era un coglione tanto per cambiare. 😅🤣
-laragazzadagliocchitristi
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italofobia · 3 months
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io purtroppo non ho nostalgia per notte prima degli esami perché non ho mai avuto amici e durante la notte prima degli esami volevo solo morire
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puparuolimbuttunati · 2 years
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Praticamente nel quartiere in cui abitavo prima c'era un basso dove, notoriamente, esercitava una escort e un giorno aveva affisso un cartello con scritto "chiuso per feriA".
Mi aveva fatto molto ridere non so se perché avesse scritto "feriA" inteso come un solo giorno di ferie o perché fosse la palese dimostrazione di come una escort avesse un periodo ferie molto più regolamentato del mio, in ogni caso è diventato un cavallo di battaglia dei miei rocamboleschi racconti fino ad oggi quando ho scoperto che fosse letteralmente la madre di due nostre amiche.
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asterargureo · 2 years
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Berlusconi sta già pronto con gli aneddoti su Elisabetta.
Chissà se ha regalato 200 bidet pure a lei oltre che a Gheddafi.
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raffaeleitlodeo · 5 months
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Visto che molti giornali stanno riprendendo la campagna contro l'istruzione pubblica e per una scuola "meritocratica", bombardandoci quotidianamente con improbabili storie di fantomatici geni laureatisi a 15 anni solo grazie alla forza di volontà, vorrei riportare un breve aneddoto personale. Alcuni mesi fa sono stato accettato per un dottorato (PhD) in Relazioni Internazionali dall'Università di Cambridge. Il processo di selezione, più che meritocratico, mostra come le università più conosciute ("d'eccellenza", direbbero quei giornali) siano sempre più luoghi inaccessibili per chi non ha un privilegio di classe. Per potersi candidare sono necessari una serie di pre-requisiti ufficiali, come le certificazione linguistiche, e ufficiosi, (per esempio, è quasi impossibile essere presi senza aver fatto esperienze di studio all'estero). Tutte cose estremamente dispendiose a cui solo una minoranza può avere accesso. Uno studente che va in Erasmus, per esempio, riceve circa 300€ mensili come borsa di studio, una cifra con la quale in una grande città europea si può a malapena coprire il vitto. Tutto il resto è a spese proprie. Per non parlare di esperienze lavorative utili al curriculum ma sottopagate o non pagate affatto (l'ONU, per nominarne uno, offre tirocinii di 6 mesi a New York senza prevedere alcuna remunerazione). Chi viene da una condizione abbastanza agiata e si può permettere alcune di queste cose, con un po' di fortuna e un po' di bravura, può riuscire a venire accettato in un'università conosciuta e rinomata. Le disuguaglianze più rilevanti e i maggiori privilegi, però, non si mostrano durante il processo di selezione dei candidati, ma dentro l'università stessa. Molte delle "università d'eccellenza", infatti, non forniscono stipendio ai loro dottorandi/ricercatori e anzi chiedono loro un'ingentissima retta. Di fatto, i dottorandi (che nella pratica sono lavoratori dell'università) devono pagare per poter lavorare gratis in cambio della nomea dell'università. È vero che esistono alcune borse di studio, ma queste sono generalmente poche, spesso esterne all'università, e non di rado portano a una commisitione moralmente discutibile coi più variegati gruppi privati. Il loro criterio di assegnazione è infine generalmente opaco e spesso finiscono paradossalmente per essere vinte dagli studenti più benestanti e altolocati che meno ne necessiterebbero. Per ritornare alla mia esperienza personale, io non ho vinto borse di studio. L'Università di Cambridge ha stimato che per affrontare il dottorato, tra retta e costi di vita, avrei dovuto pagare di tasca mia 52 000€ l'anno, ossia più di 200 000€ per i quattro anni di studio/lavoro. Poiché non dispongo di tale cifra (e anche avendola, non la regalerei a un'università con un patrimonio di 20 miliardi di € che semplicemente non vuole pagare i suoi dottorandi) ho rifiutato l'offerta di dottorato. In futuro forse farò altre domande di dottorato, anche se in università con una maggiore attenzione alle condizioni dei suoi studenti/lavoratori. Tuttavia, questa esperienza pratica mi ha confermato alcune cose: che l'unico modello universitario veramente di eccellenza è quello pubblico, gratuito e accessibile a tutti, anche e soprattutto ai più svantaggiati. Che nel modello della fantomatica "università del merito", sempre più privatizzata e a pagamento, la norma non sarebbero gli scintillanti adolescenti geniali rallentati dalla burocrazia dell'istruzione pubblica (una minoranza statisticamente inesistente), bensì i ricchi ereditieri ed emiri che si possono permettere un diploma dal costo di una Maserati per fare bella figura in alta società. E che, in quel modello, cultura e istruzione non sarebbero degli straordinari fattori di emancipazione sociale e collettiva, quali dovrebbero essere, bensì puri e semplici strumenti di disuguaglianza, esclusione e oppressione. Alessandro Maffei, Facebook
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morganadiavalon · 10 months
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Pausa pranzo.
Esco dal negozio e giro l'angolo per andare al bar a prendere qualcosa da mangiare.
Una ragazza in macchina suona forsennatamente il clacson sperando di attirare l'attenzione dell'ignota persona che ha parcheggiato la sua Tesla letteralmente in mezzo al cazzo.
Lei esce da un cortile di un palazzo che ha l'accesso carrabile sul marciapiede e la macchina le impedisce di uscire.
Per procedere verso il bar, devo circumnavigare la macchina, quindi ne posso osservare la posizione da tutte le angolazioni e mi rendo conto che spostando di poco uno dei tavolini del bar e facendo qualche manovra, la macchina della ragazza dovrebbe riuscire a passare.
Segue il mio dialogo con lei, dopo essermi avvicinata al suo finestrino:
- Ehi, se ti va ti aiuto a fare manovra, ho visto che se ti sposto appena quel tavolino lì, dovresti riuscire a passare, ti faccio i segni io!
- No guarda, mi deve spostare quella Tesla di merda perché sennò tra un minuto gliela accartoccio
- Eh sì, è una testa di cazzo, però dai, ti do una mano così almeno tu sei libera
- No è una questione di principio.
E si rimette a suonare il clacson ripetutamente.
Io mi allontano, ma alla fine scelgo un altro bar perché di stare a sentire il suo clacson a tempo indeterminato, anche no.
Ora, da questo aneddoto si potrebbero trarre seicento conclusioni e immagino che ciascuno di voi, nel leggerlo, abbia tratto la propria.
A me ha fatto riflettere su quante volte preferisco litigare e sfogare la rabbia, piuttosto che trovare una soluzione.
Con questo non voglio difendere chi ha parcheggiato lì quella Tesla, lungi da me, anche perché forse ci sarebbe da fare una riflessione intorno al fatto che era proprio una Tesla (per quanto la tipa usciva con un suv da un palazzo in via Buonarroti, quindi no, la questione di classe la lascerei fuori, è proprio questione di teste di cazzo), ma il punto è che lei aveva una possibilità di evitare quel problema e andarsene via tranquilla, e invece voleva litigare.
Al limite poteva chiamare le forze dell'ordine per segnalare il parcheggio improprio davanti al passo carrabile, ma no, lei voleva litigare.
E niente, per un istante ho pensato "mamma mia, ma la gente è sempre arrabbiata" e poi mi sono resa conto che la gente sono anche io e che ci vuole uno sforzo incredibile per fare sì che questo mondo non ci renda cattivi.
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Ho le rughe... Mi sono guardata allo specchio e ho scoperto di avere molte rughe, intorno agli occhi, alla bocca, sulla fronte. Ho le rughe perché ho avuto amici, e abbiamo riso, abbiamo riso tanto, fino alle lacrime. E ho conosciuto l'amore, che mi ha fatto strizzare gli occhi di gioia. Ho le rughe perché ho avuto dei figli, e mi sono preoccupata per loro fin dal concepimento, e ho sorriso a ogni loro nuova scoperta e ho passato notti a cullarli. E poi ho pianto. Ho pianto per le persone che ho amato e che sono andate via, per poco tempo o per sempre oppure senza sapere il perché. Ho vegliato, trascorso ore insonni per progetti andati bene, andati male, mai partiti, per la febbre dei bambini, per leggere un libro o fare l’amore. Ho visto posti splendidi, nuovi, che mi hanno fatto aprire la bocca stupita, e rivisto i posti vecchi, antichi, che mi hanno fatto commuovere. Dentro a ogni solco sul mio viso, sul mio corpo, si nasconde la mia storia, le emozioni che ho vissuto, la mia bellezza più intima e se cancellassi questo, cancellerei me stessa. Ogni ruga è un aneddoto della mia vita, un battito del mio cuore, è l’album fotografico dei miei ricordi più importanti.
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seaismydrug · 2 months
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C'è sempre qualcosa di nuovo che si prova quando si va a Roma. Puoi aver visto tutti i monumenti 300 volte ma c'è sempre qualche dettaglio, qualche prospettiva, qualche aneddoto che manca.
È sempre una scoperta, piena di storia e piena di arte. È quella città dove forse non vivrei mai, ma che poi ogni volta che la vedo, me ne innamoro.
Roma è stata ancora più bella vendendola con i tuoi occhi, insieme ai tuoi aneddoti e alla tua infinita dolcezza 🥰✨
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libero-de-mente · 6 months
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Questa è una storia vera.
Credo che fosse una notte estiva di circa diciassette, o forse diciotto, anni fa.
Avevo finito di lavorare abbastanza presto per gli standard a cui ero abituato in quel periodo. A mezzanotte chiusi il ristorante e a bordo della mia auto feci la strada per tornare a casa.
Non avevo cenato e i morsi della fame si facevano sentire, così decisi di fare sosta da Majd, un bravissimo e onesto kebabbaro che sapevo essere l'unico, in una città che chiude i propri locali sempre presto, che potesse darmi da mangiare. E poi il suo panino kebab "sensa salsa picante", come diceva lui, era buonissimo.
Una volta consegnatomi il "malloppo" caldo racchiuso con cura nella carta stagnola ci salutammo, uscii dal suo locale. Preferivo mangiarmelo a casa, non abitavo molto lontano da lui, con comodità e in relax. Mentre il resto della famiglia dormiva.
Appena uscito dal "Kebab di Aladino" sul marciapiede noto una ragazza, uno sguardo di sfuggita per non essere invadente ma che mi era bastato per notare il suo nei miei confronti.
La mia auto era a sette od otto metri da lei, appena oltre le linee gialle che delimitavano la fermala dell'autobus. Un autobus che lei stava aspettando.
Passandole vicino sento la sua voce chiedermi: - Disculpe, el autobús a Borgo Palazzo pasa por aquí?
- No - le risposi con il mio italspagnol - "Por aquí passa l'autobus por la Valle de Seriana Tu tienes la dirección al contrarios" (al contrarios, le dissi proprio così, vi rendete conto?)
Incredibile ma vero mi capì e mi guardò come se fosse terrorizzata per il suo errore.
- ¿Dónde está Via Borgo Palazzo? - mi chiese supplichevole.
Io con il dito le indicai la direzione. Puntando l'indice un po' in alto, visto che davanti a noi a un centinaio di metri passava un cavalcavia.
La ragazza rimase in silenzio e cominciò a guardarsi intorno stringendosi con le braccia incrociate davanti al petto. Avevo compreso che si era smarrita.
- Si quieres te porto io - le dissi.
Mi guardò con uno sguardo che sinceramente non saprei come definire ancora oggi, davanti a lei questo uomo buffo con un kebab fumante nella stagnola le stava proponendo un passaggio. Ed era quasi l'una di notte.
Le chiesi di getto - Come ti chiami? - al diavolo l'italspagnolo
- Maria - mi rispose
- Como mi madre - così d'istinto mi usci di dirle "come mia madre".
Credo che fu quella frase detta senza tanto pensarci, uscita con sincerità che la convinse ad accettare un passaggio da uno sconosciuto, vestito con un completo da uomo nero e una camicia grigia cangiante, con un kebab avvolto nella stagnola in mano.
In auto, mentre la portavo a destinazione, lei seduta al mio fianco stava con il suo corpo pigiata contro la portiera. Come per aumentare la distanza tra di noi.
Era bellissima, davvero. Mi raccontò che veniva dalla Bolivia e che era giunta in Italia da pochi giorni.
Non mi ricordo bene quali parole usai in auto per rassicurarla, per accennare una conversazione con lei. Il lavoro che faceva e perché aveva fatto tardi quella sera.
Mi ricordo bene invece quello che successe quando lei vide che l'avevo portata proprio sotto il palazzo dove abitava. I suoi occhi si illuminarono, si sentì sicura a quel punto. A quel punto, già proprio a quel punto, quello dove mi fermai lei evidentemente capì che l'uomo con la camicia cangiante non era cattivo.
Così prima di scendere e dopo avermi detto "Gracias", fece un gesto che mai mi sarei aspettato. Mai. Mi baciò sulla guancia destra. Un bacio rapido, come rapido fu il suo dileguarsi verso il portone. Però io nel momento del contatto con le sue labbra, allora non avevo la barba, sentii tanto calore e la sua paura che svaniva.
Ogni volta che sento di un femminicidio mi ricordo di questo mio aneddoto, perché mi diventa sempre più chiaro il rischio che Maria corse, la paura che Maria aveva e che io trovavo esagerata.
Perché Maria ha avuto buona sorte quella volta con uno sconosciuto, mentre Giulia ha avuto sfortuna con uno che conosceva molto bene. O pensava di conoscere bene. Ma che, come spesso è accaduto a tante altre sventurate come lei, non si conosce mai bene fino a quando non esce la bestia che vive in quella persona.
Per via di un "no" o di un "è finita".
Quello che posso fare io da uomo, da padre, è educare i miei due figli maschi a essere come quell'uomo goffo e impacciato, con un kebab in mano, che voleva essere d'aiuto verso una ragazza. Non lasciandola sola nel buio in una notte d'estate di diciassette, o forse diciotto, anni fa.
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ariessdiary · 3 months
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Sto leggendo per la prima volta Narciso e Boccadoro a vent’anni (no insulto).
All’interno del libro ho trovato una dedica di un ragazzo che fece a mia madre nell’85. Trovo che regalare un proprio libro sia un gesto estremamente intimo, sono molto gelosa dei miei libri, soprattutto di quelli che in un modo o nell’altro hanno cambiato la mia vita, credo che se dovessi mai donare un mio libro a qualcuno sarebbe come porgerli una parte di me.
E niente fino ad ora nessuno ha mai scritto una dedica su un libro per me, non so nel 2024 quanto sia d’uso come gesto, ma nel caso qualcuno mai dovesse mai farlo con me potrei piangere.
Ho voluto raccontare questo aneddoto perché in un modo o nell’altro se ho deciso di iniziarlo è stato anche per la dedica, insomma voglio capire perché ha scelto proprio questo libro da dare a mia madre. Si sono molto romantica.
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ilmondodishioren · 1 year
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A volte basta un sorriso.
Ci chiediamo mai come appariamo agli occhi degli altri? Degli estranei, di coloro che incroci casualmente nell’arco della giornata e che di te non sanno nulla? Io vengo spesso accusata di essere troppo seria, una musona e questo cozza spesso con quello che in verità percepisco di me, perché dal mio punto di vista sono serena e non è che possa andare in giro a ridere da sola o col ghigno stampato…
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nospiderpls · 9 months
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Li sentivo i bisbigli. Tutti. Sedevo su una panchina cercando di concentrarmi a guardare i lacci delle scarpe slacciate. Mi aiutava a non rivedere l'immagine di quella stanza, ancora e ancora.
<< E cosa dovremmo fare, lasciarla lì? >>
<< Io non me la prendo mica, ho già due figli insomma guardala...>> percepì l'occhiata anche senza guardarli. Abbassò la testa ancora di più, posando lo sguardo su quella lettera che stringeva in mano. Il rosso dello stemma sulla ceralacca roteava e roteava mentre continuava a far girare la lettera su se stessa con le dita senza vederla. Hogwarts. Dove erano cresciuti mamma e papà.
I Travers erano parte con fierezza delle Sacre Ventotto. Ed era con questa fierezza che il nonno di papà, bisnonno Torquil Travers, aveva guidato il Dipartimento di applicazione della legge magica. Avevano sempre praticato nobili lavori aristocratici, sua sorella Pamela infatti divenne una celebre scrittrice, e i suoi party erano famosi in tutta Londra quasi quanto il suo ingestibile carattere.
I Travers sono sempre stati di carattere molto schietti. Torquil stesso era un uomo molto duro e amava l'autorità che si era conquistato, per cui richiedeva sempre obbedienza istantanea. Il suo aneddoto preferito che amava raccontare era di quando aveva interrotto per i suoi comodi la lezione di Difesa contro le arti oscure a Hogwarts mentre Albus Silente stava ancora insegnando.
Era anche un uomo molto schietto, che faceva pochissimi sforzi per nascondere le sue opinioni e i suoi sentimenti. Mentre il carattere e la sua ambizione lo ha portato a esprimere la sua antipatia per certe persone e le loro opinioni (non ha mai nascosto il suo disprezzo per Silente), non ha lasciato che i suoi sentimenti lo accecassero al fatto che proprio Silente fosse un mago molto più potente di lui, e che soprattutto fosse l'unico che possedeva le abilità necessarie per sconfiggere Grindelwald.
Per questo mandò comunque i suoi figli ad Hogwarts, nonostante fu molto indispettito della nomina a Preside di Silente.
Crebbe però i figli con la stessa indipendenza di pensiero, tanto che si divisero in un figlio Serpeverde e un figlio Grifondoro. Era una linea sottilissima che separava la fierezza di una famiglia nobile e il coraggio di non contraddire mai le proprie idee, tanto che solo un briciolo in più in un senso o nell'altro permise al Cappello di scegliere. Vissero per tutta la scuola una sana competizione tra i due, competizione che si incrinò solo con l'arrivo dei rispettivi figli. Seguirono la Casata dei genitori ma in modo molto più profondo, si distaccarono da quella linea sottile mettendo un muro. I Travers Serpeverde si avvicinarono a Voldemort, ma suo padre, Travers Grifondoro, detestava la scelta. Non per principi morali, ma perchè era un Travers e lui detestava essere comandato a bacchetta da qualcuno. Il servilismo non era proprio nel suo sangue.
Solo una persona poteva ordinargli qualsiasi cosa, e quella era l'amore della sua vita. Mamma era il perfetto pezzo di puzzle che completava papà, le era difficile pensarli come due persone separate perchè erano completi quando erano assieme. Avevano lo stesso carattere indipendente, la stessa lingua schietta, la stessa vena Serpeverde nel sangue che aveva originato, nel caso di mamma, ad una delle sue tre sorelle Serpeverde. Erano fieri del lavoro che avevano scelto che gli dava totale libertà, erano fieri di essersi spostati in America per evitare le voci che si rincorrevano in quel periodo di un ritorno di Voldemort, erano fieri di aver combattuto per i loro ideali ad Hogwarts scegliendo di allontanarsi dai rispettivi fratelli Serpeverde.
Hogwarts. Dove erano cresciuti mamma e papà. Proprio il giorno in cui l'aveva persa.
A quel punto si aspettava di avere fior fior di Auror ad indagare sull'accaduto, a dar la caccia ad ogni singolo malvivente nell'arco di miglia. I suoi erano in missione sotto copertura per loro dopotutto, avevano rischiato la vita per ogni maledetta missione del Ministero, ogni Grifondoro sarebbe dovuto accorrere a vendicare quell'affronto.
Invece erano lì solo quei due viscidi referenti dei suoi, uno sguardo scocciato di dover essere lì a coprire ciò che era successo. Detestò con tutta se stessa il fantomatico coraggio di Grifondoro. La squallida centrale della Polizia babbana sembrava pullulare di energia in confronto a loro.
<< Signori, scusate dovreste portarla altrove >> le sembrò quasi di sentire i volti dirigersi verso di lei, solo perchè il poliziotto li costrinse prima di allontanarsi. Sentì vagamente che parlottavano tra loro di aver chiamato tutti i parenti senza risultati.
<< Orfana di una famiglia che ha rinchiuso così tanti fuorilegge da farsi decine di nemici tra i maghi oscuri. Chi vuoi che la voglia >> sentì in un sussurro. Sentì i nomi di qualche orfanotrofio, forse stavano scegliendo in quale dovesse stare quando un trambusto clamoroso attirò l'attenzione di tutta la Centrale.
Uomini tatuati, ammanettati, pieni di cicatrici, tutti guardarono spaesati senza capire da dove provenisse quella donna tutta arruffata.
<< Oh per Salazar, dolcetto mio >> c'era molto spazio nel salone d'ingresso, ma era certa che la zia lo fece apposta ad urtare i due lì impalati. Si catapultò da lei e fece l'unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento: un abbraccio. Un lungo abbraccio che sapeva di spezie, ma da cui si lasciò avvolgere con un ritrovato sollievo. Un lungo abbraccio caldo che sembrò farle finalmente spremere fuori le lacrime.
<< Oh tesoro, ma guarda come sei conciata. Hai bisogno di un bagno e un bel cambio d'abiti. Andiamo su, su >> la guardò commossa senza aggiungere altro.
Una illustre famiglia di mamma di nobili Grifondoro e qualche saggio e famoso Corvonero e questa era la considerazione. L'unica zia mal vista da tutti, allontanata ad ogni cena importante e dalla società rispettabile di cui facevano parte, senza alcun diritto all'ingente eredità dei genitori e costretta a vivere in giro per il mondo. La zia Serpeverde.
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[Primo giorno di Hogwarts]
Guardava capannelli di ragazzi e ragazze abbracciarsi e salutarsi nella Sala Grande, amici che si ritrovavano dopo l'estate passata. Vide occhiatacce di chi ritrovava vecchi rancori e chi se ne creava di nuovi. Tra il primo anno, alcuni non stavano nella pelle, altri cercavano di sprofondare nel mantello per non dare nell'occhio.
Ci volle un po' per far tornare il silenzio, e la Sala fu nuovamente calma solo quando il Cappello Parlante si mise a recitare le sue strofe.
Passò il tempo dello Smistamento a tentare di indovinare chi finisse dove. Faccia da secchiona in Corvonero, bonaccione che ancora masticava in Tassorosso. Quel ragazzetto pallido mingherlino sembrava doverlo seguire a ruota, ma cambiò immediatamente idea quando si voltò per sedersi e ne intravide quei penetranti occhi azzurri e quel ghigno divertito sul volto che sembrava voler prendere in giro chiunque. Serpeverde, difatti.
Quando toccò a lei, si fece largo tra gli altri ragazzi e percorse i pochi scalini per andarsi a sedere sullo sgabello. Sorrise all'insegnante che con un cenno incoraggiante le mise il cappello in testa, mentre lei sentiva il cuore batterle in gola. Fu stranissimo. Una sensazione davvero strana, sentire una voce nella propria testa.
“Oh abbiamo una lunga famiglia di maghi qui, una discendenza carica di magia di ogni dove”.
“Cosa?” pensò, rispondendo ingenuamente alla voce nella sua testa con cui si ritrovò a parlare.
“Ma è ancora più interessante ciò che troviamo qui dentro. Brillante, signorina Travers, proprio brillante. Una mente così intelligente starebbe perfettamente nei Corvonero. Ma siamo anche molto coraggiosi, c'è audacia e fegato che potrebbero far fiorire questa intelligenza in una grandissima...”
Susan si schiarì la voce, sentì quel rumore fin dentro la testa.
E poi, sollevò il mento. Era un'abitudine che aveva preso dalla zia, sollevava sempre il mento per farsi valere come se ricordasse a se stessa chi era prima di tutto. In quel gesto si era rifugiata ogni volta che sentiva di cadere, mentre il suo obbiettivo era ben chiaro. E non lo nascose più, come aveva fatto da quando aveva varcato sorridente quella soglia, lasciò scorrere quel dolore che aveva addosso, quella rabbia che la prendeva da mesi, quella spietata ambizione ad avere tutto, semplicemente tutto, per non doversi mai più sentire come in passato. E lo pensò, con la stessa decisione:
“Senti piccolo pezzo di stoffa lercia, non ho alcuna intenzione di diventare il topo di biblioteca di qualche pezzo grosso a cui devo pure spiegare l'alfabeto, e non ti azzardare a parlare del mio coraggio perchè non lo metterò mai a disposizione di quei quattro panzoni ubriachi del Ministero, provaci solo e ti faccio prender fuoco le cuciture” sbottò.
Sentì silenzio nella sua testa. Le fu strano, perchè sentiva di avere ancora il cappello calato fin sopra le orecchie. Passò infatti un lungo perplesso istante. Poi la voce che sentì non fu più nella sua testa:
<< Serpeverde! >>.
Sollevò il viso mentre l'insegnante le sfilava il Cappello Parlante, e sorrise con dolcezza a quel sopracciglio sollevato che la osservava stranito. Per cui tenne alto il mento, mentre si faceva strada verso la sua tavolata vicino alla finestra, non senza qualche bisbiglio che ignorò con soddisfazione. Come ignorò quegli occhi azzurri che con la coda dell'occhio vide lanciarle un'occhiata sorpresa.
Fu un segreto, non lo raccontò a nessuno se non alla zia. Nessuno a scuola capì mai perchè finì in Serpeverde, era la brillante Corvonero che aveva tutte le risposte e la coraggiosa Grifondoro che non si lasciava mettere i piedi in testa. Sì, era la copia sputata di mamma, solo perchè nessuno aveva mai visto cosa c'era dentro la sua testa.
O forse, solo uno ci riuscì.
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ma-come-mai · 7 months
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Vi racconto un piccolo aneddoto su Beethoven.
Nel XIX secolo i compositori erano alle dipendenze dei principi, duchi, marchesi, aristocratici insomma che commissionavano la loro musica e li sovvenzionavano. Beethoven invece fu il primo compositore libero della storia, scriveva soltanto ciò che voleva, non si faceva comprare da nessuno, e non era deferente nei confronti della ricchezza o della nobiltà. Una volta ebbe un diverbio con il principe Carl Lichnowsky, suo mecenate. Sapete cosa gli rispose?
«Principe, ciò che siete, lo siete in occasione della nascita. Ciò che sono, lo sono per me. Principi ce n'è e ce ne saranno ancora migliaia. Di Beethoven ce n'è soltanto uno.»
Vi abbraccio tutti!
Guendalina Middei - Professor X (scrittrice)
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