Tumgik
#anche perché io vado a braccio
deathshallbenomore · 2 years
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non c’è da scrivere il paper per questo seminario they said, questo seminario can’t hurt you they said. e allora perché [bestemmia] [insulto] [altra successione di espressioni sgarbate] la professoressa che organizza il seminario ha mandato una mail alle 21:43 dicendo “per facilitare la traduzione simultanea vi chiederei, se non vi scoccia, i testi dei vostri interventi” [altra bestemmia] [persona che inveisce da lontano] [programmi per una fuga improvvisa nella notte]
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firewalker · 5 months
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Una spalla su cui piangere... per fortuna, forse, non troppo
All'età di 16 anni ebbi il mio primo infortunio grave sugli sci: finii contro un muro di roccia, sostanzialmente, sbregandomi (voce del verbo sbregare, ossia aprire malamente) un ginocchio e un avambraccio, spaccando in due il casco e rompendomi l'omero sinistro. Durante la convalescenza, mi accorsi che ogni tanto sentivo dolore alla spalla destra, una cosa passeggera, che io attribuii al cambio di tempo (tipo i dolori ai calli)
Passano gli anni e il dolore alla spalla destra è sempre lì, occasionale, ma mi impedisce, ad esempio, di sdraiarmi di fianco poggiato sul gomito destro, perché poi mi fa malissimo. La cosa nel tempo peggiora tanto che se guido un po' di più il braccio mi fa male.
Decido quindi di fare un'ecografia nel 2020, che sancisce un'infiammazione degenerativa al tendine sovraspinato. L'ecografista dice "non ci si può fare niente, ti tieni il dolore". E io mi tengo il dolore.
Finché, a dicembre 2023, la spalla non si blocca totalmente. Non riesco più ad alzare il braccio né in avanti, né di lato. Verso dietro è praticamente impossibile arrivare oltre il sedere. L'arco di movimento è di circa 20° in tutte le direzioni. Vado dal medico di base che dice
"o ti si è rotta la cuffia dei rotatori, oppure c'è un'infiammazione molto forte"
e mi spedisce a fare RX, ecografia e visita ortopedica.
La lastra la faccio immediatamente, c'è una clinica che le fa senza prenotazione, vai lì e prendi il bigliettino. Dice che ho i tendini calcificati (la famosa "bella calcificazione" che dicevo giorni fa), riesco a fare l'ecografia dopo soli tre giorni appoggiandomi al poliambulatorio dove lavoro e prenoto, subito dopo, la visita ortopedica in sanità privata.
L'ecografia dichiara che non c'è rottura dei legamenti ma c'è questa famosa calcificazione. Il medico ecografista (fisiatra e medico dello sport) si sbilancia e dice "morbo di Duplay", che non ho idea di cosa sia, ma evidentemente è così che si chiama la mia calcificazione. Suggerisce delle onde d'urto. Meglio dell'operazione e più veloci nel recupero, ma non simpatiche.
L'ortopedico visiona tutto, fa la sua visita e dice "no, mi ci vuole una risonanza". Ora, siccome io a Natale parto, la risonanza la farò come minimo a fine anno, se non nel 2024, prenotazioni permettendo, sperando di farla col pubblico perché costa parecchio. Ha prospettato anche un'altra soluzione, che non ricordo come si chiama ma è praticamente un'aspirazione di questa calcificazione (il fisiatra l'ha definita "morbida", lui dice che ha la consistenza della pasta dentifricia), soluzione forse anche più rapida delle onde d'urto, ma invasiva.
E quindi ecco, per fortuna - forse! - non devo operarmi, e probabilmente riesco a non saltare nulla riguardo al Nordic Walking, nemmeno gli impegni che ho come Maestro a inizio anno (ho in ballo la formazione di alcune persone che vogliono diventare istruttori), ma passare il Natale con la spalla fuori uso era qualcosa che mi sarei decisamente risparmiato.
PS: il 20 era il mio compleanno. Con un braccio solo. Sono stato in convalescenza per tutto il giorno, sul divano. Bellissimo.
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donaruz · 9 months
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LA RAGAZZA DEL PIRATA.
L’estate è di gran lunga la stagione che mi piace meno. Gli amici del mio quartiere se ne vanno tutti al mare e i compagni di scuola, anche loro vanno al mare. Io ne farei volentieri a meno, cioè, il mare mi piace, ma fa troppo caldo e poi mi rimane il segno bianco degli occhiali sul viso. Ma la cosa che proprio mi fa vergognare di più sono i miei costumi. Ogni anno la mamma me ne compra un paio nuovi, ma sono troppo colorati, mi si nota da tutta la spiaggia, come l’insegna del bar Marilena quando c’è la festa del quartiere. Io invece vorrei essere guardata il meno possibile, perché ogni volta che qualcuno mi vede o mi parla fa sempre quell’espressione come a dire “poverina”, che alla fine non lo dice mai, ma ce l’ha scritto in faccia e si vede benissimo. Come l’insegna del bar Marilena. La mamma dice che quei colori mi illuminano il viso, io vorrei dirle che così mi si nota di più il segno bianco degli occhiali, ma mi limito a sorridere alla meglio e fare di sì con la testa.
Sono Maria e ho sette anni, ma sembro un po’ più piccola dei ragazzini della mia età. La mamma dice che è questione di tempo, che anche sua sorella, la zia Antonella, era bassina ma ora è una stangona. E io le credo, anche se quando lo dice la sua voce si incrina un po’ e lo sguardo è meno croccante. Faccio visite da quando sono nata, un dottore dopo l’altro, come quando sei sul treno e vedi passare le stazioni dal finestrino e ti fermi giusto il tempo per fare pipì e ripartire subito senza che sia cambiato niente e non vedi l’ora di scendere davvero e goderti la vita oltre la stazione.
Pare che io abbia una malattia che chiamano “sindrome” legata a un cromosoma, roba complicata, però io non mi fido mica tanto di questi dottori, perché non mi sembra di essere malata, io sto benissimo. Sì ok, leggo lentamente e sbaglio spesso le parole, ma lo fa anche nonno Michele che ha ottantasette anni e non mi pare che faccia tutte queste visite. Anche se dicono che lui ha il “morbo” e quando lo dicono allargano tutti le braccia rassegnati. Forse lo hanno fatto scendere a forza dal treno in una stazione che non era la sua e ora si guarda intorno in cerca di un passaggio, che forse non arriverà mai.
Alla fine mi rassegno e parto per la spiaggia, anche perché a Livorno se d’estate non vai al mare finisci per passare le giornate dentro casa e come dice nonno Michele mentre cammina dalla cucina alla sala cercando l’uscita della sua stazione, «a stare in casa ti incattivisci». E appena finisce la frase piscia al termosifone convinto che sia la statua della Libertà. Perché dice sempre che «gli americani non capiscono un cazzo», ma non si ricorda il motivo.
Mi piace venire al mare qui, in mezzo a tutta questa gente con nomi importanti. Sembra di stare a Hollywood. La mamma dice che se fossi nata in America avrei fatto sicuramente l’attrice. Magari quando sarò alta come zia Antonella ci farò un pensierino, per il momento cerco di imparare a parlare bene, perché non si è mai vista un’attrice che inciampa sulle parole, traballa, e alla fine si scapicolla.
Ogni giorno alle sedici in punto vado a fare la fila al bar, per prendere un ghiacciolo alla fragola. La mamma dice che con questo caldo c’è bisogno di qualcosa di rinfrescante, e ogni giorno, sempre, cascasse il mondo, mi viene incontro Samuel, il barista. Lui è alto, la barba disegnata bene e i capelli raccolti in una coda. Sembra un pirata con quegli anelli e gli orecchini. Un pirata che profuma di buono. A lui non interessa se sono bassa, se ho il segno degli occhiali, lui non ha l’insegna del Bar Marilena dentro allo sguardo, o se ce l’ha la tiene spenta. Ogni giorno si avvicina, ha un tatuaggio di Che Guevara sul braccio destro e lo stemma del Livorno Calcio su quello sinistro. Io non lo conosco questo signore Che Guevara, ma pare che qui sia amico di tutti. Mi solleva, bacino sul collo e poi mi dice:
«Te oggi sei la mia ragazza, se ti azzardi a farmi le corna ti stacco le braccine, intesi?». Ogni giorno. Cascasse il mondo.
Io non glielo dico che mi piace Iuri di terza F, non vorrei che ci rimanesse male. Però un po’ mi fa piacere essere la ragazza del pirata.
Magari quando sarò alta come zia Antonella mi farò invitare a cena fuori. Perché certe occasioni vanno prese al volo, alla faccia di tutte le sindromi e di tutti i cromosomi.
Francesco Lollerini 🖋
Immagine Flickr
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11.01.24 19:52
Cosa mi è successo in questi primi giorni del 2024 nonché 5 anni che lavoro in questo hotel. Una mattina una cliente mi chiama perché al lato della sua sdraio c’era un sacco di cioccolato per terra ormai secco. Vado lì a pulire il pavimento e c’erano due macchie di cioccolato nonché altre che lei vedeva ed era invece la mattonella di un colore di merda.
Il giorno dopo arriva di nuovo questa cliente dicendomi che si era ferita al braccio, si era tolto un po’ di pelle non so come, è che voleva che io le mettessi qualcosa sopra per potersi lavare. Prendo da brava dottoressa i guanti, la valigetta con dentro il necessario e li, al lato dell’entrata le inizio a mettere il disinfettante e poi la garza poiché doveva lavarsi.
Oggi arriva di mattina e mi fa “a che ora finisci di lavorare?” Ed io “alle 18:30” mi guarda e mi fa “verrò alle 17 per farmi disinfettare la ferita”. Come un orologio svizzero arriva alle 17, prende un sedia e si mette al lado dell’entrata del bar che mi aspetta mentre io finivo un lavoro.
La garza ovviamente si era attaccata alla pelle, pensando che dopo la doccia se la togliesse, però no, ed io li a buttarle il disinfettante per farsi che si togliesse la garza, lei con il suo braccio esile che mi stringeva il mio di braccio quando le provavo a togliere la garza.
Stasera le ho detto più volte di non metterci nulla sopra, che quando deve lavarsi, che ci metta sopra una busta di plastica e poi lo rimane così all’aria.
Mi fa “ci vediamo domani a quest’ora?” Ed io “si”
La dottoressa Grey fa anche la cameriera per il restante 7 ore e mezza. A domani 😎
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entelechia · 5 months
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Futuro anteriore
Anche la grammatica sa Che il tempo è un'illusione Fuori dai meccanismi della mente Allora a quel punto io posso correre Giusto? Voglio capirla, questa direzione. Lancette in avanti Quindi (s)corro verso domani Sorpasso i Natali Quella volta in cui ho bruciato il pranzo E quella litigata all'angolo della strada Passo anche la macchina nuova La classe che prepara la recita di fine anno Oltrepasso il cancello della casa nel verde Le passeggiate verso il corso d'acqua che ami fare Passo i viaggi Che belle le rughe del sorriso Vado oltre quello specchio Oltre le mani strette Che bello sei sulla sedia Ridi ancora nello stesso modo Ma non mi fermo, passo anche questo A quel punto è passato molto tempo pare Attraverso gli alberi che avevamo piantato, Sono affollati ma io vado avanti Stiamo piangendo, qualcuno ci ha lasciato Ti stringo più forte Ma sono ancora più in là, Vado avanti, Sto tenendo in braccio il bambino In tasca ci sono pietre raccolte al mare Ancora avanti Poti le piante perché stanno raggiungendo la finestra Sembra una mano tesa a dare aiuto Mi commuovo Corro oltre Ridi mentre mangi una fragola Non ricordavo più che sapore avessero nemmeno io Erano così quando eravamo giovani? Ma non posso fermarmi C'è altro, c'è altro! Cammino nel bosco Crescono funghi dappertutto Crescono e io se ne rompo uno chiedo scusa Mi conoscono bene loro e adesso è davvero chiaro Vado avanti, ancora Una collina Guardiamo fotografie invecchiate Ti chiedo, perché fa male anche se non è reale? Tra le lacrime continuo Corro anche se non so più correre Non sto correndo Non sto nemmeno camminando Sto dormendo? Ci sono dei sussurri E la stanza è così azzurra No, non è la stanza. È il cielo dalla finestra. No, nemmeno, è tutto azzurro. La vita è azzurra. Adesso sono quasi arrivata alla fine, è ovvio. Mi guardo indietro e questa linea del tempo è immensamente lunga. Sembra esserci un passato, ma non è passato, lo vedo accadere lì, mentre accade il resto. Io sento che è quasi finita, Ma qualcuno mi dice 'non può finire, non ha inizio' Non è qualcuno, sono io. Io senza me stessa? O davvero me stessa? A questo punto io credo che tutto sia solo piegato dalla luce Che vedo una lontananza che non è reale Perché l'azzurro è tutto L'azzurro non accenna a scolorire. Così tanto che, anche se sogno, forse, posso procedere. Si posso, c'è altro, ancora.
Apro una porta... Forse non è una porta Vado avanti E sono bambina, ti vedo cullarmi Ti conosco così bene, abbiamo passato una vita assieme Sei mia madre... Lo sei stata. Oppure devi esserlo, ma io sono sempre stata tua figlia. L'azzurro sbiadisce Io non so più cosa sia rimasto di me, se 'chi sono' è dietro la porta che ho aperto, ad aspettarmi E se sia poi così importante saperlo. Ora sono il nocciolo essenziale. Il seme, prima che cresca l'albero. Forse questo è tutto quello che devo sapere. Si, mi ritrovo al al punto di partenza E mi accorgo che per distante che mi sia sembrato andare Per quanto abbia creduto di correre, Non mi sono mai mossa davvero da qui.
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kivrinlaroche · 1 year
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IL FUOCO CHE CI NUTRE
"Una volta che hai fatto qualcosa, non lo dimentichi mai. Anche se non riesci a ricordare."
LA SCINTILLA (capitolo quattro)
La sveglia sul comodino squillò e un braccio uscì dal lenzuolo per spegnere quel fracasso. Il sole faceva già capolino dalla finestra esposta a est. “Avevi detto che avresti cambiato la suoneria della sveglia Non ne posso più di quel gracchiare!”
Una massa di capelli color argento si mosse. “Uhm…Buongiorno anche a te…Domani lo farò, te lo prometto.”
L’uomo girò la testa. “Dobbiamo alzarci, prima che si faccia tardi. Io vado a preparare la colazione.” Scostò la coperta e si buttò giù dal letto. “Forza bambolina, alzati.”
“Ancora un minuto.” sospirò la ragazza stiracchiando le braccia per poi girarsi dall’altra parte.
“Ok, un minuto, non uno di più. E non riaddormentarti!” fece lui indossando un paio di pantaloni e una maglietta.
Andò in bagno per urinare poi si sciacquò il viso con l’acqua fredda per svegliarsi. Si guardò allo specchio, indeciso se farsi la barba o no.
Quasi quarantenne, aveva un viso molto gradevole, il mento forte gli dava un’aria da duro che le donne, e anche molti uomini, avrebbero definito sexy.
Dovrei dare una spuntatina anche ai capelli pensò afferrando le ciocche che ormai gli arrivavano alle spalle. Anzi, dovrei rasarli totalmente, darei meno nell’occhio. Oppure tingerli...
Il colore dei capelli, platino con sfumature dorate, e il fatto che li avesse così lunghi attirava l’attenzione della gente. Così come gli occhi grigi dai riflessi viola, molto particolari, non mancavano di catturare gli sguardi di tutti.
Si pettinò e legò i capelli in una coda poi andò in cucina a preparare la colazione.
La donna entrò, ancora assonnata, in un assurdo pigiama verde fluo, e gli sparò un bacio sulla guancia. Magrissima e slanciata aveva i capelli corti neri, in quel momento tutti scarmigliati, e gli occhi scuri che tradivano le sue origini asiatiche.
“Uova e bacon?” chiese mentre si avviava ciabattando verso l’ingresso.
“No, faccio i pancakes.” rispose lui mentre poggiava sul tavolo gli ingredienti.
Lei rientrò con un quotidiano tra le mani. Sedette al tavolo in cucina e iniziò a sfogliarne le pagine. Mentre leggeva commentava le notizie a voce alta.
“Sempre le stesse cose, guerre, crimini di tutti i tipi, addirittura un ministro del governo beccato con una prostituta. Mai una bella notizia…”
“Ti aspettavi forse qualcosa di diverso? Viviamo in un mondo violento e siamo crudeli quanto basta.”
Finì di cucinare, portò i pancakes in tavola e iniziarono a mangiare.
“Stasera probabilmente farò tardi.” le disse. “Quando esco dal lavoro devo passare da Jordan per aiutarlo a rimontare la moto.” Jordan Porter era uno dei suoi più cari amici.
“Ma... Per stasera avevo programmato un po' di shopping. Con te! Perché non me l’hai detto prima?!” chiese la donna iniziando ad irritarsi.
“Te lo sto dicendo adesso… Ti avevo accennato al fatto che aveva dovuto controllarla per riparare un guasto… Prima o poi doveva pure rimontarla, no? Io e Jo abbiamo dovuto incastrare il poco tempo libero che abbiamo..." Con un sospiro aggiunse: "Tu non mi hai detto che volevi uscire con me!… L’idea dello shopping ti è venuta in mente quando, esattamente? Cinque minuti fa?" "Potresti anche rimandare, se ci tieni tanto...”. Mentalmente si augurò che non cambiasse idea perché fare compere con lei significava trascinarsi per i negozi di mezza città fino all’ora di cena.
“Io e te abbiamo grossi problemi di comunicazione, mio caro…In ogni caso te ne avrei parlato più tardi." Fosse solo la comunicazione... pensò lui. "Comunque… Al solito i tuoi impegni vengono sempre prima di tutto…Va bene, fai come vuoi. Io esco da sola!”
Evitò di ribattere per non impelagarsi in infinite discussioni. Fecero colazione in silenzio.
Finirono di prepararsi e lei, col muso lungo, a malapena lo salutò.
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“Mammina, dove stiamo andando?” chiese il bambino seduto nel seggiolino posteriore dell'auto.
“Doveva essere una sorpresa, tesoro, ma…” disse la donna mentre allacciava la cintura di sicurezza del piccolo “…te lo dico in un orecchio…”
Si avvicinò alla testa del bambino e sussurrò: “Al parco…”
Il bambino iniziò a strillare e abbracciò la mamma, tutto contento. Lei gli baciò la testa poi sedette al posto di guida. Mise la cintura e avviò il motore.
Era il pomeriggio di una bella giornata di inizio primavera. Aveva in programma di dare una sistemata al garage e fare una cernita di cose da buttare. Quel sole luminoso le aveva fatto cambiato idea: poteva rimandare tutto e stare all’aperto con Lucas. Così ne aveva approfittato, con l’intenzione di portare suo figlio al parco a giocare con gli altri bambini e lei a godersi la lettura di un libro nell’aria tiepida.
Accese la radio per ascoltare un po’ di musica, inforcò gli occhiali da sole e partì.
Lucas canticchiava a modo suo una canzone trasmessa dalla radio e lei, divertita, ogni tanto gli lanciava uno sguardo dallo specchietto retrovisore. Aveva percorso circa mezzo chilometro quando una grossa macchina nera sbucò da una strada laterale alla sua destra e prese in pieno il lato del passeggero. Due finestrini andarono in frantumi e gli occhiali da sole volarono da qualche parte. L’urto violento fece scoppiare gli airbag e trascinò il veicolo nella corsia opposta dove si fermò. Il bambino urlò dallo spavento. L’autista dell’auto, con le mani sulla testa, scese di corsa, si diresse allo sportello della donna e lo spalancò. Chi aveva assistito all’incidente si avvicinò velocemente alle macchine danneggiate e qualcuno chiamò la polizia.
“Oddio! Mi dispiace signora... Mi sono distratto un attimo… Tutto bene? Come si sente?”
“Il bambino! Il mio bambino. Lukeee!” gridò la donna, sotto shock.
Il tizio diede un’occhiata al retro dell’abitacolo e aprì lo sportello posteriore. “Chiamate un’ambulanza, presto!” urlò.
Il bambino nel seggiolino stava piangendo e chiamava la mamma. La donna, accasciata sul volante, sull’airbag sgonfio, si lamentava, ancora confusa.
Subito dopo arrivò una pattuglia della polizia insieme ai soccorsi. I poliziotti fecero allontanare i curiosi mentre gli infermieri valutavano le condizioni del bambino che, a parte il grosso spavento, non aveva necessità di cure immediate. Ad un primo esame la mamma sembrava quella messa peggio.
Caricarono madre e figlio e l’ambulanza partì mentre i sanitari prestavano le prime cure alla donna. Aveva sicuramente riportato una frattura della gamba destra e il forte dolore al torace fece sospettare la frattura delle costole. Il dolore alla gamba e al torace le fece perdere i sensi un paio di volte e quando si svegliava, la nausea le faceva ingarbugliare lo stomaco. Lucas era seduto accanto all’infermiera che lo aveva fatto scendere dall’auto. Cercava di rassicurarlo e di distrarlo ma lui lanciava continue occhiate alla madre, sdraiata lì accanto, poi ricominciava a piangere.
Li portarono all’ospedale più vicino. Alla donna fecero le radiografie e il medico diagnosticò, oltre alla frattura composta del perone, l’incrinatura di tre costole nella parte destra del torace, dovute allo scoppio degli airbag mentre al bambino programmarono una risonanza magnetica per l’indomani.
Dopo qualche ora, la donna era sdraiata sulla barella con la gamba già immobilizzata. Con voce rassicurante coccolava il bambino e gli accarezzava la testa. “Ascolta Luke, adesso devi fare il bravo.” Avevano gli occhi arrossati dal pianto. Era arrivato il momento tanto temuto. “Mamma dovrà andare in una stanza e tu in un’altra tutta colorata dove ci sono altri bambini. Devi far finta che siamo a casa e che stiamo dormendo nelle nostre camer...”
“Ma mamma, non voglio lasciarti da sola!” fece Luke affranto, di nuovo prossimo alle lacrime.
“Non sono sola, amore mio. Forse più tardi verrà Chlo insieme a Matty. E poi, tu sei nella tua cameretta... Siamo nella stessa casa, giusto? Stanotte ti addormenti e domani vieni a trovarmi, va bene? La signora qui ti accompagnerà da me.” Indicò l’infermiera pediatrica con la divisa a pupazzi e lei annuì.
“Sei il mio splendido bambino coraggioso!”. Lui annuì, non troppo convinto e la madre gli baciò il viso.
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La sveglia suonò alle prime luci dell’alba. La ragazza con i capelli neri si mosse, automaticamente tirò fuori il braccio da sotto la coperta e la spense.
“Oggi tocca a te, Bea.” disse l’uomo coricato accanto a lei.
“Ancora un minuto poi mi alzo.” rispose lei sbadigliando.
Il minuto passò poi ne passarono due. “Uff! Ho capito…” borbottò lui alzandosi dal letto.
Affrontò la solita routine quotidiana. Si fece velocemente la barba e andò in cucina a preparare la colazione.
Dopo un po’ la donna entrò stiracchiando le braccia e gli diede un bacio sulla guancia. Uscì in pigiama all’esterno per prendere il giornale.
“Non ci crederai, Daemon.” disse la donna rientrando in casa con lo sguardo su una pagina del quotidiano che aveva in mano. “Un altro incidente d’auto, a due passi da qui.” “Uhm… qualcuno che conosciamo?” chiese lui.
“Non hanno scritto il nome, solo le iniziali: ‘Ieri pomeriggio, intorno alle 15,30, la berlina della trentenne R.T. è stata investita da un suv che non ha rispettato il segnale di stop. La donna, che in quel momento si trovava in auto col figlio di sei anni, ha riportato lesioni al torace e a una gamba. Il bambino è rimasto illeso ed entrambi sono ricoverati al Westcross, il bambino per accertamenti…’” Lesse la donna.
“Proprio dove lavoro io. Accidenti! Per fortuna il bambino non si è fatto niente…” commentò.
“Ok, è tutto pronto, ora mangiamo, Bea. Per favore prendi il succo di frutta.” disse portando a tavola il piatto con uova e bacon.
Dopo aver fatto colazione, finirono di prepararsi e uscirono per andare nei rispettivi posti di lavoro.
Daemon entrò in ospedale, si infilò un camice pulito e sedette in una sala con i colleghi e gli infermieri per il briefing mattutino. Dopo mezz’ora, con una decina di cartelle cliniche sottobraccio, iniziò il lavoro di routine. Verso le tredici un collega, Samuel Fielding, entrò trafelato nella stanza dove Daemon stava compilando una lista di esami.
“Ti devo chiedere un favore, collega!”
“Uhm… Il tosaerba è rimasto fulminato dalla tua bellezza? Un meteorite ha colpito uno degli orrendi nani da giardino che fanno la guardia a casa tua?”
“Dai, non scherzare, amico!” ribatté Sam ridacchiando. “Mia madre è caduta e sembra si sia fratturata una caviglia, devo proprio scappare da lei e portarla qui. Ti chiedo solo se puoi dare un’occhiata alla donna dell’incidente d’auto di ieri, non sono riuscito neanche a vederla in faccia… Ti giuro! E' l’ultimo favore che ti chiedo…”
Daemon si scusò: “Oh! Mi dispiace per tua madre, Sam. …" "Va bene, dimmi in che stanza è… Conoscendoti non sarà l’ultimo favore che mi chiedi… E la prossima volta che ci incontriamo non dimenticare il paio di birre che mi devi dall’ultimo favore che ti ho fatto.”
“E’ nella dodici. Grazie fratello, sei un vero amico! E il miglior internista che conosca, quei due sono in buone mani! Questa è la sua cartella clinica e questa è quella del bambino.” disse, indicandole. “Ah! E mettine in conto altre sei. Ciao, io vado!" fece Sam mentre usciva dalla sala.
Sei un gran leccaculo, fratello! pensò Daemon scuotendo la testa e facendo un cenno di saluto con la mano.
Ultimò la lista e la consegnò alla postazione degli infermieri. Diede altre disposizioni e si diresse nella stanza dodici con le due cartelle cliniche in mano.
Aprì la porta della camera ed entrò, gli occhi ancora posati su un foglio della cartella del bambino. Si girò e la richiuse.
“Buongiorno, sono il dottor Daemon Targaryen, medico internista. Oggi sostituisco il dottor Fielding che l’ha presa in cura.”
La donna non rispose e non restituì il saluto.
Lui sollevò lo sguardo e si avvicinò al letto.
Era semi seduta, col viso rivolto verso la finestra dove le tende chiare schermavano la luce del giorno. Indossava la camiciola d’ordinanza dell’ospedale.
I cavi del monitor e il deflussore di una flebo uscivano dal suo corpo. La gamba destra, ingessata fin sotto il ginocchio, poggiava su un cuscino. I suoi capelli risplendevano anche in quella luce smorzata. Girò la testa e puntò su di lui un paio di incredibili occhi azzurri con sfumature viola.
“Rhaenyra Targaryen. Buongiorno dottore.” rispose lei dopo qualche secondo.
Rhaenyra guardò stupita quell'uomo. Poi si scosse, cercando di dissimulare la sorpresa: “Come sta oggi mio figlio, dottore? Nessuno mi ha ancora dato notizie.”
“Suo figlio sta benissimo, signora, non c'è da preoccuparsi.” fece lui dopo un attimo di esitazione.
“Stamattina ha fatto la risonanza magnetica ma va tutto bene e non ha niente di rotto. A breve verrà dimesso.” continuò automaticamente Daemon avvicinandosi ancora di più e fissando Rhaenyra.
“Mi perdoni se… Per caso… ci conosciamo? Mi sembra di averla già vista da qualche parte. O magari è un’artista famosa? Abbiamo lo stesso cognome e mi chiedevo se…”
Aveva una bellezza eterea e allo stesso tempo sensuale. La pelle del viso non aveva alcuna imperfezione e gli occhi, dal taglio nord-europeo, erano orlati da ciglia chiare. I capelli lunghi e un po’ mossi, color platino con sfumature dorate, identici ai suoi, incorniciavano un ovale perfetto, così come era perfetta la linea delle sopracciglia di una tonalità più scura delle ciglia. Aveva una piccola gobba sul naso delicato che lo rendeva particolare e molto gradevole.
Anche lei non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso. Le somigliava tantissimo, era come vedere un parente lontano. Un Targaryen come me. Aveva gli occhi grigi con le stesse sfumature viola dei suoi e una bellezza particolare. Qualche ruga gli segnava la fronte e i lati della bocca ma a parte questo non doveva avere più di quarant’anni.
Avevano in comune gli stessi inusuali colori e persino la pelle color latte. Ma soprattutto c’era qualcosa di familiare nel modo in cui lui si muoveva, nel tono della voce bassa e calda, nel corpo asciutto e muscoloso sotto il camice da dottore ed emanava qualcosa che istintivamente la faceva sentire a proprio agio.
“No, dottore, non ci conosciamo e non sono famosa.” lo interruppe Rhaenyra sorridendo e cercando di darsi un contegno. “Effettivamente abbiamo un cognome insolito e a quanto pare anche i nostri nomi non sono molto comuni.”
Daemon le chiese come si sentisse e se avesse dolori. Poi si concentrò sulla flebo e spostò la mano per accertarsi che la cannula fosse ben posizionata. Le sfiorò inavvertitamente il polso. Una scintilla percorse i loro corpi e i loro cuori accelerarono il battito. Il monitor di Rhaenyra registrò l’aumento della frequenza cardiaca. Ritrassero la mano di scatto e Daemon la guardò di nuovo. “Mi scusi… Dev’essere l’elettricità...”
All’improvviso la porta si spalancò ed entrò un bambino in pigiama, i capelli scuri e riccioluti, seguito da un’infermiera con la divisa tutta colorata del reparto pediatrico e si precipitò vicino al letto gridando “Mamma! Mamma!”
“Oh! Luke! Tesoro mio!” fece Rhaenyra allungando le braccia per abbracciare il bambino. Con una smorfia di dolore cercò di tirarsi su ma le costole incrinate glielo impedirono.
“Vieni qui, luce dei miei occhi, fatti abbracciare! Come stai? Come hai dormito?”
“Mammina mi sei mancata tanto!” disse il bambino strofinandosi gli occhi pieni di lacrime.
“Dottor Targaryen, lui è Luke, Lucas. Mio figlio.”
“Piacere di conoscerti Lucas detto Luke. Vuoi salire sul letto?”
Il bambino annuì e Daemon lo sollevò per farlo sedere accanto alla madre. Luke le posò la testa su una spalla e lei gli baciò il nasino.
“Mammina, lo sai che il dottore mi ha fatto entrare in una macchina dove c’era un tubo lungo lungo? E mi ha messo le cuffie dove c’era la musica e io dovevo stare fermissimo. Poi mi ha detto che ero stato coraggioso e poi mi ha dato una caramella alla frutta!”
“Oh, tesoro! Ma io lo so che sei un bambino bravo e coraggioso, sei il mio ometto.” rispose lei sorridendo e accarezzandogli la testa.
“Signora, ora verrà il dottor Carter, il medico radiologo, per informarla di tutto" Intervenne l’infermiera. "Lucas è stato veramente bravo, non ha fatto i capricci, ha mangiato e giocato con un altro bambino della camera. Stamattina chiedeva continuamente di lei quindi l’ho portato qui... Bene, io vado Luke. Ora starai un po’ con la tua mamma. Ci vediamo dopo, va bene?” Rhaenyra la ringraziò e il bambino le sorrise. Gli mancavano due incisivi inferiori e uno superiore. Era adorabile.
Mentre aspettavano il medico, Daemon fece scendere Lucas dal letto e visitò Rhaenyra, le auscultò il torace e le chiese alcuni dati per completare l’anamnesi e aggiornare la sua cartella clinica.
Dopo un po' arrivò il dottor Phil Carter e spiegò a Rhaenyra che la risonanza magnetica di Luke era negativa. Nonostante l’urto violento, il bambino non aveva riportato traumi di alcun genere e che la dimissione era prevista per l’indomani.
“Lei signora potrà essere dimessa tra un paio di giorni. Purtroppo per le costole incrinate non si può far niente, guariranno col tempo. Invece per la frattura al perone che fortunatamente è composta dovrà tenere il gesso per almeno sei settimane. Al termine tornerà qui e le faremo una radiografia di controllo; se va tutto bene lo toglieremo. In ogni caso le prescriverò anche degli antidolorifici. Se vuole avvisare suo marito…”
“Non c’è nessuno!” fece lei d’impulso stringendo il bambino al petto. “Mi scusi, dottore…” fece Rhaenyra contrita. “Mio marito è in Iraq da due anni ma non ho sue notizi… Ci siamo trasferiti da poco, siamo soli, io e Luke, e in questa città non ho familiari che lo possano accudire… Ho un’amica che forse… Dopo quello che è successo vorrei averlo con me…” “Sarebbe un problema rinviare la sua dimissione? Potrebbe dormire qui con me. La prego dottor Carter…”
“Ma certo, signora, non potremmo mai separare un bambino dalla madre... Se il dottor Targaryen è d’accordo chiederò di approntare un lettino in questa camera. Mi dispiace per quello che è successo e vista la situazione faremo di tutto per…”
“Si, sono d’accordo! Ci penserò io, signora!” rispose Daemon guardando Rhaenyra.
“Naturalmente se per lei non è un problema che me ne occupi io.” aggiunse in fretta.
Lei gli restituì lo sguardo. “Non vorrei disturbare nessun…”
“Non mi disturba affatto!” rispose lui. “Lo faccio volentieri. D’altronde sono circostanze… particolari… E poi, dobbiamo pensare a sistemare questo ometto, vero Luke?” continuò, scarmigliando i capelli del bambino che lo guardò e sorrise.
Quel pomeriggio e nei due giorni successivi Daemon andò più volte a trovare Rhaenyra per assicurarsi che il lettino per Lucas fosse stato portato in camera, che avesse dormito bene, che non avesse dolori, che i cuscini fossero sistemati a dovere. Ogni scusa era buona per starle intorno. Quando le procurò un paio di grucce e l’aiutò ad alzarsi dal letto per esercitarsi a fare qualche passo, valutò di sfuggita che doveva essere alta circa un metro e settanta. Lui la superava almeno di una decina di centimetri.
All’inizio quella ragazza lo incuriosiva, il perché fossero così simili fisicamente era il primo pensiero. Il secondo fu che nonostante i Targaryen sparsi nel mondo fossero pochissimi, loro due probabilmente provenivano da rami diversi della stessa famiglia. Che strane coincidenze... pensava. Due Targaryen che si sono conosciuti per un caso assurdo.
Pian piano il limite sottile della mera curiosità sconfinò in qualcosa di molto vicino all’attrazione. Non riusciva a capire il perché ma in lei c’era qualcosa di indefinito che lo stuzzicava e al contempo lo affascinava. Che fosse simpatica e sempre pronta a sdrammatizzare era una casualità. Rhaenyra era una donna forte, fiera e indipendente. I radicali cambiamenti che aveva dovuto affrontare nella sua vita ne erano la prova, così come l’aver cresciuto il bambino senza alcun tipo di supporto familiare. Era perfettamente conscio di queste qualità, eppure, contro ogni logica, quando la guardava c’era in lei un'aura di impercettibile vulnerabilità che attivava, senza che se ne rendesse conto, il suo istinto di protezione. Ribadendo fino alla nausea come lo strano e assurdo interesse verso quella donna fosse del tutto innocente, Daemon ingannava sé stesso.
Ma, inganno o no, alla fine non potè più evitare di pensare continuamente a lei. La notte, nel suo letto, tardava a prendere sonno rivivendo come in un film tutte le scene di quelle giornate. Gli tornava in mente Rhaenyra in quella ridicola camicia d’ospedale che a malapena nascondeva le sue forme. Chiudeva gli occhi e il bellissimo viso, il sorriso, i suoi occhi erano nella sua mente. Persino il nome gli faceva battere forte il cuore.
Che cazzo mi sta succedendo!? Sto per caso impazzendo?. Il tenore dei suoi pensieri era sempre lo stesso. Non ho più quindici anni! Ho una donna a cui voglio bene e io penso ad una sconosciuta? Dovrei farmi gli affari miei e lasciare Rhaenyra in pace!
Il giorno dopo si svegliava con Rhaenyra in mente e di nuovo non vedeva l’ora di andare da lei. I propositi della notte precedente regolarmente spazzati via.
La mattina in cui lei e il bambino sarebbero stati dimessi, Daemon si presentò in camera con una sedia a rotelle.
“Buongiorno a tutti! Siete pronti?” fece con entusiasmo.
“Ho portato questo drago per la tua mamma, piccolino. Ora si siede sulla sella e lo cavalca fino alla macchina.”
“Siii, ti stavo aspettando, zio!” rispose elettrizzato il bambino. “Mamma, guarda, lo zio Daemon ti ha portato un drago tutto rosso! Ma lo sai cavalcare, mammina?”
Aveva iniziato a chiamarlo ‘zio’ il giorno precedente. Daemon e Rhaenyra non capivano il perché ma sorridevano divertiti per quello strano appellativo.
Rhaenyra stava in piedi, sostenuta dalle grucce. Era già vestita con una gonna a disegni geometrici e un maglioncino in tinta e stava ridacchiando. “Vi prego, non fatemi ridere. Le costole…” disse lei poggiando una mano sul lato dolorante. Daemon la guardò in apnea. Aveva i lunghi capelli raccolti in una treccia che le scendeva sul petto. Alcune ciocche erano sfuggite al pettine e ne incorniciavano il viso. La luce che entrava dalla finestra alle sue spalle faceva risplendere il corpo e quei capelli, come un alone luminoso. Sembrava un angelo moderno uscito da un dipinto rinascimentale.
Rhaenyra se ne accorse e si schiarì la voce: “Vogliamo andare, dottore?”
“Si, si, certo!” rispose annuendo e distogliendo lo sguardo. “Ora, mammina, se permetti, ti aiuto a sederti sul dorso del drago rosso.” scherzò Daemon avvicinando la sedia a rotelle.
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yomersapiens · 2 years
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Una di quelle cose che scrivi perché pensi che tanto sei a momenti dal morire.
Dopo molti anni ho preso un aereo e diciamocelo, non ho paura quando si tratta di interventi pericolosi tipo aghi negli occhi ma se mi dite che devo volare io vado nel panico più totale.
Ma non lo do a vedere. Anzi. Sembro quasi stoico. Mentre dentro mi consumo di ansia e penso a tutto quello che può andare storto e ascolto con attenzione ogni rumore minimo perché sicuro è un bullone che si allenta e morirò su un mezzo decisamente troppo pesante per stare in aria come una farfalla.
Ero in aeroporto insieme a mio fratello e nipote. Prima dell’imbarco notiamo un piccione tutto bello fiero che cammina su una balaustra proprio vicino a dove stava per parcheggiare il nostro aereo. Ho pensato cavolo, lui si che deve sentirsi un figo. Cioè. Può dire in giro agli altri piccioni, quando glielo chiedono, che lui vive all’aeroporto. Dove ci sono quei giganti di ferro che volano ancora più in alto di noi. Quel posto pericoloso dove puoi finire in una turbina e diventare un sbuffo di piume che farà fare un sussulto a un passeggero troppo nervoso, tipo me. Ecco perché zompettava così baldanzoso, col petto in fuori, un passetto dopo l’altro. Era proprio imbarazzante.
Per noi sarebbe come vivere in una valle piena di gargantueschi robottoni dal profilo umano che corrono di qua e di là e noi dovremmo evitare di finire spiattellati sotto uno di quei piedoni facendo salti costanti. Una vita stressante.
Mi sono distratto. Saliamo sull’aereo e per fortuna c’era mio nipote così mi sono concentrato su quanto sono cicciotte quelle gambe che si ritrova. Ridicole. Ma dove vuole andare questo. Manco riesce a salire le scale da solo, vuole sempre essere preso in braccio e poi mi abbassa la mascherina per rubarmi il naso per mangiarlo ma io so che fa finta perché quando mi giro per controllare allo specchio se è ancora lì lo trovo ancora lì. Che scemo. Pensa proprio di fregarmi.
Durante il volo ho notato che stavamo trasportando, oltre ad una serie di umani discutibili, anche una falena. C’era davvero una falena di discrete dimensioni che svolazzava in giro. Un volo nel volo. Che poi chissà se è salita a Vienna oppure era su dal giro precedente e ora stava tornando a casa con una storia incredibile da raccontare alla moglie.
Carmé, m’agg fatt nu viagg! Non pui capire!!!
Comm no! O sacc i addò si juto!!! A jiucà e’ machinett tutt’o juorn!
Nun è o’ ver!!! T’o ggiur!!!
E niente poi lei gli crede perché lui ha portato della cioccolata viennese comprata all’hotel Sacher e tutti sanno che le falene le corrompi facilmente con un dolcetto buono o con una lampada molto luminosa.
Scrivere mi aiuta a non pensare che forse morirò terribilmente insieme a tutta la famiglia.
Ma qualcuno compra davvero i profumi a diecimila metri d’altezza? Perché? Non posso credere sia solo per il prezzo conveniente deve esserci qualcosa dietro. Anche perché al massimo dovrebbero vendere cioccolata per umani che si devono far perdonare. Non solo per falene. Se quella falena fosse tornata a casa con un profumo sicuro adesso starebbe firmando le carte per il divorzio.
Proprio non mi va di precipitare oggi perché vorrei vedere come cresce mio nipote. Adesso per distrarlo stiamo cantando “Tanti auguri a te” e lui dice solo qualche parola. Che vergogna. Cioè con uno zio arrogante musicista del cazzo come me questo non sa nemmeno fare la cover della canzone più semplice del mondo.
Però la sua testa profuma di buono. Non buono quanto una Sacher, ma ci siamo quasi.
Per lui forse io sono grande quanto un aereo lo è per un piccione. Sicuro anche lui si vanta di camminare vicino a me quando va all’asilo. Dice “Eh io vivo vicino a mio zio che è altissimo e fortissimo” e tanto mica lo sa che non sono poi così alto, cioè per un italiano certo ma per un austriaco no, gli austriaci sono fastidiosamente capaci di raggiungere ogni ripiano di un supermercato. Poi forte proprio non direi. Dopo cinque minuti che lo tengo in braccio ho voglia di lasciarlo cadere e stendermi per terra urlando dal male ai muscoli. Insomma, spero mio nipote abbia un'opinione di me davvero alta perché non vedo l'ora, con il tempo, di fargli cambiare idea su moltissime cose. Ad esempio che non sono così forte ma almeno sono coraggioso, ah no, sto scrivendo su un aereo perché mi caco sotto.
Stavolta mi ha proprio fregato, è colpa sua se sono quassù. Per andare in vacanza insieme e fare una sorpresa al nonno che non ci aspetta. Chissà che faccia farà. Chissà se la nonna è diventata ancora più piccola e adesso mio nipote pesa più di lei. Temo di sì.
Stiamo quasi per atterrare. Cerco di godermi il tramonto fuori dal finestrino.
Che bello sarebbe se ora ci affiancasse il piccione visto prima in aeroporto che vuole vendicarsi con me per averlo sfottuto. “Così impari a parlare male di me nei tuoi stupidi post dove pensi di stare per morire!!!” mi guarderebbe schifato prima di lanciarsi nella turbina per farla esplodere. Non mi potrei lamentare. Sarebbe un bel modo per andarsene. Morto a causa di un piccione bulletto kamikaze suicida.
Gli chiederei solo di risparmiare mio nipote e la falena. Loro hanno tanto da fare ancora.
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danilacobain · 1 year
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Ossigeno - 27
27. Consapevolezze
Zlatan si svegliò sentendo il calore del corpo di Sveva accanto al suo. Le accarezzò delicatamente la schiena e la osservò dormire. Aveva la testa appoggiata nell'incavo della sua spalla e un braccio pigramente sistemato intorno alla sua vita, che lo circondava. La serata precedente era stata bellissima e aveva odiato ancora di più la decisione del Milan di venderlo, perché se fosse rimasto a Milano si sarebbe potuto addormentare tutte le notti così e si sarebbe svegliato tutte le mattine con lei accanto. Ed era una cosa che desiderava tantissimo. Quelle sensazioni gli riempivano il cuore. Si scostò piano, cercando di non farla svegliare. Avvertiva una leggera fame e voleva prepararle la colazione per quando avesse riaperto gli occhi. Sveva emise dei lievi versi e aprì le palpebre. «Dove vai?» chiese sporgendosi verso Zlatan. «Vado a prendere qualcosa da mangiare.» «Aspetta, ci penso io.» «No, tu dormi. Torno subito.»
Sveva si accoccolò nel posto che fino a un secondo prima era stato occupato da Zlatan. Lui le coprì la schiena nuda con il lenzuolo bianco e le diede un bacio sulla guancia. Sveva sorrise e aprì di nuovo gli occhi. Lo vide allontanarsi nudo e meraviglioso. Rimase altri due minuti a letto, poi si alzò e lo raggiunse in cucina. Zlatan stava versando del succo di frutta in un bicchiere. Aveva indossato dei boxer, quelli che avevano lasciato sul pavimento la sera precedente, e aveva i capelli scompigliati. Sveva lo abbracciò da dietro e posò un bacio sulla sua schiena. «Ehi! Non ti avevo detto di rimanere a letto?» Zlatan si girò nel suo abbraccio, le prese il volto tra le mani e la baciò. «Mi mancavi» rispose Sveva. Zlatan rise, prese il bicchiere di succo di frutta e glielo porse. Sveva lo prese, si appoggiò al piano della cucina e lo sorseggiò mentre osservava Zlatan riempire un altro bicchiere. Lui bevve il succo, prese Sveva per i fianchi e la fece sedere sul ripiano della cucina di fronte a lui. Le diede un bacio lungo e lento. «Ho intenzione di baciarti e accarezzarti per tutta la mattina.» dichiarò. Le mani correvano lungo le gambe scoperte di Sveva, lei giocherellava con i suoi capelli e gli sorrideva. «Voglio imprimere bene in mente la morbidezza della tua pelle, il tuo profumo», si chinò sul suo collo e lo sfiorò col naso, risalì lungo la mascella fino alle labbra «il sapore dei tuoi baci.» Sveva lo attirò a sé e lo baciò con passione. «Non so come farò a resistere un mese...» «Un mese?» chiese in tono allarmato. «Bè sì, più o meno. A meno che tu non decida di venire a Parigi, qualche volta...» Sveva poggiò la testa contro il petto di Zlatan e sospirò. «Suppongo che dovremmo abituarci a questa cosa della distanza.» «Non sarà così per sempre. Troveremo una soluzione.» Sveva alzò la testa e lo guardò negli occhi. «Adesso però cerchiamo di goderci queste poche ore che abbiamo a disposizione.» Zlatan le sfiorò una guancia con la mano e le sorrise. Prepararono insieme la colazione, mangiarono e si coccolarono a vicenda.
Più tardi, dopo aver accompagnato Zlatan alla macchina ed essersi baciati appassionatamente in mezzo alla strada, Sveva realizzò di essere follemente innamorata di Zlatan. Fanculo la distanza, lei era innamorata e felice.
Zlatan pranzò con gli ormai ex compagni di squadra a Milanello. Trascorse con loro un paio di ore tra le chiacchiere allegre, i saluti, gli abbracci e qualche lacrima. Sapeva che avrebbe continuato a sentire la maggior parte di loro e che sarebbe sempre tornato a Milano, aveva ancora la sua casa lì e adesso anche Sveva. Ma questo non rese i saluti meno nostalgici. Li abbracciò ancora una volta uno per uno nel parcheggio e con il cuore colmo di tristezza si avviò alla macchina. Christian aveva atteso che tutti si allontanassero, era venuto a conoscenza della storia tra lui e la sua Sveva e voleva scambiare due chiacchiere con Zlatan. Si avvicinò mentre lui apriva la portiera della macchina. «Ho saputo di te e Sveva...» Zlatan si girò a guardarlo. «Te lo ha detto lei?» Improvvisamente gli tornò alla mente la strana amicizia che c'era tra quei due. Sveva non gliene aveva mai parlato. «Più o meno» rispose Christian. «Volevo solo sapere che intenzioni hai con lei.» Zlatan stava per chiedergli di farsi gli affari propri ma era curioso di sapere cosa c'era tra quei due. «Che rapporto c'è tra voi?» «Siamo amici. Da molto tempo.» Zlatan alzò le sopracciglia e Christian sorrise stancamente. Un sorriso che non arrivò agli occhi. «So a cosa stai pensando» continuò. «È quello che pensano tutti quando ci vedono. A volte persino mia moglie pensa che io l'ami ancora ma ti assicuro che non è così. Ci lega un profondo affetto...» «Aspetta, quindi l'amavi.» «Sì, l'amavo. E lei amava me. Ma questo è successo tanti anni fa. Eravamo così giovani.» Il sorriso malinconico di Christian fece provare una strana sensazione a Zlatan. «Lei ti amava? Eravate fidanzati?» «Sembra assurdo, vero? Ci conoscemmo quando si trasferì a Milano con il fratello. Io avevo circa vent'anni e lei era all'ultimo anno di scuola. La vedevo spesso agli allenamenti delle giovanili, sempre con un libro in mano. Seguiva Ignazio dappertutto. Una sera la incontrai con delle amiche in un locale e mi avvicinai per conoscerla. Da quella sera siamo stati inseparabili. Eravamo una bella coppia, sai. Sì, lei era bellissima e io... bè io non sono bello, ma accanto a lei mi sentivo una persona migliore. Lei era tutto per me. Ricordo ancora che passavo interi pomeriggi sdraiato sul suo letto a sentirla studiare e quando finiva e veniva a sdraiarsi accanto a me mi sentivo così orgoglioso... È stato il mio primo grande amore.» «E poi perché è finita?» «Al secondo anno di università cominciò a fare delle vacanze studio all'estero. Spesso rimaneva interi semestri e soffrivamo entrambi per la distanza. Io così decisi di lasciarla. Lo feci per lei, perché si concentrasse esclusivamente sulla sua carriera. Pensai che magari una volta tornata in Italia avremmo potuto riprovarci. Soffrii molto e credo anche lei. Ci sentivamo di continuo e io pensavo che non mi sarei mai più innamorato di nessun'altra, ma poi è arrivata mia moglie. Le voglio un gran bene, Zlatan. Farà sempre parte della mia vita e se le farai del male dovrai vedertela con me.» «Non preoccuparti, amico. Non ho nessuna intenzione di farle del male.» Zlatan aveva ascoltato tutta la storia in silenzio provando un po' di gelosia per la loro vecchia relazione. Capì che tipo di rapporto c'era tra loro, ma capì anche che provava per Sveva le stesse cose che aveva provato Christian. Realizzò che lui era innamorato di Sveva. L'amava. Non era una semplice infatuazione. Lui era innamorato e avrebbe fatto di tutto per cercare di far andare bene le cose, nonostante quella fottutissima distanza che li separava.
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Avevo 15 anni e per quanto ci provassi ad essere disciplinata, alle volte avevo la testa tra le nuvole.
Frequentavo un Liceo, giú a Rimini e conducevo una vita abbastanza piena. Facevo danza quotidianamente ed era tutto tremendamente frenetico. Il sabato ero solita a passarlo con la mia amica del cuore, troppo importante per me. L'unica che, condividendo la mia quotidianità, mi comprendeva sempre. Il sabato dopo il nostro pomeriggio passato a lezione uscivamo e ci svagavamo: andavamo al cinema, in città, a cena oppure raramente a ballare in discoteca. Siamo state sempre ragazze tranquille anche perché la Domenica eravamo rinchiuse a Concorsi, Stage, Manifestazioni o Esami. (Chi fa attività a livello agonistico lo sa).
Quel sabato di Novembre faceva particolarmente freddo. Allora abbiamo avuto la brillante idea di rifugiarci in un luogo chiuso: il bowling. La gente andava e veniva e c'era tanta confusione data dal continuo "via vai" di motorini, di strike e di macchinette acchiappa sogni/soldi. Ci siamo sedute su i divanetti in pelle rossi, davanti all'entrata e insieme commentavamo le cose più assurde. Quanto ho amato la mia adolescenza con lei. Era la mia costante in una vita di variabili. È stata la mia ancora di salvezza. Si respirava aria di spensieratezza.
Dalla porta girevole, entrano 6/7 ragazzi, tra di loro c'era proprio Lui. Appena vedo questo ragazzo, il mio sguardo, come una calamita si alza da uno dei miei primi telefoni e ci guardiamo.
Felpa azzurra, jeans e capelli leggermente ingellati.. il classico ragazzino di 15 anni, ed io, classica ragazzetta di 15 anni ero completamente su un altro pianeta..
Se ci penso adesso sono ancora emozionata… e sono passati 10 anni.
Se vi dovessi descrivere l'amore a prima vista non so se ci riuscirei. È stato un uragano di farfalle che in massa mi hanno divorato il cuore e lo stomaco. Tremendamente assurdo il tutto. Ecco, questo amore, queste sensazioni, non le ho più provate. La medesima sensazione non l'ho più trovata. Ho avuto e amato altre persone (credo a questo punto non so più nulla); Ma quella sensazione, mai più avuta. Quella sensazione che ti metteva in pausa, per un secondo, il cuore.
Appena ho visto che i nostri sguardi si sono incrociati, ho cambiato colore in viso e ho sentito la necessità di andare al bagno per controllare se ero ancora intera.
Chiedo conferma alla mia amica se era chi pensavo fosse, lei mi dice: "si si, ti piace?" Ed io, ero ancora intera, ma ho avuto la percezione di sentirmi diversa per troppi secondi.
Ed io: " si." Io che sono un insieme di disastri messi insieme, io che sono perennemente indecisa su tutto.. Per la prima volta ho detto " Si."
Lei mi sorride e mi fa quella battutine che si fanno di solito tipo "daiii" (si esatto, con tutte queste iiiii". )"
Caso vuole ( e che Dio lo ringrazi), che lei dovesse comprare delle prevendite per il sabato successivo per andare a ballare nella sola ed unica discoteca della nostra zona. E c'era proprio in mezzo al gruppetto uno dei ragazzi che le vendeva. E lei: "muoviti, accompagnami che da sola non ci vado e se rimango fuori per colpa tua poi ti meno" urla mentre mi trascina con un braccio verso di loro. Si avvicina a questo ragazzo "amico di amici", dove la sola ed unica interazione era stata a qualche compleanno, ci salutiamo e appena ci vede anche Lui si unisce a noi, eravamo in 4 a controllare questo scambio di prevendite durato letteralmente 1 minuto. Ci guardiamo di nuovo e ci salutiamo mentre stavamo per andarcene.
Ho passato il resto della settimana a pensare a lui. A cercare un modo per poterci sentire e poi di colpo il famoso sabato sera è arrivato ed è stata la preparazione più lunga della storia. Capelli, trucco, vestito dovevo essere perfetta.
Ed eccoci, con -62838 gradi, centinaia di ragazzini tutti in fila. L’ attesa è stata infinita e noi, in mezzo a tante persone, ci guardiamo sulle scalinate, un po’ con imbarazzo, un po’ con speranza. Un sorriso appena. Ma in mezzo a tutti, per me lui rimaneva l'unico. A distanza di anni ripenso a tutto questo e sorrido.
I primi amori sono così puri.
Credo nell'amore a prima vista perché l'ho vissuto. Ho vissuto sulla pelle quella sensazione magica e dolce allo stesso tempo. Vi auguro tutto questo.
Ci siamo messi insieme un paio di mesi dopo.
Ho capito che era l'amore della mia vita fin da subito. Quando la mattina era il mio primo pensiero, quando avevo paura di vivere alcune emozioni e lui era lì vicino a me; ho capito che era l’amore della mia vita perché non sapevo spiegare l’emozioni che provavo e che vivevo perché erano troppo intense.
Ad oggi, non stiamo più insieme, lui ha un’altra relazione.
Io ho provato ad avere altre relazioni. Tutte concluse da tempo.
E mi sono ripromessa che finché non riuscirò a chiudere questo pensiero, non vorrò più avere nessuno al mio fianco.
Ti amo ancora, amore mio.
come stai oggi?
Mi manchi.
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Angoli
In questi giorni mi viene difficile comprendere a chi, o a cosa, dare retta. Lo so, mi rendo conto perfettamente che è la realtà, quella che conta. Le parole, le azioni, i gesti e i fatti. Quelli descritti sul giornale che vado a comprare alle 7 del mattino quando il mondo inizia a muoversi e, io, con lui. Ma quando mi incammino per tornare a casa mi chiedo cos'è, la realtà. L'evidenza di un qualcosa che riusciamo ad osservare in maniera chiara e limpida, forse. O un qualcosa, basato su fatti, che condividiamo, accettiamo e diamo per assodato insieme agli altri, in maniera silente. Un qualcosa che esiste, indipendentemente dalla nostra presenza, dalla nostra sfera di influenza composta da intelletto, percezione e personalità. Immagino possa essere una buona definizione di realtà, questa. Ma, se la mia realtà fosse diversa? Se la mia realtà fosse frutto di un qualcosa di illogico e non percepibile dagli altri? Potrei definire, la mia realtà, realtà in tutto e per tutto? Me lo chiedo quando torno a casa col giornale sotto braccio e mia moglie mi chiama, amorevole, com'è sempre stata. Sa che ho comprato il giornale e, tenera, mi chiede sempre di leggerle le notizie. Non riesce più a leggere da anni, la sua realtà è cambiata con la sua, brutta malattia. Vorrei farlo, vorrei leggerle delle elezioni del nuovo Papa e della strage a Parigi di qualche giorno fa, ma non lo faccio. Quando mi poggio sulla sedia a dondolo all'angolo della nostra stanza apro il giornale e, facendo finta di cercare notizie degne di essere lette, le dico che non è successo nulla di importante. Le dico che il mondo è esattamente dove dovrebbe essere e, insieme a lui, anche lei è dove dovrebbe essere. A letto, sofferente, col suo eterno amore nei miei confronti e con un senso di colpa che non se n'è mai andato, anche dopo tutti questi anni. La sua realtà, influenzata dalla sua malattia, è realtà tanto quanto quella degli altri. Ma la mia realtà, derivata da una verità personale, non so se sia davvero realtà. Sì, potrei dire di sì, ma la mia è una realtà individuale, unica, a cui posso credere io e io soltanto. Una realtà senza evidenze scientifiche, sorretta da una verità priva della condivisione e dell'accettazione degli altri. Una realtà debole, sostenuta soltanto da me stesso, ma vera tanto quanto la realtà degli altri e, per questo, realtà. Nuda e cruda, nelle sue strane regole non scritte e vissuta, in maniera unica e irripetibile. È iniziato tutto un giorno, di tanto tempo fa. Forse era Ottobre, no, Novembre. Faceva caldo, ma ero comunque avvolto nelle coperte. Avevo bisogno di un abbraccio, o anche solo di un modo banale per asciugare velocemente le mie lacrime. Forse avevo sognato qualcosa, non lo so, ma ricordo fossero le 4 di notte. Il mio corpo decise di svegliarmi nel cuore della notte, e lo fece facendomi tremare come mai ho più tremato in questi 80 anni di vita. Mi alzai per cercare riparo, ma avevo la schiena indolenzita e provai fatica. A stento riuscii a bere un bicchiere d'acqua. Mi rannicchiai in un angolo e, preso dall'angoscia e dal dolore, intuii che fosse colpa di mia moglie: era lontana, non aveva più un ruolo nella mia vita, ma capii che mi odiava. Mi odiava, così tanto da farmi svegliare e tremare nel cuore della notte. E nelle strane regole accennate di quella nuova realtà, di cui avevo annusato soltanto i paradigmi più evidenti, credevo di esser impazzito. Non ero matto, non lo sono tutt'ora, ma è come se avessi vissuto la mia intera vita in una dimensione mia, personale, diversa da quella degli altri. Dimensione che non ho mai capito appieno e, che, mi ha spinto a farmi innumerevoli domande. A mettere in dubbio qualsiasi mia certezza. A pormi interrogativi anche sulle cose che davo per assodato, nella mia vita. L'ho fatto per giorni, settimane, mesi, anni, dopo quell'accadimento perché, da quel momento in poi, ogni verità di ciò che era la mia realtà è stata messa in discussione da una percezione delle cose diversa, atipica, anormale. Tutto quello che pensavo di sapere era stato messo in dubbio da un qualcosa di incredibile ma inspiegabile, sia nella semplicità della sua azione che nella complessità della comprensione delle cose che, senza alcun motivo, capivo. Per intuizione. E non potevo controllare tutto questo, no, perché la mia nuova realtà mi sorprendeva durante i momenti più banali della mia vita. Quando lavavo i piatti e guardavo il cielo, in certi momenti dell'anno il tramonto. Quando ero seduto all'angolo del mio vecchio divano e guardavo fuori, all'orizzonte, ammirando le luci lontane. Guardavo lontano, perché più lo facevo e più riuscivo a capire cosa stesse succedendo ed era buffo, perché ogni mia intuizione mi riportava a mia moglie. Lei era lì fuori e, per quanto lei non volesse e io nemmeno o forse sì, ero accanto a lei. Ero lì, mentre provava a mettermi da parte odiandomi più forte che poteva. Ero lì, quando ha cercato di ignorare completamente quello che era ed ero stato, quello che aveva fatto, quello che aveva causato. Il dolore che mi aveva fatto provare nell'attesa di un qualcosa che non era mai arrivato. E nel fare tutto questo, nello scrollarsi di dosso le proprie colpe, cercando come obiettivo una vita leggera, senza impegni e priva di conseguenze, io ero lì. Ero lì anche quando si è arresa all'evidenza dei fatti. E so, so, che mia moglie non ha più provato odio nei miei confronti perché non ce l'ha più fatta. Non ne aveva più la forza. E io, che non avrei mai dovuto sapere nulla di tutto questo, ho fatto finta di essere ignaro e lei con me, tacendo su tutta la questione. La comprendo, non le do nessuna colpa, anche perché conosco i suoi perché. Li conosco, anche se li ha sempre nascosti dietro al suo dolce sorriso, ed è proprio quel sorriso il perché di tutto. La fine e l'inizio, perché nell'odio si crea l'amore. Quella notte, in quel momento, ha capito che non poteva fare altro che legarsi a me, di nuovo. L'ha capito nel suo momento migliore e peggiore, nel punto più alto della sua vita e in quello più basso perché, nell'ammettere di quella necessità, ha dovuto ammettere anche altro. Ed è per questo che mi ha odiato, quella sera. Ma io non ero sicuro, di nulla. Quella verità si basava su un qualcosa di così aleatorio, irreale, che non sapevo come agire nei confronti di tutto quello che sapevo, ma di cui non ero sicuro. Perché la realtà dei fatti, quella sostenuta dallo spettro del visibile, era venuta meno e, io, non sapevo più a chi, o cosa, credere. Mi sono ritrovato a vivere due realtà, una logica e una irrazionale e, nel decidere a quale realtà affidarmi, non facevo altro che tormentarmi. Disperarmi. Rimanere nell'angolo del mio letto a piangere, per ore, perché la crudeltà di quello che era successo nella realtà condivisa da tutti si scontrava con un qualcosa di sì crudo ma diverso, speranzoso, positivo nella sua negatività ma che vedevo solo io, io soltanto. Poi, ho capito. Avevo bisogno di una prova, di un qualcosa che dimostrasse le mie teorie, un qualcosa che sostenesse la mia realtà. Un Dio che fornisce le prove ai suoi discepoli, per permettere loro di credere in lui. In una verità costruita dentro di me e senza nessuna dimostrazione pratica non potevo fare altro che chiedere una prova tangibile, di ciò che comprendevo. Perché nel continuare a vivere in due realtà non stavo più vivendo. Ma dove, e come, trovare una prova di quello che sapevo? Come dimostrare quell'odio, quell'indifferenza, quell'amore? Sembrava stupido, tra me e me, chiedere a un qualcosa di incomprensibile un qualcosa di tangibile. A chi dovevo chiederlo, poi? Potevo chiedere solo a me stesso, Dio, messia e discepolo della mia stessa religione. Ma come chiedere una prova della veridicità di un qualcosa di incontrollabile, dentro di me? Mi sembrava un cortocircuito logico, dato il mio essere vittima e carnefice della mia stessa realtà. E proprio nel comprendere l'illogicità di una richiesta del genere che pensai di non dare più retta, alle mie intuizioni. Come potevo dimostrare quella realtà agli altri? Come potevo dimostrarlo a me stesso? Per quanto avessi i risultati della mia verità, quelle che venivano meno erano proprio le formule che portavano al risultato, le fondamenta che sorreggevano la mia realtà. Ma Dio vede e provvede e, per quanto avessi abbandonato l'idea di seguire la mia verità, proprio quella stessa realtà mi diede la prova della sua veridicità, della sua concreta esistenza. Era sera. Non sapevo cosa fare, ma sapevo di non voler rimanere immerso in quella realtà così fragile alle fondamenta ma, allo stesso tempo, così solida e difficile da sopportare. Andai a camminare. Non lo facevo da tanto, non riuscivo più ad apprezzare ciò che mi circondava. La mia realtà era così totalizzante che feci fatica, anche solo ad alzare lo sguardo per scorgere i dettagli dei tetti dei palazzi addobbati per le feste. Non riuscivo più a guardare in alto, gli altri punti di vista non mi interessavano più. Decisi quindi di entrare in un pub. D'istinto, come avrei poi imparato a fare. Presi una birra e, appoggiato ad un angolo, decisi di godermi la solitudine di quel posto così pieno di persone, idee, verità e realtà che rimbombavano nell'aria ma che non volevo cogliere, poiché inutili. Quella sera sarò sembrato scontroso, arrabbiato, forse triste e patetico ma, anche con quell'aspetto, una ragazza mi si avvicinò. Aveva un fare amichevole e familiare, forse perché aveva lo stesso sorriso di mia moglie. Le offrii una birra. Lei, gentile, si prese cura di me e, io, di lei. Passammo la serata a parlare delle nostre storie, molto simili ma diverse, e della nostra vita fino a quel momento. Ci confessammo, Dio che ascolta il suo discepolo e viceversa. Ma nel trovare tanti punti in comune, molte similitudini, nel confessare le nostre verità, accadde. Una parola, che lei mi disse in risposta a quello che le raccontai di mia moglie, attirò la mia attenzione. Non ci rivedemmo più ma, per quanto mi colpii quella persona, quella parola fu fondamentale per me, come un discepolo a cui viene rivelata la verità e vede la sua vita stravolta. Fino a quel momento pensai che la mia realtà fosse individuale, unica e inimitabile, nelle sue dinamiche e nella natura delle sue intuizioni ma, per quanto lo sia e io sia convinto di non poter spiegare concretamente tutto quello che vivo ogni giorno, avevo dimenticato dell'aspetto di osservazione della realtà stessa e, di conseguenza, della mia realtà. Perché, per quanto io sia un animale in gabbia, attorno a me il mondo si muove e, per quanto questo possa sembrarmi assurdo, il mondo è in continua osservazione. E per quanto io creda che la mia realtà sia incomprensibile e renitente agli altri allo stesso tempo non è così perché, per quanto io possa crederlo, anche gli altri compongono la mia realtà, la mia verità, influenzandola nelle sue dinamiche. Quella parola mi venne a mente qualche giorno dopo, mentre osservavo l'ennesimo tramonto. Capii che non era una parola pronunciata per caso da una sconosciuta in un pub, no. Era il titolo di un racconto che, mia moglie, mi aveva ispirato. Un racconto che avevo iniziato a scrivere come sfogo per il mio dolore ma, che, non avevo concluso proprio perché quel dolore scomparve, prima di vederlo riapparire di nuovo. Ma anche perché non mi sentivo pronto, all'altezza, di quello scritto. Non era il caso di andare avanti, non era la cosa giusta. Andai nell'archivio dove tenevo i miei scritti e, mentre rileggevo le bozze, gli appunti, di quel racconto, iniziai a piangere. Mi resi conto che il me stesso del passato mi stava dicendo di credere. Di non far caso alla realtà ma credere alle intuizioni. Mi chiedeva di fermarsi, per riuscire a comprendere delle paure, dei timori, delle emozioni, di mia moglie. Mi sembrò profetico e, davanti a quella verità, mi arresi. Di fronte all'evidenza di quello che la mia realtà mi stava dicendo non potevo fare altro che questo. Dovevo arrendermi, non potevo più lottare contro quella realtà perché, per quanto potesse essere tutto frutto della mia immaginazione, non potevo fare altro che credere. Ero troppo stanco e debole, per continuare a lottare contro quella verità, così assurda ma allo stesso tempo così viva e vivida, ai miei occhi. Decisi così di dare tutto per assodato, per vero. Accettai quella verità, unica ed assoluta nella mia realtà ma incompiuta e immaginaria nella realtà degli altri e la abbracciai, per quanto non fosse nelle mie intenzioni e per quanto, questo, avrebbe poi portato a delle complicazioni. Ero seduto all'angolo più lontano di una scogliera, sotto ad un faro ricoperto di maiolica. Guardavo l'orizzonte e il mare, muoversi dolcemente in quella mattinata di fine Dicembre. Nello zaino un libro, consigliato proprio da mia moglie. Guardavo lontano, cercando di far chiarezza nei miei pensieri quando, ad un certo punto, intravedo un ragazzo e una ragazza. Erano all'altro lato della scogliera e si stavano baciando, dolcemente. O, almeno, così sembrava. Lei, infastidita, cercava di sfuggire al suo affetto in tutti i modi. Lui, paziente, la cercava e la attendeva. Con gli occhi, con le mani, con le labbra. Ma lei non voleva, no. Cercava di sfuggire al suo affetto, al suo volerla accanto. Fino a quando, insofferente, cominciò a inveire contro di lui, insultandolo. Si alzò, di scatto, per poi andarsene. L'odio, gratuito e grottesco, che quella ragazza mi trasmise mi sembrò similare all'odio che avevo provato io, in quella notte di Novembre. Allo stesso tempo, però, quella situazione mi fece riflettere. Distratto com'ero dal capire se credere o meno, stretto nelle maglie delle regole di quella nuova realtà, mi ero dimenticato di poter scegliere. Nel vedere lui, titubante, nel seguire quella ragazza o meno ricordai che potevo agire, decidere, e mi sembrò stupido arrivare a una conclusione così banale ma, in quel momento, mi sembrò una rivelazione. Per quanto fossi assoggettato dalle mie stesse intuizioni potevo decidere come sarebbero andate le cose. Nel sapere che lei mi amasse, nel prevedere che, un giorno, avrebbe bussato di nuovo alla mia porta potevo scegliere. Ma, per quanto mi sembrò rivelatorio tutto questo, in qualche modo fu anche la mia condanna. Fino a quel momento rimasi assoggettato alle verità che la mia realtà mi forniva, in maniera passiva, senza dover o poter fare qualcosa a riguardo. Ma quando compresi le potenzialità che ciò che avevo tra le mani andai nel panico. Cosa dovevo fare? Mi sembrò banale, scontato sedermi su una panchina, far dondolare le gambe e attendere che la mia realtà, comprovata soltanto da verità illogiche e irrazionali, si manifestasse. Allo stesso tempo, in quell'attesa senza data di scadenza, non potevo far finta di nulla. Sentivo la necessità di prendere una decisione, di comprendere il da farsi perché nel non farlo, nel vivere nell'incertezza di quel lasso di tempo indefinito, non avrei vissuto serenamente. Ragionai a lungo e arrivai a comprendere che, di fronte a me, avevo due scelte ugualmente dolorose perché non avevano come protagonista lei, ma la mia stessa realtà. Perché nella crudeltà di ciò che era stato nel passato, avevo intuito e compreso la bellezza di quello che sarebbe stato nel futuro, nel mio attuale presente. Io e mia moglie, nella casa che poi abbiamo acquistato. I nostri gatti, ormai morti. La libreria in comune e i miei soprannomi. Le discussioni, gli abbracci e il suo sguardo, innamorato, che mi accoglie ogni volta che torno col giornale. L'angolo dove scrivo le mie cose e dove lei, solitamente, mi attendeva quando aveva bisogno di me. Come poteva, la mia realtà, farmi intuire delle cose così importanti in quel momento, quando tutto era finito e non c'era alcuna possibilità che quelle cose accadessero? Mi sembrava assurdo, dopo quello che era successo. Una follia, un qualcosa di così fuori dalla realtà degli altri che, per quanto ci credessi, mi sembrava l'ultima cosa che potesse accadere nella mia vita, ormai segnata dalla mia stessa realtà. Ma nel mare agitato di quella follia dovevo decidere il da farsi. Di fronte a questa verità la mia scelta si riduceva ad un puro, e semplice, fidarsi. Perché potevo andare contro la mia realtà, accettando sì le mie verità ma rifiutandomi di proseguire e lasciando morire la questione, quando quello che avevo intuito sarebbe accaduto oppure accogliere la verità, raccogliere le informazioni di cui ero a conoscenza, interiorizzarle e andare avanti, con lei accanto a me. Avrei potuto rifiutare tutto questo, in nome di un dolore che mi aveva lacerato e di una difficoltà di ricostruzione che mi sembrava insormontabile, o avrei potuto accettare di fidarmi, in nome di quel qualcosa che la mia verità mi aveva fatto sembrare possibile, al dì fuori della mia logicità e di qualsiasi altra realtà. Per quanto pensai di non poter scegliere in quel momento, per quanto qualsiasi decisione potesse essere giusta e sbagliata allo stesso tempo, non potevo far altro che rimandare quel discorso a quando, la mia realtà, avrebbe agito, sia nel suo rivelarsi che nel farmi comprendere di ciò che non sapevo o non comprendevo appieno. Ma proprio nell'attesa della sua rivelazione la mia realtà agì, indisturbata. Nel non sapere cosa fare mi diede la possibilità di stare accanto a lei, anche nella sua assenza. Costringendomi a farlo, per quanto non volessi e non potessi sopportare la sua presenza ed esistenza. Due care amiche mi invitarono ad una festa. Era in un posto lontano, che non conoscevo. Ero annoiato, quella sera, e non stavo proprio benissimo. Avevo decimi di febbre, il naso che gocciolava. Decisi di andare, l'istinto mi disse di farlo. Mi ritrovai in una stradina con un monte, sopra la mia testa, quasi a proteggermi dalle avversità. Bussai, alla porta di questa sorta di palazzina. Erano lì le mie amiche, e con loro i parenti. Mi sembrò di essere al centro dell'attenzione, per un momento. Era quasi come essere in un sogno. Forse lo era. Nel raccontare di ciò che mi era successo una di loro mi prese da parte e cominciò a parlarmi. Di quanto fossi sprecato nello stare da solo, in quel momento. Di come avrei potuto trovare la felicità, se solo avessi aperto il cuore ad altre persone. Di come, col mio carattere, avrei potuto trovare in poco tempo una persona adatta a me. Cercai di spiegare quanto non fosse il caso, in quel momento, di mettermi alla ricerca di qualcuno. Non funzionò perché anche i parenti, che mi conoscevano, dissero la stessa identica cosa. Decisi di andare a prendere un po' d'aria e, dopo esser ritornato in strada, decisi di camminare. Era buio, il monte non si vedeva più, ma il rumore del mare mi richiamava e non potevo far altro che seguirlo. Mi ritrovai su una banchina. In fondo un molo e, all'angolo, seduta, una ragazza. Era mia moglie. Non poteva essere lì, in alcun modo. Eppure era lei, mi stava aspettando proprio lì. Mi sorrise per, poi, sparire. Mi sentii sereno. Sereno, nei confronti di ciò che era in quel momento e nei confronti di ciò che era stato, fino a quel momento. Sereno, anche se da quel momento in poi cominciai a vederla, dappertutto. La vedevo nei sorrisi delle ragazze che notavo, al pub. Nelle foto di altre persone. Nelle notizie, nei film che guardavo e di quello che leggevo. Nei dettagli che gli altri, mi facevano notare di me e che, lei, aveva notato prima di tutti. E notai che anche io la cercavo, in qualche modo. Perché, nell'andare avanti, la cercavo, anche solo col pensiero. La cercavo nelle cose che leggevo e di cui volevo raccontarle. Nel solo pensare di condividere quello che guardavo, scoprivo, conoscevo, ed immaginare cosa pensasse, delle cose che mi erano entrate nel cuore. E a volte immaginavo il suo sguardo, mentre leggeva uno dei miei racconti. Glieli inviavo via posta, perché volevo li tenesse lei. Perché era lei che mi ispirava. E, nell'andare avanti nella mia vita, avrei voluto raccontarle tutto. Avrei voluto telefonarla dal mio telefono analogico e raccontarle di ciò che avevo fatto e stavo facendo. Volevo renderla fiera di me, far sì che fosse felice di quello che avevo raggiunto, di quello che avevo superato ma, anche se non fosse stato così, volevo solo renderla felice. Non importava come. Mi riabituai a lei, per quanto non fosse nella mia vita. E nel farlo cominciai a fare delle cose, agendo proprio come se fosse accanto a me anche se sapevo, che quell'impegno e quello sforzo mentale, sarebbero potuti essere vani se la mia realtà non si fosse poi avverata. Ma non era più importante, a quel punto. Ero sereno nei confronti della mia realtà e di quello che ero e avevo accettato quello che era stato e, indipendentemente da ciò che sarebbe successo, andava bene così. Nella possibilità di non sentirla o vederla mai più nella vita ero riuscito a superare tutto, a perdonare e ad andare avanti. Accettare, quello che era stato ed essere in pace a riguardo, anche nei confronti di una scelta che non avevo ancora compiuto. Addirittura felice, quando riuscivo a ricordare ciò che era stato, prima di quella orribile notte di Novembre. Poi, mi telefonò.
Ogni tanto mia moglie mi chiedeva di raccontarle una fiaba. Dormiva tutto il giorno e, quando si svegliava, di sera, mi chiedeva di leggerle qualcosa. Dopo averle letto le notizie mi chiudevo nel mio studio e scrivevo, il più possibile. Cercavo di renderla felice, per quanto la sua malattia la stesse aggredendo e divorando, giorno dopo giorno. Per quanto non fosse in grado di capire appieno ciò che le dico cercavo di impegnarmi per scriverle, sempre, belle cose. Le descrivevo luoghi, persone, angoli ed orizzonti. Poco dopo quella telefonata, arrivata poco dopo quegli accadimenti, la mia realtà cominciò a tacere nei suoi confronti. Non aveva più niente da dire, avevo già tutte le informazioni di cui dovevo sapere. Ma, l'altro giorno, mentre scrivevo, è successo qualcosa. La mia realtà si è risvegliata, ricordandomi di una fiaba. Una cosa che le avevo scritto prima che lei mi telefonasse e, che, non avevo mai concluso. Non gliene avevo mai parlato, non le avevo raccontato nulla. Mi sembrava la cosa più logica da fare perché, nel tacere nei confronti di quel che sapevo, avevo incluso la prova più inconfutabile di tutte. Quella fiaba. Cercai nel mio archivio e, dopo averla trovata, mi misi subito al lavoro. Mentre lavoravo, mentre davo una forma al tutto, le leggevo i miei progressi. Lo facevo ogni sera e, nel farlo, la vedevo in sé, come non la vedevo da anni. Dopo aver letto mi sussurrava del suo amore, come non faceva da tanto. E mi veniva da sorridere perché, sapevo, sarebbe finito tutto di lì a poco. Mi ritrovo seduto, nell'angolo più remoto di camera nostra e, nel ripensare a tutto ciò che è stato, non posso fare altro che piangere. Piango, perché nel lottare contro la mia stessa realtà non ho fatto altro che arrendermi e, nel raccontarle quella fiaba, questa storia, non posso fare altro che essere felice. Felice di ciò che siamo stati, felice di aver dato ascolto alla mia realtà e aver amato, al dì fuori di ogni logica e verità che non fosse la mia.
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decadence-brain · 2 years
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L' UOMO E IL GATTO
Mi ritrovo solo a girare per la città, solo senza nessuno con cui parlare, solo anche se parlo con qualcuno perché è difficile per gli altri intendere le cose come le penso, le ho appena detto che non voglio parlare con lei, ho staccato tutto e sono uscito. Ad un tratto sento qualcuno alle mie spalle mi sento osservato. Mi giro e scopro che a seguirmi è un gatto, lo chiamo ma lui sta li immobile a due tre metri da me, riprendo a camminare e lui mi segue, mi fermo e lui si ferma. Decido di sedermi su una panchina e dopo un po’ di esitazione il gatto si avvicina annusa i miei pantaloni, delicatamente, senza scatti lo accarezzo, lui superato il timore iniziale salta sulla panchina e si sdraia appoggiando la testa sulle mie gambe, allora piano appoggio la mano su di lui e inizio a parlargli.. - sei solo anche tu è brutto essere soli quando al mondo c'è così tanta gente, così tanti gatti. A me capita spesso di sentirmi solo, solo anche in mezzo a molta gente. Beh è inutile parlare tanto non mi capisci, no tu non puoi capirmi -. IL gatto mi guarda e con un miagolio, quasi sottovoce, sembra dirmi continua, continua a parlare e io riprendo - e mi sento solo perché vorrei dire, vorrei spiegare, parlare delle cose che amo, di quelle che temo, dei miei sogni, delle sensazioni, delle vibrazioni, delle gioie, dei dolori, delle vittorie e delle sconfitte, vorrei spiegare quale sensazione provo vedendo un piccolo e timido fiore che sbuca dall' asfalto o vedendo un tramonto che tinge tutto il cielo di rosso. Mi piacerebbe parlare della gioia che mi da essere davanti a un caminetto mentre fuori nevica e quanto mi piace camminare sotto la fine pioggia autunnale o correre contro vento. Ma alla fine questi discorsi sono destinati a rimanere pensieri.. pensieri che si mettono ad urlare dentro di me nei momenti di solitudine. Quante cose avrei da dire, quante da spiegare e quante cose ho da capire. Se solo riuscissi a trovare persone con cui confrontarmi, aprirmi e constatare che capisco queste persone e sono capito, persone che oltre a macchine e calcio, lavoro e donne abbiano qualche cosa in comune con ciò che penso, ciò che provo.. ma forse il mio destino è così, ed è questo, stare qui a parlare a un gatto o seduto al computer a scrivere. Beh smetto di annoiarti e vado a casa -. Accarezzo il gatto e mi incammino verso casa ma dopo qualche metro torna la stessa sensazione di prima, mi sento osservato, seguito, mi giro dietro di me c'è il gatto che invece di fermarsi mi si avvicina e con un timido miagolio sembra voglia dirmi "prima parli di solitudine, di quanto è brutta, e poi mi lasci qui?" Sento ancora forte dentro di me il dolore ma la solitudine la sento meno, prendo in braccio il gatto e mi incammino verso casa con il nuovo amico.
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webellu · 2 years
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Sei nei miei pensieri in ogni istante.
Passo giornate a vedere le nostre conversazioni e a sperare che tu mi scriva.
Vado a letto pensando a te e mi sveglio la mattina augurandomi tu abbia passato una buona nottata.
Sono felice che tu abbia trovato la tua anima gemella anche se è come se mi avessero piantato un pugnale nel petto, e adesso ogni tua parola o immagine mi affonda nel petto facendomi più male.
Quando ho scoperto che ti eri fidanzato mi è crollato il mondo addosso... Ho dovuto prendere e andarmi a fare un giro in bici con le mie cuffie con il volume al massimo per non sentire i miei cattivi pensieri ,quelli che mi hanno accompagnato per tutta la vita.
Mentre percorrevo la strada per tornare a casa ,con gli occhi lucidi , andavo troppo veloce perché volevo scappare da quei pensieri e nel mentre sono andato in una buca e sono caduto rompendomi il braccio.
Prima davo la colpa a te della mia caduta ,ma adesso ripensandoci la colpa è soltanto mia che ogni volta mi innamoro di persone che sono fuori dalla mia portata... Tu sei un 10 e io un misero 6 ,siamo troppo distanti. Meglio così ,ti avrei soltanto rovinato e fatto perdere del tempo.
Adesso sto cercando di cancellarti dalla mia mente piano piano ;ti sembrerà un gesto egoista perché magari tu mi volevi nella tua vita. Ma io ho scelto la vita, ho scelto di volermi bene e di amarmi, ho scelto di mettermi al primo posto. Per questo ci allontaneremo ,forse ti farà un po' male ma spero tu capisca che a me può salvare la vita.
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Eh, eh, eh, eh eh, sì E mi ricordi un déjà vu, uh uh Io che fischiavo la carta bordeux Delle caramelle mou, oh oh E che invano aspettavo il notturno passare di qua Non è sempre domenica, ah ah ah E mi ricordi un Canta Tu, uh uh Una scenata fuori di melone Da prigione o anche di più, uh uhh E te lo giuro che se te mi dici sì Ti porto su, uh Facciamoci una pennica, ah ah
E sono uscito presto, ma è già giorno E a casa non ci torno T'ho scritto prima, ma non m'hai risposto Forse stai dormendo Forse non l'hai letto Ma è vero quello che ti ho detto E io che ho ancora voglia di fumare Le Camel Blu alle sei non fanno male E dai, rispondi adesso perché Mi va di stare con te
Il ghiaccio sopra al fontanone Mezza birra su un foulard Tu, quell'altra e l'afterone Io ubriaco marcio, oh Spappolato in un abbraccio oh, ehi Seduta sul comò scolando du Demon Col tuo cane topo in braccio, pare un Pokèmon M'hai detto che non puoi Io ho detto, "io può" Afferrando una manciata piena di popcorn Vite scontrate hai detto "Vado a prende' il Cid" E t'ho già detto, "Ti vorrei da mori' Sulla parete gialla un falso di Dalì T'ho chiesto l'ora, "tutto bene?", hai detto, "Ni" No caffè, ma ginseng Sono partito in quinta, ho preso un altro palo sdeng E riiniziamo a screziare, aridaje Ci riscordiamo, pare abbiamo già l'Alzhzeimer Se tu mi mandassi la tua posizione Whatsapp Potrei dirti che sono già là Però sai pure tu che è un po' hard E davvero non ho più scusanti da usare per la tua scenata Ci consumiamo con una folata di vento d'autunno
E sono uscito presto, ma è già giorno E a casa non ci torno T'ho scritto prima, ma non m'hai risposto Forse stai dormendo, forse non l'hai letto Ma è vero quello che ti ho detto E io che ho ancora voglia di fumare Le Camel Blu alle sei non fanno male E dai, rispondi adesso perché Mi va di stare con te
Carl Brave, Giorgio Poi
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danilacobain · 1 year
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Ossigeno - 26
26. Proviamoci
Era pomeriggio quando Zlatan arrivò a Milano. Aveva telefonato ai suoi ex compagni del Milan per avvisarli che era in città e che il giorno dopo sarebbe passato a salutarli a Milanello. Era trascorsa già una settimana dal suo trasferimento a Parigi e nel frattempo aveva raggiunto i nuovi compagni in ritiro in Austria. Aveva chiesto ed ottenuto un permesso di due giorni e ora eccolo lì, a Milano, diretto verso la clinica dove sapeva avrebbe trovato Sveva. Non le aveva detto che fosse a Milano, voleva farle una sorpresa. Quei giorni lontano da lei aveva avuto modo di pensare alla loro storia appena nata e aveva deciso che non gli importava se la distanza che li separava era considerevole e che probabilmente non si sarebbero visti più di due volte al mese, lui voleva provarci. Sveva suscitava in lui delle emozioni troppo forti, non poteva e non voleva rinunciare a lei. Il taxi che aveva preso in aeroporto lo lasciò sotto la sua abitazione. Zlatan non salì nemmeno, si diresse in garage; prese la macchina e raggiunse la clinica di Sveva.
Sveva accolse il ritorno a Milano e alla solita routine con grande entusiasmo. Andare a lavoro l'aiutava a tenere la mente impegnata, così poteva accantonare, per un po', i pensieri che giravano sempre intorno a Zlatan. Perché, dannazione, Zlatan le mancava. Quando parlavano al telefono, la sera, sentiva disperatamente il bisogno di accoccolarsi tra le sue braccia di accarezzargli il volto e di sentire le labbra morbide e calde di Zlatan sulle sue. E tutto questo la spaventava a morte. Erano bastati pochi giorni insieme a lui per farle perdere la testa? Come avrebbe fatto una volta ritornata a New York? Uscendo da una stanzetta dove aveva appena visitato un paziente, incontrò il suo collega Sandro. «Ehi, Sveva.» «Sandro. Hai finito il giro di visite?» «Quasi. Tu?» «Sì, io sì. Stavo andando in laboratorio...» «Non ti fermi mai, eh? Non eri venuta qui per riposarti? Lavori più di tutti noi.» Sveva sorrise al collega. Era un illustre cardiologo, molto più grande di lei, e oltre a lavorare in clinica, aveva uno studio privato e prestava servizio anche in ospedale. «Più di te? Non credo» rispose ridendo. «Non so come faccia tua moglie a stare ancora con te, non ci sei mai a casa!» Sandro le rivolse un sorriso. «Mia moglie ama i miei soldi.» Sveva scoppiò a ridere. «Ma smettila! Se non sbaglio lei è un avvocato, giusto? Sai cosa se ne fa dei tuoi soldi! Ne guadagna molti di più.» «Già, infatti. Mi sa che ho sbagliato mestiere.» Proprio mentre Sveva stava per rispondere con una battuta, la porta d'ingresso che dava sul corridoio si aprì e lei si ritrovò a guardare Zlatan che le andava incontro. Zlatan? Sì, era proprio lui. «Ciao Sveva.» «Zlatan...» sorrise, felicissima. Lui le accarezzò un braccio, coperto dal camice. «Quando sei arrivato?» «Adesso.» «Bè, Sveva io vado. Ci vediamo domani» li interruppe Sandro. «Oh, perdonami. Lui è Zlatan. Zlatan, lui è il dottor Gunci.» «Molto piacere» disse Zlatan, stringendo la mano del medico. «Salve, signor Ibrahimovic. Scusatemi se non mi trattengo, ma devo finire il mio giro di visite. Buona serata.» «Ciao Sandro, buona serata anche a te.» Lui strizzò l'occhio a Sveva e andò via. Rimasti soli, Sveva condusse Zlatan nel suo ufficio, troppo emozionata per esprimere quello che stava provando. Zlatan entrò e lei chiuse la porta. Lui rimase al centro della stanza, voleva abbracciarla e baciarla ma non mosse neanche un muscolo. Sveva lo guardava e scuoteva piano la testa, appoggiata di schiena alla porta, ancora incredula. Fu lei la prima a muoversi, gli si avvicinò e lo abbracciò. Il suo profumo le solleticò le narici e le sue braccia forti la strinsero immediatamente. Con il volto sul suo petto riusciva a sentire il cuore di Zlatan battere fortissimo, a ritmo col suo. Alzò il volto per guardarlo negli occhi e Zlatan lo racchiuse tra le mani. Le sorrise felice mentre le sfiorava il labbro con il pollice. Lentamente si chinò e sfiorò le labbra con le sue. Sveva chiuse gli occhi e accolse quel dolce bacio. «Mi sei mancata. Mi sei mancata tanto» le sussurrò Zlatan quando si staccarono. «Anche tu.» «Stasera ti porto a cena fuori.» «Ma tu non dovevi essere in ritiro?» «Ho chiesto un permesso. Per vederti. E per salutare i ragazzi.» «Loro sono in ritiro, adesso...» «Lo so, domani andrò a Milanello.» «Quanti giorni resti?» Zlatan le diede un altro bacio. «Domani sera parto.» «Domani? Di già?» «Di già... però tra qualche giorno torniamo a Parigi e potrai venire a trovarmi...» Sveva sorrise. «Okay, vedremo.» «Vedremo? Vuoi farmi morire, ho capito.» «Non mi sembra che tu ti sia annoiato a Parigi.» Zlatan rise. «Ti riferisci ad Annette? È la seconda volta che tiri fuori l'argomento. Non sarai mica gelosa?» «Gelosa? Io? Ma per favore!» «Bene. Hai finito qui?» «Sì, però devo passare a casa a cambiarmi.» «No.» «No?» «No, Sveva. Se andiamo a casa adesso rischieremmo di non uscire più.» Lei rise e gli accarezzò il volto. «Non sarebbe male, però.» «Se è quello che vuoi...» «Hai già prenotato?» «Sì» «Oh, bè... sarebbe da maleducati se non ci presentassimo...» «Chiamo subito e disdico.» Sveva gli diede un bacio. «No, andiamo a cena. Ti prometto che faccio subito a casa.» Zlatan sospirò e la lasciò andare. «E va bene. Come vuoi.»
Usciti dalla clinica, ognuno prese la propria macchina. Zlatan non andò da Sveva, ne approfittò per passare a prendere un po' di indumenti nel suo appartamento e la raggiunse quando era già pronta. Però entrambi non seppero resistere e finirono per fare l'amore in salotto, sul divano. Zlatan l'abbracciò forte e la riempì di baci, quando ebbero finito. «Sono contento di passare un po' di tempo con te. Io... sto veramente bene quando stiamo insieme. Volevo solamente dirtelo. Volevo dirti che non mi importa se siamo lontani, io voglio provarci.» Sveva rimase qualche secondo in silenzio, persa nel suo sguardo. «Zlatan» gli diede un bacio carico di passione. Le mancarono le parole ma lui capì che anche Sveva provava lo stesso per lui. Fecero di nuovo l'amore, questa volta lentamente, gustandosi ogni singolo respiro, ogni singolo sguardo. Quella notte era solo per loro due. Per i loro baci e per le loro carezze. Il resto poteva attendere.
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camomillasensibile · 11 months
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A casa abbiamo sempre parlato di linfoma, leucemia... stasera a cena per la prima volta dalle tue labbra è uscita la parola "tumore"... ho avuto un mancamento... gli occhi miei si son pietrificati e gonfiati di lacrime...non avevamo mai detto questa parola... forse perché è più vicino a quello che di brutto Già abbiamo vissuto... tu una volta con zia (tua sorella) e io due volte... ho visto ridurti uno scheletro ed avere la pancia come una mongolfiera esattamente come Lui che non c'è più eppure l'effetto che mi ha fatto oggi sentirti dire quella parola è stato straziante più di quella immagine e di tutto quello che abbiamo già passato... la pet dice che per ora il "male" è arrestato da tenere sotto controllo... ma non farmi scherzi... pà qua stanno tutti sti casini e io nonostante tu stia così sei l'unico che riesce a farmi ridere e capirmi con uno sguardo... ho bisogno sempre di te... ho sempre bisogno di sapere che alle 12.30 torni e alle massimo 20 stai a casa sennò vado in ansia... ma questo da sempre... ho bisogno di sentire la mega scia di profumo che lasci quando esci e se potessi mi metterei come una bimba accoccolata sotto al tuo braccio... scende una lacrima e sta andando tutto male... e tu dici "vedi anche avendo un tumore comunque la cosa positiva è uscita..." ed è una stronzata perché di quella cosa "positiva" ne faremmo a meno se tu non avessi avuto questa cosa... ti amo quanto la mia vita e non permettere a niente di toglierti momenti della tua vita...
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13 gennaio 2023
Manca meno di una settimana alla sintesi (che è il 18) e la situazione in auletta è molto più piacevole del solito. Sarà che Rambo è tornato a fare tutto ciò che faceva prima ma almeno stavolta lavora leggermente di più. Ile si è persino tranquillizzata con Daniele, lui ancora non capisce cosa ha fatto per meritarsi questo trattamento decente da parte di lei. Io e Daniele stavamo facendo restauro, poi lui si è messo ad aiutare con il 3d su rhino della parte esterna insieme ad ile che nel frattempo ha finito la parte di morfologia. Rambo ha il controllore totale del 3d interno. Speriamo che il prof faccia le ultime modifiche oggi perché a noi servono piante, sezioni, viste, spaccati e master plan che si possono fare solo a 3d completo. Io adesso mi finisco le modifiche del prof di restauro che ci ha detto ieri. Stiamo andando piuttosto bene secondo me. Almeno io non sto provando ansia eccessiva.
L’altro giorno ho chiesto a bobba se si ricordava quante tavole di solito vengono presentate alla sintesi dimenticandomi, ogni volta, che lei si è laureata in tempi di covid, aka si andava avanti a power point. Le ho scritto sul gruppo e mentre io stavo già dormendo mi ha risposto e anche Cate ha parlato un po’. Dovrebbero stare un po’ incasinate entrambe, bobba deve dare 8 esami in un mese e Cate penso sia bloccata su scienza. Le ho sentite un po’ distanti, Cate più che altro, però sono piuttosto sicura sia dovuto a questo e non si trovano sulla mia isola di persone che mi odiano. Se non riescono a venire alla seduta di laurea a febbraio sarò un sacco triste ma di sicuro organizzerò qualcosa per vederle dopo.
Daniele sta un po’ male sti giorni, tra raffreddore e tosse, però sta venendo lo stesso in auletta, e sono contenta. Sto cercando di essere meno mean con lui. E pure lui mi sta lasciando fare. Compromessi funzionano. Sento che sono una fase di stallo con lui. Sta sempre disposto a chiamarmi e passa poco tempo al cell, però bho, mi sembra stia attendendo la fine della tesi per qualcosa. Questo sarà un mio film mentale, intitolato il ritorno. I really just want to keep him in my life. A volte è l’amico perfetto, a volte manda mixed signal come sempre. Ha ripreso ad abbracciarmi velocemente col braccio sulla spalla, però poi mi spettina i capelli come si fa con i bambini. Io stavolta sto lasciando correre perché physical touch is my love language, a prescindere dal tipo, ma non mi sto facendo illusioni o altro. Mi godo quel po di attenzioni e basta. È tutto un bho. Ieri, in stazione, mi ha detto che dopo la tesi vuole fare un mini viaggio in cui raggiunge un po’ di amici sparsi per l’Italia e gli ho detto che quasi quasi mi accodo a lui. Devo specificare meglio il mio talento di auto invitarmi nei viaggi perché l’avrà preso per scherzo o insomma non per qualcosa che farei sul serio. I’m the perfect travel companion e se ne accorgerà. Ora vado in auletta col freddo mentre sento Joji e Frank ocean.
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