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#Una stella di nome Henry
rocknread · 1 year
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Una Stella Di Nome Henry di Roddy Doyle - Recensione
Una Stella Di Nome Henry. Una stella che illumina il cielo d’Irlanda. Dublino di inizio ‘900 è la rappresentazione della miseria. Fame, povertà, disgrazie. Non manca nulla alla città di James Joyce, Samuel Beckett e Oscar Wilde. Le famiglie vivono di stenti e i bambini scorrazzano allegramente in strada schivando malattie mortali e scappando dalla violenza gratuita dei padri. In questo…
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abr · 6 months
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"Occupano casa loro".
Premessa: in tutte le legislazioni del mondo esiste il principio della USUCAPIONE, il modo di acquisto a titolo originario di una proprietà, attuato mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge. In Italia, analogamente a molti altri Paesi, si realizza ope legis con il possesso continuato per venti anni, senza bisogno dell'intervento del giudice né dell'accordo tra le parti.
Spoiler: qui stiamo parlando non di privati ma di stati (qui il vae victis vige da sempre e per tutti) e cmq. di possesso legittimo continuato di terre dal 1947 e, nella sua versione estesa attuale, dal 1973. Cinquanta anni almeno. E' realtà storica: i legittimi titolari coloniali inglesi creano nel 1947 lo Stato di Israele. Confermato nei fatti da tre guerre. Piaccia o meno, è un fatto.
De che CASA de chi van blaterando?
I miei istriani per lo stesso motivo e negli stessi anni si son dovuti rifare una vita altrove, MUTI (si, gli stati sono 'nammerda, tutti).
Nel dettaglio, a chi interessi la storia, Israele fu creato dagli inglesi ritagliando aree deserte (Negev) e dove gli ebrei eran già insediati. Gli altri territori dell'area furono assegnati alla Giordania (Cisgiordania o "West Bank", sponda occidentale del fiume Giordano), all'Egitto (Sinai, Gaza) e alla Siria (Golan). Gli abitanti non ebrei dell'area si autodefinivano "arabi".
Tant'è, gli stati arabi circostanti non ci stanno: nel 1948 la Giordania col supporto di Egitto e Siria e i soldi dei sauditi, attacca di sorpresa il neonato stato, confidente che non abbia difese. Viene sonoramente sconfitta, Israele conquista la continuità territoriale e l'area del Tempio a Gerusalemme.
Stesso film stessi protagonisti nel 1967: stavolta gli arabi, armati dai sovietici, vengono sorpresi subito prima dell'attacco e le loro forze armate schierate vengono distrutte in sei giorni; Israele occupa il Sinai il Golan e tutto il West Bank.
Stesso film nel 1973: 50 anni fa come quest'anno, attacco di sorpresa nella festa più di famiglia per gli ebrei, il sabato dello Yom Kippur (come attaccar noi la domenica di Natale). Quella volta sono della partita Egitto e Siria ma non più la Giordania, il perché è rilevante e lo raccontiamo subito, ma prima sintetizziamo come andò la guerra del Kippur: dopo i successi iniziali, egiziani e siriani vengono sonoramente sconfitti in meno di un mese; i carri con la stella di David vengono fermati dal preoccupato Heinz (Henry) Kissinger al km 101 da Il Cairo e a 50km da Damasco indifese.
"Palestina" sinora non s'è mai nominata: di fatto il nome con annessa rivendicazione emerge solo negli anni '60 (Olp, fondata nel '64 da Arafat, egiziano). Si tratta di "movimento di liberazione" come tanti altri allora, finanziato dal comunismo sovietico.
[Btw, digressione: funny come l'indipendentismo Sovranista (basco, catalano, palestinese, nord-irlandese etc.etc.) nasca comunista - coi soldi di - allo scopo di destabilizzare l'Occidente e come il Globalismo Internazionalista nasca antikapitalishta (e sia benecomunista woke ancor oggi). Gira e rigira sempre lì siamo, coi kapò alla Soros e i nazi alla Shwab etc.].
Si tratta di movimento talmente indipendentista palestinese cient'peccient' che ... per prima cosa tenta di impadronirsi della intera Giordania: Settembre Nero 1970, colpo di stato fallito nel sangue. La Giordania si chiama fuori dal giro degli arabi e li espelle tutti. Da lì, non dalle guerre con Israele, si ha la vera Diaspora dei civili palestinesi nei campi profughi.
Dopo il 1970 e la guerra del 1973, gli accordi di Camp David nel 1978 prevedono la restituzione di tutto il Sinai all'Egitto sconfitto in cambio della pace, senza Gaza, e la creazione di una amministrazione palestinese della Cisgiordania. Arafat firma ma poi rinnega; tra tira e molla reticenti e ipocrisie essa viene stabilita nel 1993.
Già che ci siamo, chiariamo che Israele é stato occidentale, laico non confessionale: alcune delle sue città fuori dai territori cd. palestinesi, come Haifa, sono a maggioranza araba musulmana, eleggono sindaci, il 5% del parlamento israeliano è ai partiti arabi (meno che a Marsiglia ma più di Calenda e Fratojanni), cittadini al 100% servizio militare incluso. Si tratta degli unici arabi del Medio Oriente che godano di pieni diritti civili. Con tanti cari saluti a quelli che "antisemita no ma antisionista si"
Torniamo a noi: Gaza arriva dopo, viene concessa da Israele alla amministrazione palestinese nel 2005, rimuovendo con la forza 9.000 settlers (coloni) ebrei. Era parte dell'operazione PACE IN CAMBIO DI TERRITORI. Nel 2007 Hamas si impadronisce di Gaza mediante colpo di stato, sgozzando their style migliaia di palestinesi delle fazioni rivali (nessuna guerra ha mai provocato tanti morti arabi).
L'esito dell'operazione: ennesima conferma che chi cerchi la pace facendo regali a fanatici nazisti, fa la fine di Chamberlain con Hitler nel 1938; nella efficace sintesi di Churchill : "potevano avere la guerra mantenendo l'onore, han ceduto l'onore e avuto la guerra". Con gli zombie dis-umani non si tratta, si combatte.
E si, la guerra fa schifo ma tanto ci sarebbe lo stesso: meglio farla in casa di chi la invochi come i nazisti, che subirla nelle proprie nursery e rave party.
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carmenvicinanza · 1 year
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Gina Lollobrigida
https://www.unadonnalgiorno.it/gina-lollobrigida/
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Gina Lollobrigida, La Lollo è stata una delle nostre attrici più conosciute a livello internazionale e una delle più belle dive di ogni tempo.
La sua passione per l’arte, l’indipendenza che l’ha sempre contraddistinta, la voglia di vivere e sperimentarsi, l’hanno accompagnata per tutta la sua lunga vita.
Diretta dai più grandi registi, ha recitato in oltre sessanta film accanto ai colossi del cinema come Vittorio De Sica, Vittorio Gassman, Burt Lancaster, Tony Curtis, Anthony Quinn, Frank Sinatra, Steve McQueen, Marcello Mastroianni, Yves Montand, Sandra Dee, Alec Guinness e molte e molti ancora.
Accantonate le scene per un lungo periodo, è stata anche un’affermata fotografa, fotoreporter e scultrice.
Numerosi sono stati i riconoscimenti artistici che le sono stati conferiti negli anni: oltre ad aver ottenuto la famosa stella sulla Hollywood Walk of Fame, anche se troppo in ritardo rispetto alla sua carriera, è stata premiata con un Golden Globe, sette David di Donatello, due Nastri d’argento e ha ricevuto una candidatura ai Premi BAFTA per il famoso film Pane, amore e fantasia.
Nacque a Subiaco, in provincia di Roma, il 4 luglio 1927, era figlia di un facoltoso produttore di mobili caduto in rovina durante la seconda guerra mondiale.
A diciassette anni ha debuttato a teatro in una commedia di Eduardo Scarpetta.
Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Roma mentre, per mantenersi agli studi vendeva caricature disegnate col carboncino e posava per i primi fotoromanzi, con lo pseudonimo di Diana Loris.
Aveva 18 anni quando è stata violentata da un calciatore della Lazio di cui non ha mai voluto rivelare il nome. Poco tempo dopo ha sposato Milko Skofic, medico sloveno che prestava servizio fra i profughi temporaneamente alloggiati a Cinecittà, sono stati insieme per vent’anni tra alti e bassi e hanno avuto un figlio Andrea Milko, nel 1957.
Dotata di una straordinaria bellezza, nel 1947 si è classificata terza al concorso di Miss Italia, dietro le future stelle del cinema Lucia Bosè e Gianna Maria Canale.
Al cinema ha iniziato dalla gavetta, è stata comparsa e controfigura, prima di ottenere piccoli ruoli di contorno e finalmente arrivare a recitare in film di successo che l’hanno consacrata una star internazionale, prima in Francia e poi negli Stati Uniti.
Tra gli altri, nel 1953 ha interpretato, al fianco di Vittorio De Sica, il personaggio della Bersagliera, premiato con il Nastro d’argento e candidato al BAFTA, in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini (Orso d’argento al Festival di Berlino).
Ha spesso raccontato aneddoti riguardanti i suoi rapporti buoni e conflittuali con alcune delle più grandi star della cinematografia internazionale.
Nella prima produzione televisiva a cui ha preso parte, nel 1972, è stata la Fata Turchina nel fortunato Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini, rimasta ancora nell’immaginario collettivo di intere generazioni.
In quegli anni ha gradualmente abbandonato lo schermo per dedicarsi alla fotografia. Ha ritratto personaggi come Paul Newman, Salvador Dalí, Henry Kissinger, Audrey Hepburn, Ella Fitzgerald, è rimasta alla storia l’intervista fatta a Fidel Castro del 1973. Ha pubblicato libri, reportage e esposto le sue sculture in tutto il mondo.
Negli anni ottanta è apparsa in varie importanti serie tv statunitensi, ma i suoi impegni come attrice si sono sempre più diradati, fatta eccezione per alcuni celebri cameo.
Nel 1996 è stata premiata con il David di Donatello alla carriera e nel 2006 ha ricevuto un riconoscimento speciale in occasione del cinquantenario del trofeo di cui era stata la prima vincitrice, nel 1956.
Il 16 ottobre 1999 è stata nominata Ambasciatrice di buona volontà della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura.
Il 2011 l’ha vista, per la prima volta insieme sul grande schermo con Sophia Loren, considerata la sua storica rivale, nel documentario Schuberth – L’atelier della dolce vita.
Attiva anche politicamente, è stata candidata alle elezioni europee del 1999 in una lista di centro-sinistra, senza risultare eletta.
Anche molto in avanti con gli anni non ha mai smesso di far parlare di sé e della sua affermazione di libertà. Nel 2006 ha dichiarato a una rivista spagnola di volersi sposare con Javier Rigau dopo una relazione tenuta segreta per più di vent’anni: lei aveva 79 anni, lui 45. L’uomo che, successivamente ha sostenuto di essere il suo amante da quando aveva 15 anni, l’ha poi lasciata attraverso un comunicato del suo avvocato. In seguito, l’attrice ha dichiarato di essere stata sposata con l’inganno attraverso una falsa procura da lei firmata, una vicenda arrivata fino in tribunale.
Nel 2007 è stata nominata cittadina onoraria di Pietrasanta, dove aveva organizzato la sua prima mostra di scultura.
La sua vita intensa e incredibile si è interrotta il 16 gennaio 2023 a Roma, aveva 95 anni.
Piena di vita, si è sperimentata con successo in varie arti, sempre attenta al suo contemporaneo, è stata coinvolta in varie cause sociali.
Gina Lollobrigida è stata una delle ultime grandi dive, la sua incredibile bellezza si mescolava col suo talento e con un carisma che la rendeva quasi irreale, nonostante non nascondesse mai la sua grande umanità. Aveva un’aura che la rendeva magica e anche in vita sembrava eterna, il suo nome resterà scritto a caratteri cubitali nella storia del cinema mondiale.
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giancarlonicoli · 4 months
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21 dic 2023 16:43
LA PIPI’ DI AGNELLI, LE BARZELLETTE DI BERLUSCONI E L’EX PRESIDENTE DELLA BCE TRICHET CHE URLO’ CONTRO CASALEGGIO – I RICORDI DI ALFREDO AMBROSETTI, L’INVENTORE DEL FORUM DI CERNOBBIO: “L’ESORDIO NEL 1975 FU UN DISASTRO, ERO INDECISO SE CONTINUARE, MA BENIAMINO ANDREATTA MI SPINSE A ANDARE AVANTI” – AGNELLI CONOSCIUTO ALLA TOILETTE, IL CAV "CHE INTERVENIVA COME PAGANTE", L'EUROPA ("UN CASINO"), GIORGETTI “MIGLIORE” DI SALVINI – “NON POTEVO SOFFRIRE CONTE PERCHE’…” -
Flavio Vanetti per il Corriere della Sera - Estratti
Grande Vecchio o Gran Lombardo? Gran Lombardo! «Magari avete una cattiva idea dell’età» attacca Alfredo Ambrosetti, proseguendo così: «Se volete dire che ho più di 92 anni, vi spiego che quando si nasce mettono una data sulla carta d’identità; ma un minuto dopo la qualità del cervello è già diversa. La vera età non è anagrafica, ma è il rapporto tra ricordi/rimpianti e progetti».
Sono ancora tanti quelli di questo signore gentile e dall’ironia sferzante, l’inventore prima del Forum di Cernobbio e ora di un evento, Campionissimi , che nella sua Varese attira personaggi dello sport (e non solo) con la forza di una calamita. «Il mio pregio? Non posso dirlo io...». Risponde allora Lella, la moglie che per lui è una stella polare: «Alfredo non si arrende mai e se ha un’idea, la attua. Ogni cosa deve essere fatta... ieri». E qui si pesca tra le massime che Ambrosetti scrive: «Gioca d’anticipo. Se non fai polvere, mangi polvere». Pensò la frase quando le strade erano ancora sterrate.
Qual è la hit parade dei potenti della Terra?
«Parto da Gianni Agnelli: ci conoscemmo in una toilette facendo pipì. Poi organizzai a nome suo un paio di riunioni del Gruppo Bilderberg. Rimasi impressionato da chi esprimeva concetti perfetti con poche parole. Costoro erano: Henry Kissinger, Shimon Peres ed Helmut Schmidt».
Chi invece avrebbe voluto conoscere?
«La mia vita è concentrata: ho voluto conoscere solo mia moglie».
Il più simpatico che ha incontrato?
«Il barzellettiere Silvio Berlusconi».
Il più noioso?
«Al Forum usavamo il semaforo per evitare interventi prolissi: 15 minuti a discorso, dopo 13 scattava il giallo e dopo altri 2 un rosso accecante toglieva dall’imbarazzo di fermare il relatore. Peraltro della tagliola fu vittima Roberto Casaleggio e mia moglie si commosse».
Prego, racconti.
«Beppe Grillo ordinava di evitare i convegni, Casaleggio se ne infischiava. La prima volta fu applaudito; l’anno dopo era già malato ed ebbe problemi. Continuò a parlare dopo il rosso. Jean Claude Trichet si mise a urlare e gli tolse la corrente. Mia moglie inseguì Casaleggio, ma non lo trovò. Poco tempo dopo morì».
L’esordio del Forum, nel 1975, fu un mezzo disastro.
«Di più: un bagno di sangue. La data ideale è inizio settembre, ma quell’anno ci sarebbero state le elezioni. Fummo costretti ad anticipare al 4 luglio: ma era l’Independence Day e non arrivarono americani. Beniamino Andreatta rimase ospite a casa mia. Ero indeciso se continuare, ma lui mi confidò: “Non ho mai imparato tanto come in questi giorni”. Detto da uno che aveva un ego enorme... Tenni duro e andò sempre meglio».
Qual è stato l’appeal del Forum?
«Il format chiaro: prima si parlava del mondo, poi dell’Europa. Il terzo giorno toccava all’Italia».
Aneddoti da raccontare?
«Berlusconi interveniva come pagante. Seduceva gli imprenditori con offerte stracciate per i suoi canali tv. In cambio chiedeva una cifra alta per ogni punto di quota di mercato: cominciò così a fare affari. Fu poi al centro di un altro episodio. C’era l’obbligo di non lasciare la sala prima della fine dei lavori. Invece alle 17 se ne andò: doveva seguire i palinsesti... L’anno dopo lo lasciai fuori. Ma io collaboravo con Cesare Zappulli, giornalista vicino a lui. Cesare mi chiamò e mi disse: “Ho dovuto cedergli il posto”. Così Silvio venne gratis».
(...)
Campionissimi diventerà il Forum Ambrosetti dello sport?
«Dello sport e di quanto può essere a ridosso: è la vera differenza rispetto ad altri eventi».
Berlusconi le introdusse Giorgia Meloni: immaginava che sarebbe diventata premier?
«Sì. Me la presentò quando si occupava di Gioventù, la più giovane ministra della storia dei governi italiani. È validissima, soprattutto rispetto ad altri politici».
Ambrosetti ne salva pochi.
«Sono legato a Giancarlo Giorgetti, migliore di Salvini. Sui politici ho scritto una riflessione dal titolo: “Ho lo stomaco debole”. Non potevo soffrire Conte: anziché i Decreti Legge faceva i Dpcm, atti amministrativi che consentono i ricorsi».
Lei è di destra o di sinistra?
«Diciamo che ho avuto un forte legame con Giorgio Napolitano. Ricordo la vignetta di Giannelli con San Pietro che chiede a Gesù: “Ma chi è?” E Gesù: “È l’ultimo comunista non comunista”».
La massoneria è una minaccia?
«Che sia buona o cattiva, ne sto lontano».
Ha mai pensato di entrare in politica?
«Tanti me l’hanno chiesto, ma ho sempre rifiutato. Anche Mario Monti è come me, però l’ha incastrato Napolitano: l’ha nominato senatore a vita e poi gli ha dato l’incarico per il governo».
Esiste un Ordine Mondiale che sovrasta tutto?
«Più che altro vedo ostacoli per la democrazia: molti poteri forti sono dittature che decidono subito».
L’Europa?
«Un casino. Francesco Alberoni diceva che nella globalizzazione ci sono Stati-Nazione che fanno da soli. Noi invece siamo piccoli e abbiamo bisogno di un’Unione europea che sia tale. Ma hanno inventato la cosa più stupida: decidere all’unanimità. È la soluzione meno democratica: se uno si oppone, sei in scacco».
Quanti Papi ha conosciuto?
«Wojtyla, gran personaggio, e Ratzinger. Papa Francesco? Conosciuto informalmente, ma lo stimo».
Com’è il rapporto con la Chiesa?
«In famiglia siamo cattolici. Ma la Chiesa dovrebbe fare del marketing. E non sono d’accordo sul pauperismo: se tutti sono poveri, dove si trovano i soldi per la beneficenza?».
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fashioncurrentnews · 6 years
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Stella McCartney e Kering: divorzio consensuale
Dopo i numerosi rumors oggi  finalmente la notizia è stata confermata: Kering  ha ceduto il restante il 50 % della proprietà del marchio di moda Stella McCartney alla designer inglese.
Dopo 17 anni infatti il gruppo francese del lusso che vanta nel suo portafoglio anche Gucci, Saint Laurent, Balenciaga, Alexander McQueen e Bottega Veneta, cede alla McCartney l’intera proprietà. 
“È il momento giusto per acquisire il pieno controllo della società che porta il mio nome”, ha detto Stella McCartney. “Questa opportunità rappresenta per me una decisione fondamentale. Sono estremamente grata a Francois-Henri Pinault, alla sua famiglia e a tutto il gruppo Kering di tutto ciò che abbiamo costruito insieme negli ultimi anni. “
“È il momento giusto per Stella per passare alla fase successiva”, ha aggiunto François-Henri Pinault, presidente e amministratore delegato di Kering. “Kering è un gruppo di lusso che potenzia le menti creative e aiuta le idee dirompenti a diventare realtà. Sono estremamente orgoglioso di ciò che Kering e Stella McCartney hanno realizzato insieme dal 2001. “
Secondo alcune indiscrezioni Paul McCartney, padre di Stella, avrebbe avuto un ruolo fondamentale nell’aiutare la figlia a finanziare il riacquisto, anche se l’ex Beatles ha negato. D’altro canto la cessione del  brand Stella McCartney arriva in un momento in cui Kering sta ottimizzando il suo portafoglio concentrandosi sui marchi che performano meglio come Gucci e Balenciaga, scommettendo su giovani talenti come Christopher Kane e liberandosi di Puma, brand di sportwear che ormai  lo offuscherebbe come first runner nel mercato del lusso.
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pangeanews · 4 years
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“Walden” è il libro del nostro tempo: insegna il valore della solitudine, l’amore per i boschi, un modo per varcare il dolore
Sarà stato tre anni fa. Era uscita una nuova biografia di Henry David Thoreu, lo scrittore di Walden, reso pop da L’attimo fuggente (“andai nei boschi… perché volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita���). Scrissi un articolo. Mi rispose, quel giorno, Piero Sanavio. Solo un cretino può scrivere di Walden senza citarmi. Mi arrabbiai. Aveva ragione lui. Insomma, Piero Sanavio, quello che andò a trovare in carcere Pound e filmò Gombrowicz nell’ultimo anno della sua vita terrena (qui scoprite chi è) ha curato le Opere scelte di HDT nel 1958, per Neri Pozzi, ha realizzato una versione di Walden che dura tuttora, in catalogo Bur. Aveva capito l’importanza – per certi versi maggiore di Moby Dick e di Foglie d’erba – di quel libro sgangherato e lirico, lucido e romantico, contemplativo e ribelle, al di là dei generi. Il libro decisivo per capire il mondo americano (“l’irriducibile, caustico individualismo yankee”, scriveva Sanavio), in cui sono previsti Hemingway e Kerouac – era il libro preferito da Robert Frost. Insomma, è un libro ‘sacro’, dove la visione estetica – gettarsi tra i boschi – coincide con quella etica – non pagare le tasse a un paese che si ritiene imperialista e ingiusto, ingiurioso. “Per Thoreau, penetrare nei boschi oltre che rispondere a un’inclinazione personale era anche un viaggio agli inferi, una discesa (ed è l’opera a testimoniarlo) nel territorio delle Madri per afferrare Euridice, trascinarla dall’‘eterno’ al presente”, scrive ancora Sanavio. Il libro fu un fallimento – HDT, l’utopista, tornò a occuparsi dell’azienda di matite del padre, la sua fama è sostanzialmente postuma, morì, da asceta, a 44 anni, tubercolosi –, cioè un prodigio, una perla che ha fondato il futuro. “Non è una persona facile. Di fronte a lui ci si vergogna di avere soldi, di possedere due cappotti, persino di avere scritto un libro che sarà letto da molti”, disse di lui Hawthorne. Tra l’altro, il libro insegna come costruirsi una capanna nel bosco. Non male. Sul “Washington Post” Ron Charles lo ha eletto il romanzo del nostro tempo. (d.b.)
***
Nel 1845 un timido giovane di nome Henry David Thoreau andò “nei boschi perché desideravo vivere profondamente”. Usando vecchie assi trovate in una baracca poco distante, lui e alcuni amici costruirono una piccola capanna vicino a Walden Pond, a Concord, Massachusetts. Deciso a spezzare l’incantesimo del blocco dello scrittore, rimase lì più di due anni, per “succhiare tutto il midollo della vita”. *
Non fu sempre solo durante questo periodo, farebbe notare qualche cavilloso liceale. Ma l’esperimento di Thoreau, immortalato in Walden. Vita nei boschi, è diventato la più famosa rappresentazione di distanziamento sociale.
*
Da quando gli Stati Uniti sono in quarantena per il coronavirus, decine di milioni di persone stanno sperimentando qualcosa di simile al ritiro di Thoreau, ma con una migliore connessione a internet. I giorni accumulati in settimane, e poi in mesi, renderanno sicuramente il peso della reclusione sempre più opprimente. Thoreau lo ha vissuto prima di noi. Ha imparato che può esserci appagamento nella solitudine, così come ci può essere solitudine nella compagnia.
*
Certo, se lo pensiamo un puritano sulla ventina che occupa abusivamente la proprietà di Ralph Waldo Emerson, Thoreau pare l’ultimo tizio al mondo con cui vorreste passare la quarantena. Scrive: “Spesso gli uomini mi dicono: ‘Penso che ti senta solo laggiù, e che vorresti essere più vicino alla gente’”. “Perché mai dovrei sentirmi solo?” chiede. “Il nostro pianeta non è nella Via Lattea?”. Ok. Se lo dici tu. Ma considerato nel contesto della vita di Thoreau, Walden è un libro più potente e molto più empatico di quanto la sua raccolta di aforismi metafisici suggerirebbe.
*
Nel 1842, appena qualche anno prima di recarsi nei boschi, l’adorato fratello di Thoreau, John, si tagliò con un rasoio. Non esistevano cure o vaccini contro l’infezione dal tetano, che si insediò rapidamente e lo uccise. John aveva 27 anni. Morì in agonia tra le braccia di Thoreau. A sole due settimane da questa tragedia, Emerson perse il figlio di cinque anni, Waldo, a causa della scarlattina. Avendo soggiornato in casa di Emerson, Thoreau aveva giocato con il bambino e gli aveva costruito giocattoli di legno. Le due perdite furono devastanti.
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Il diario di Thoreau, un vasto compendio di riflessioni quasi quotidiane che conta più di due milioni di parole, si interrompe bruscamente per tre settimane, in corrispondenza dell’indicibile periodo di lutto. Non appena riprende in mano il diario, scrive: “Sono come una piuma che fluttua nell’atmosfera; da ogni parte la profondità è imperscrutabile. Mi sembra che anni si siano ammassati nello scorso mese”.
*
È comune considerare Walden una guida che ispira a una vita naturale o, cinicamente, ridurlo a una serie di dichiarazioni moraliste. Provate invece a leggerlo come un memoriale del lutto. Le sue attestazioni parlano con una tale potenza della erdita, non solo dei nostri cari, ma della vita per come la conosciamo. Walden custodisce le memorie di un uomo che lotta e implora di tornare alla luce del giorno nell’unico modo che conosce. La cabina presso il lago non fu un rifiuto arrogante della società, bensì una cella e un santuario, un luogo di tortura e sollievo.
*
“Ho molta compagnia nella mia casa; specialmente la mattina, quando non ci sono visitatori”. Thoreau scrive nel capitolo intitolato Solitudine. “Non sono più solo del tuffolo del lago, che ride a voce così alta, o dello stesso Lago Walden. […] Non sono più solo di un barbasso o di un dente di leone nel pascolo, di una foglia di fagiolo, di un’acetosa, di una mosca cavallina, o di un calabrone. Non sono più solo del Mill Brook, il Ruscello del mulino, di una banderuola segnavento, della stella polare, del vento del sud, di una pioggia di aprile, del disgelo di gennaio o del primo ragno in una casa nuova”. Potete sentirci vanterie bucoliche. Io ci sento un tentativo di opporsi alla disperazione da parte di un uomo, che incide su carta frasi talmente belle da rigenerare la mente. In Walden non c’è scritto, ma Thoreau non passò tutto il tempo a osservare funghi velenosi e ad ascoltare il canto degli uccelli, durante i due anni che trascorse al lago. Scrisse anche il suo primo libro, Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack, che racconta di un viaggio in barca che fece con il fratello scomparso.
*
La quarantena per il coronavirus mi riporta indietro di quasi trent’anni, a quando nacque la mia prima figlia con una paralisi cerebrale, dopo un parto terrificante. Rimanemmo per dieci interminabili giorni nel reparto di terapia intensiva neonatale, poi i dottori ci augurarono buona fortuna e ci mandarono a casa. Io e mia moglie avevamo una ventina d’anni, cercavamo di dare un senso a quello che ci era successo e temevamo per il futuro della nostra bambina. Vivevamo in una casetta in uno sperduto villaggio sul fiume Mississippi. Alternavamo scatti di ottimismo a terrore. Ero cresciuto in un periodo in cui parole come “divorzio” e “cancro” si sussurravano appena. Gli unici bambini con disabilità che avessi mai visto erano quelli nelle lacrimose pubblicità per le raccolte fondi di Jerry Lewis. Non conoscevo un linguaggio capace di esprimere quello che ci era capitato. Non sapendo come comportarci, io e mia moglie ci rintanammo in quella casetta e decidemmo di non vedere praticamente più nessuno, convinti che isolarsi sarebbe stato più facile di dover sopportare le false moine degli altri verso nostra figlia. La solitudine fu talmente forte che pensavo di morirne. Quando incontravamo altre persone eravamo tutti sorrisi e astratto ottimismo. Vivevamo nella Via Lattea.
*
Anni dopo, in un attimo di assoluto candore, un amico ci ha confessato: “Avevo l’impressione che qualcosa non andasse, quindi non mi sono fatto sentire”. Non ce la siamo presa, abbiamo capito perfettamente cosa intendesse. La solitudine altrui a volte sembra talmente sacrosanta, orgogliosa e serrata. Chi oserebbe disturbare? Ora però, ogni volta che io e mia moglie esitiamo a intrometterci nell’isolamento di qualcuno che soffre, ci ricordiamo a vicenda di quella crudele incertezza. Reclusi da soli o ammucchiati insieme negli appartamenti, in molti devono affrontare una solitudine insopportabile, ma asintomatica, ansia e dolore. Rispondete al telefono. Trovate il tempo per una videochiamata. Thoreau una volta domandò: “Che tipo di spazio è quello che separa un uomo dai suoi simili e lo rende solitario?”. È solo lo spazio che tolleriamo. Intromettetevi. Deliberatamente.
Ron Charles
*Il testo, pubblico su “Washington Post”, è tradotto da Valentina Gambino (le citazioni tratte da “Walden. Vita nei boschi” sono riportate nella traduzione di Salvatore Proietti, per l’edizione di Feltrinelli)
L'articolo “Walden” è il libro del nostro tempo: insegna il valore della solitudine, l’amore per i boschi, un modo per varcare il dolore proviene da Pangea.
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jucks72 · 6 years
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Quinta stella Michelin per Enrico Bartolini: siamo stati al Glam di Venezia
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Quinta stella Michelin per Enrico Bartolini: siamo stati al Glam di Venezia
Enrico Bartolini, ne riparliamo.
Avevamo lasciato il ragazzo d’oro degli chef italiani con 3 locali e 4 stelle Michelin. Un anno e un’edizione della guida Michelin più tardi, lo ritroviamo con un ristorante e una stella in più.
[Mudec: ho cercato di capire qual è il segreto stellato di Enrico Bartolini]
Alle due che la Rossa ha attribuito al Mudec di Milano, a quelle del Casual di Bergamo e della Tenuta la Badiola di Castiglione della Pescaia, in provincia di Grosseto, se n’è aggiunta una quinta, a Venezia.
Eccoci quindi, a poche fermate di vaporetto da Rialto, pronti a entrare al ristorante Glam, ultima supernova del firmamento stellato di Bartolini.
Il ristorante si trova all’interno di Palazzo Venart, ex Palazzo Bacchin delle Palme, trasformato in hotel 5 stelle luxury dalla catena taiwanese Ldc. Il restauro è spettacolare: trabeazioni in legno, pavimenti alla veneziana, boiserie orientaleggianti e pregiati velluti d’arredo.
Altrettanto raffinati gli arredi del Glam, che per dirla nella lingua patinata della guida Michelin, somma “un elegante salottino per l’inverno all’indimenticabile dehors estivo in giardino, tra magnolie e vista sul Canal Grande”.
In effetti l’eleganza è univoca e le dimensioni intime: una trentina di posti in una sala scintillante, con le spatolature che creano giochi di specchi suggestivi.
Una volta seduti alcuni interrogativi riempiono l’attesa:
— Come fa uno chef a creare la simbiosi necessaria per delegare l’esecuzione dei propri piatti a un collaboratore, per quanto preparato?
— Che margine di autonomia ha il collaboratore, o resta un mero esecutore?
— Il menu, di conseguenza, è una totale invenzione di Bartolini o vive anche di variazioni, detour e sorprese volute dallo chef residente, Donato Ascani?
Sempre più convinta che il quoziente cosmico delle domande dipenda dalla fame, trovo pace quando arrivano gli amuse bouche. Che saranno molti e che, insieme alle portate principali, spiegheranno il legame tra Bartolini e i suoi collaboratori.
Gli amuse bouche si chiamano creme, cialde, panini, millefoglie e friselle, mentre faccio la loro conoscenza approfitto per introdurvi Donato Ascani, barba hipster e occhi sorridenti: un volto che, in effetti, ispira fiducia. 
Originario di Fiuggi, è stato per quattro anni al Piazza Duomo di Alba, con lo Enrico Crippa, per poi passare ai Tre Cristi di Milano, alla corte dello chef Paolo Lo Priore.
Quindi l’incontro rivelatore con Enrico Bartolini. Tra i due si accende la scintilla che porta Ascani alla cloche del Glam di Venezia. Una scelta mirata, giacché in poco tempo è arrivata la stella Michelin.
Il giovane cuoco barbuto dimostra di sapere come si padroneggiano i classici, senza timore di prendersi qualche rischio nonostante la responsabilità.
Di tipicamente suo aggiunge l’attitudine a comporre piatti, eleganti e belli, “mirati”, se così si può dire, a compiacere il gusto classico degli ispettori Michelin. Si premia il maestro, ma anche l’allievo quando merita.
Abbiamo assaggiato molto, il ritmo è stato sostenuto, predisponete lo sguardo al bello, per il buono sappiate che l’Internet ci sta lavorando.
Crema di uovo, bottarga e bergamotto.
Cialda di riso, peperoni cruschi e acciughe
Cialda di fagioli lardo e rosmarino
Cialda mais e sesamo
Affondate il cucchiaino nel guscio, mescolate, assaggiate. In bocca avrete uno zabaione dal carattere pronunciato grazie alla bottarga.
Nonostante l’antipatia che più di uno nutre, largo alle cialde, in un susseguirsi di portate da sgranocchiare, mangiare rumorosamente, sporcandosi le mani.
Crostino nero, aringa e uova di salmone
Panino uova e cicoria
Panino carne cruda e tartufo nero
Lattuga di mare in tempura, cumino e limone
Siamo sempre più convinti che certi piatti vengano preparati ad arte per mettere l’avventore a suo agio.
Millefoglie di baccalà e carpione è una corretta rilettura del baccalà mantecato veneziano, mentre con la Frisella, puntarelle e acciughe siamo dalle parti di Roma. I sapori sono schietti, semplici, anche nella micro Pizza gluten free.
Ma sono solo riusciti divertissement.
Crema dolce, nocciola e acciuga
Una zucca che la nocciola aiuta a liberarsi dalla dolcezza monocorde, in combinazione con l’acciuga sapida.
Zucchina e Yuzu
Gli orti lagunari, in particolare quello di Michele Savorgnano alla Giudecca, hanno fatto scuola, e se Davide Bisetto al suo Oro Restaurant al Cipriani (Giudecca) se ne serve da anni, anche perché l’orto confina con il lussuoso hotel, ora altri chef lagunari seguono il suo esempio.
Crudo di pesce, polvere di Shiso e mela
Un piatto bellissimo. Ci sono dentro cenni dei dipinti fauvisti e dello stile naif di Henry Rousseau, che dal verde di una foresta sapeva tirare fuori macchie fucsia, giallo e arancio a illuminare un dettaglio.
L’uso dello Shiso non è un vezzo, il profumo del basilico giapponese in simbiosi con la mela regala un guizzo di sapore al crudo.
  Nervetti di vitello, cima di rapa e wasabi
Per chi come me non ama i nervetti questa è una prova di coraggio. Giudizio sospeso per comprensibili (spero) conflitti interiori.
Topinambour e cuore di piccione
Un lussurioso piatto di lasagne che fonde insieme la morbidezza della crema-besciamella, il carattere del ragù di piccione, le pareti croccanti della pasta.
La maratona Glam prosegue con Cruda alla brace e foie gras; Patata soffice, granceola, capperi e finger lime e Rognoncini di coniglio, pastinaca e cavolo nero.
I sapori e gli accostamenti tra consistenze continuano a essere molto gradevoli.
Un piacere confermato dalla Seppia affumicata al mirto e dagli Spaghetti all’anguilla e finocchietto, dalle riuscite note affumicate. Chiudendo gli occhi sembra una carbonara.
Arriva il momento del Risotto alle rape rosse e salsa gorgonzola, icona dello stile Bartolini, un piatto che in due ingredienti riesce a dire tutto, e che una mano sprovveduta trasformerebbe in un banale risotto al formaggio.
Esame superato: l’impressione di mangiare uno dei piatti più sorprendenti tra quelli preparati nei ristoranti italiani, con il gorgonzola a prendersi la scena, è confermata. Anche se non siamo a  Milano ma a Venezia.
Da tempo Bartolini ha abdicato al ruolo di semplice chef per diventare uno specialista vero: sceglie bene i collaboratori, trasmette con disciplina i suoi talenti e guadagna stelle Michelin.
La cottura di Piccione, frutti rossi, conferma la buona impressione generale.
In chiusura i dolci, a firma Noguchi Masayoshi, dove al netto del nome, l’ispirazione orientale è evidente fin dalla composizione.
Con in più nelle Mandorle, cachi, salsa gin e zenzero e nella Castagna…colori d’autunno i toni caldi della stagione.
Si chiude con altri minuscoli dolci, serviti con grazia, stile e cordialità dal direttore di sala, Danilo Bernardi.
Dalla maratona Glam usciamo appagati grazie a una successione di piatti sensati e senza sbavature. Bartolini è molto bravo e si avvale di collaboratori molto promettenti. Le domande cosmiche che ci eravamo posti all’inizio hanno trovato risposta.
Glam, Palazzo Venart, calle Tron, 1961 – San Stae, Venezia
Prezzi medi: antipasti 30, primi piatti 30, secondi 35, dessert 15 euro.
Menu degustazione: 90 euro (6 portate vini esclusi), 8 portate 120 euro.
[Crediti | Immagini: Caterina Vianello]
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pangeanews · 5 years
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Il più grande poeta inglese di sempre? Petrarca… (lo dicono in UK). Da Shakespeare a Mandel’stam, abbiamo insegnato al mondo occidentale a dire l’amare. Dobbiamo esserne fieri
La leggenda pia non smette di commuovermi. Così la narra Gario Zappi: “Ottanta anni fa, nel lager di transito di Vtoraja Rečka, presso Vladivostok, moriva d’inedia Osip Mandel’štam. Testimoni oculari hanno raccontato che, semiassiderato, rosicchiando zollette di zucchero, se ne stava accovacciato vicino ad un immondezzaio e recitava brani della Divina Commedia e del Canzoniere di Petrarca”. Più specifica la versione narrata da Ryszard Przybylski, critico polacco: “Si sparse la notizia di un poeta che consolava i detenuti cantando le sue traduzioni di Petrarca, vicino al fuoco”. Se il rapporto tra Dante e Mandel’stam è testimoniato dai suoi bellissimi testi ‘danteschi’, quello con Petrarca emerge dal gorgo dei Gulag. Nel luogo dell’orrore, dove l’uomo è disumano, il poeta recita poesie d’amore. Morirà, sappiamo, il poeta – ma è invincibile chi getta parole d’amore tra le fauci dell’oscurità.
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Di Dante, intendo, sappiamo il fascino, inevitabile, esercitato in questo e in altri continenti. Sono testimoniate le letture di Gogol’ e di Goethe, di Ezra Pound e di Thomas S. Eliot, come di Jorge Luis Borges e di Samuel Beckett. Dante, in fondo, è la grande ‘fonte’ della letteratura moderna, per lo più per gli aspetti ‘infernali’ e per la verve ‘politica’ e polemica. Il Novecento è una “selva oscura”, una notte senza termine, un viaggio nella zona selvaggia e terminale della notte. Insieme a Dante, si è lavorato dentro Ulisse – l’apolide sapiente, l’epos di un esilio, la tensione paradisiaca al ritorno – e dentro Don Chisciotte – la follia come unica ragione possibile per comprendere il mondo irragionevole. Petrarca, al contrario, il poeta dei singulti d’amore e dei sibili del desiderio, è cestinato tra gli irritanti, nonostante le fiammate polemiche (“L’avara Babilonia à colmo il sacco/ d’ira di Dio, e di vitii empii et rei…”), più formali che altro.
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Mi è parsa sempre una stupidata. Petrarca è l’icona, si sa, del letterato moderno: uno che scrive lettere ai morti ma tratta coi vivi, che scopre manoscritti perduti, che è intriso d’inquietudine, che non trova un posto dove stare in pace e anela la pace, che usa la letteratura per scavarsi, che brandisce l’amore come errore, come ossessione – è bello giocare coi sensi e coi simboli pensando che la Laura di Petrarca, adorata nel candore, sposa al Marchese Ugo di Sale, sia l’ava trecentesca del Marchese de Sade, che intendeva l’amare come eccitazione degli eccessi.
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Se Dante è granitico, frugale nel vivere, austero nel dettare, Petrarca è un fiume, s’adatta, sperimenta, svia. Scrive – modellando forme e toni – come vive: accetta l’alloro poetico ma reclama la sua libertà politica nella lettera indirizzata ai posteri: “I più grandi monarchi dell’età mia m’ebbero in grazia, e fecero a gara per trarmi a loro, né so perché. Questo so, che alcuni di loro parevan piuttosto essere favoriti della mia, che non favorirmi della loro dimestichezza: sì che dall’alto loro grado io molti vantaggi, ma nessun fastidio giammai ebbi ritratto. Tanto peraltro in me fu forte l’amore della mia libertà, che da chiunque di loro avesse nome di avversarla mi tenni studiosamente lontano”.
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Nel mondo inglese un libro uscito un po’ di tempo fa, Petrarch: Everywhere a Wanderer (Reaktion, 2017), firmato da Christopher Celenza, riporta in auge Petrarca e fa parlare di sé. La settimana scorsa la London Review of Books ha pubblicato una articolessa di Charles Nicholl, On the Sixth Day, rifilando l’importanza del poeta nostro: “Dei tre grandi – compresi Boccaccio e Dante, ndr – Petrarca è il più prolifico, il più eclettico, l’indefinibile – e, ai giorni nostri, il meno letto”.
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Il merito di Nicholl, pur nello spazio stretto di un articolo lungo, è quello di dettagliare i legami tra Petrarca e Chaucer, e poi tra Petrarca e la lirica inglese. “La moda di Petrarca cominciò a prendere piede in forma concreta e cospicua dal 1530, sotto Enrico VIII, con i nuovi poeti di corte Henry Howard, Earl of Surrey, Thomas Wyatt”. Il ‘petrarchismo’, come si sa, fonda l’idea di amore in Albione, ha un successo assoluto: “una stretta lista di testi elisabettiani alla Petrarca dovrebbe includere l’Hekatompathia di Watson (1582), Astrophil and Stella di Philip Sidney (scritta nel tardo 1580 e pubblicata postuma, nel 1591), le “Visioni da Petrarca” nel Complaints di Spenser (1591), Delia di Samuel Daniel (1592), Idea’s Mirror di Michael Drayton (1594), Laura di Robert Tofte (1597)”. In forma satirica, si parlava “dell’onesto Petrarca adornato di prato inglese”. Petrarca, per altro, appare, come un bagliore, nel Romeo e Giulietta di Shakespeare (in una battuta di Mercutio a Romeo: Now is he for the numbers that Petrarch flowed in: Laura to his lady was but a kitchen wench). Soprattutto, Petrarca ‘informa’ l’opera poetica di Shakespeare. Non lo diciamo noi, ma gli stalloni d’Albione: “Quanto Shakespeare abbia contribuito al successo del sonetto dal 1590 in poi non è chiaro… i suoi sonetti sono sostanzialmente dei calchi da quelli di Petrarca”. Secondo Jill Levenson, che ha eseguito una esegesi di Romeo e Giulietta, “qui Shakespeare immagina una città in cui tutti mettono in scena l’idioma di Petrarca… i versi sovrabbondano di riferimenti a Petrarca”.
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Il cerchio di chiude. Nel 1946 Giuseppe Ungaretti pubblica 40 sonetti di Shakespeare, che giustifica così nel 1964, all’Unesco: “Sono uno degli ultimi superstiti d’una generazione di poeti europei che tradussero, ciascuno nella propria lingua, i Sonetti di Shakespeare come per afferrarsi a una tavola di salvezza nel naufragio della volontà illusoria di sfida al tempo che dal Petrarca fino a noi vecchi, si considerò per tanti secoli, mira della poesia”. Parlando del Sentimento del Tempo, Ungaretti ricorda che lì converge la lezione dei “due poeti che erano i miei favoriti: ancora Leopardi e Petrarca”. Grazie a Ungaretti, in qualche modo, Shakespeare torna nel linguaggio da cui è sorta la sua ispirazione.
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Abbiamo insegnato al mondo occidentale a dire l’amare e l’indipendenza dell’amore da ogni mira politica, e ora cosa andiamo dicendo? (d.b.)
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pangeanews · 7 years
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Le Clézio: il denaro ha distrutto le Mauritius
I gonzi si fecero due risate. Anno di grazia 2008. L’Accademia svedese divulga il più atteso dei comunicati stampa. Il Nobel per la letteratura scocca il nome di Jean-Marie Gustave Le Clézio, “autore di nuovi percorsi, di avventure poetiche ed esotismi sensuali, esploratore di una umanità nascosta, oltre la civiltà regnante”. Didascalia piuttosto vaga, tale da far sussurrare al giornalista italico, mediamente incolto, e lui chi è? Quando, un paio di mesi dopo, come è prassi, il vincitore del Nobel fece il viaggio in Scandinavia, scandendo il discorso di accettazione (che leggete qui), tutti capirono di essere di fronte a un bel tipo – Le Clézio ha la patente bellezza di un attore – e a un grande scrittore. Il discorso di accettazione del Nobel, intitolato Nella foresta dei paradossi, parte subito dalla domanda determinante: “Perché scriviamo? Credo che ognuno abbia la propria risposta per questa semplice domanda. Ci sono le predisposizioni personali, l’ambiente, le circostanze. C’è una mancanza. Se scriviamo, non stiamo agendo. Ciò significa che abbiamo una qualche difficoltà di fronte al mondo, che reagiamo in un certo modo, ponendo una distanza, un tempo per pensare”. Conciso, essenziale, poetico. In Francia, in realtà, Le Clézio era una leggenda da tempo. Esordio fulminante, a 23 anni, nel 1963, con Il verbale, redatto sotto l’ala del Nouveau Roman e subito acclamato come un specie di reincarnazione – differita, enigmatica – di Camus, Le Clézio, adorato da Michel Foucault e da Gilles Deleuze, sceglie di complicarsi la vita. Discepolo della tradizione ‘lisergica’ della letteratura francese – ha studiato a lungo Lautréamont, Antonin Artaud, Henri Michaux – esplora paesi al di là del noto, di cui difende l’identità contro il culturame imperante. Perciò: viaggia in Thailandia, vive tra etnie minoritarie nello Yucatan, traduce i miti dei Maya, studia lo sciamanesimo coreano, s’immerge nei deserti. Scrittore lirico e complesso, atipico, che non cede nulla all’‘intrattenimento’, Le Clézio è un guru nel suo paese ma è editorialmente trattato come un autore di terzo piano in Italia, dove funziona Stella errante soltanto perché dettaglia – così la nota informativa italiana – “cosa significhi essere ebrei in tempo di guerra” – e la biografia di Diego Rivera e Frida Khalo (entrambi i libri sono editi da il Saggiatore). Neppure il Nobel è riuscito a far ‘passare’ Le Clézio da noi, oggetto d’attenzione, almeno, di piccoli, tenaci editori: il suo libro più bello, comunque, è Deserto, in catalogo Rizzoli. La bella notizia, per i lettori buoni&giusti, è che Gallimard ha appena pubblicato l’ultimo libro di Le Clézio, nove anni dopo l’ultimo. Il romanzo ha un titolo ‘parlante’: Alma (pp.352, euro 21,00) è il nome di un antico possedimento della famiglia di Jérémie Felsen, alle Mauritius; ma è anche, ovviamente, l’‘anima’. Il viaggio di Felsen nei recessi delle origini, alla ricerca del ‘dodo’, il Raphus cucullatus, estinto dopo la distruzione, da parte dei coloni d’Occidente, del suo habitat, è, in realtà, il viaggio a ritroso di Le Clézio, che è nato a Nizza nel 1940, ma vanta antenati delle Mauritius. Il tema sotterraneo del romanzo, è proprio l’estinzione. L’estinzione delle proprie origini, l’estinzione della memoria, delle parole. Il libro si apre con una domanda, a far fiorire l’enigma – “Che cos’è una famiglia, una stirpe? Sono cose reali? Sono in me dall’infanzia, questi volti, fluttuano come falene che appaiono per poi svanire, nomi gettati lì in una conversazione casuale…” – procede sfogliando un archivio, da dove sgorgano – con pagine che ricordano William Faulkner – con sgomento, legioni di nomi. “I nomi sorgono, muoiono, formano una volta sonora sopra di me, alcune sillabe strappate dalle pagine di un catalogo, altre dalle lastre di un cimitero”. “La scomparsa degli archivi è un dramma per le vecchie isole ‘dello zucchero’. Questa estinzione dei documenti è stato un gesto consapevole? Difficile dirlo; è certo, però, che i regimi che si sono succeduti sull’isola hanno avuto tra i loro scopi quello di squalificare e disintegrare la memoria, perché la Storia mette in difficoltà”, ha detto Le Clézio. “La colonia ha sradicato sistematicamente la memoria della schiavitù, ad esempio, cancellando i nomi e le origini dei popoli trapiantati a forza… ha creato identità fittizie e appartenenze di seconda classe”. Storia di esasperazione e di gioia, di estinzione e di rinascita. Sotto l’ala del dodo. “Il mito dei creoli indolenti, sensuali, viene venduta da decenni ai turisti, compresi i turisti sessuali, i turisti pedofili. In realtà, l’altro lato dell’isola è fatto di sopraffazioni e di violenze, temprate da secoli di ingiustizia, dove la rovina di alcuni coincideva con il guadagno di altri. In questo tempo, votato al profitto, il denaro ha squassato l’isola, lacerando la sua identità, i miti, i valori morali. Il dodo, a lungo il monarca assoluto alle Mauritius, è il simbolo di questo cambiamento: sembra uno scherzo della natura, lo hanno condannato a scomparire”. Lirismo e indignazione sono il carisma di Le Clézio, anche in questa catabasi nella propria anima. Speriamo che il libro trovi presto un editore in Italia.
  Giovanni Zimisce
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