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#Antonio Cesarini
perfettamentechic · 6 months
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25 ottobre … ricordiamo …
25 ottobre … ricordiamo … #semprevivineiricordi #nomidaricordare #personaggiimportanti #perfettamentechic
2021: Ivy Nicholson, nata Irene Nicholson, supermodella e attrice statunitense. Comincia a fare la modella a 16 anni: modella per la prima volta in un grande magazzino di Brooklyn, dopo aver vinto un concorso di bellezza. Posa per le copertine delle principali riviste di moda diventando una protagonista del jet-set internazionale: ed è considerata una delle più eleganti modelle al mondo. A metà…
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giancarlonicoli · 10 months
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7 lug 2023 16:32
TORNANO I MEGA-VITALIZI PER GLI EX SENATORI:  ADDIO AI 60 MILIONI DI SOLDI PUBBLICI RISPARMIATI ALL'ANNO – IN ZONA CESARINI IL CONSIGLIO DI GARANZIA DI PALAZZO MADAMA, COMPOSTO PERLOPIÙ DA PARLAMENTARI NON PIÙ ELETTI, HA CANCELLATO LA SFORBICIATA AI VITALIZI VOLUTA DAL M5S - LA SOMMA MENSILE PERCEPITA DA 851 EX SENATORI E 444 PARENTI DI ELETTI SCOMPARSI ERA STATA RICALCOLATA IN BASE AI CONTRIBUTI REALMENTE VERSATI E NON AL LAUTO STIPENDIO INCASSATO DURANTE LA LEGISLATURA... -
Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica”
Può un dipendente all’ultimo giorno di lavoro decidere di aumentarsi la pensione e di aumentarla anche per tutti i suoi ex colleghi che in pensione ci sono già? Nel Paese reale la risposta è scontata: no, chiaramente. Ma nel dorato mondo di Palazzo Madama è accaduto questo e proprio nelle stesse ore nelle quali la ministra Daniela Santanchè in Aula chiedeva aiuto ai senatori contro i poteri esterni, a partire da quello della magistratura.
Lo stesso giorno si è riunito il Consiglio di garanzia di Palazzo Madama: organo di secondo grado e inappellabile per tutte le questioni che riguardano i senatori, compresa quella del vitalizio. E cosa ha deciso lo scorso 5 luglio questo organismo? Si legge nel verbale: “La cessazione degli effetti della delibera 6 del 2018 a far data dal 13 ottobre 2022”.
Tradotto: stop al taglio dei vitalizi deciso cinque anni fa sulla spinta del Movimento 5 stelle. Taglio che prevedeva il ricalcolo dell’assegno in base ai contributi realmente versati e non allo stipendio da senatore percepito.
Un passo verso il mondo reale, allora. Un passo verso il ritorno ai mega assegni quello deciso ieri dall’organismo di garanzia presieduto dall’ex senatore Luigi Vitali, dal vice Ugo Grassi, anche lui ex senatore, e composto a maggioranza da ex senatori. Quella del 5 luglio era l’ultima seduta utile del vecchio organismo prima dell’insediamento dei nuovi componenti del Consiglio di garanzia eletti in questa legislatura.
Nel 2018 gli assegni erano stati ridotti in alcuni casi anche del 50 per cento con il ricalcolo contributivo, portando a un risparmio di 60 milioni di euro per Palazzo Madama. Nel 2020 il taglio era stato ridotto, prevedendo il ricalcolo dal 2018 soltanto, ma il Senato ha comunque continuato a risparmiare 40 milioni di euro all’anno. […] Di questo regalo, per la precisione, beneficeranno 851 ex senatori ed ex senatrici e 444 familiari di senatori scomparsi per il principio della reversibilità al coniuge.
Dice l’ex senatore Luigi Vitali, sentito da Repubblica: “Abbiamo rimesso le cose in regola secondo quanto ci ha suggerito il Consiglio di Stato e secondo la strada tracciata dalla Corte costituzionale per i tagli alle pensioni d’oro che devono prevedere un tempo limitato di riduzione – dice Vitali  […]”.
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umbriasud · 1 year
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La lista di Potere al Popolo per Silvia Tobia sindaco
La lista dei candidati di Potere al Popolo per Silvia Tobia sindaco di Terni. Benedetta Calderigi, Lorenzo Bacaro, Giada Banchetti, Marta Bartolini, Nicolò Benedetti, Ivano Bolli, Federica Cesarini, Elisa Giovenali, Martina Leonardi, Lorenzo Marcellini, Angelo Morbidoni, Marta Paccara, Antonio Panza, Carlo Presciuttini, Luca Sailis, Christine Schilling, Giovanni Sillani, Valentina Stocchi,…
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lamilanomagazine · 1 year
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Cremona, "Travel Hashtag": dopo Londra rotta su Cremona per l'edizione italiana 2023
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Cremona, "Travel Hashtag": dopo Londra rotta su Cremona per l'edizione italiana 2023. Travel Hashtag, l’evento-conferenza itinerante nato nel 2019 per approfondire gli scenari che si delineeranno nel prossimo futuro relativamente all’industria del turismo, ha scelto Cremona per una decima edizione interamente dedicata al turismo culturale, tra tradizione, innovazione e sostenibilità. "Dopo la recentissima ed entusiasmante tappa di Londra, durante la quale abbiamo promosso l’Italia al trade londinese, torniamo nel Belpaese con un’edizione diversa dalle precedenti, ma come sempre ricca di temi e relatori di primo piano. – spiega Nicola Romanelli, fondatore e presidente di Travel Hashtag – ”Per la prima volta la location del nostro format non sarà un hotel o resort, bensì una città che aprirà le porte di alcuni dei suoi luoghi più rappresentativi”. La prima giornata, quella di martedì 21 marzo, dal titolo Turismo Culturale, tra tradizione, innovazione e sostenibilità, si aprirà con una conferenza presentata da Zaira Magliozzi, che vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Ivana Jelinic (Enit), Gianluca Galimberti (Sindaco di Cremona), Virginia Villa (Museo del Violino), Leonardo Cesarini (TRENORD), Giorgio Palmucci (TH Resorts e AICA), Simona Tedesco (DOVE), Massimiliano Zanardi (Marzocco Group). Nel pomeriggio, 2 talk. Il primo: “Quale ospitalità per le città d’arte e cultura?”, animato da Davide Scarantino (Italianway), Michele Ridolfo (AIGAB), Alessandro Callari (Booking.com), Giorgio Palmucci (TH Resorts e AICA) e Sauro Mariani (Hospitality Advisor). Il secondo “Turismo accessibile: il progresso è inclusivo” con gli interventi di Valentina Tomirotti (giornalista), William Del Negro (Willeasy), Marta Grelli (Travelin), Lisa Noja (ex senatrice, da poco eletta nel consiglio regionale della Lombardia), Luigi Passetto (Anglat) e Rosita Viola (Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Cremona). Focus del secondo giorno, invece, il talk “Una nuova cultura per la valorizzazione del territorio”. Tra i relatori, Roberta Garibaldi (OCSE), Antonio Nicoletti (Apt Basilicata), Davide Cassani (Apt Emilia-Romagna), Giancarlo Dall’Orco (esperto e docente di destination management), Leonardo Cesarini (TRENORD – Gite in Treno), Zaira Magliozzi (Art & Travel storyteller e content creator) e Barbara Manfredini (Assessore al Turismo di Cremona). Per il Sindaco di Cremona Gianluca Galimberti e l’Assessore al Turismo Barbara Manfredini “Travel Hashtag è il partner e il format ideale per raccontare la nostra splendida città in maniera differente, aprendoci al turismo di domani con entusiasmo e voglia di conoscere trend e visioni di un settore meraviglioso e in continua evoluzione. Cremona, con l’Auditorium G. Arvedi del Museo del Violino e Palazzo Trecchi, sarà la cornice ideale per la decima edizione di un evento unico nel panorama del turismo internazionale come Travel Hashtag”.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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surrealistnyc · 3 years
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Now in its 25th year of publication, Infosurr has recently releasted their 150th issue, available to subscribers: "The 16-page issue n°150 starts with the rediscovery of Jehan Mayoux’s poetry, «  a surrealist and libertarian figure who paid dearly for his irrepressible scorn for all kinds of power » (Jean-Paul michel), and draws the attention to hitherto lesser-known figures like Giordano Falzoni, to Antonio Candido Franco’s monumental biography of Mario Cesariny, to the different paths followed by Jacques Lacomblez and Eugenio F.Granell and the Granell Foundation which works for the increase of the knowledge of surrealism in Spain. Light is thrown on Desmond Morris as a great poet before the next issues of Infosurr deal with him as a painter and a rather partial critic. The last page will deal with Alfonso Pena’s panorama of surrealist poetry and with the rediscovery of figures like Leila Ferraz. This international dimension of the bulletin will not ignore the analysis of the leading thread of André Breton’s political commitments – to use the title of jean-Pierre Plisson’s essay. The « Tar and Feathers » section will come back on an exhibition devoted to the relationships of Salvador Dali and Hans Arp. Other news will be given on present-day works, Alain Roussel’s puns and Kader El Janabi’s geometric intoxication, as well as on reviews like Cahiers d’Art and Fleurs de Lune… There is no end to all this ! In the next issues we will deal with the editorial activity around recent works (Jacques Lacomblez, Raul Henao, Guy Girard, Beatriz Hausner) and with activities in Portugal, the USA, Canada and elsewhere. We will return to certain exhibitions, like « the surreal world of fantastic women » or Endre Rozsda in Brussels, to Leonora Carrington’s tales now available again in France and on the multiple facets of Desmond Morris. The «  Figures of and around surrealism » section will welcome a great number of articles on Ludwig Zeller, Ivan Tovar, Jean-Jacques Pauvert, Jean-Michel Goutier, Petr Kral, Nanos Valatoris, Paul Hammond, Judit Reigl, Daniel Cordier), the « Tar and Feathers » section will not be forgotten, neither will reviews on surrealism, L’Etoile de mer, The Oystercatcher, Peculiar Mormyrd, S, Vocatif,…)."
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classical-gentry · 5 years
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This is a portrait of Antonio “Nino” Cesarini (1889-1943), lover of Jacques d'Adelswärd-Fersen.
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iltrombadore · 3 years
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Renato Guttuso, la pittura, la politica e il “vizio della speranza”
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“Falce martello e la stella d’Italia / ornano nuovi la sala. Ma quanto / dolore per quel segno su quel muro”: correva l’autunno del 1944, quando Umberto Saba scrisse di getto i versi che illustravano il piccolo Teatro degli Artigianelli in una Firenze appena liberata, ma ancora fumante del sangue di tanti giovani travolti da una guerra rovinosa che aveva segnato uno spartiacque nella vita morale della nazione italiana. Il segno della falce e martello stampato sul tricolore annunciava allora a molti la promessa di rinascita in un paese lacerato e mortificato dalla disfatta della dittatura che per venti anni lo aveva governato. Quel segno era l’emblema del Partito Comunista Italiano, che si era affermato nella Resistenza antitedesca e si apprestava a diventare uno dei fondamenti del futuro Stato italiano unitario, repubblicano e democratico, nato sulle ceneri del Fascismo e della monarchia sabauda. A quel simbolo politico e ideologico il pittore Renato Guttuso aveva già da anni consacrato il suo impegno di uomo e di intellettuale, nonché di artista maturato nell’aria di fronda che aveva preso a soffiare fortemente negli ultimi tempi del regime. Dalla guerra di Spagna in poi non pochi artisti, poeti e scrittori avevano cominciato a dare un valore proto-antifascista alla ribellione e alle inquietudini umane che davano carattere alla loro opera. 
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Come Elio Vittorini , che descriveva le piaghe del “mondo offeso” sulle pagine di Conversazione in Sicilia, anche Guttuso aveva realizzato una altrettanto allusiva Fuga dall’Etna e aveva rappresentato, in memoria di Goya, una Fucilazione in campagna, al cospetto delle carneficine della guerra civile spagnola e della morte cruenta di Federico Garcia Lorca. Alle idee comuniste Guttuso era giunto alla fine degli anni Trenta. Ma la vera e propria conversione ideologica e politica avvenne nel tempo della clandestinità e della partecipazione attiva alla Resistenza. L’adesione a “quel segno su quel muro”, alla falce e martello con la stella d’Italia, emblema del “partito nuovo” ideato da Palmiro Togliatti a misura di un Comunismo dai colori nazionali, identifica storicamente l’impronta intellettuale e morale di una intera biografia di artista. Ma quello fu anche il tratto distintivo dello slancio e delle illusioni di una generazione, così bene descritti nel romanzo emblema Uomini e no, quando l’io narrante - alter ego dell’autore, Elio Vittorini, mette a punto le inquietudini del “nuovo antifascismo” approdato alle scelte più radicali durante la Resistenza: 
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“(…) Enne 2 è un intellettuale. Egli avrebbe potuto lottare senza mai disperazione se avesse continuato a lottare da intellettuale. Perché ha voluto cambiare genere di lotta? Perché ha voluto cambiare d’arma? Perché ha lasciato la penna e presa in mano la pistola?”. Di quella personale esperienza umana e civile, condivisa assieme ad altri coetanei (Guttuso in primis), lo scrittore aveva voluto precisare - nella nota conclusiva a margine del testo - l’esistenza di una sottile linea di confine e congiunzione tra la sua vocazione culturale e l’ideale politico: “(…) c’è nel mio libro un personaggio che mette al servizio della propria fede la forza della propria disperazione d’uomo. Si può considerarlo un comunista? Lo stesso interrogativo è sospeso sul mio risultato di scrittore. E il lettore giudichi tenendo conto che solo ogni merito, per questo libro, è di me come comunista. Il resto viene dalle mie debolezze d’uomo…”[i]. I tempi e le situazioni esistenziali narrati da Vittorini nel suo Uomini e no corrispondono esattamente a quelli descritti nelle pagine inchiostrate e acquerellate da Guttuso nel suo Gott mit Uns, la cartella coeva che testimonia la immagine - reale, ma anche simbolica - di una lacerata condizione umana divisa tra vittime e carnefici, in una condanna senza appello della violenza e del Nazifascismo. 
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Poteva così naturalmente accadere che democrazia, Comunismo e antifascismo facessero tutt’uno nella tensione morale e nella identità di una generazione che si era spinta - o era stata trascinata dagli eventi - fino ad una radicale rottura col proprio più recente passato. A conferma del clima psicologico e di quella situazione esistenziale vale ancora senza ombra di retorica il profilo che un altro coetaneo, Mario Alicata, fece di Renato Guttuso in quei frangenti: “(…) dal 1944 al 1945 si apre un nuovo capitolo nella storia della vita pubblica e della cultura italiana, e nella storia del movimento operaio e del partito comunista, e Guttuso vi partecipa da protagonista pienamente impegnato sia sul fronte della lotta politica che sul fronte della lotta ideale e artistica… partecipa attivamente alla vita del partito, alle sue iniziative politiche e alle sue lotte ideali, contribuisce alla organizzazione del movimento per la rinascita del Mezzogiorno e al movimento mondiale dei Partigiani della Pace”[ii]. Quel sintetico profilo dell’uomo e dell’artista, tracciato negli anni più duri della contrapposizione tra il blocco occidentale e quello comunista unito attorno alla URSS, indica fino a qual punto le “fodere romantiche” del Marxismo (così le chiamava Elio Vittorini) avessero coinvolto la totalità dei comportamenti umani senza distinguere tra cultura, politica e vita morale. La passione ideologica era talmente assorbente da non ammettere le mezze misure. 
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Non a caso, circa venti anni dopo, Guttuso parlerà di “vizio della speranza” per riassumere i caratteri di quella esperienza nel corso di un bilancio critico e autocritico. E non a caso l’artista alludeva al bisogno quasi ossessivo di fuga dalla “non speranza” - principale motivo ispiratore di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini - che fu il contrassegno esistenziale di una identità politico-ideologica. L’adesione al mito comunista era stato infatti l’approdo conclusivo di un particolare “esame di coscienza”, comune a tanti giovani intellettuali italiani maturati nel regime fascista, che diventarono “rivoluzionari di professione” dopo avere abbandonato la originaria vocazione per l’arte e la letteratura. Questa fu la via seguita da uomini come Mario Alicata, Antonello Trombadori, Fabrizio Onofri, Mario Socrate, Valentino Gerratana, Antonio Giolitti, Marco Cesarini Sforza, Paolo Bufalini ed altre personalità che avevano partecipato assieme a Guttuso alla lotta antifascista e, successivamente, aderirono al PCI. “Tentare di armonizzare le proprie idee alla propria attività rivoluzionaria, prendere cioè a base e criterio di verità quella attività, e non quelle idee, è la via buona per il marxismo…”: in un saggio autobiografico così scriveva Fabrizio Onofri[iii] col pregio di restituire in modo cristallino lo stato d’animo di quanti pensarono di effettuare una rottura, con la loro origine di intellettuali “borghesi”, passando dalla coscienza antifascista alla convinta adesione al modello rivoluzionario bolscevico della Russia di Stalin uscita vittoriosa nella seconda guerra mondiale. “Così ho finito di sentirmi scrittore”, annunciava addirittura Fabrizio Onofri - per indiretta polemica con chi, come Vittorini, sembrava esitare di fronte alla scelta - il quale addirittura riconosceva nella “disciplina di partito” la migliore cura per liberarsi “dall’individualismo e dalle tradizioni piccolo-borghesi”. E sollecitava di conseguenza i compagni intellettuali “a non pretendere più di giudicare le cose e le stesse proprie idee con la testa propria, ma abituarsi a ragionare ‘con più teste’, ossia con la testa del partito, a dare giudizi collettivi e non più soltanto individuali”. Ragionare “con la testa del partito”: una simile vocazione al suicidio dell’individuo-intellettuale, in nome della “ragione di partito”, può apparire oggi quasi un inverosimile paradosso: tanto più se si pensa che di lì a poco un uomo come Onofri dopo il crollo del mito di Stalin avrebbe clamorosamente abbandonato il PCI per avvicinarsi alle idee del socialismo democratico. Ma si tratta di una descrizione verosimile oltre che sincera della psicologia che modellò il comportamento di molte tra le migliori teste pensanti di una intera generazione di italiani emersa dalla seconda guerra mondiale.
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Il mito dei “domani che cantano” prospettati da Louis Aragon e il miraggio dell’“uomo nuovo” indicato dall’immagine propagandistica dell’URSS - venerata come “primo stato socialista del mondo” - entrò naturalmente a far parte integrante anche della biografia artistica di Renato Guttuso. Per rispondere pienamente alla vocazione del “rivoluzionario professionale” egli non abbandonerà il mestiere di pittore. E tuttavia sentirà l’urgenza di modellare la sua espressività sulle esigenze dirette della lotta politica che il tempo storico al momento imponeva, allo scopo di conferire all’arte una sua frontiera “rivoluzionaria”. Renato Guttuso, pittore “popolare” e “padre del realismo nuovo”: così lo definì nel 1946 Antonello Trombadori in omaggio alla idea che l’arte moderna dovesse ormai fuoriuscire dai limiti delle preoccupazioni di linguaggio (una volta giudicato il “formalismo” come retaggio della cultura “borghese”) per rispondere piuttosto alla primaria esigenza sociale di “servire all’uomo”. Questo clima di generica infatuazione e fiducia nel rinnovamento della cultura, dopo il crollo dei regimi autoritari della vecchia Europa, era un diffuso contrassegno morale di quanti predicavano, con la nascita della democrazia, anche l’avvento di un “umanesimo socialista”: a partire dal “Politecnico” di Elio Vittorini fino alla fragile esperienza del “Fronte Nuovo delle Arti”, messa quasi subito in crisi dall’incombere della guerra fredda e dal rigido schieramento ideologico imposto nel 1948 dal blocco comunista dell’Est europeo. 
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In quell’anno Renato Guttuso fu chiamato a presiedere con Joliot Curie e Aleksandr Fadeev il congresso della pace di Wroclaw (vi parteciparono tra gli italiani Ranuccio Bianchi Bandinelli, Elio Vittorini, Sibilla Aleramo, Goffredo Petrassi e Salvatore Quasimodo) in cui alla esaltazione di Andrej Zdanov - il “bolscevico di cristallo” da poco scomparso - si accompagnò la radicale campagna contro il “cosmopolitismo, arma ideologica della reazione americana” (come ricorda il famoso articolo dell’accademico Pavlov comparso sulla “Pravda” ai primi del 1949) con l’esplicita richiesta al mondo della cultura e dell’arte di affiancarsi nella difesa ideologica e politica degli stati socialisti guidati dall’URSS. Quel trauma politico generò le prime fratture e divergenze nel mondo della cultura democratica e di sinistra che sembrava aver maturato, con la Resistenza, uno spirito unitario. E dopo il 18 Aprile 1948, che registrò la sconfitta del Fronte Popolare social-comunista , la direzione ideologica del PCI, affidata ad Emilio Sereni, faceva appello a più rigidi schieramenti sollecitando gli uomini di cultura iscritti al partito ad assumere “una definitiva fisionomia di intellettuali militanti comunisti”[iv]. Pure essendo in contrasto con le direttive accademiche del “realismo socialista” proveniente dall’URSS (e con lo stesso Emilio Sereni che se ne faceva interprete) Renato Guttuso condivise allora in pieno la esigenza di una cultura e di un’arte “partigiana”. Fin dai primi tempi della sua maturazione (nel movimento milanese di “Corrente” e nell’ambiente degli “antinovecentisti” romani) egli aveva d’altra parte sentito la necessità di contrastare le tendenze estetiche moderniste (l’Astrattismo e non solo) che non davano priorità espressiva ai contenuti sociali e di lotta politica. E su quella base morale ed estetica si era affermata la sua maniera di vedere dando corpo efficace ed originale al suo stile. 
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Dopo avere assimilato la lezione formale di Picasso, quel realismo drammatico e conflittuale, si convertì nella fase più acuta della guerra fredda al programma di una maniera figurativa “nazionale - popolare” per sottolineare l’avvenuto distacco dalle convenzioni e dai codici dell’estetica moderna ed il passaggio ad una nuova committenza “popolare”. Così il pittore contribuiva da par suo alla esigenza di dare all’arte “una impronta di partito” (Antonello Trombadori) uniformando le tendenze espressive alla poetica del “realismo”. La ripresa del tema populistico - sull’esempio di Leone Tolstoj, degli “ambulanti” russi, di Gustave Courbet e dei pittori del Risorgimento italiano - privilegiava ancora una volta la moralità dei contenuti nella intenzione di figurare e dare voce ai nuovi soggetti - operai e contadini - della “cultura democratica e nazionale”.
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Presentando una cartella di disegni sui contadini di Sicilia per una mostra della Federbraccianti nei primi mesi del 1952, il pittore scriveva: “(…) i contadini siciliani hanno nel mio cuore il primo posto, perché io sono dei loro, e i loro volti mi vengono continuamente davanti agli occhi qualunque cosa io faccia…”. La sincerità dei sentimenti non nascondeva però la tipica forzatura d’avanguardia e il carattere volontaristico di una estetica che si rendeva consapevolmente “ancella” della ideologia: ma al pittore importava soprattutto all’epoca di fare la sua parte di “militante” nel vivo di una aspra lotta politica. E per ribadire la bontà dei suoi intendimenti, in seguito avrebbe detto: “eravamo i soli ad avere ragione, facendo ‘brutti’ quadri, di fronte ai nostri colleghi che facevano ‘bei’ quadri ed avevano torto”. Oltre alle ragioni dell’impegno in arte si faceva sentire, nell’animo di Guttuso, una esigenza di partecipazione alla impresa collettiva del partito comunista, secondo la “ossessione economico - politica” che avrebbe dovuto distinguere l’intellettuale “organico” teorizzato da Antonio Gramsci per superare lo storico distacco delle classi colte dal sentimento delle masse popolari. Al punto che l’arguto spirito di Mino Maccari, ironizzando un giorno sul ruolo di Guttuso, giunse perfino ad attribuirgli il nomignolo malizioso di “tribuno illustrato”. E in quella celia vi era se non altro il pregio di mettere in luce con efficacia la autoriduzione dell’artista che si era voluto ideologicamente riconoscere anche come agitatore e propagandista collettivo, secondo una testarda e programmatica “scelta di vita”. Oltre a dipingere quadri, Guttuso infatti si impegnò a commentare visivamente perfino la vita attiva del PCI nei suoi momenti salienti e di propaganda: dal “Quaderno dell’attivista” (1947), quando ricordò la nascita del partito comunista con la scissione dal PSI al Congresso di Livorno nel 1921; alla confezione di innumerevoli manifesti per la pace, per la Festa della Donna, per il Primo Maggio e per il tesseramento; fino alla ideazione dello stemma ufficiale del PCI (falce, martello e stella iscritti in un cerchio rosso, col fondo del tricolore bianco, rosso e verde) che unisce quasi simbolicamente il suo nome alla storia della forza politica in cui si riconobbe interamente durante la vita.
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Rispetto alle esigenze di larga divulgazione che il mondo moderno presenta, si può dire che Renato Guttuso sia stato il primo e maggiore comunicatore di massa della immagine e delle idee del PCI in Italia. E il percorso di quella esperienza corrisponde in modo eloquente al patrimonio espressivo di un artista che si sentiva, ed aveva coerentemente scelto, di essere a modo suo un “rivoluzionario professionale”. Anche la scenografica Battaglia del Ponte Ammiraglio (1952), realizzata in due versioni (una fu regalata alla Scuola di Partito alle Frattocchie, nei pressi dei Castelli Romani, e lì rimase fin tanto che il PCI non venne sciolto) si iscrive in questa fase militante della vita di Guttuso: con la fisionomia di Longo, Pajetta, Vittorio Vidali, Antonello Trombadori che prestano il volto ai garibaldini combattenti; ed Elio Vittorini, il fraterno amico che si era allontanato dal PCI, rappresentato fra i soldati borbonici dalla parte del “nemico”. E conviene ancora ricorrere all’“esame di coscienza” di Fabrizio Onofri per comprendere l’itinerario morale e intellettuale di quella che è stata chiamata la generazione degli “anni difficili”: “(…) per desiderio di esercitare sulla società una funzione di direzione che fosse ‘contro’ la società borghese, e usando i mezzi che la stessa società borghese ci offriva, ossia la sua stessa cultura (…) fummo insensibilmente sospinti verso l’unico polo storicamente esistente,la classe operaia”. Il passo delinea la fenomenologia di una comune presa di coscienza da parte di quei giovani allievi di Benedetto Croce che, per bisogno di “agire” in senso antifascista, superarono il suo storicismo moderato fino a guadagnare l’ideologia marxista e il Comunismo: fra loro e con loro si identificò Guttuso e tutta la sua opera. 
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E in quel Marxismo compromettente, che non ammetteva blande adesioni, bensì la prova del fuoco nell’azione (“per sapere com’è il pudding bisogna mangiarlo”, ricordava Engels) il pittore continuò a riconoscersi ben oltre le clamorose smentite che nel 1956 vennero da Mosca, con la denuncia della cruenta dittatura di Stalin; e da Budapest, dove i sovietici liquidarono la rivolta popolare contro il regime comunista che aveva per dieci anni dominato il paese. Molto probabilmente l’animo di Guttuso fece ancora una volta appello al “vizio della speranza” nel momento in cui il trauma della “ventata kruscioviana” fece venire meno l’epoca della fiducia totalitaria nelle virtù palingenetiche del sistema sovietico. Ma anche l’impianto teorico del suo “storicismo marxista” lo spingeva a considerare la idea del socialismo non soltanto come sistema chiuso in se stesso, ma come evento di portata universale, moltiplicatore di energie liberatrici e necessario traguardo da perseguire, “contro ogni speranza”, a completamento della democrazia nella evoluzione del mondo moderno. Dopo la tempesta del 1956 l’artista e il militante comunista non vivevano più la stagione delle grandi illusioni per cui tutto appariva “così chiaro che tra mondo e mente quasi era un idillio” (come ricordano Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini) e si apriva anche per Guttuso una fase di ripensamenti (“il mare dei nostri guai - dirà nel 1965 - e delle nostre scelte di militanti del partito…”) che tuttavia non lo induceva alla rinuncia delle sue più profonde motivazioni estetiche e morali. Il Marxismo continuava infatti ad apparirgli come “la parte viva” dell’esperienza culturale contemporanea. E sul piano espressivo, le esigenze di una estetica “realista” mantenevano a suo giudizio una profonda ragion d’essere nel confronto sempre battagliero con le altre tendenze dell’arte contemporanea.
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Non si tratta tanto di fare della propaganda - obbietterà ai suoi critici - ma di “operare nella direzione obbiettiva in cui la realtà si muove”: così egli rivendicava, aggiornandolo, l’antico amore per l’impegno in arte, in polemica con le posizioni “neo – avanguardiste” più inclini a considerare la fine delle ideologie e della stessa storia[v].C’è tutta una fase della vita artistica e intellettuale di Guttuso, nella prima metà degli anni Sessanta, che lo vede preso dal confronto delle idee e dal tentativo di gettare un ponte tra l’esperienza culturale della sua generazione e quella di chi già annunciava, negli scritti e nelle opere, i primi sintomi della prossima “contestazione del sessantotto”. La situazione perdurante di un mondo diviso tra capitalismo e socialismo legittimava ancora l’ipotesi di un cambiamento che aveva preso il ritmo della competizione “pacifica” nei paesi industrializzati, e delle “guerre di liberazione” nelle aree del sottosviluppo: per il marxista Guttuso la dialettica manteneva la sua vitalità al cospetto di altre ideologie di sinistra che si affacciavano alla ribalta e predicavano invece l’idea del mondo e dell’uomo “a una dimensione” (Herbert Marcuse) con la fine conseguente di ogni contraddizione di classe o di sistema economico. Fedele alla idea del “blocco storico” gramsciano destinato a guidare il corso del Socialismo in Italia, l’artista e il comunista Guttuso cercava di aggiornare il suo Marxismo in una sinergia di esperienze da riassumere nella sintesi politica di quella “cultura vivente” che per lui restava il PCI. 
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E in quest’ambito ideologico egli non nascondeva disappunto e amarezze, quando tornava di tanto in tanto a polemizzare sulla “frantumazione” della vita culturale del partito seguita all’epoca del “monolitismo” staliniano degli anni Cinquanta. Ben poco si era fatto, a suo modo di vedere, per dare vita ad un nuovo “senso comune” che fosse in grado di adeguare l’ideologia alle esigenze dei tempi nuovi. In quegli anni (1963) la direzione della sezione culturale del PCI era stata affidata da Togliatti a Rossana Rossanda allo scopo di utilizzare i fermenti critici della “sinistra intellettuale” nella polemica antisocialdemocratica (incombeva allora il centro-sinistra) in forme di rinnovamento apparente rispetto al passato: e ne veniva a fare le spese dentro il partito proprio la generazione dei comunisti “nazionali” venuti al PCI durante la Resistenza (già molto provati dalla crisi del 1956 e dalle disillusioni ad essa seguite) e di cui Renato Guttuso era un esponente di primo piano. 
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Giova ricordare in proposito come proprio in quegli anni su “Rinascita” - la rivista culturale del PCI diretta da Togliatti - si fosse aperto un dibattito ideologico con dirette implicazioni politiche che metteva in discussione la tradizione storicista-gramsciana: da una parte con aperture verso il neo-strutturalismo (Umberto Eco), dall’altra con l’idea di un vago “ritorno a Marx” misurato sull’empirismo scientista di Galvano della Volpe. La morte di Togliatti (1964), che ispirò a Guttuso uno dei suoi più significativi quadri di storia, comportò quasi subito l’apertura di una acuta lotta politica nel PCI, tra una destra facente capo a Giorgio Amendola  e una sinistra ispirata da Pietro Ingrao. E quando Amendola suggerì con straordinaria lungimiranza la necessaria riunificazione di PCI e PSI - per superare di fatto l’esperienza storica del Bolscevismo - fu non casualmente contrastato soprattutto dai “neo-leninisti scolastici” (così li chiamò Pietro Nenni) che nel partito animavano la tendenza di sinistra. Renato Guttuso visse quella circostanza in modo appassionato ed intervenne direttamente per indicare una ferma difesa dello storicismo marxista contro ogni accostamento “acritico” alle novità emergenti nella cultura europea.
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Nel dibattito preparatorio dell’XI congresso del PCI - il primo dopo la scomparsa di Togliatti - Guttuso appare preoccupato per il “tono di asprezza inusitato” che la discussione ha preso: tuttavia non abbassa i toni, ed apre una dura polemica con la neo-leninista Rossana Rossanda e i suoi tentativi di “voltare pagina” rispetto al passato. La futura fondatrice de “Il Manifesto” aveva tra l’altro tentato di demolire anche il profilo culturale di Palmiro Togliatti mettendo nel mirino il suo “storicismo” con evidenti finalità di lotta politica interna. Guttuso replica difendendo a spada tratta l’originalità e il coraggio di Togliatti nell’avere aperto ad una visione comunista “nazionale” fin dai primi anni del dopoguerra (“quando Gramsci non veniva neppure tradotto in URSS e tenuto in sospetto”) e rivendica alla sua generazione il merito di aver saputo dire di no alla “precettistica ristretta del realismo socialista staliniano”. Al tempo stesso, nella politica culturale del PCI egli si dichiara per il “centro marxista” bilanciandosi tra le correnti dei conservatori di “destra” e degli innovatori “di sinistra”[vi]. Il pittore appoggiava così di netto le posizioni di Mario Alicata, che con il segretario Luigi Longo prevalse all’XI congresso sulle opposte tendenze, nel tentativo di preservare l’unità politica e culturale del partito. E dell’amico Alicata, scomparso prematuramente di lì a poco, egli tracciò un profilo che rivela in filigrana tutto un modo di sentire e di pensare ma suggerisce anche una sorta di autobiografia intellettuale e morale. 
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“Mario -scrive Guttuso - era dal principio un politico, parola che vuol dire per me, e principalmente nel caso di Mario, un combattente. Ma era anche e anzitutto o fondamentalmente un artista. Egli credeva al mondo esterno in modo religioso, credeva alle cose e trasformava questa sua fede in azione...”. E ancora, a proposito della generazione che aveva fatto “l’esame di coscienza” per arrivare al Comunismo: “(…) quanti non hanno fatto che ripensarci, piegarsi, dubitare, finendo per cambiare strada… eppure io non credo che questi amici soffrissero più di noi, avessero più dubbi di noi, e che il loro cuore sanguinasse più del nostro. Di quello di Mario, anzitutto, e di altri che nei giorni di Ungheria non provarono il sollievo di potersi liberare, con una ‘buona ragione’, del pesante fardello del partito”. Era un riferimento orgoglioso che indicava al tempo stesso un metodo e un comportamento: “Non era stato un fatto di generazione, della ‘generazione degli storicisti’, come amano dire i compagni di aroma cubano o cinese. Era solo una questione di durata, di profondità della scelta, e di pagamento in rate di ogni mese, della nostra scelta”[vii]. E basterebbe questa appassionata rievocazione per mettere compiutamente in evidenza una mentalità che distingueva il carattere dell’uomo tanto quanto il politico e l’artista. Ma vale la pena di aggiungere una nota di memorie personali: perché in quegli anni contò molto per chi scrive la stretta familiarità con Renato Guttuso, per le ragioni di una formazione intellettuale e morale che si andava modellando nel confronto e sull’esempio della generazione paterna.
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Ero all’epoca poco più che ventenne ed in preda ad “astratti furori” più o meno simili a quelli che agitarono molti coetanei, attori primari e comprimari della stagione “sessantottina”. Renato aveva scritto un articolo sui rapporti tra l’artista e la società che mi aveva profondamente suggestionato, ma anche in parte infastidito[viii]. Al solito modo franco e senza mezzi termini egli se la prendeva con il nichilismo estetico di Marcel Duchamp e Giulio Carlo Argan (“evidentemente non pensano da socialisti”) e rilanciava una idea dell’arte che gli era stata sempre cara: “per noi l’arte non può essere antiumana, nel nostro presente anzi cerchiamo di cogliere i fermenti opposti a tanto pragmatismo. L’arte è umanesimo e il socialismo è umanesimo. Il solo umanesimo possibile è anzi, oggi,… il socialismo”. Guttuso trovava inoltre non casuale il nesso tra i movimenti neo-avanguardisti “e le nuove forme ‘rivoluzionarie’, quali la guerriglia in Sud America e in Africa, le sommosse razziali negli Stati Uniti, e la ‘rivoluzione culturale cinese’”. Egli polemizzava con chi identificava la rivoluzione “nel suo aspetto iniziale, prevalentemente offensivo e distruttivo”: e condannava di conseguenza come ingiustificata “gestualità” tutte le forme di estremismo culturale e politico che all’epoca criticavano da “sinistra” l’URSS e, in Italia, il PCI. Erano argomenti che potevano apparire soltanto di “retroguardia” a chi come me era all’epoca suggestionato dai miraggi rivoluzionari (Castro, Mao, Ho Chi Minh) e tanto più vedeva di malocchio il moderatismo dei governanti sovietici,che apparivano eredi immeritevoli della mitica “rivoluzione di Ottobre”.
Mandai una lettera lungamente argomentata a Renato (egli soggiornava come d’abitudine in autunno nella casa di campagna a Velate) esponendogli con pari franchezza rispettosa la mia disapprovazione: come si potevano appaiare - osservavo - le parodie rivoluzionarie della estetica neo-avanguardista con i “combattenti antimperialisti” in Asia, in Africa, in America Latina? Guttuso mi rispose a stretto giro di posta: in modo paterno, ma non paternalistico; affettuoso, ma non corrivo e nemmeno disposto a concedere spazi alle mie bellicose intemperanze. E riuscì ad essere persuasivo. La sua risposta, dopo un lungo argomentare, concludeva così: “(…) questo è il punto fondamentale oggi per un giovane intellettuale comunista, questa la sua più vera responsabilità: capire che la revisione va fatta dal di dentro di una realtà esistente, facendovi confluire le nuove spinte rivoluzionarie, ma non invece - come mi pare accada anche a te - scivolando in un criticismo che non si differenzia dalla vecchia (e nuova) posizione anticomunista e antisovietica, di quella ininterrotta schiera di insofferenti (per coscienza a volte,a volte per opportunismo) che furono con Trotzky ieri, e oggi sono con Mao, e che, ieri contro Stalin, buttano oggi avanti il nome di Stalin, pur di ostacolare la ‘politica’ dell’URSS” .
Ancora una volta l’artista e l’intellettuale Renato Guttuso faceva prevalere il “vizio della speranza” che lo aveva sostenuto nella sua opera di militante con una rinnovata disposizione pedagogica: l’impegno a diffondere tra i giovani - e nella fattispecie ad un ‘contestatore di famiglia’ - l’ideologia del Socialismo come “solo umanesimo possibile” nel mondo moderno. “É difficile operare nell’ambito di questa fiducia - aveva scritto - difficile qua e difficile nei paesi socialisti. Ma bisogna saper fare fronte alle difficoltà e non perdersi d’animo al primo intoppo, come gli scolaretti”. Il tono sincero di quella accorata passione ideologica e umana, che non aveva paura di assumere generosamente su di sé il coraggio di sbagliare, e con il cuore messo a nudo, fu ben più che una lezione di metodo per calibrare i miei astratti furori. Di lì a pochi mesi scoppiò il Sessantotto. E a differenza di tanti altri che cercavano nel “movimento” una risposta alla loro ribelle inquietudine, io decisi di prendere un altro cammino: dopo un meditato “esame di coscienza” andai a chiedere la tessera del PCI per poter diventare, da intellettuale “borghese” che ero, un attivista del partito. Quella considerazione inattuale determinò così tutto il corso della mia vita successiva: anche quando ne riconobbi i limiti, e cominciarono i ripensamenti seri che mi hanno portato tanto lontano da quel punto di origine ideologico. E tuttavia, ancora oggi, la lezione morale di Renato Guttuso mi appare nel suo valore esemplare: un uomo non si giudica per le idee che ha, ma per come le ha sapute servire. In questo senso l’intellettuale e l’artista, che aveva perseguito nel Comunismo un ideale laico di fratellanza umana, e non si era mai rassegnato al quotidiano scandalo dell’uomo “offeso”, si mostrava così tenacemente legato al suo Principio - Speranza (la ragione dello “umanesimo socialista”) da farlo vivere come messaggio che andava ben oltre le frontiere limitate della politica e della ideologia.
NOTE-
[i] E. Vittorini, Uomini e no, Bompiani, Milano, 1945, p.265.
[ii] Biografia di Guttuso, in “Rassegna bimestrale di cultura”, Caltanissetta - Roma, 1951.
[iii] F. Onofri, Esame di coscienza di un comunista, prefazione di G. C. Pajetta, Milano, 1948.
[iv] Cfr. Relazione al VI congresso del PCI, 1948.
[v] R. Guttuso, L’opposizione rivoluzionaria, in “Il Contemporaneo”, febbraio 1965.
[vi] R. Guttuso, Una azione culturale comunista, in “Rinascita”, 22 gennaio 1966.
[vii] R. Guttuso, L’uomo dei tempi difficili. Mario Alicata: il compagno, il combattente, l’amico fraterno, in “Rinascita”, 1 Dicembre 1967.
[viii] R. Guttuso, Avanguardie e rivoluzione, in “Rinascita”, 27 ottobre 1967.
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cadernosvoadores · 3 years
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leio sobre oxaguiã, orixá de cabeça, e oxum, o adjascente. não durmo há muitas noites nessa casa cheia de vidros e reflexos e arrepios. meu pai fica bravo pois peço para ele retirar uma carta para eu tirar uma dúvida. ele tira exatamente a carta que imaginei, a torre. uns dias atrás eu tirei a morte. já imaginava que tiraria essa e quis confirmar. ele não gostou nada. essa é a semana que vai se meter no meio politico, ir a reuniões de trabalho com os membros do partido conservador, em meio a pandemia. eu disse pra ele, preste atenção. a torre de babel. não custa o exercício imaginativo. leio muito sobre meus guias. ser filho de oxaguiã não parece fácil aos outros. muitas coisas batem, coisas difíceis, e não é tão fácil admitir ou pensar. os signos duplos me perseguem, peixes, sargitário, oxaguiã. a cabeça com fogo, a cabeça com gelo. a batalha, o furor. o compadecimento.mas agradeço, é força. agradeço por essa parte oxum, pelo que entendi, o modo de se expressar, de equilibrar. o encantamento, a busca pela beleza. pelo que muitos desconhecidos caem por este meu lado, e indo mais fundo se apavoram e se vão. sei ganhar bem, sei perder bem. a questão do justo. não tenho interesse em escrever um livro, um poema, um projeto. passei duas semanas dentro de murilo mendes, mas gostaria de sair. sinto que já estive lá. detesto todas as coisas que escrevi não é o que representaria o movimento. ando com a bandeira do chile da elvira hernandez e canto de amor a um desaparecido de raul zurita na cabeça. sumiços, desaparecimentos. penso nos poemas de antonio ramos rosa: não há como adiar essa vida para outro século. roemos os séculos para salvar o verde. joão moura e o país impossível sem paisagem. e mario cesariny, inventivo, brincante, com seu país de homens até o joelho e mulheres até o pescoço. e de novo murilo: as montanhas lisas. penso em tentar me animar lendo sobre ecofilosofia, lendo o livro de Mihail Bookchin. Penso nas curdas e o que seriam as montanhas. Para os curdos não há amigos além das montanhas.o que são as montanhas para mim.
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oacasodaspalavras · 5 years
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António Cândido Franco,  O Triângulo Mágico, 2019
https://observador.pt/especiais/antonio-candido-franco-era-um-homem-com-dons-muitos-desenvolvidos-mas-o-principal-talento-do-mario-cesariny-era-a-vida/
https://pt.wikipedia.org/wiki/Mário_Cesariny
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perfettamentechic · 3 years
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25 ottobre … ricordiamo …
25 ottobre … ricordiamo … #semprevivineiricordi #nomidaricordare #personaggiimportanti #perfettamentechic #felicementechic #lynda
2020: Romano Ghini, noto anche con lo pseudonimo di Stefano Borghesi, attore e doppiatore italiano. All’inizio della sua carriera, il contratto che aveva firmato con la Rai come speaker radiotelevisivo gli impedì di praticare l’attività di doppiaggio, tanto che dovette ricorrere a uno pseudonimo – Stefano Borghesi – per poter doppiare.  (n. 1934) 2014: Marcia Strassman, Marcia Ann Strassman,  è…
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jpcortinhas · 5 years
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O Surrealismo português foi atirado para um lugar periférico juntamente com todos os que fizeram parte dele. António Cândido Franco quis fazer a sua parte e escrever sobre o maior deles todos.
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stefanietani098 · 5 years
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Prediksi Bola Tre Penne vs Santa Coloma 25 Juni 2019
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Prediksi Bola Tre Penne vs Santa Coloma 25 Juni 2019
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fannytania098 · 5 years
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cindytania098 · 5 years
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renacimientovirtual · 7 years
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Piedra preciosa
Vespasiano da Bisticci (1421-1498) narra una anécdota que ilustra las reacciones que generaba en su época el Hermaphroditus, el compendio de poemas obscenos de Antonio Beccadelli. El cardenal Cesarini encontró a un sacerdote de su congregación leyendo el libro en cuestión. Cuando el sacerdote se dio cuenta hizo lo posible por ocultarlo en un cofre, pero era tarde. Cesarini pidió explicaciones, y ante la incapacidad del sacerdote de formular una respuesta, el cardenal lo obligó a sacar al libro del cofre y quemarlo frente a él. 
Luego le dijo: “SI hubieras sabido como responder, quizás no te hubiera obligado a quemarlo. Lo que debiste haber respondido es que estabas buscando una piedra preciosa en medio del estiércol”. 
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untitled42566 · 4 years
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Aperta al Museo Nori De’ Nobili di Trecastelli la mostra Disobbedienze
TRECASTELLI – Buona partecipazione di pubblico al Museo Nori De’ Nobili di Trecastelli, in occasione dell’inaugurazione della mostra Disobbedienze. Numerosi cittadini, visitatori e anche artisti ed estimatori delle arti visive hanno assistito con interesse alla presentazione.
Il sindaco di Trecastelli Marco Sebastianelli ha fatto gli onori di casa salutando il pubblico presente, subito dopo l’Assessore alla Cultura di Trecastelli Liana Baci ha espresso il suo entusiasmo per la nuova esposizione, che coinvolge trenta artisti nazionali e internazionali. Il Direttore del Museo Nori De’ Nobili, Stefano Schiavoni, ha sottolineato l’importanza del nuovo progetto del Centro Studi sulla Donna nelle Arti Visive Contemporanee, mentre la Senatrice Silvana Amati, Presidente dell’Associazione Carlo Emanuele Bugatti- Amici del Musinf e la psicologa Giovanna Curatola hanno parlato del libro di Elisabetta Rasy “Le Disobbedienti, storie di sei donne che hanno cambiato l’arte”, da cui trae ispirazione la mostra. Infine le curatrici Maria Jannelli e Simona Zava hanno illustrato la tematica del progetto, citando gli artisti in mostra: diversi di loro erano presenti all’evento.
Tra le varie personalità hanno fatto omaggio all’esposizione l’assessore alla Cultura di Senigallia Simonetta Bucari, l’assessore alle Pari Opportunità di Senigallia Ilaria Ramazzotti, il consigliere comunale di Senigallia Mauro Pierfederici e la presidente del Consiglio delle Donne di Senigallia Michela Gambelli.
Subito dopo i numerosi visitatori hanno avuto modo di ammirare la mostra, che presenta le opere di Astrid Albers, Gesine Arps, Vincenzo Balena, Beatrice Bolletta, Anna Boschi, Maria Cristina Cavagnoli, Leonardo Cemak, Maurizio Cesarini, Marco Cornini, Antonio Delle Rose, Gioxe De Micheli, Chiara Diamantini, Silvia Fiorentino, Renato Galbusera, Elena Giustozzi, Alexa Invrea, Rouhi Jahromi, Maria Jannelli, Giancarlo Lepore, Matè, Alessia Nardi, Shura Oyarce Yuzzelli, Laura Panno, Bruno Pellegrini, Ieva Petersone, Stefano Pizzi, Pico Romagnoli, Mirella Saluzzo, Maria Luisa Simone, Francesca Vitali Boldini.
La mostra DISOBBEDIENZE è stata promossa dall’Assessorato alla Cultura della Città di Trecastelli e dal Museo Nori De’ Nobili, in collaborazione con il Museo Comunale d’Arte Moderna dell’Informazione e della Fotografia di Senigallia, La Casa delle Arti – Museo Alda Merini di Milano, l’Associazione Carlo Emanuele Bugatti Amici del Musinf e con il patrocinio della Commissione per le Pari Opportunità tra uomo e donna della Regione Marche. L’esposizione sarà visitabile fino al 23 febbraio 2020, negli orari di apertura del Museo Nori De’Nobili.  L’ingresso e le visite guidate, per singole persone e gruppi, sia alla mostra che al museo, sono gratuiti.
[email protected] – www.museonoridenobili.it
  Aperta al Museo Nori De’ Nobili di Trecastelli la mostra Disobbedienze Aperta al Museo Nori De’ Nobili di Trecastelli la mostra Disobbedienze TRECASTELLI - Buona partecipazione di pubblico al Museo Nori De’ Nobili di Trecastelli, in occasione dell’inaugurazione della mostra Disobbedienze.
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