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#Andrej Sinjavskij
chez-mimich · 3 years
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ROBERTO CALASSO (1941-2021)
Daniel Defoe, Roberto Bazlen, Virginia Woolf, Walter de la Mare, Friedrich Nietzsche, Giorgio Colli, Mazzino Montinari, Carlo Dossi, Alberto Arbasino, Alfred Kubin, Edmund Gosse, J.Rodolfo Wilkock, Oliver Sacks, Eugenio Montale, Jorge Louis Borges, Jan Potocki, Enzo Turolla, Antonin Artaud, George Groddeck, Ingebor Bachmann, Phil Backer, Ludwig Wittgenstein, Conrad Lorenz, Sergio Quinzio, Sergio Solmi, Elemire Zolla, René Daumal, Cristina Campo, Pietro Citati, Tullio Gregory, Ugo Von Hofmannstal, Herman Bahr, Robert Walser, Franz Kafka, Max Brod, Robert Musil, Fleu Jaeggy, Marcel Granet, James Hillman, Karl Kraus, Marcel Schowb, Guido Ceronetti, Robert Louis Stevenson, Herman Melville, Charles Olson, Joseph Roth, Daniel Paul Schreber, Elias Canetti, Guido Morselli, Herman Hesse, René Guenon, Wassilj Rozanov, Andrej Sinjavskij, Soren Kirkegaard, Albeto Savinio, Gregory Bateson, Karen Blixen, Jiurgis Baltrusaitis, Louis Seguin, Salvatore Satta, George Steiner, Fernando Pessoa, Antonio Tabucchi, Mario Praz, Tatti Sanguineti, Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Thomas Bernard, Oran Pamuk, Bruce Chatwin, Simon Weil, Alexander Lernet-Holenia, Gottfried Benn, Leonardo Scascia, Manlio Sgalambro, Ceslaw Milosz, E.M. Cioran, Georges Simenon, Paul Valery, Charles Giuld, Martin Hidegger, Nina Berberova, Ernst Junger, Sàndor Màrai, Robert Huges, Marc Fumaroli, Robert Graves, Francesco Colonna, Wislawa Szymborska, Mario Bortolotto, Mordechai Richler, Somerset Maugham, Elizabeth Bishop, Tullio Pericoli, Stefan Zweig, Anna Politkovskaja, Goffred Parise, William S. Burroughs, Marina Cvataeva, Benedetto Coce, Alexandre Kojeve, Frank McCourt, V.S. Naipul, Roberto Bolano, Muriel Spark, Osip Mandel'stam, Edward Gorey, Ian Fleming, Neil MacGregor…
Probabilmente senza di lui non li avremmo mai letti e non avremmo nemmeno letto i suoi libri.
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pangeanews · 4 years
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“Che cosa fa lo scrittore se non sputare in faccia ai suoi lettori?”. Elogio di Andrej Sinjavskij, un genio che ci fa paura
Leggendo Cristina Campo – anzi, masticandola – ritorna il nome di Andrej Sinjavskij. Mi sembrava sepolto da tempo, in una bruma bruna, inesorabile. Ora mi attacca, come una turba di locuste di ferro.
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Cristina Campo parla di Andrej Sinjavskij ne Gli imperdonabili. Lo definisce “il solo poeta religioso oggi vivente” in un saggio che si intitola Sensi soprannaturali. In realtà, ho letto il suo nome qualche mese fa, me lo ero scavato in testa. Nell’introduzione ai Racconti di un pellegrino russi la Campo trova un gemellaggio tra lo stile delle Vite dei santi, “tramandate da scribi greci, copri, siriaci, attraverso Bisanzio e la letteratura ecclesiastica slava” e “lo stile narrativo puramente russo, dal Pellegrino a Gogol’, da Dostoevskij a Cechov”. Il capoverso conclude così: “Stile narrativo che non ha l’aria di voler finire se molto della sua monumentale innocenza e dignità troviamo ancora nel linguaggio liturgico di Pasternak, nei brevi apologhi severi di Solzenitzin, nei bianchi fogli di taccuino di Andrej Sinjavskij”. L’introduzione termina così: su quel concetto, monumentale innocenza e dignità, che è questione di stile e di vita, soprattutto, e su quel nome, Andrej Sinjavskij.
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Inoltre, c’è l’intrusione del caso. Luca Orlandini mi invia una straordinaria raccolta dei suoi saggi. La raccolta è inaugurata da questa frase, “I pensieri non sono assimilati dai libri, spuntano dalle ossa”. L’autore è Andrej Sinjavskij, appunto. Gliene chiedo. Mi sembra un assedio.
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Naturalmente, non posso non conoscere Sinjavskij. Nato a Mosca nel 1925, seguace di Boris Pasternak, Sinjavskij pubblica alcuni libri alieni all’ideologia sovietica e al ‘realismo socialista’ in Occidente, con lo pseudonimo Abram Terc. Arrestato nel 1966 insieme all’amico poeta Julij Daniel – che muore nel 1988, a fine anno, scegliendo, comunque, di restare in Russia – subisce un processo tristemente celebre: per la prima volta, è sotto accusa l’attività di uno scrittore, esercitata tramite libri, che comprovano la criminalità di chi li ha scritti. Daniel fu condannato a cinque anni di lavori forzati; Sinjavskij a sette. A nulla servirono le proteste internazionali. Sinjavskij fu rilasciato nel 1971, due anni dopo emigrò in Francia, diventando il simbolo della dissidenza al nuovo regime sovietico.
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Michail Solochov, Nobel per la letteratura nel 1965, si scagliò duramente contro Sinjavskij, difendendo i valori dello Stato contro la libera creatività dell’individuo. “Io mi vergogno per coloro che hanno calunniato la Patria e infangato ciò che abbiamo di più caro. Essi sono degli amorali… Altri, nascondendosi dietro frasi umanitarie, lamentano la severità della condanna. Vedo qui delegati politici del nostro amato esercito sovietico. Come si comporterebbero se in uno dei reparti comparissero dei traditori?”. Secondo Marco Clementi, la straordinaria durezza nei riguardi di Sinjavskij fu adottata perché “si voleva interrompere la nascente usanza di pubblicare all’estero opere di difficile collocazione in patria… Un ruolo non secondario fu giocato dal fatto che le pubblicazioni all’estero erano state firmate con degli pseudonimi: già questo, secondo la logica del Kgb, costituiva un’ammissione di colpa (celare significa cospirare)” (in: Storia del dissenso sovietico, 2007).
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“I problemi che Sinjavskij solleva, la frattura tra individuo e società, la contraddizione tra crescita del progresso tecnico e immiserimento spirituale dell’uomo, il rapporto tra gli scopi e i mezzi per il loro raggiungimento sono al centro della cultura contemporanea”, scrive Aleksandr Ginzburg in Libro bianco (1967). Non sono forse i problemi capitali dell’oggi? Già. Solo che Libro bianco – che fu libro di culto per chi sbracciava a liberare l’individuo dalle storture dello statalismo, dalla burocrazia dell’intelletto – è fuori dal convegno editoriale. E anche Sinjavskij, un tempo lettura essenziale per lanciarsi al tormento dello spirito, chi lo legge più?
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Pubblicato da Jaca Book, oggi di Andrej Sinjavskij trovate, ancora disponibili, Pensieri improvvisi con ultimi pensieri e Passeggiate con Puskin. Il libro più importante di Sinjavskij, Una voce dal coro – un tempo stampava Garzanti – come altri libri – cito a caso: Nell’ombra di Gogol’, Buona notte, Compagni entra la corte, La gelata – sono introvabili. Un autore un tempo inevitabile, necessario, ora è editorialmente scomparso. Forse non abbiamo più voglia di scrittori inquieti, in lotta, radicalmente radiosi.
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Fu Boris Pasternak il punto di svolta nella vita letteraria di Sinjavskij. L’ultimo Pasternak, quello per cui l’arte letteraria è, infine, pittura di icone, estetica d’estasi, esclamazione che lascia spazio ad altro, un fare spazio, appunto. Così ne dice Sinjavskij: “cominciò a parlare di Cristo, che viene a noi da laggiù, dal profondo della storia, come se quelle lontananze fossero il giorno che viviamo, e insieme al giorno si facessero trasparenti e declinassero nella sera, congiungendosi a un domani senza fine. Nelle parole di Pasternak, come mi parve, non v’era neppure l’ombra di un’aspettativa apocalittica. Cristo veniva oggi perché la nuova storia veniva da Cristo e dal Vangelo, compresa la nostra giornata e Cristo era di questa giornata la realtà più naturale e familiare. La storia con il suo passato, il suo presente, il suo futuro, era come un campo, un unico campo, uno spazio che s’apriva ininterrotto allo sguardo. Guardando dalla finestrella i campi e i declivi nevosi Pasternak parlava di Cristo che viene a noi da laggiù. E parlava senza affettazione, né enfasi, senza pompa alcuna, ma con semplicità quotidiana, come se là e laggiù fossero stati gli orti contigui e la fila dei campi biancheggianti che s’allargavano attorno”.
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No, Sinjavskij non è antimoderno – didascalia all’occidentale – è arcaico, come possono i russi, i tolstojani. “Osservando il digiuno e le feste, l’uomo viveva secondo il calendario di una storia comune che cominciava da Adamo e finiva col Giudizio Universale. Per questo, fra l’altro, un qualsiasi settario semianalfabeta poteva qualche volta filosofare non peggio di Tolstoj e innalzarsi al livello di Plotino, senza aver sottomano nessun testo fuorché la Bibbia. Il contadino manteneva un legame permanente con l’immensa creazione del mondo, e spirava nelle profondità del pianeta, accanto ad Abramo. Invece noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano angusto e superfluo… Dove va a finire tutto il nostro orizzonte, tutta la nostra capacità ricettiva quando ci togliamo i calzoni o ce li sfilano di dosso? Oppure quando portiamo il cucchiaio alla bocca. Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro”.
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Il compito dello scrittore. “Certe espressioni mi danno l’orticaria: ad esempio ‘si ritiene’ invece di ‘sembra’ o aggettivi come ‘speciale’ invece di ‘particolare’. Del resto, vi chiedo, cosa credete che faccia lo scrittore nella sua letteratura, se non regolare i conti con il prossimo? Che altro fa lo scrittore nei suoi libri se non scaricarsi delle passioni che l’angustiano e annoiano? Che cosa fa lo scrittore se non sputare, quasi apertamente, in faccia ai propri lettori? E quelli sopportano, si leccano le labbra dicendo grazie, merci. Immaginatevi dunque di quale libertà e pienezza di vita gode lo scrittore!”. Da uno scrittore voglio essere sconvolto e disfatto – con ferocia o tenerezza – voglio che mi sconfigga e che mi laceri. Certo, voglio anche che mi sputi in faccia.
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Non è un austero aforista, Sinjavskij, ma un uomo animato da una poetica feroce, irrequieta, che va senza timore nel torbido, nel tormento. “Non si sa perché fango e immondizia si accumulino intorno all’uomo. Ciò non esiste nella natura. Gli animali non sporcano se non sono rinchiusi in una gabbia, in una stalla, ossia in mano e in balia degli uomini. Ma anche se sporcano, la cosa non diventa ripugnante, e la stessa natura, senza sforzo da parte loro, s’incarica di ripulire assai presto. Invece gli uomini si devono mondare tutta la vita, dal mattino a sera… Ultimo detrito, il nostro corpo esanime, che richiede pure di essere rimosso al più presto. Un mucchio di letame superstite”.
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Irritante esegeta dei costumi e dei riti odierni – “L’attuale cristianesimo pecca di buona educazione. Si preoccupa soltanto di non sporcarsi, di non mostrarsi indelicato, teme il fango, la grossolanità, la franchezza, preferendo una meticolosa mediocrità a tutto il resto” – Sinjavskij sfoga sempre lì, nel tema per eccellenza della letteratura russa, da Tolstoj a Pasternak, la morte. “L’uomo vive per morire. La morte comunica alla vita la finalità di una trama unitaria e precisa… Chiederemo al destino una morte degna, onesta; chiederemo di muovere incontro alla morte secondo le nostre forze, in modo da compiere convenientemente il nostro ultimo e principale atto, l’atto di tutta la vita – morire”. Forse ci accontentiamo di una letteratura devota al quotidiano, oggi, facilmente ‘d’inchiesta’, docile, piena di provocazioni che suggestionano il protagonismo dei saputelli. Chi ci ricorda che siamo uno sputo, che si vive per morire degnamente, non ci piace. Ma altro scavo non va chiesto, siamo uomini, cioè adatti al volo e alla fiamma. (d.b.)
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katholicquotes · 7 years
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L'attuale cristianesimo pecca di buona educazione. Si preoccupa soltanto di non sporcarsi, di non mostrarsi indelicato, teme il fango, la grossolanità, la franchezza, preferendo una meticolosa mediocrità a tutto il resto... Hanno confuso la Chiesa del Cristo con un educandato per signorine perbene. Insomma, tutto quello che è vivo e brillante è passato in mano al vizio; alla virtù non resta che sospirare e spremere una lacrimuccia. Essa ha dimenticato gli infuocati improperi della Bibbia. Invece il cristianesimo deve essere audace e chiamare le cose col loro nome. È giunta l'ora di rinunziare agli angioletti inghirlandati perché diventino angeli più forti e più esigenti degli aeroplani
Andrej Sinjavskij, Pensieri improvvisi, Jaca Book
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Andrej Sinjavskij, intellettuale dissidente. Intervista a Gennaro Malgieri
Andrej Sinjavskij, intellettuale dissidente. Intervista a Gennaro Malgieri
Andrej Sinjavskij, nato a Mosca l’8 ottobre 1925 e morto a Parigi il 25 febbraio 1997 – esattamente venti anni fa – è stato uno scrittore e critico letterario molto importante per la cultura russa. Nel 1965 fu accusato di attività antisovietica, scrivendo sotto pseudonimo. Criticato per il suo stile definito inaccettabile, fu arrestato e in seguito processatoinsieme al poeta e traduttore Jurij…
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Per Puškin il letto non è soltanto una dolce abitudine, è il luogo d’ispirazione che meglio corrisponde al suo spirito, l’officina in cui si formano stile e metodo. Intanto che gli altri, arrancando per i gradini della grande tradizione, s’issavano sul piedistallo e non potevano neppure guardare dalla parte della penna senza vestire mentalmente la toga o la divisa, Puškin, senza neanche badarci, s’abbandonava sul letto e lì, «in un piacevole oblio, la testa china sul guanciale», «con la mano un poco sonnolenta», buttava giù qualche inezia, che non meritava attenzione e non richiedeva fatica.
Andrej Sinjavskij (Abram Terz), Passeggiate con Puškin
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ogginiente · 10 years
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Quando si è in ritardo, è bene rallentare il passo.
Andrej Sinjavskij - Pensieri improvvisi con Ultimi pensieri, Jaca Book (2014)
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pangeanews · 4 years
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Nuovo Vocabolario del Virus: “Beni essenziali”. I beni allontanano dal bene, e tu, essenzialmente, come vuoi vivere: preferisci i precetti di Nietzsche o quelli di Zhuangzi?
Beni essenziali: Un decreto non è un trattato filosofico e al posto di garantire “beni essenziali” si potrebbe sciogliere il groviglio con un: l’essenziale è che vada tutto bene. Una cosa è certa: i beni non equivalgono al bene; essenziale non significa essenza. Secondo San Francesco, per dire, i beni – intesi come proprietà – allontanano dal bene, Dio; il bene accade quando ci si spoglia di tutti i beni – i beni, in sostanza, allontanano dall’essenziale. Nella prima regola – quella non bullata del 1221 – Francesco intima ai frati “di non appropriarsi di alcun luogo né di difenderlo da alcuno”, di adorare la povertà e di “accogliere nel bene chiunque giunga da loro, amico o nemico, ladro o assassino”. Il bene è essenziale darlo a un altro. D’altronde, per il Buddha è essenziale capire che tutto è apparenza, i beni un incubo vuoto che vota al dolore, l’uomo uno spettro che brancola nell’Amazzonia delle interpretazioni (“Costantemente immersi nell’oscurità delle opinioni sull’essere e il non essere… essi si aggrappano al falso e vi rimangono”). Per chi pratica le scelte estreme, oltre la transitorietà dell’esistente, la cosa essenziale è fare a meno dei beni essenziali.
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Capisco, si fa gargarismo filosofico. Secondo il Governo sono “beni essenziali” quelli che ci fanno stare bene. La lista allegata al Decreto del presidente del Consiglio del 25 marzo scorso, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, è lunga così. Tra i “beni essenziali” oltre a “coltivazioni agricole e produzione di prodotti animali” e “pesca e aquacoltura” ci sono l’“estrazione di carbone”, le industrie alimentari e delle bevande, gli “imballaggi in legno”, il vetro, le “materie plastiche”, i “prodotti farmaceutici”, “motori”, “batterie”, macchine per imballaggi, “per l’industria delle materie plastiche e della gomma”, “casse funebri”, “riparazione di elettrodomestici” e molte altre cose. Per vivere bene, i “beni essenziali” sono moltissimi. Oltre all’acqua c’è l’acqua calda – oltre al pane c’è il computer, ad esempio.
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Tra i “beni essenziali” non sono contemplati i libri: perché? I libri sono il tramite essenziale per capire cosa è davvero bene. Che senso ha garantire “le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa” e l’apertura delle edicole se non si riconosce la spericolata necessità di leggere, di uscire dal seminato dell’educazione imposta, provvida, pavida? Scegliere un libro – e fuggirlo – è la forma essenziale di libertà, il solo bene tra i beni.
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Penso ai camion che valicano le vie deserte come frecce di metallo, come fili di ferro che cuciono le labbra tumefatte del Paese. I fari sembrano precetti pitagorici che divorano e vomitano mondi. Il cargo, il suo barrito ancestrale, che custodisce i “beni”.
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Ciò che è essenziale è il gratuito, l’inatteso, l’inappropriato, ciò che non ha legge né dimora, fuori dal gregge, l’istante della svolta, il gesto privo di codice, inenarrabile. Ma… c’è il cibo, almeno quello sia garantito! Mente vuota, pancia piena. Anche su questo, il Vangelo non cede un grammo, non è quello l’essenziale: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di ciò che berrete o mangerete, né per il vostro corpo, per quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più di un vestito” (Mt 6, 25). Quel concetto, poi, “non di solo pane vive l’uomo” (Dt 8, 3; Mt 4, 4; Lc 4, 4) tortura Dostoevskij, che riduce il cristianesimo a pura essenza, fame. “L’idea del diavolo poteva andar bene soltanto per un uomo-animale, ma Cristo sapeva che l’uomo non può vivere di solo pane. Infatti, se non esistesse più la vita spirituale e cioè l’ideale della Bellezza, l’uomo cadrebbe in preda all’angoscia, morirebbe, impazzirebbe, si ucciderebbe” (a V.A. Alekseev, 7 giugno 1876). Il punto essenziale non è dare cibo agli affamati, ma approdare a quella parola che non fa temere la fame, la sillaba dove svanisce ogni paura.
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Il pensiero sui “beni essenziali” comporta un pensiero sull’essenza della vita. Possiamo pendere per Nietzsche – “L’uomo superiore si distingue dall’inferiore per la sua intrepidezza e la sua sfida alla sventura: quando le valutazioni eudemonistiche incominciano a essere ritenute supreme è indizio di regresso” – o per Zhuangzi – “L’uomo autentico ignora l’amore per la vita alla stessa stregua dell’avversione per la morte… Se ne va e arriva all’improvviso, tutto qui. Non dimentica la sua origine, non cerca di scoprire la sua destinazione. Se riceve qualcosa, ne gioisce; se perde qualcosa, lo recupera”. In ogni caso, si è altrove rispetto a ciò che uno Stato decreta come “beni essenziali” – l’individuo non si aggroviglia in leggi.
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I “beni essenziali”, piuttosto, vanno distribuiti agli sconosciuti – o dissipati. Non avere bisogni, essendo bisognosi di tutto. Andrej Sinjavskij distingue tra genio e santo: “Ogni individuo dotato di personalità è ripugnante se eccessivo… Il Cristo amò quelli che erano ‘nessuno’. Ed Egli stesso non era forse ‘Nessuno’? Come uomo dotato di personalità. Egli è anzi inespressivo (e perciò inesprimibile) e, in ogni modo, tutt’altro che un originale. La frase ‘personalità di Gesù Cristo’ suona come una bestemmia. La sua è una Personalità a rovescio, negativa. Non lo chiameresti ‘un genio’. Il genio è pieno di sé, è un capitalista. Vampirismo del genio; culto dei geni, iniziato durante il Rinascimento, e disinteresse della santità”.
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Ma siamo troppo in là. Mi ancoro ancora a parole che nascono dall’essenza di ciò che è insussistente. Dove il pane non si compra, si fa, in una trama di dita, e la lotta è zenit. “L’ora più retta è quando la mandorla sprigiona dalla sua durezza ostinata e traspone la tua solitudine”: i fogli di René Char. Il “bene essenziale” è risposta anonima ai morti. “L’azione che ha un senso per i vivi ha valore solo per i morti e compimento solo nelle coscienze che ne sono eredi e l’interrogano”. Può essere un bene anche il male se espone dell’essenziale il cadavere – e noi gli passiamo di fianco, senza vizio di malinconia. (d.b.)
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pangeanews · 4 years
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“Io ero nato per le guerre e le rivoluzioni”. Un giorno con Eduard Limonov (altro che Carrère). Un uomo che non cerca assoluzioni, vuole la rissa, anela al disordine
Proprio così. Una fiala di vetro. Un grumo di cavi d’acciaio, sottilissimi, in una fiala di vetro. Basso. Bianco. Eduard Limonov mi sembra un incrocio tra Peter Pan e il capitano Achab. Sembra fragile. È inflessibile. La sua guardia del corpo, Dmitrij, è un ragazzone sorridente. Filma la stazione di Rimini con il cellulare. Filma ovunque. Limonov è seccato. “Ma cosa riprendi? Guarda! Guardati intorno! Scrivi un libro! Cammina!”.
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Limonov ha una cordialità austera, viaggia con una sacca piuttosto piccola, verde, eppure è sempre impeccabile. Lì ha quello che gli occorre, dice. “Se mi sbattono in carcere, ho tutto. Mi basta poco”. Capisco che il lusso dell’albergo riminese lo schifa. Gli chiedono il passaporto, lo cede a fatica, lo rivuole subito. “Gli incontri più importanti della mia vita li ho fatti in carcere e in guerra”, dice. Recita? Forse. Limonov ormai è diventato quello che gli altri credono che sia – non è un uomo, è una rivolta.
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Quando Sandro Teti, l’editore italiano di Limonov, mi telefona, è perentorio: “Vuoi che ti porti Limonov? Trovami un teatro!”. Sandro Teti mi è simpatico, forse in una vita ulteriore siamo stati compagni, nello stesso clan, lungo le pianure di Scizia. Il teatro glielo devo trovare in un paio di giorni. Strologo, maneggio, vinco la mia ansia – del tutto narcisistica – di reclusione. Per un attimo l’acido della misantropia mi sfianca. Alessandro Gnocchi, eroico caporedattore culturale del Giornale mi sfida, cavolo, porta Limonov a Rimini, vengo anch’io – non verrà – e facciamo tre pagine con una intervista prima che atterri in Italia – questo lo abbiamo fatto. Trovo il teatro. A Rimini. La terra del Malatesta, esteta sanguinario, esaltato da Ezra Pound e da Henry de Montherlant, due tipi scomodi, che non si accodano alle mode. Limonov, qui, è perfetto.
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Eduard Limonov, Davide Brullo, Silvio Castiglioni (photo Alessandro Carli)
Quando arriva Limonov nevica – ci siamo russificati, gli dico, e lui, “per carità, restate italiani, viva l’Italia!, altrimenti diventate tristi e truci come i russi��. La notte prima telefono a Sandro Teti, tutto a posto? No, mi fa, Limonov è scomparso, si è rotto le palle, vuole tornare in Russia. La vicenda, se vi va, l’ha raccontata Fulvio Abbate su Dagospia (“Alle 21, 10, sprezzante e definitivo, dopo aver confabulato con il suo editore, afferra il suo cappotto, e se ne va. La scena è surreale. Ora che sono arrivati anche gli ultimi ospiti e che è tutto pronto per iniziare, lui non c’è”). Passo la notte pensando a una via di fuga, a un comunicato stampa in cui si renda nota, con dote di menzogne, l’assenza di Limonov. Il giorno dopo – il giorno dell’incontro riminese, il 12 dicembre – a mattina inoltrata, Teti mi scrive, “arriviamo, pericolo rientrato”.
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Limonov non è come Emmanuel Carrère, lo scrittore bronzeo, da copertina, amato da tutti perché va bene a tutti i gusti, titilla le voglie estetiche degli incravattati. Limonov è uno che turba, è uno del sottosuolo, è uno che vuole la rissa più che lo scandalo, che adora essere odiato, che preferisce lo scontro alla laccata leccata, il disastro alla conferma. In un articolo pubblicato sul Giornale Nicola Porro – ancora riguardo alla serata romana – scrive, “Io non c’ero. Ma l’altra sera a casa della mia amica Claudia, le persone sono corse a vedere il Limonov che Carrère gli ha raccontato. Di gran lunga più affascinante e imprendibile del Limonov che si racconta da solo”. Porro non capisce che Carrère scrive per gente come lui – sufficientemente certa di sé e della propria presunta perversione di basso grado – mentre Limonov scrive per la rivoluzione; la differenza è la stessa che c’è tra Arcipelago Gulag – il cui autore, per inciso, è deliziosamente detestato da Limonov – e l’impegno umanitario di uno scrittore parigino di elzeviri, a cavallo della propria sicura scrivania. Limonov ha preso e se ne è andato schifando il bel mondo romano, quello degli amici degli amici, tutti giusti-bravi-belli.
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Questo ha di buono. Limonov è gentile, disponibile, ma fa quel che vuole. Se non sta bene in un posto non recita, s’incazza. Alla fine dell’incontro, un fotografo lo placca. Lui ci sta. Una fotografia, due, cinque, sette. Poi dice basta. Il fotografo si arrabbia. Lui si arrabbia di più, ho detto basta non rompermi le palle. Conosce il limite tra cortesia e offesa, tra patto e contraffazione, tra rispetto e difetto. “Ora sono vecchio, sono repellente, sono più saggio”, dice.
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Non accetta gli applausi, non li capisce. Perché queste foche applaudono? Non me lo merito. Piuttosto, ragioniamo insieme su come fare la rivoluzione. Piuttosto, spaccatemi la faccia. Ci tiene a spiegare la nascita del Partito Nazional Bolscevico, nel 1993, quando è stato messo fuori legge da Putin, quando ha vissuto il carcere. Il partito è stato il tentativo – riuscito, in parte – di dare rappresentanza alla “punk generation”, gente che cannibalizzava la vita.
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Sandro Teti ha pubblicato due libri di Limonov, Zona industriale e Il boia. Il Limonov più bello tradotto in Italia s’intitola Libro dell’acqua, lo ha pubblicato Alet nel 2002. Allineo alcune frasi: “Io ero nato per le guerre e le rivoluzioni”; “Il nuovo senso estetico era quello che nasceva sfrecciando per una città bruciata sopra la corazza di un carro armato circondato da giovani belve con il mitra”; “Deve essere stata splendida immagino la città di Phnom Penh deserta e bruciata. Di persona ne ho viste parecchie di città bombardate e crivellate: c’è in loro una qualche grandezza, una estrema saggezza. Erano belle le città malate, la New York degli anni Settanta, la Parigi dei primi anni Ottanta. La cosa più disgustosa è una città in piena salute, che trabocca grasso e merda”.
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Eduard Limonov al Teatro degli Atti di Rimini, 12 dicembre 2019
Mimmo Calopresti ha firmato un bel documentario su Limonov, Cani sciolti. Nel 1974 Limonov è a Roma, in attesa di partire per gli Stati Uniti. Povero, maldestro al mondo. Il documentario racconta il suo ritorno in Occidente, l’anno scorso, il cammino verso il monumento a Pasolini, a Ostia. “Una delle figure più potenti del XX secolo”, dice Limonov, omaggiando PPP. Ama ciò che disturba, che non distrae dalla vertigine.
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In Libro dell’acqua, tuttavia, è possente l’atto letterario: Limonov, nonostante i proclami, vede in ogni gesto il verbo, ogni atto inciso nella Storia ha senso ai fini del racconto. “Baudelaire ci ha inventati tutti quanti. Lui e Balzac”, scrive. E quando deve descriversi, accenna a Rimbaud: “ero partito come Rimbaud, una fuga verso il nulla”. Nel libro, Limonov scrive la sua autobiografia raccontando “Mari”, “Fiumi”, “Laghi, Stagni, Paludi”, “Fontane”, “Saune” e piogge. La struttura narrativa è perfetta e intorbidata dalla malinconia: il grande narciso Limonov sa che ogni esistenza è effimera, ogni rivoluzione una traccia sulle acque, presto risolta nel nulla, “l’acqua trasporta, cancella e non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua”. Cancellare, ecco la parola esatta.
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Ne Il boia, piuttosto, la perfetta definizione del mondo ‘americano’, il nostro. “Tutto può essere, tutto può succedere qui, nel migliore dei mondi possibili, dove tutto appartiene a tutti e il capriccio, il malinconico e piacevole bruciore sotto l’addome, governa gli esseri umani”.
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Sbaglia chi ritiene Limonov un ‘esteta armato’ – egli è semplicemente russo. Limonov è un uomo del secolo scorso, convinto, come tutti i russi, che l’idea implichi la lotta, che si scrive per convertire, che non c’è altro se non l’istinto alla vita, il sentore della morte. Limonov è un collega di Gogol’, pare redatto da Dostoevskij, ha bevuto con Majakovskij, è dentro le lucide elucubrazioni di Vasilij Grossman (“Lo sviluppo russo ha mostrato una strana essenza: si trasforma in sviluppo della non-libertà”), dentro i pensieri di Andrej Sinjavskij (“La morte dell’eroe è giustificata, conquistata, dalla vita dell’eroe, e questo equilibrio genera un senso d’armonia. Per contro, nel destino del ‘piccolo borghese’ la morte è quasi comica: colpito da un ictus, soffocato da un osso”), nei gherigli retorici di Iosif Brodskij, l’amico-nemico (“La vera storia della coscienza comincia con la prima bugia. Si dà il caso che io ricordi la mia”). Conta, nell’ardore russo, la ‘postura’ più che la politica, la ‘statura’ prima del giogo dell’intelletto, la facilità al soffrire.
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“Volevo vedere la Storia da miope, a un centimetro dal mio naso… mi trovavo lì perché ero un avventuriero, uno sveglio, e provavo piacere a rovistare nelle interiora della Storia, a pescarle qualcosetta nella pancia”, scrive Limonov. Vuole le domande bastarde, Limonov, vuole qualcuno che lo sfidi a duello. Riguardo alla sua presenza sul fronte serbo, nei Novanta, è chiaro, “La Serbia era un paese assalito da una ventina di potenze straniere. Quanto al resto, è certo, io difendo le mie idee con la mitragliatrice”. La sua risposta – pienamente russa – ci fa schifo, deve farci schifo, perché Limonov non vuole limonare con il grande inquisitore, non cerca assoluzioni, ma chi lo punisca. D’altronde, è sempre stato chiaro. Nel 1998 su “The Exile” sintetizza con aforisma di fuoco la Guerra nel Golfo (“Un nugolo di capi mafia – forze Onu di 27 paesi – che puniscono un piccolo imbroglione, Saddam Hussein”), parla del suo impegno nell’area jugoslava. “Ho partecipato alla guerra serbo-croata. Scioccato e disgustato dai cadaveri torturati di vecchi e bambini serbi, recuperati tra le rovine di Vukovar, ho preso parte per la Serbia… Nell’autunno del 1992 sono stato avvicinato dal produttore cinematografico della BBC, mister Pawlikowsky. Voleva che intervistassi Radovan Karadjic, leader dei serbi bosniaci per un suo documentario. Per tre giorni la BBC ha filmato il presidente della repubblica serba di Bosnia insieme a me, mentre discutiamo. Disonesti, quelli della BBC, che in segreto mi hanno filmato mentre sparo con un mitra a Sarajevo”. Chi fa orrore, qui: Limonov? I cinici della BBC? Tutto corrisponde, in ogni caso, all’immagine che Limonov vuole dare di sé. “Essere odiato da un vasto pubblico televisivo dell’intero mondo occidentale è emozionante. È una sfida. Mi sentivo come Superman assediato da orde di zombie lillipuziani… Ho sempre saputo che se non rinunci alla tua libertà sei un nemico della libertà. Subirne le conseguenze è stato doloroso. Niente pane per l’amico dei Serbi. Niente pane per il politicamente scorretto. Niente pane per il nemico di Gorbacëv. Niente pane per l’avversario di Eltsin. Niente pane per chi la pensa diversamente”.
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Di sera, io e la guardia del corpo di Limonov che corriamo per Rimini – il freddo perfeziona la velocità. Limonov è inflessibile e vecchio. Ha bisogno di un antidolorifico. Troviamo la farmacia aperta. Poi corriamo nell’ultimo supermercato. Limonov è chiuso in camera, in albergo, mangia come un asceta. Non riesce a masticare. Gli compriamo un po’ di lardo e del formaggio morbido. Quest’uomo che ha preso a morsi il muso della vita, non sa più masticare.
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Dopo aver ‘matato’ il pubblico di Rimini – seguiranno vaste code per farsi firmare il libro – Limonov si rivolge a me con aria di sfida. Gli ho chiesto che rapporti ha con Dio. “Ma come si permette?”, fa, “queste sono questioni private”. Intuisco la differenza tra l’icona e il presepe, tra Zosima e il culto dei Santi. Il giorno dopo, in macchina, prima di lasciarlo alla stazione. Siamo in cinque. Sei pronto a scrivere la sua biografia?, mi fa Sandro Teti. Sfidare Carrère eccita. “Devi fare in fretta però, tra poco muoio”, mi dice Limonov. A me pare immortale. Poi va verso il binario. Il treno per Bologna parte mezz’ora dopo. Il freddo inacidisce le intenzioni. Ma Limonov è là, in piedi, al binario, mezz’ora prima, solo. (d.b.)
L'articolo “Io ero nato per le guerre e le rivoluzioni”. Un giorno con Eduard Limonov (altro che Carrère). Un uomo che non cerca assoluzioni, vuole la rissa, anela al disordine proviene da Pangea.
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