Tumgik
ondocks · 5 years
Text
Venezia 2019 > Tony Driver > Due chiacchiere con il regista Ascanio Petrini
Pochi giorni fa è stata presentata la 36a settimana internazionale della critica e, tra i titoli in concorso, spicca “Tony Driver” del regista barese Ascanio Petrini, girato tra la Puglia e il Messico.
Negli scorsi anni siamo venuti a conoscenza di questo progetto filmico, che ci ha incuriosito sin da subito. Un signore che abita una delle meravigliose grotte di Polignano facendone la sua casa, la sua vita passata negli States come tassista di scorsesiana memoria, i problemi con la giustizia, i riferimenti al cinema americano; gli ingredienti di questo racconto sono sicuramente un mix perfetto per una ricetta da gustare in anteprima a Venezia quest’anno. Alla notizia dell’uscita del film, non potevamo non andare a intervistare l’autore di questo documentario, orgogliosamente, made in Puglia.
Abbiamo incontrato Ascanio per farci raccontare qualche indiscrezione sul suo film.
Tumblr media
Puoi svelarci il tema principale di questa storia ricca di elementi e suggestioni come la libertà, lo sradicamento, i confini?  
Tony driver è un film che ruota intorno ai temi dell’appartenenza, dell’identità e del riscatto. Appartenenza nel senso che non importa chi sono i tuoi genitori o dove sei nato importa dove si “crea” la tua persona, dove cresci e questa è una cosa un po’ come respirare, spesso data per scontato.L’appartenere ad un paese o nazione, sentirsi a casa in un luogo, è qualcosa a cui puoi non pensarci fino al momento in cui ti viene negato.
Quando ti negano di essere in quello che per te è il tuo paese, la tua identità può risentirne parecchio. Tutto ciò che noi siamo è strettamente collegato alla nazione che ci ospita, dalla banale licenza di guida alla tessera sanitaria, noi siamo identificati dalla nazione che ci accoglie ma se lei ti rimuove (termine piú corretto di deportazione) tu non sei piú nulla di ciò che eri. Tony dice: “Is like my spaceship is crashed in a different planet, and I’m stuck here”.
Infatti, dopo un po’,cercherai il riscatto.
Pasquale, il nostro protagonista, nato in Italia ma cresciuto sin da bambino nella Chicago,Illinois, degli anni 70, alla soglia dei cinquanta si ritrova catapultato in una terra a lui quasi sconosciuta, l’Italia, il vecchio mondo. Per  lui la nazione che gli ha dato i natali, fino ad un giorno di ottobre 2012, rappresentava solo un lontanissimo ricordo e ovviamente non ne conosceva la lingua. Ma da un giorno qualsiasi è diventato il suo nuovo pianeta, dove gli altri sono alieni.
Una grotta sul mare diventa il suo rifugio, dove farà i conti con se stesso e i suoi errori.
È stato deportato perché trasportava immigrati clandestini messicani con il suo taxi a Yuma, in Arizona, una città a ridosso del muro di confine.
Come sei entrato in contatto con Tony e come lo hai convinto a raccontarti la sua storia?
Pasquale l’ho incontrato a Polignano, il paese dove ha trovato la grotta sul mare che lo ha accolto per i primi mesi nel nuovo pianeta, e anche quello in cui vivo.
La sua storia in paese era diventata relativamente famosa perchè alcuni pescatori quando si sono accorti di lui hanno raccontato la storia in giro perchè nonostante vivesse in una grotta e quindi fosse tecnicamente un senza tetto, riusciva sempre a mantenere un profilo dignitoso, barba rasata, vestito decentemente, insomma non fuori posto come sarebbe più consono ad uno nella sua posizione.
Quando mi ha raccontato la sua storia, con la sua calda voce da americano, io ho visto un film, uno di quelli che mi vedevo da piccolo, storie americane ambientate in un paese così grande dove puoi dimenticarti anche dei tuoi figli e in cui tutto può succedere, anche una storia come quella di Tony.
La mia intenzione era di scrivere una sceneggiatura ma poi, conoscendolo meglio è conquistando la sua fiducia (passaggio fondamentale per un film del genere), mi sono accorto di avere tra le mani l’originale, capace anche di recitare. Così è nato il progetto Tony driver che ha iniziato il percorso al ministero e dopo Apulia Film Commission fino a trovare un co-produttore dall’altra parte del mondo, tutto guidato dalla Dugong.
Parte del film è girata in USA, quanto ha influito nella scelta del  linguaggio il confronto con questa terra e in generale con il cinema americano?
A me piacciono i film americani e ho un’idea di autore meno europea del solito.
Quindi il linguaggio che piace a me di solito non è il cinema francese. Detto ciò la storia di suo chiamava un racconto meno cinema del reale e più fiction quindi abbiamo assecondato il flow, americano di Tony, facendo i conti col fatto che talvolta siamo costretti nella piccola Italia e talvolta raccontiamo l’America con un protagonista che non può andarci. Così è venuto fuori il linguaggio di Tony driver a cavallo tra ricordi/azioni, sogno/realtà e qui/lì.
Il film è stato prodotto dalla società di produzione Dugong che negli ultimi anni si sta facendo notare sul mercato internazionale per il supporto al cinema indipendente e sperimentale, ci racconti qualcosa su questa collaborazione e sul processo di produzione del film?
Viva la Dugong. Sguardo internazionale, amore per i progetti e tanta tenacia.
Li ho conosciuti anni fa facendo le location per un corto che hanno poi girato in Puglia. Poi a distanza di anni vedendo il mio progetto al Ministero ci siamo risentiti, il progetto interessava ed è iniziato l’iter che ci ha portato qui. Ma la prima a credere in me e nel progetto è stata Lucia Ferrante con la Rabidfilm che da sola lo ha portato al Ministero e lo ha fatto diventare un film, prima che venisse girato.
Poi, dopo la Dugong si è aggiunta Fulgura Frango, produzione messicana, con un investimento diretto.
Ci diresti tre titoli di film che consigli assolutamente di vedere?
“L’odore della notte” di Claudio Caligari 
“Cani arrabbiati” di Mario Bava
“Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno” di Martin Scorsese
Dopo questo film, hai altri progetti in cantiere?
Si, una specie di b- movie moderno, dove all’interno della storia ci saranno i buoni e i cattivi ma per lo spettatore saranno solo tutti grandi stronzi. Titolo: nothing lasts forever. Niente dura per sempre.
youtube
0 notes
ondocks · 5 years
Link
youtube
0 notes
ondocks · 5 years
Link
Tumblr media
0 notes
ondocks · 6 years
Text
Live Show e performance
10 Maggio Cobol Pongide vi aspetta a Spazio 13 
Cobol Pongide suona un Cosmique Pop elettrico mediante giocattoli e macchine analogiche: tutto graffiato dal Commodore 64 che gli regalarono nel lontano natale del 1988 e da cui mai più si è separato. Le canzoni dei Cobol Pongide, cantate in italiano, parlano dell'epopea cosmonautica e dell'era spaziale di terza generazione, quella dedicata alla rilevazione degli esopianeti e all'esplorazione delle lune del sistema solare, in cerca di superterre e specie aliene pluricellulari (magari senzienti). La musica di Cobol Pongide è a metà strada tra il ballato e il narrato: le canzoni sono inserite in storie che a partire dai parchi gioco (veri e propri cosmodromi) e attraversando vicende di scimmie, cani e gatti spaziali approdano all'invio di messaggi spediti verso il centro della nostra galassia. 

Tumblr media
1 Giugno a Spazio 13 | prima nazionale dello spettacolo teatrale“Hijra” di Nicola Valenzano
“Hijra” è un giro sulla giostra, la vita dei migranti: salgono, scendono, e i posti liberi vengono subito occupati. Il mondo non cambia: tutto continua uguale con un ritmo lento e inarrestabile. È una storia vecchia, quella dei migranti: le valigie di cartone, gli abiti neri, i fazzoletti in testa delle donne, gli occhi bassi e l’America che arriverà e che sembra esistere per salvarli. Fuggivano da una terra che li odiava per arrivare in una che non li voleva. Fa paura quel mare di notte, ma devo passarlo, devo affrontarlo e lo fai pregando, piangendo, maledicendo, per arrivare in quella terra che sembra un sogno, che sembra una donna bellissima e distesa che sta lì per accoglierti, per lasciarsi toccare, amare, vivere ed abitare. E disperazione. Le notti possono diventare eterne, certe notti lo diventano e quelle acque fredde e nere diventano il ventre di una madre sterile che ti tratterà per sempre. Forse ti mangerà, forse non arriverai mai, forse resterai per sempre nella sua pancia nera e fredda. Però se lo ricordano bene il momento in cui salgono sui vecchi gommoni, se lo ricordano perché devono dimenticare tutto sulla terraferma: la loro storia, la loro identità, le famiglie, le madri, i figli. E diventano nessuno su quel mare nero e freddo. In fondo è solo un giro sulla giostra, la vita dei migranti , salgono, scendono e i posti liberi vengono subito occupati.
youtube
0 notes
ondocks · 6 years
Text
3 Masterclass sul cinema documentario
Le tre masterclass si propongono di offrire e attraversare tre sguardi, esperienze e approcci registici e produttivi al cinema documentario diversi e complementari.
Ingresso gratuito | è gradita l’iscrizione mandando una mail a: [email protected]
Il 24 maggio alle ore 10 a Spazio 13, Lorenzo Cioffi racconterà della sua esperienza come operatore, regista e produttore indipendente, fondatore della casa di produzione napoletana Ladoc, che vede tra le sue produzioni numerosi film premiati in festival nazionali e internazionali di rilevante importanza. Il suo essere camaleonte e ricoprire di volta in volta un (o più) ruolo diverso gli permette di approcciarsi al fare documentario tenendo conto delle necessità e dei desideri di figure professionali diverse, che riesce a racchiudere in una.
Tumblr media
Il 25 maggio alle ore 10 a Spazio 13, Elena Filippini parlerà di produzione e mercati internazionali. Elena è uno dei fondatori di Stefilm international, una delle storiche case di produzione del documentario in Italia, che in qualche modo vanta il merito di aver portato il documentario italiano nei mercati televisivi del mondo, e di aver collaborato alla creazione di un mercato del cinema documentario in Italia. Assieme ai suoi soci non si occupano solo di produzione ma anche di formazione, collaborando con le più importanti scuole di cinema documentario in Italia e all’estero, seguendo e organizzando laboratori di pitching e scrittura in diverse realtà e nei più importanti festival internazionali.
Il 26 maggio alle ore 10 a Spazio 13, Enrico Maisto, giovane regista e autore Milanese, racconterà della sua esperienza registica con il film La Convocazione (2017), il suo secondo film. Prodotto da Start e RaiCinema, il film è appena stato premiato come miglior mediometraggio al prestigioso festival canadese HotDocs, e aveva già vinto il premio del pubblico al 58° Festival dei Popoli. Per la scrittura de La Convocazione (avvenuta assieme a Valentina Cicogna) Enrico ha vinto anche il premio Solinas per il documentario nel 2015. Con il suo primo film Comandante, di cui è anche produttore, ha vinto nel 2014, il Milano Film Festival.
Tumblr media
0 notes
ondocks · 6 years
Text
I talk di approfondimento
Incontri di approfondimento su attualità, migrazioni e militanza. Spazio 13 sarà teatro di momenti di riflessione tra i nostri ospiti chiamati a confrontarsi sui temi dei diritti:
Giovedì 10 Maggio il “Diritto di sapere”
Marilù Mastrogiovanni incontra  Paolo Borrometi, per approfondire il tema del “Diritto di sapere” e su come la loro professione ha influito sulle scelte di vita personali, portando la prima a dover lasciare la propria terra e il secondo a vivere sotto scorta per le ripetute minacce di morte.
Chi sono i nostri ospiti?
Marilù Mastrogiovanni è Docente del Master di Giornalismo (Università di Bari), si occupa prevalentemente di mafia e sacra corona unita, social media e web journalism, donne e parità di genere. Nel 2003 ha fondato il mensile d’inchiesta “il Tacco d’Italia”, tra il 2007 e il 2012 ho subito minacce dalla criminalità organizzata per le inchieste sul business dei rifiuti e sulle speculazioni edilizie in zone protette. Fa parte del direttivo nazionale di “Giulia giornaliste” e collabora con “Ossigeno per l’informazione”, l’osservatorio nazionale sui giornalisti minacciati diretto da Alberto Spampinato. Scrive per per diverse testate nazionali (Il Sole 24 ore, Il Manifesto, Il Fatto quotidiano, Nuovo Quotidiano di Puglia, Left e Narcomafie) ed è consulente per Presa diretta (Rai3) ed Euronews.
Tumblr media
Paolo Borrometi è un giornalista e scrittore nato a Ragusa nel 1983, un cittadino che ama la sua terra. Collaboratore dell'AGI per la provincia ragusana, nel 2013 ha fondato la testata giornalistica d'inchiesta "La Spia". Sin da subito la sua attività è stata minacciata dalla malavita di Ragusa e Siracusa, intimidazioni che nel 2014 sono sfociate in violenza. Negli anni le minacce non sono cessate, nonostante i trasferimenti e le misure cautelari. Solo poche settimane fa è stata pubblicata l'intercettazione di un dialogo inquietante tra il boss di Cosa Nostra, Salvatore Giuliano e un altro esponente di spicco della mafia, Giuseppe Vizzini: "Fallo ammazzare, ma che c.... ci interessa". L'obiettivo è Paolo Borrometi.
Tumblr media
Venerdì 18 Maggio il “Diritto di Desiderare”
Apre l’incontro la proiezione del cortometraggio documentario “Mum, I’m sorry” di Martina Melilli, vincitore del premio Arte Visione 2017. 
"Attraverso un processo di ricerca e uno sguardo ravvicinato e disincantato, capace di penetrare la texture degli oggetti appartenuti a corpi senza nome, Mum, I’m sorry rappresenta un tentativo di ridare un’identità e ridefinire distanze geografiche e culturali.”
A seguire la regista Martina Melilli si confronterà con il ricercatore Gabriele Proglio e il giornalista Angelo Romano sul “Diritto di desiderare” una casa, un luogo, un oggetto, un lavoro, la vita. 
Chi sono i nostri ospiti?
Martina Melilli, laureata in Arti Visive allo IUAV di Venezia, ha approfondito gli studi in Cinema Documentario e Sperimentale alla LUCA School of Arts di Bruxelles. La sua ricerca, connotata da un approccio antropologico e documentario, indaga la rappresentazione dell’immaginario individuale e collettivo legato alla memoria, alla Storia e alla realtà; la relazione tra l’individuo e lo spazio del vissuto; il rapporto tra l’intimo e l’universale. La collaborazione e il collettivo sono le forme di lavoro che preferisce. Gli archivi e le collezioni sono per lei fonte d’ispirazione, materiale di lavoro e sperimentazione. E' vincitrice di Artevisione 2017 (Careof e Sky Academy) con il film “Mum, I'm sorry”. Di prossima uscita è “My home, in Libya”, il suo primo documentario di creazione prodotto da Stefilm International, ZDF/ARTE, RaiCinema, sostenuto dal MiBACT e da una borsa di sviluppo del Premio Solinas.
Tumblr media
Gabriele Proglio, storico orale e culturale, è ricercatore presso il Centre for Social Studies dell'Universiade de Coimbra con un progetto di ricerca su migrazioni e confini nel Mediterraneo. Ha conseguito il dottorato di ricerca all'Università di Torino discutendo una tesi sugli immaginari coloniali durante la guerra di Libia. Visiting scholar a Berkeley, ha lavorato come professore in storia del Mediterraneo all'Università El Manar di Tunisi. Nel contesto del progetto 'Bodies Across Borders: Oral and Visual Memories in Europe and Beyond' presso l'European University Institute, ha sviluppando una ricerca sulla memoria orale e visuale di persone provenienti o culturalmente legate alle ex colonie italiane (Etiopia, Eritrea, Somalia). Ha scritto diversi saggi sulla memoria coloniale e sulle sue eredità nelle condizioni postcoloniali, sull'intersoggettività. Tra le sue pubblicazioni: Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità (Mondadori Le Monnier 2014), Memorie oltre confine. La letteratura postcoloniale in prospettiva storica (ombre corte 2011), Decolonizing the Mediterranean. European colonial heritages in North Africa and the Middle East (Cambridge 2017), Border Lampedusa. Subjectivity, Visibility and Memory in Stories of Sea (con Laura Odasso).
Angelo Romano dottore di ricerca in Etnologia ed Etnoantropologia, scrive per il sito www.valigiablu.it, si occupo di decostruzione di cliché e stereotipi legati ai temi dei migranti, delle identità culturali e delle narrazioni razziste. Per Valigia Blu scrive di media e news literacy e ha fatto approfondimenti sui temi dei migranti climatici, del reddito di base e della ricerca in Italia. In passato ha svolto ricerche di antropologia urbana, antropologia delle istituzioni e dei movimenti politici e antropologia visuale nelle città di Roma, Torino, Matera e Bari. Per conto dell’associazione culturale Anthropolis (fondata insieme ad altri 5 antropologi nel 2006), ha curato il volume “Voci della città. L’interpretazione dei territori urbani” (Carocci).
Venerdì 1 Giugno
L’incontro che chiude il viaggio della Rassegna Orizzonti è dedicato al “Diritto di raccontare” e vede confrontarsi il noto giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno Livio Costarella con lo scrittore e regista Gabriele Del Grande, che racconterà la sua esperienza al confine tra Siria e Turchia scritta nel suo nuovo libro “Dawla”.
Chi sono i nostri ospiti?
Gabriele Del Grande è uno scrittore e regista italiano. Nato a Lucca nel 1982,  è noto per il blog da lui curato "Fortress Europe",  in cui sono raccolti e catalogati tutti gli eventi riguardanti le morti e i naufragi dei migranti africani nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l'Europa.Tradotto in 21 lingue, il sito riceve in media 60.000 visite al mese. Nel 2014 firma la regia di “Io sto con la sposa”, il film documentario racconta la storia vera del finto corteo nuziale messo in scena da cinque rifugiati siriani e palestinesi per raggiungere la Svezia, dopo lo sbarco a Lampedusa. Durante la rassegna Orizzonti presenta il suo libro “Dawla”, che in arabo significa Stato ed è uno dei modi in cui gli affiliati dello Stato islamico chiamano la propria organizzazione. Gabriele è andato a incontrarli in un avventuroso viaggio partito nel Kurdistan iracheno e terminato con il suo arresto in Turchia. 
Tumblr media
Livio Costarella è giornalista e critico musicale della “Gazzetta del Mezzogiorno” dal 1999. Parallelamente alla musica è anche studioso e appassionato di cinema. Ha pubblicato, nel maggio 2003, il volume “Gli orizzonti del cinema di Stanley Kubrick” (Mario Adda Editore). Nel 2006 ha collaborato in qualità di scrittore alla stesura del testo “Cineasti di Puglia. Autori, mestieri, storie” (Mario Adda Editore) e nel 2007 al volume “Cineasti di Puglia. Film, paesaggi, associazioni” (Edizioni dal Sud). Partecipa regolarmente, in qualità di moderatore e relatore a incontri o conferenze-concerto, redige le note dei programmi di sala di diverse associazioni concertistiche e tiene regolarmente lezioni e progetti su cinema, musica e teatro presso alcuni licei e università italiane.
0 notes
ondocks · 6 years
Text
Mondovisioni - i documentari di Internazionale
La rassegna di documentari su attualità, diritti umani e informazione, curata da CineAgenzia per Internazionale, Mondovisioni racconta la complessità del mondo che ci circonda: storie senza filtri che ci riguardano, emozionanti, profonde, esemplari, 8 film belli e importanti scelti dai più prestigiosi festival internazionali.
Venerdì 11 Maggio
H 19 | Free Lunch Society di Christian Tod Austria/Germania, 2017, 95 minuti
Cosa faresti se non dovessi più preoccuparti di guadagnare? Fino a pochi anni fa il salario di cittadinanza era considerato utopia, oggi è diventato oggetto di dibattito politico e scientifico. Globalizzazione, automazione, fine della classe media: si parla di cause, mai di soluzioni. È ora di un completo ripensamento: denaro per tutti, come diritto che non richieda servizi in cambio! Riforma visionaria, taglio netto neo-liberale allo stato sociale, o romanticismo di sinistra? Il primo documentario dedicato al tema racconta cosa hanno a che fare le auto a guida automatica con le idee di un miliardario tedesco e con un referendum svizzero, per affrontare una delle questioni cruciali dei nostri tempi.
A seguire  Skype call con il regista
youtube
H 21 | An Insignificant Man di Khushboo Ranka e Vinay Shukla India, 2016, 98 minuti
La primavera araba, Occupy e le manifestazioni europee contro l’austerità hanno trovato in India un’eco nel movimento anti-corruzione. New Delhi è diventata l’epicentro della tumultuosa indignazione contro la classe politica indiana, e un improbabile protagonista si è trovato al centro della scena: il funzionario ribelle Arvind Kejriwal, leader del Partito dell’Uomo Comune (AAP), la più giovane forza politica del paese. Il film mette a nudo la strategia del partito e le sue debolezze e divisioni, mentre all’esterno affronta critiche, minacce e campagne diffamatorie. Un teso thriller politico che nello spettatore italiano non potrà non evocare parallelismi sorprendenti con la parabola del Movimento 5 Stelle.
Giovedì 17 Maggio 
H 19 | Stranger in Paradise di Guido Hendrikx Paesi Bassi, 2016, 72 minuti
In un'aula scolastica in Sicilia, alle porte della Fortezza Europa, dei rifugiati recentemente sbarcati assistono alla lezione di un insegnante dal comportamento decisamente scostante: prima li redarguisce, poco dopo si placa e gli dà il benvenuto. Al confine tra documentario e finzione, il film indaga i rapporti di potere tra Europa e migranti. L'Europa è rappresentata dall'insegnante, che porta all'esasperazione la classe prima con dichiarazioni provocatorie, poi con un benvenuto carico di complessi di colpa, e un atteggiamento frutto del compromesso tra i due estremi. Stranger in Paradise è un implacabile saggio sui meccanismi attraverso i quali l'Europa affronta la ricerca di felicità dei rifugiati.
A seguire  Skype call con il regista
youtube
H 21 | The Workers Cup di Adam Sobel Gran Bretagna, 2017, 92 minuti
Nel 2022 il Qatar ospiterà i mondiali di calcio e alle infrastrutture stanno lavorando 1,6 milioni di immigrati, il 60% della popolazione del paese. Vengono da India, Nepal, Bangladesh, Filippine e sempre più dall’Africa: lavorano nel paese più ricco del pianeta con orari massacranti per salari esigui, vivendo in campi isolati dalla città. Il film apre per la prima volta le porte di questo mondo seguendo il torneo di calcio sponsorizzato dallo stesso comitato che sta organizzando la Coppa del Mondo, a cui partecipano le rappresentative di 24 imprese costruttrici. Eroi sul campo, ma ai margini fuori dai 90 minuti, i lavoratori vivono una terribile pressione psicologica, svuotati della speranza che li aveva spinti a emigrare.
Giovedì 24 Maggio 
H 19 | Jaha's Promise di Patrick Farrelly e Kate O’Callaghan Stati Uniti / Gran Bretagna / Gambia, 2017, 81 minuti
Jaha Dukureh venne sottoposta a mutilazione genitale femminile (FGM) da bambina e portata a 15 anni a New York per sposare un uomo che non aveva mai visto prima. Un decennio più tardi, liberatasi da quel matrimonio, torna in Gambia, nell'Africa occidentale, per guidare una campagna contro la pratica che le ha segnato la vita. Ma Jaha non cerca la nostra compassione, vuole mettere le strutture di potere sia africane che occidentali di fronte alle loro responsabilità, e pretende rispetto per i diritti delle ragazze in qualsiasi società vivano. Jaha's Promise è uno straordinario racconto di riscatto individuale e sociale, segnato dalla tensione di un conflitto personale, familiare, religioso e politico.
A seguire Skype call con la protagonista del film
vimeo
H 21 | Entre os homens de bem di Caio Cavechini e Carlos Juliano Barros Brasile, 2016, 106 minuti
Jean Wyllys è un corpo estraneo in un Congresso brasiliano di tendenze sempre più conservatrici. Lo accompagniamo durante tre anni di instancabile attività come portavoce della causa LGBT, che ne hanno fatto il protagonista di discussioni politiche che superano i confini della capitale Brasilia e investono l'opinione pubblica e i social network. Oltre a tracciare il profilo di un deputato e personaggio singolare, Among righteous men è una sconvolgente introduzione all'attuale crisi e polarizzazione della politica brasiliana, sempre più segnata dall'influenza dei movimenti religiosi evangelici, di cui fanno parte alcuni dei politici più attivi nell'impeachment della presidente Dilma Rousseff.
Giovedì 31 Maggio
H19 | Brexitannia di Timothy George Kelly Regno Unito/Russia, 2017, 80 minuti
I referendum dividono, e la Brexit lo ha fatto in un modo senza precedenti nella storia britannica. Campagna contro città, vecchio contro nuovo, nazionalisti contro migranti, "la gente" contro "l'elite". Oltre tutte queste definizioni ci sono degli individui con le loro storie, che hanno dato origine a questo voto storico e sconcertante, motivato dai temi che segnano i nostri tempi: migrazione, tramonto dei vecchi imperi, il lavoro in un mondo sempre più automatizzato. Brexitannia è un film sottilmente esplosivo che senza esprimere giudizi presenta un popolo alle prese con la sua identità, in un mondo che sta cambiando più velocemente che mai, in cui il potere appare sempre più lontano.
A seguire Skype call con il regista
vimeo
H 21 | Boiling Point di Elina Hirvonen Finlandia, 2017, 91 minuti
Oula e Tapio si incontrano ogni venerdì in una sauna di Helsinki. Oula è uno storico quarantenne specializzato nel fascismo in Finlandia e in Europa, Tapio un imprenditore settantenne preoccupato che richiedenti asilo, ISIS e politica di sinistra rovinino il suo paese. Disuguaglianza, mancanza di visione, paura e rabbia verso gli immigrati stanno crescendo ovunque in Europa, anche in Finlandia. La gente è sempre più spaventata e i demagoghi populisti ne approfittano per aizzare gli uni contro gli altri. Il film dipinge un inquietante ritratto dell'Europa contemporanea, ma cercando un terreno comune tra gruppi di opinioni opposte, perché dove termina il dialogo inizia la violenza.
0 notes
ondocks · 6 years
Text
A maggio la Rassegna Orizzonti
I DOCUMENTARI DI INTERNAZIONALE, INCONTRI, PERFORMANCE E MASTERCLASS IN SCENA TRA SPAZIO13 E IL CINEPORTO DI BARI.
Sì ragazzi siamo tornati e con i fuochi d’artificio questo volta!
Stiamo lavorando molto, ma l’entusiasmo è alle stelle per il programma che vogliamo proporvi. 
Di seguito condividiamo la locandina della Rassegna Orizzonti con tutti gli appuntamenti, che vi presenteremo nei dettagli nei prossimi post, voi mi raccomando studiate bene il programma, seguiteci sulla nostra pagina fb, ma soprattutto venite a trovarci!
“Orizzonti” è prodotto da Apulia Film Commission e finanziato da Regione Puglia e Unione Europea attraverso il Patto per la Puglia, con il supporto di ANCI, del Comune di Bari, di #Spazio13 e organizzata dall'Ass.. On Docks
Tumblr media
0 notes
ondocks · 7 years
Text
Between Sisters. Due chiacchiere con il regista Manu Gerosa, nel giorno della prima cinematografica.
Stasera, all’auditorium Melotti di Rovereto, dopo due anni di festival in giro per il mondo e premi vinti, la prima cinematografica di questo film tanto delicato quanto potente e travolgente.
Tumblr media
Ho parlato con Manu al telefono per la prima volta diversi mesi fa. Manuela, una distributrice che stimo molto, e che cura la distribuzione del film (Slingshot films) mi aveva detto grandi cose di questo progetto quando ci siamo incontrate al Festival dei Popoli nell’inverno del 2015, dove Between Sisters ha avuto la sua prima internazionale. Quando ho chiamato Manu sono rimasta subito molto colpita dalla sua energia e gli ho chiesto se potessi vedere il film, di cui avevo tanto sentito parlare, e che mi sarebbe piaciuto fargli qualche domanda per il blog di OnDocks.
Between Sisters è un ritratto di famiglia: racconta il rapporto tra Ornella e Teresa, due sorelle, rispettivamente la mamma e la zia di Manu. Teresa inizia ad avvertire i colpi dell’età, e Ornella decide che è giunto il momento di affrontare una questione sempre taciuta, e che potrebbe cambiare per sempre il loro rapporto. Ho visto il film, è mi ha travolta. La forza dei personaggi è prepotente: due donne non più giovani molto diverse tra loro, con scelte, esperienze, vite molto diverse tra loro, profondamente unite e profondamente in conflitto, come spesso nei rapporti di sorellanza (che conosco io, quantomeno). E’ così intimo e profondo, pieno di amore limpido, e di un autentico senso dell’umorismo: ne sono carichi i personaggi, ne è carico il loro rapporto, e il rapporto che instaurano con la videocamera, di cui esce lampante il potere emotivo e relazionale. Mi ha colpita la maestria di Manu nel riuscire ad essere così vicino e allo stesso tempo distaccato, in qualche modo, lasciando alle protagoniste tutto il loro spazio; non un occhio neutro, o freddo, sicuramente amorevole, ma trasparente, e pienamente rispettoso di spazi e tempi. Between Sisters è per me un film reale, vero.
Tumblr media Tumblr media
Avendo entrambi vite molto piene, ci hanno messo un po’ a giungergli le domande, e un altro po’ di tempo c’è voluto ad ottenere le risposte, e a mettere su questo pezzo. Oggi però è giunto il momento perfetto: stasera alle 21.00 all’auditorium Melotti di Rovereto, dopo tantissimi festival in giro per il mondo, premi vinti ed eventi speciali, Between Sisters avrà la sua prima cinematografica. E proprio a Rovereto, che è la città dove Manu è nato, dove vive, e dove vivono le protagoniste della storia che ci racconta. E io sono davvero felice per lui.
Ecco qui la nostra chiacchierata.   - Com'è nata l'idea del film?
 Sono sempre stato attratto dalla particolare relazione tra mia madre Ornella e mia zia Teresa così piena di amore e liti quotidiane; era da tempo che volevo riprenderle nella loro vita quotidiana ma rimandavo sempre l’inizio per dedicarmi a cose più urgenti; all’inizio del 2011 mia zia stava invecchiando sempre più velocemente e il rapporto fra loro due stava cambiando e quando ho sentito per la prima volta mia madre pronunciare la parola “badante” ho capito che dovevo cominciare immediatamente.    - Dall'idea alla "nascita": la storia produttiva di questo film? (ho letto di apporti importanti, come Dok in Progress, Dok Incubator, Doha Film Institute e collaborazioni varie)    Per circa due anni ho lavorato da solo, facevo riprese e contemporaneamente appena potevo cercavo di metter insieme delle scene; nel 2013 ho cominciato a presentare il progetto in alcuni mercati internazionali per cercare dei fondi e dei partners.  Sono stato selezionato al Dok in Progress al Thessaloniki Documentary Festival e con mia grande sorpresa il progetto ha vinto il primo premio; in quel momento alcune case di produzione e broadcasters italiani e europei hanno cominciato a mostrare interesse per il progetto; sempre nel 2013 la Trentino Film Commission ha cominciato a credere nel progetto e ha concesso un finanziamento.  Nel 2014 la casa di produzione belga Clin d’oeil Films è entrata in co-produzione con me per portare a termine il film, ottenendo i fondi del VAF (Flanders Audiovisual Funds) e sempre nello stesso anno il progetto è stato selezionato per il workshop di post-produzione Dok.Incubator; per tutto il 2014 abbiamo lavorato duramente al montaggio e alla post-produzione del film; il Doha Film Institute del Qatar mi ha invitato a fare l’application per i loro fondi e quando nel 2015 abbiamo ricevuto il loro appoggio siamo riusciti a realizzare le ultime lavorazioni di post-produzione che mancavano per portare a termine il film.   - Mi hai raccontato di un colpo di scena inaspettato e che cambia totalmente la trama che avevi previsto per il film. Qual era la storia prima, com'è cambiata dopo e com'è stato gestire questo "imprevisto”?   All’inizio la mia idea era quella di fare un ritratto di famiglia, di descrivere le due personalità così differenti fra loro di Ornella e Teresa. Non immaginavo dove poi mi avrebbe portato questa storia e nemmeno che alla fine potesse diventare un film. Poco a poco però mi sono accorto di come la video camera spingesse tutti noi ad uscire dagli schemi relazionali a cui eravamo abituati; io guardavo mia madre e mia zia con occhi più attenti e in un certo senso era come se le stessi conoscendo di nuovo e per la prima volta;  allo stesso tempo Ornella e Teresa hanno cominciato ad usare i momenti di ripresa per parlare di cose di cui non avevano mai parlato prima. Un giorno mentre camminavo per strada con mia madre, all’improvviso lei mi ha rivelato di avere dei dubbi su chi fosse stato realmente suo padre e a partire da quel momento la storia, e di conseguenza il film, hanno preso una direzione diversa; da quel momento credo che mia madre abbia trovato il coraggio e colto l’occasione per cercare di fare chiarezza su qualcosa che né lei né Teresa erano mai state in grado di affrontare prima.   - Come sei riuscito a decretare un limite fra quello che era assolutamente intimo e privato e quello che poteva essere condiviso con il pubblico? Questo film ti mette molto in gioco in prima persona, e mette in gioco il rapporto con tua madre, con la tua famiglia. Dal punto di vista personale ed emotivo, oltre che dal punto di vista registico, come hai affrontato questi aspetti?   Credo che capire il limite di ciò che poteva essere parte del film o meno e soprattutto la definizione del confine tra il mio ruolo di regista e quello di membro della famiglia siano state le cose più complicate di questo progetto; credo che durante tutta la realizzazione del film ci sia stata una continua ridefinizione di questo limite e ruolo e che una risposta definitiva sia arrivata solamente alla fine del montaggio. Quello che ho cercato di fare durante tutte le riprese è stato il mantenermi il più possibile al margine delle decisioni di mia madre e di mia zia; cioè lasciare che fossero loro a decidere di parlare o meno di determinate cose senza che io le spingessi a farlo; sebbene questo abbia prolungato enormemente le riprese, alla fine sono molto soddisfatto poiché credo che questo sia stato l’unico modo in cui questa storia poteva avere luogo ed essere raccontata.   - Qual è a storia distributiva del film? Dove lo si può/potrà vedere?   Il film ha avuto la sua prima nazionale al Festival dei Popoli nel dicembre 2015 e la sua prima internazionale al True/False Film Festival negli Stati Uniti in marzo 2016; Between Sisters è distribuito da Slingshot Films, per il momento è stato acquistato da canali televisivi in Belgio, Francia e Svizzera ed è prevista l’uscita nelle sale.   - Ci sono dei lavori, degli autori, dei registi che ti hanno particolarmente influenzato nel tuo lavoro?   Ci sono molti film documentari e registi che mi hanno influenzato e ispirato in questi anni. Quando ho cominciato a lavorare come montatore e regista free lance alcuni anni fa, conoscevo a mala pena il mondo del documentario ma poco a poco mi ci sono avvicinato sempre di più; sono rimasto affascinato dalla potenza che le storie e le persone "reali” hanno nel comunicare e trasmettere emozioni. Ho visto molti lavori di differenti registi e  e ho capito che questo era il percorso che volevo seguire.  - Cosa significa per te oggi fare film documentari, film di questo tipo?   Per me fare film documentari significa osservare la realtà che mi circonda, appassionarmi di qualcosa che mi colpisce e cercare di investire tutte le mie energie per trasformare questa realtà in una storia da raccontare; e soprattutto, nel rispetto del legame di fiducia e responsabilità che si instaura con i protagonisti delle storie che si raccontano, cercare di usare il documentario come uno strumento di cambiamento, sia nella vita dei protagonisti stessi del film che in quella degli spettatori che lo vedranno.
Grazie Manu per il tempo e le parole. E per il tuo bellissimo film.
Vi lascio con il trailer del film.
A presto,
Martina
vimeo
0 notes
ondocks · 7 years
Text
Il regista Mauro Ruvolo ci parla del suo documentario “Ab Urbe Coacta”
Da poco si è conclusa la 34° edizione del Torino Film Festival, una vetrina importante per il cinema documentario, che da sempre contribuisce a dar voce al genere. Tra le visioni proposte quest’anno il documentario “Ab Urbe Coacta” di Mauro Ruvolo, regista, montatore musicista, colui che per primo mi ha iniziata all’alchimia dell’in e dell’out.
Tumblr media
Il film propone un’immersione nella periferia romana di Torpignattara. Attraversando il quartiere, spesso mi sono chiesta cosa nascondessero le lamiere di cinta degli sfasci di città; luoghi equivoci, sfocati e proprio per questo ancor più affascinanti. La telecamera esplora il mondo sommerso delle famiglie gentilizie della Torpignattara contemporanea. Il protagonista del film è Mauro Bonanni, che tra il metallo e il grasso, è riuscito a costruirsi una fortuna che gli permette di finanziare le sue passioni stravaganti. Nel quartiere Mauro si confronta con l’alterità culturale, infatti Torpignattara è uno dei municipi di Roma in cui la consistente presenza straniera la si riconosce dall’aria speziata che aleggia per le strade. Il film tocca i temi dell’immigrazione, ma innanzitutto Ad Urbe Coacta è un film sullo spirito ecumenico dei romani. Il romano, quel tipo antropologico che da un lato ha sempre incluso bonariamente lo straniero, dall’altro è sempre pronto ad allungare quelle due “pizze” dietro alla nuca, perchè non si dimentichi chi è il capo tribù. Mauro si confronta con questa alterità innanzitutto nel suo impero di lamiera, una diversità che solletica la sua curiosità di uomo famelico di vita e che lo conduce ad imbarcarsi per un improbabile viaggio in Benin, paese di provenienza di un suo ex dipendente e luogo in cui, non a caso, si celebra la follia del vodoo. E proprio in questi luoghi esotici, lontano dal monotono disagio capitolino, scopriamo un altro profilo del verace Mauro, che dispensa sorrisi, battute e scherzi e il cui sguardo si perde all’orizzonte e tra le onde dell’oceano sembra che la sua solitudine trovi sollievo.
Tumblr media Tumblr media
Abbiamo incontrato il regista Mauro Ruvolo e gli abbiamo sottoposto alcune domande. Buona lettura!
Per questo tuo primo documentario ti sei lasciato ispirare da una realtà a te prossima essendo Mauro Bonanni, il protagonista del film, un tuo zio di primo grado. Cosa suggeriresti ad un filmmaker che vuole raccontare le sue storie partendo da un’esperienza personale?
Partire dal mondo che ci è più vicino non è l'unica via, ma è sicuramente il modo più diretto per raccontare qualcosa che si conosce bene, e che a livello realizzativo consente il minor dispendio di energie produttive. Nel caso specifico poi, avevo questo personaggio sotto mano, e ho sempre pensato che meritasse un film per il suo personalissimo modo di essere anticonformista.
Quali sono i documentari che più ti hanno ispirano?
Ho cercato di seguire il mio percorso nel modo più personale e spontaneo possibile. Tutto quello che abbiamo visto e amato concorre, anche in modo inconscio, a formare la nostra idea di cinema, ma non c'è un autore che mi ha ispirato in modo così diretto.
Che ruolo ha avuto il montaggio nella definizione della tua opera e ci sono dei principi organizzativi che hanno dominato le tue scelte di post-produzione?
Posso dire che AUC è un film di montaggio, il concetto era proprio quello di accumulare una gran quantità di materiale girato ricercando il massimo del verismo, e di plasmarlo, con un lungo lavoro di selezione, in una forma più cinematografica, che seguisse il filo narrativo che avevo in testa. Per questo riprese e montaggio (e addirittura le musiche) non sono state fasi successive come accade di solito, ma portate avanti contemporaneamente, filtrando man mano il materiale che si adattava meglio alla mia idea di fondo, selezionando, girando, montando, sonorizzando, ecc... in un continuo work in progress
Ti va di anticipare qualcosa sui tuoi prossimi progetti?
Sui progetti futuri troppo presto per dire qualcosa di concreto, ma sono in piena fase WHAT'S NEXT? , ho varie idee che mi ronzano in testa, farò qualcos'altro solo quando sentirò lo stesso entusiasmo che ho provato nel fare AUC
A questo link potete vedere il trailer del film, buona visione e a presto, 
Cristina
youtube
0 notes
ondocks · 8 years
Text
THE BLACK FLAG: HOW DO WE FIGHT? / Noi, come combattiamo?
Tumblr media
E’ stato presentato in anteprima italiana lo scorso dicembre, al Festival dei Popoli: The Black Flag, di Majed Neisi. Il film segue l'attività della milizia volontaria del comandante Seyyed Ahmad, impegnato a Jorf al-Sakhar, a 60 km a sud della capitale irachena di Baghdad, contro l'avanzata dell'Isis.
Ho visto il film, e ho pensato subito che fosse uno di quei film assolutamente necessari, da vedere, da far vedere. Che non importa se il film sia bello, meno bello, ben fatto. E’ strettamente necessario. Punto.
The Black Flag è un documentario di guerra, in senso stretto: siamo dentro la guerra con i miliziani, sotto le bombe, sopra le mine, dentro i carri armati. Neisi nella guerra ci è nato: come scrive lui stesso nella sua bio, è nato nel 1981 in un ospedale nel deserto dell’Iran del sud, durante un bombardamento della guerra tra Iran e Iraq. Da allora, si è dedicato ad esaminare la patologia della guerra in una serie di campi di battaglia medio orientali in Iraq, Libano e Afghanistan. I suoi film -più di una decina- raccontano perlopiù di persone comuni che si trovano a vivere situazioni fuori dall’ordinario. E questo accade anche in The Black Flag, in cui un gruppo di uomini, il cui paese è stato invaso dalla sera alla mattina da un gruppo terroristico, hanno deciso di abbandonare le loro vite, le loro famiglie, e di prendere le armi.
Non voglio fare una recensione di questo lavoro, essendo a mio avviso ben fatta ed esaustiva quella de Il Film (firmata da Alessia Laudati) che trovate qui. Questo film mi ha portata a fare diverse riflessioni sulla guerra, l’immaginario della guerra nel cinema documentario, su quale sia il ruolo del cinema (documentario) in QUESTA guerra. Avevo, a Dicembre, scambiato due chiacchiere con il regista proprio a questo proposito. Avevo poi deciso di tenerle per me, prendendomi il tempo di rifletterci, ampliarle, commentarle. Mentre continuavo il lavoro sul mio film, che sto sviluppando, e che affronta tematiche affini.
Ho sentito il bisogno di andarmi a riascoltare le sue risposte nell’ultima settimana, in particolare dopo gli (ennesimi) attentati di Bruxelles, Lahore, … Dopo che alla rabbia e alla tristezza che mi toccavano così da vicino si mischiavano la rabbia e la tristezza dell’ignoranza, della non conosceva. Della difficoltà che si ha a spiegare, a mettere in luce, ad analizzare. A tacere, a mostrare.
Ho ripensato alle parole di Majed che avevo sentito in un’intervista rilasciata durante il festival Vision du Réel, dove il film è stato proiettato per la prima volta nella primavera del 2015, quasi un anno fa.
“Ho visto con i miei occhi daesh (ISIS) uccidere, voler eliminare l’umanità, essendo crudeli in modo non raccontabile. Mi sono chiesto quale fosse la mia posizione in questo mondo, come persona, cosa avrei potuto fare contro questo movimento. Per ogni movimento fatto da Daesh credo che ognuno debba muoversi, fare un passo, un movimento contro di essi. E io mi sono chiesto io cosa potessi fare, cosa potessi fare per l’umanità, contro daesh. E mi sono detto ‘sono un regista, un regista di documentari, e quindi devo fare un altro documentario”.
In inglese la parola shooting sta tanto per sparare, quanto per fotografare, o riprendere. La macchina fotografica, la macchina da presa sono puntate verso il soggetto tanto quanto lo è la canna del fucile. E boom: fuoco. Sempre una guerra è, sempre armi sono. Ma cambia, eccome se cambia.
Ecco le mie riflessioni fatte assieme a Majed.
Shooting vs Shooting: è comunque un modo di combattere?
C’è una scena del film che avrai visto in cui la mia guardia del corpo mi chiede ‘ma tu non vuoi una pistola?’ e io dico no, e la guardia del corpo mi dice ‘ah, tu vuoi combattere con la tua telecamera?’. Si, da un certo punto di vista anche quello è un tipo di combattimento. La differenza però è che i fucili, o comunque le armi dei soldati, hanno la potenzialità di uccidere altri, mentre la macchina da presa ha la potenzialità di mostrare questa verità, ad altri, a un pubblico. E per poter mostrare questa verità è necessario stare con i protagonisti, con questi uomini. Combattere con loro.
Se dovessi dare un consiglio ai giovani filmmaker documentaristi di oggi, cosa gli diresti? Anche io sono una filmmaker e penso davvero che questo genere di film, fare film che racconti le storie dal di dentro, possano davvero cambiare qualcosa; che possano davvero cambiare il modo in cui le persone vedono il mondo e in cui vedono il nemico. Cosa diresti ai giovani filmmakers che decidono di usare quest’arma per combattere queste guerre?
Non voglio fare grandi discorsi ma davvero parlare di quello che si può fare in quanto documentaristi. Uno dei grandi problemi attuali è che i media sono davvero molto polarizzati, nel senso che mostrano tutto bianco o nero, e quindi ci troviamo in una situazione in cui abbiamo una conoscenza molto scarsa e molto approssimativa dell’altro, della guerra, del nemico… Quindi la nostra più grande guerra in quanto documentaristi in realtà è contro -non in accezione negativa- i media, nel cercare di mostrare storie vere, di persone, di popoli che combattono, di persone tese tra questi due poli di bianco e nero per uscire a riequilibrare in modo più umano i rapporti tra persone, tra gruppi diversi.
Il film, dopo Vision du Réel, Dok Leipzig e Festival dei Popoli, continua a girare in vari festival, ed è stato acquisito da un grande distributore tedesco che si occupa della distribuzione internazionale, mi diceva Majed. Non ha saputo dirmi se il film avrebbe circolato in Italia, o sarebbe uscito in sala. Io spero vivamente che questa accada, prima o poi. Che giri, che lo vedano in tanti, tutti... Vi lascio intanto con il trailer del film, e con una video intervista di Majed al Festival dei Popoli.
vimeo
youtube
A presto, Martina
0 notes
ondocks · 8 years
Text
Regista o produttore? Davide Barletti incarna entrambi i ruoli e ci racconta Il miracolo di Fluid Produzioni.
Sono giorni in cui rifletto molto sulla condizione attuale dell’industria cinematografica in Puglia. Mi chiedo se questi anni sono stati un meraviglioso, spettacolare arcobaleno che ha stupito tutti, ha portato le macchine da presa in giro per le strade della nostra altrettanto meravigliosa regione, prima di scomparire? E’ stata un’illusione ottica data dalla fine della pioggia e del buio culturale in cui si viveva prima, o è rimasto veramente qualcosa?
La mia parte ottimista mi porta a guardare una delle storie più belle, non a caso vicine al documentario, che sta avendo sempre maggiore risalto a livello nazionale e internazionale. 
La Fluid Produzioni ci racconta come in Puglia si possa creare industria nel settore cinematografico partendo da una forte motivazione personale, lavorando, lavorando, lavorando.
Davide Barletti è una delle anime della Fluid, un marchio che, come un buon Negramaro, con il passare del tempo migliora.
Regista e produttore allo stesso tempo, Davide sta riuscendo a conciliare le esigenze di un autore con quelle del mercato, trovandosi perfettamente a suo agio nel lavoro di squadra tanto da firmare come coregia molti dei suoi lavori. 
Abbiamo incontrato Davide di recente a Bari al cinema ABC, uno dei baluardi del Circuito D’Autore, dove ha presentato il suo ultimo lavoro firmato in coregia con Jacopo Quadri, “Il Paese dove gli Alberi volano”. 
Tumblr media
Raccontare Eugenio Barba. Com’è stato confrontarvi con questa leggenda della Storia mondiale del Teatro contemporaneo? 
Solitamente il binomio teatro/cinema è un terreno scivoloso, perché si tratta di linguaggi molto diversi. Il primo gioca sull’immediatezza, sulla presenza fisica degli attori all’interno di uno spazio, il secondo gioca con le immagini. Raccontare questa presenza attraverso le immagini rischia di annoiare lo spettatore, figurarsi quando si parla di un personaggio come Eugenio Barba. Inizialmente io e Jacopo partivamo da due punti diversi. Lui, figlio di Franco Quadri, storico critico teatrale, amico personale di molti registi e attori noti, nel suo percorso da regista inizia un viaggio nella memoria del padre, fondatore della storica case editrice di critica teatrale Ubu Libri, basandosi sulle relazioni con maestri del teatro come Luca Ronconi (su cui ha girato il suo primo documentario) e in seconda battuta Eugenio Barba. Per lui Barba è il mito della sua adolescenza, le vacanze in Danimarca all’Odin Teatret rimangono ricordi scolpiti nella memoria di un ragazzo. 
Io invece partivo dalla mia passione per raccontare biografie di personalità importanti, in cui forte è il legame con la terra d’origine, la Puglia, nel mio caso. 
La figura di Eugenio Barba è ancora circondata da un’alone di mistero, un gallipolino che emigra da bambino e finisce a fare teatro in Scandinavia, con Grotowski. Torna in Italia a metà degli anni settanta a Carpignano Salentino dove si trasferisce con tutto l’OdinTeatret, per sei mesi, inaugurando di fatto l’arte del baratto, aprendo il teatro al paese. Si diceva che con Barba erano arrivate “le svedesi”, alludendo anche all’immaginario erotico del tempo, in un paese molto lontano dal Salento di adesso. 
Unendo questi due punti di partenza estremamente diversi è uscito un film totalmente nuovo, diverso da come Jacopo l’aveva concepito inizialmente, diverso dal film biografico legato alla Puglia come lo intendevo io. Ci siamo incentrati sul racconto dei 50 anni dell’Odin facendo un film che parla di tante cose insieme. Parla di arte e comunità, di utopia, di un confronto generazionale, di un fortunato rapporto tra istituzioni e cultura che ha permesso di costruire una pratica artistica a lungo termine. La cosa che forse colpisce di più in questo film è l’approccio diretto al processo creativo del maestro. E’ diventato quasi un documentario osservazionale. Le reazioni del pubblico ci hanno dimostrato che questo è stato un elemento molto forte. Chi conosce la storia di Barba, i suoi scritti, i suoi spettacoli, rimane spiazzato davanti a questo documentario che svela totalmente la sua aura. Chi conosce meno la sua storia entra fortemente in empatia con la personalità del maestro, raccontato anche con una vena ironica che è piaciuta molto al pubblico. 
Ho notato un lavoro molto interessante anche sul suono. 
Devo ringraziare Antonio Barba, casualmente omonimo del protagonista, che ha fatto un lavoro di presa diretta eccezionale, utilizzando dei microfoni particolari che hanno permesso anche in situazioni di grande confusione di utilizzare la musica prodotta durante lo spettacolo e di lavorare in postproduzione con il materiale che avevamo. Non abbiamo utilizzato alcuna musica che non provenisse dall’Odin e questo immerge lo spettatore ancora di più nella realtà che volevamo raccontare. 
Tumblr media
Ci dici di più sulla storia produttiva di questo film? 
Il progetto nasce nel 2013 grazie al finanziamento allo sviluppo di Media (ndr Creative Europe) che ha permesso con 25.000 € di iniziare la scrittura del documentario e anche le riprese preliminari. 
A maggio 2014 abbiamo ottenuto un importante sostegno dalla Apulia Film Commission che ha istituito un fondo lungimirante per lo sviluppo produttivo pugliese, il Regional Film Fund, che permette alle case di produzione e agli autori pugliesi di raccontare delle storie che non abbiano il vincolo contenutistico legato al territorio pugliese. 
Grazie ai 35.000 € del fondo Regional abbiamo iniziato le riprese a Giugno, tra la Puglia e la Danimarca, dove siamo tornati una seconda volta verso la fine dell’estate per terminare alcune riprese. A completare il pacchetto produttivo sono arrivati i fondi del MiBac a cui abbiamo chiesto il sostegno alla produzione come cortometraggio essendo il film inferiore ai 75’. Fondamentale è stata la partecipazione agli Italian doc screening di Palermo dove abbiamo incontrato l’interessamento di SKY ARTE e naturalmente la proiezione a Venezia da cui è nato in seguito l’accordo sulla distribuzione con Wanted Cinema. Il film per ora ha in programma proiezioni a Roma, Bologna, Bari, Lecce, Milano, Ferrara, Gallipoli, Taranto e Cesena. In primavera sarà in onda su SKY ARTE e stiamo concludendo degli accordi con le televisioni danesi per trasmetterlo anche lì.
Tumblr media
Che rapporto hai con il cinema documentario? C’è un filo conduttore nelle storie che decidi di raccontare come documentarista?
Fluid nasce come collettivo nella metà degli anni ’90 e legava la sua esistenza al racconto politico di un territorio. Si faceva controinformazione, eravamo legati alle realtà dei centri sociali. Con l’avvento delle prime telecamere digitali potevamo veramente essere indipendenti, raccontare delle storie senza dar conto a nessuno, fondi, festival, mercato. Rispondevamo ad un’urgenza narrativa personale e comunitaria di comunicare con il mondo esterno, di far conoscere quelle storie. In quel momento ha ripreso forza il cinema documentario e, seppur le cose siano mutate nell’approccio alla produzione, questa urgenza, la passione, lo spirito che ci unisce risale a quegli anni lì. In questo senso penso che il documentario come genere ti dia la sensazione di star vivendo un momento storico anche dopo la fine del film. Nel cinema di finzione, finito il set, l’opera può essere incisiva sul presente o essere dimenticata, con il documentario invece stai sempre lasciando qualcosa, perché tu stesso fai parte di un momento storico, non è una narrazione fine a sé stessa.  In questo vivere un passaggio storico, nelle relazioni personali con i personaggi e con i luoghi vedo un filo conduttore della mia ricerca stilistica: dalle grandi storie alle piccole storie, dai ritratti di Cecilia Mangini ed Ettore Scola a Italian Sudest. Soprattutto in Puglia, durante la meteora Vendoliana, si è vissuto un passaggio epocale: da terra di confine, isolata dal mondo, all’apertura al turismo e all’accoglienza dei flussi migratori. Da un passato arcaico si è arrivati al postmoderno, in pochissimo tempo. Tutto ciò ha generato un’esplosione di contraddizioni, che ha fatto sì che si vivesse in un teatro all’aria aperta, dove bastava andare in giro e arrivavano spunti narrativi. Molte di queste storie a cui Fluid ha legato il suo percorso hanno a che fare con l’essere un ponte sul Mediterraneo. Abbiamo prodotto documentari sulla crisi greca, sulle minoranze linguistiche, sull’identità salentina e per ultima “il Successore” che nasce proprio a cavallo delle sponde dell’Adriatico. 
Tumblr media
Ti va di anticipare qualcosa sui tuoi prossimi progetti?
Adesso con Lorenzo Conte, cofondatore di Fluid, stiamo lavorando a un film di finzione “La guerra dei cafoni” tratto da un libro omonimo di Carlo D’Amicis, che ora è in fase di post produzione. Il montaggio è di Jacopo Quadri. E’ stato girato la scorsa estate e vede come protagoniste due bande di tredicenni che si contendono un luogo immaginario della Puglia. Diviene una specie di teatro di guerra, una sorta di allegoria sulla lotta di classe. Un film che rientra in un filone di genere che fa riferimento a capolavori come Il signore delle mosche o i ragazzi della via Pal per citarne alcuni, cui mi sento molto legato.
Come produttore, vieni dal recente successo de Il successore, Premio Cipputi al Torino Film Festival, selezionato all’IDFA di Amsterdam. Come vedi il futuro di Fluid? Come concili le due figure quelle di produttore e quelle di regista?
Penso sia molto importante avere uno sguardo attento a osservare quello che accade attorno, oltre il mio film. Già da un pezzo avevamo sott’occhio il lavoro di Mattia Epifani, con cui avevamo già lavorato su Rockman, il documentario sulle origini dei Sud Sound System. Le pagine di un articolo di Alessandro Leogrande sulla storia di Vito Alfieri Fontana ci hanno colpito profondamente, così abbiamo proposto a Mattia di lavorare al film, partecipando al bando del Progetto Memoria di Apulia Film Commission. Da lì è nato tutto. Indossare i panni del produttore è una cosa molto bella, capisci ancora meglio che realizzare un film è un lavoro di squadra. Riuscire a costruire un rapporto con gli enti e le televisioni, per far sì che un film venga su è una sensazione stimolante. Soprattutto se si riesce a mantenere una certa linea editoriale, sai che quando esce un film prodotto da quel nome, da quella società o da quel gruppo è almeno una garanzia di un certo sguardo. Un film può essere più o meno riuscito ma è sicuramente riconoscibile, avendo un suo valore, un suo senso di esistere nel percorso di quella società. Con Fluid le cose, fortunatamente, stanno andando bene, collaboriamo anche con National Geographic e c’è la speranza di crescere e di diventare un punto di riferimento.
Tumblr media
Sappiamo che il progetto Memoria ha un budget limitato. Quanto conta il budget di produzione, quanto la storia, quanto la scrittura e la regia per entrare in un mercato così competitivo?
Ci vuole una certa esperienza per costruire un film che possa andare nei festival internazionali dove, come è capitato ad Amsterdam, ti trovi in concorso con opere che hanno un budget dieci volte superiore a quello del tuo film. Nella proporzione di riuscita di un documentario come Il successore, la storia assume un ruolo fondamentale. L’evoluzione del personaggio, il senso di colpa, il perdono, la rinascita, il doppio, erano già lì evidenti. Così come chiaro e definito era il tema e l’immaginario della guerra nei Balcani. La storia si è costruita anche grazie a un primo sopralluogo in Bosnia dove abbiamo incontrato uno dei due personaggi principali del film e poi Mattia ha scritto un bellissimo trattamento, che curava tutti i passaggi del film nei dettagli. 
Molto importante è l’organizzazione e la preparazione della troupe, già abituata a girare in condizioni di estrema semplicità e poi chiaramente lo sguardo del regista. 
Bisogna tener conto però che un film girato in Puglia e in Bosnia, con una troupe collocata fiscalmente, con i contributi pagati, un’attrezzatura tecnica dignitosissima, ti fa capire bene che non è facile come sembra. I soldi non si moltiplicano ma questo film nasceva da un’urgenza, avevamo veramente voglia di farlo. Naturalmente sono operazioni che si possono fare una, due volte al massimo, bisogna pur mangiare. Sono contento però di affermare che tutti quelli che hanno lavorato al film sono stati pagati e, seppur al minimo sindacale, la motivazione non è mai mancata a tutti perché sentivamo la voglia di raccontare questa storia. Come dicevo prima, per il cinema documentario la cosa più importante è uscire da un’esperienza dove, se non ti sei arricchito dal punto di vista monetario, almeno ti sei arricchito dal punto di vista umano. 
Grazie e complimenti per il tuo lavoro. Esempi di questo tipo ci auguriamo possano essere un faro per indicare ai giovani documentaristi un percorso possibile che le istituzioni devono accompagnare e supportare.
Il paese dove gli alberi volano - un film di Davide Barletti (2015, 77′)
youtube
Il successore - un film di Mattia Epifani (2015, 52′)
youtube
2 notes · View notes
ondocks · 8 years
Photo
Tumblr media
ll quarto giorno di scuola di Martina Melilli
in anteprima mondiale all’International Film Festival di Rotterdam
Il 30 e il 31 gennaio sarà presentato in anteprima mondiale al Film Festival di Rotterdam, il cortometraggio di Martina Melilli intitolato “Il quarto giorno di scuola”. La regista è tra i quindici registi italiani invitati alla manifestazione che si svolgerà in Olanda dal 27 gennaio al 7 febbraio.
L’opera è stata inserita nella sezione Voices dedicata agli autori affermati in campo cinematografico e agli artisti visivi che hanno realizzato produzioni interessanti per un pubblico più ampio.
Il cortometraggio documenta in prima persona i primi giorni dell’arrivo sulla penisola italiana di un bambino appena emigrato dalla Libia. La voce del protagonista parla la nostra stessa lingua, la nazionalità è la stessa ma lui è accolto come uno straniero. Anche l’età non corrisponde a quella del racconto, sono ricordi sottolineati dalle immagini d’archivio che intrecciano vecchi filmini super8 con le più recenti immagini degli sbarchi di immigrati. Si tratta di un rimpatriato libico, uno dei ventimila italiani esiliati da Gheddafi negli anni settanta, si tratta di una storia che si ripete e fa riflettere sulla reale definizione della parola “straniero” oltre il colore della pelle, la lingua e la cultura di un individuo.
ecco il trailer:
vimeo
La selezione dei cortometraggi di Rotterdam è una delle più raffinate e più ampie in Europa, un importante riconoscimento per la carriera artistica della nostra compagna di viaggio. 
Le facciamo un grandissimo In bocca al lupo!
Tumblr media
0 notes
ondocks · 8 years
Text
“Nel cinema s’incontra l’infinito”
Piccola intervista con Mary Jimenez
Noi di OnDocks vogliamo assecondare quest’atmosfera di feste e regali, facendovi un dono speciale: una piccola intervista con Mary Jimenez, filmmaker in Focus per la 56 esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze dello scorso Novembre. Immagini del verbo amare è il titolo della retrospettiva che le è stata dedicata, e la dice lunga sul suo fare cinema, e su di lei.
Io ho avuto l’onore di essere una sua allieva per qualche tempo a Bruxelles, all’interno della piattaforma SIC Sound Image Culture in cui lei è una dei tutor. Dopo averla incontrata al Festival dei Popoli le ho chiesto se non avesse voglia di rispondere a qualche domanda per i lettori del blog di OnDocks. Ed ecco qui le sue risposte, arrivate preziose e pensate come un bel regalo di Natale. Buona lettura! Martina
Tumblr media
- Spesso, descrivendo i tuoi film, le persone parlano di una dimensione “intimista”. Ti piace come definizione?  Le persone hanno bisogno di nomi per creare dei concetti per comprendere le cose. Credo che alcuni dei miei film guardino dentro una realtà personale, e che si possa anche chiamarli auto-etnografici, in quanto descrivono anche un mondo in cui un personaggio (in questo caso il mio personaggio) interagisce in un modo specifico. Rappresentare un mondo, anche tramite l’uso di metafore, e qualcuno le cui radici e la cui evoluzione sono definite e condizionate da questo mondo, è proprio fare auto-etnografia.
- Cosa suggeriresti ad un filmmaker che vuole raccontare le sue storie partendo da un’esperienza personale? Per un filmmaker che voglia partire da un’esperienza personale non ho altro consiglio se non quello di essere se stesso, e il più vicino possibile al punto in cui si trova in termini di capacità, di comprensione e di potere. Forse così quello che rappresenterà raggiungerà un livello universale.
- Qual è oggi l’importanza di un punto di vista “autoriale”? Avere un punto di vista significa essere in grado di organizzare i valori che sono caratteristici di un film. E’ usare una narrazione e le forme poetiche che il cinema offre per invitarci in un viaggio verso qualcosa di valore, qualcosa che abbia un’importanza. Non è solo essere reali, o audaci, o onesti. E’ tutto questo E riuscire a guidare il pubblico verso un momento di comprensione. Un regalo. Un film, qualunque film deve essere in grado di offrire qualcosa di valore.
- Qual è il tuo rapporto con il tuo paese natale, il Perù? Mi piace il cibo, e la musica. E’ fisico. - La valigia di un filmmaker. Cosa deve avere sempre con sé? Amore per le persone con cui lavorerà, e soprattutto per quelle che filmerà. Pazienza. E fiducia. Quello che spunta ci sorge davanti sarà sempre molto di più rispetto a quello che ci eravamo immaginati.
Dal catalogo del Festival dei Popoli:
Mary Jiménez (nata nel 1948 a Lima, in Perù) si laurea prima in Architettura e Urbanismo all’Università di Lima, poi decide di trasferirsi a Bruxelles per studiare Cinema all’ISAS. [...] La sua carriera da regista scorre in parallelo a quella d’insegnante: “Produzione Cinematografica” è la sua materia alla Scuola del Cinema di Cuba, in Svizzera e all’ISAS. Con il film di finzione 21:12 Piano Bar, del 1981 vince il Prix de la Confédération du Cinéma d’Art et d’Essai e più tardi, con L’Air de rien del 1989 il Premio della Regia al Festival di Barcellona. La scrittura (come cineasti in Europa siamo costretti ad essere anche sceneggiatori, a scrivere delle storie) ci forza a strofinare l’infinito”. Un côtoyer, quello dell’infinito, che viene ottimamente accolto dalla critica anche per quanto riguarda i suoi documentari. Lo splendido Du verbe aimer del 1984, viene considerato una delle più alte prove di ‘cinema dell’autobiografia’ e più tardi Loco Lucho (1998) vincerà al Festival di Taiwan (TIDF) il premio per la Miglior Regia. In occasione del Festival di Cannes del 2000 sperimenta le potenzialità di internet presentando alla Quinzaine des réalisateurs una raccolta di 35 film, della durata di 1 minuto ciascuno, caricati sul sito web Icuna.be, di sua ideazione. Più tardi La Position du lion couché, documentario del 2006, vince il Premio dell’Intercultura al Festival Filmer à tout prix di Bruxelles. Tra il 2013 e il 2014 Mary Jiménez riceve, insieme alla co-regista Bénédicte Liénard, una serie di premi per il film documentario Sobre las brasas: Premio del Festival Filmer le travail di Poitiers, Premio della Giuria al Festival Internacional de Documentales de Santiago (FIDOC), e il Premio della Giuria al TIDF. Nel 2014, conFace Deal è nella Selezione Internazionale di Vision du Réel a Nyon.“Ho scoperto che volevo fare cinema in un sogno - conclude su cinergie.be (sito dedicato al cineme belga) - dove una donna rispondeva alla mia domanda sul senso della vita con dei movimenti silenziosi, come al ralenty. Il mistero del sogno, che sono riuscita a decriptare solo qualche settimana dopo, diceva che, nel cinema, s’incontra l’infinito”.
0 notes
ondocks · 8 years
Text
Quattro chiacchiere con Claudia Brignone
Abbiamo incontrato la regista Claudia Brignone il cui documentario “La Malattia del desiderio” è stato premiato durante la IX edizione di #DocUnder 30
Tumblr media
Claudia Brignone, classe 85’, napoletana. Negli ultimi anni ha lavorato come assistente di produzione a diversi documentari, ha collaborato all’organizzazione del Festival Internazionale di Cinema e Diritti Umani di Buenos Aires e si è anche occupata del coordinamento di un corso di cinema e fotografía all’interno del carcere femminile di Ezeiza (Buenos Aires). Durante gli anni di formazione universitaria, un percorso di ricerca già la conduceva ad approfondire il mondo del documentario e le sue esplorazioni l’hanno condotta al  Ser.T. di Fuorigrotta.
Come ti sei avvicinata alla realtà del Ser.T. Fuorigrotta e quando è sorta in te la necessità di osservare da vicino le dinamiche che attraversano quel campo?
“La Malattia Del Desiderio“ è cominciato circa quattro anni fa. Per un esame universitario dovevo fare un video sul tema delle dipendenze, così cominciai a fare delle ricerche, cercavo storie di dipendenza affettiva, di donne che si incontrano per trovare conforto per problemi sentimentali, ma non trovai nulla che mi interessava. Un giorno uno psicologo mi diede appuntamento al Ser.t di Fuorigrotta. Non conoscevo quel centro  e varcata la soglia dell’ingresso ricordo di aver avuto paura. Questa sensazione l’ho tenuta con me fin quando non ho deciso che quel posto doveva essere raccontato. Mi sembrava assurdo che quasi sotto la curva A dello Stadio San Paolo di Napoli, in un ex sala stampa fatta costruire nel 90' per i mondiali ci fosse un servizio per le tossicodipendenze di cui quasi nessuno sapeva l'esistenza. Inizialmente feci solo delle interviste al responsabile del centro e a due “utenti” che in quel caso non si fecero inquadrare nelle loro totalità. Questo non mi sembrò corretto, e così mi resi conto che avrei dovuto chiedere dei permessi per più tempo ed instaurare una vera relazione con loro. Decisi di non dare più nulla all’università e di cominciare un mio lavoro.
Il tuo documentario si avvicina maggiormente ad uno stile osservazionale, infatti sembra che da parte tua ci sia stata la scelta di lasciar scorrere il vissuto dinanzi alla telecamera, cercando di restituirla in maniera quanto più complessa e ricca possibile, ma, in effetti quanto quell'occhio puntato ha influenzato la realtà osservata?
Quando una telecamera entra in luogo credo sia inevitabile il condizionamento, posso dire però che avendo frequentato il servizio per anni, si era creata sia con i dottori che con i ragazzi coinvolti nel film una relazione di fiducia e di reale scambio, che mi ha permesso di seguire le persone durante le loro ore di lavoro o durante i colloqui più intimi. In questi casi i protagonisti erano abituati a me e alla camera. Per me filmare non è semplice, è quasi un "atto di violenza" e sentivo una grande responsabilità nei confronti delle persone filmate. Preferisco osservare le situazioni, lasciare che le persone interagiscano tra loro e poi cogliere quei piccoli momenti che messi insieme faranno il film. Poi però ho scelto anche di intervenire e di lasciare che la mia voce entrasse in questo luogo. Credo sia importante sperimentare provando anche a seguire delle intuizioni.
Che ruolo ha avuto il montaggio nella definizione della tua opera e ci sono dei principi organizzativi che hanno dominato le tue scelte di post-produzione?
La difficoltà maggiore è stata proprio la fiducia. Nessuno si voleva far filmare, al ser.t vige l’anonimato, quindi non ho moltissimo materiale. All’inizio credevano volessi fare un video sensazionalistico da mettere su youtube, poi quando hanno cominciato a vedermi spesso, hanno capito. Molti non è che non si fidavano di me ma avevano paura di quello che la gente che avrebbe visto il film poteva pensare della loro situazione. Ho trascorso molto più tempo nella sala d’attesa, nella stanza della somministrazione, nei corridoi , ad ascoltare e a parlare invece che a filmare, ma l'osservazione e la ricerca sono state molto utili. Il montaggio è stata una fase fondamentale e di grande confronto con la montatrice Chiara De Cunto, una professionista. Abbiamo guardato ed ascoltato molte volte il girato, cercando di scegliere il giusto “pezzettino” che doveva essere rappresentativo di quelle vite così dense. Sentivamo un profondo rispetto per quel materiale, per i ragazzi e per i dottori che si sono completamente affidati. Ci siamo interrogate molto sulla forma del racconto corale per restituire quello che io avevo provato stando in quel luogo. Ho girato per circa un anno ed abbiamo montato a diverse fasi, poi ci siamo fermate per diversi mesi, sia per motivi economici che per prenderci una pausa per essere più lucide per la versione finale.
Come è stato prodotto “La malattia del desiderio”? 
“La Malattia Del Desiderio” è un autoproduzione . La Casa Editrice Idelson Gnocchi mi ha fornito le attrezzature per girare il film e solo quando il film era finito una Casa Farmaceutica, mi ha dato un contributo per far circolare il film nei circuiti medici. E’ stato un lavoro lento, anche perché ho dovuto fare altri lavori per sostenermi e per pagare le persone che hanno lavorato al film. Ma ci tenevo molto al progetto e l’ho portato avanti. Fare il film è stato lungo e in alcuni casi difficile perché, essendo il mio primo lavoro, non sapevo da dove cominciare. All’inizio pensavo che sarebbe stato un corto poi dopo una prima fase di montaggio decisi di mostrare il materiale a Leonardo Di Costanzo, che mi incoraggiò a continuare a girare. L’incontro con Di Costanzo è stato fondamentale nella realizzazione del film, soprattutto perché si dimostrò disposto a guardare il nuovo materiale. Guardare il girato insieme ad un professionista capace di insegnare, è stato molto utile nella ricerca della mia posizione e della giusta distanza all’interno di quel luogo così complesso ed ostile. Ho continuato a girare per altri sette mesi perché sentivo che il film non era ancora finito, solo quando uno degli utenti è venuto a mancare ho capito che anche se il film non sarebbe stato perfetto non me la sentivo più di entrare al ser.t con la camera. Credo sia fondamentale  e necessario il confronto con dei maestri e anche con gli altri collaboratori  che hanno lavorato al film per cifre davvero irrisorie. Ringrazio Chiara De Cunto la montatrice del film, Salvatore Landi, direttore della fotografía e colorist, Dario Calvari che si è occupato della post- produzione audio, e tutti gli amici che si sono spesi spesso anche gratuitamente per questo progetto.
Quale percorso distributivo sta percorrendo il tuo documentario [festival, proiezioni, dvd, vendite]?
Il film ha vinto il Premio del Pubblico al Salina Doc Festival 14 e una menzione speciale della giuria “ Per lo sguardo empatico della regista che ci ricorda senza moralismi che ogni esistenza ha bisogno di cure”. Poi il premio come miglior autoproduzione al Napoli Film Festival e poi di recente il premio al Miglior Montaggio ed il Premio Scuole al festival Noto Documentaria 2015. E’ stato proiettato a diversi festival in Italia e all’inizio abbiamo fatto delle proiezioni a Napoli a Roma a Milano e a Torino.
Quali sono gli autori che più ti ispirano?
Ci sono autori che mi interessano molto e che sono per me fonte di riflessione e ricerca, da Di Costanzo a Wiseman , Pietro Marcello, Minervini, Gianfranco Rosi, Philibert, Claire Simon, Martina Parenti e Massimo D’Anolfi.  Nel vedere documentari mi concentro molto sugli aspetti drammatici che la narrazione solleva, la prossimità o distanza rispetto ai personaggi, alle loro storie ed esperienze. Reputo che anche l’attenzione formale abbia il suo peso, l’immagine deve essere curata per essere fruita nel modo giusto e funzionale alla storia che sto raccontando. Sono in una fase di formazione e di crescita soprattutto grazie ai riscontri e ai dibattiti che si generano dopo le proiezioni di “La Malattia Del Desiderio”. Sinceramente non mi aspettavo questa accoglienza. A livello produttivo, credo sia molto difficile fare questo mestiere liberamente, gli autori che mi interessano e che sono per me fonte di ispirazione spesso diventano anche produttori dei loro film, questo mi fa molto riflettere. Ma allo stesso tempo questo non deve essere un motivo per cedere.
Questo è il tuo primo documentario, se ne dovessi immaginare un secondo che temi ti piacerebbe affrontare?
Nel racconto della realtà mi interessano molto i luoghi, spazi in cui le persone si incontrano. Per ora non mi interessa filmare le persone nelle loro case o seguirle nella loro quotidianità . Mi interessa invece quando si incontrano e sarà poi lo spettatore ad immaginare che vita hanno o dove vivono. Per questo ho scelto di non uscire mai dal ser.t. Mi sembra interessante scegliere un luogo per dare un’unità spaziale al film, così ho scelto il ser.t per raccontare la dipendenza dal punto di vista della cura. Sto lavorando al mio prossimo film, un lavoro su un parco, una grande villa comunale che si trova in una periferia di Napoli.
.
vimeo
0 notes
ondocks · 8 years
Photo
Tumblr media Tumblr media
Vivere alla Grande - il film scandalo sul gioco d’azzardo arriva a Bari
Il documentario di Fabio Leli presentato al Milano Film Festival e al Festival di Locarno.
Siamo lieti di invitarvi al cinema Nuovo Splendor di Bari il 14 e 15 dicembre alle 20.30  per la proiezione di Vivere alla Grande, il film del regista barese Fabio Leli sul gioco d’azzardo, presentato in anteprima mondiale al 68° Festival del Film Locarno e in anteprima italiana al 20° Milano Film Festival. Come associazione Ondocks siamo doppiamente contenti di promuovere questo evento. Abbiamo avuto la possibilità di conoscere bene il percorso produttivo di questo film fin dagli albori, avendo organizzatoI/O DOC,il workshop sulla produzione del documentario dove Fabio ha presentato il suo progetto e ora siamo ancora più felici del risultato. Il film, infatti, ha ottenuto una presentazione d'eccellenza nelle vetrine più importanti del cinema internazionale. Oltre a una vittoria di un regista locale, per noi rappresenta una vittoria personale nell'impegno a promuovere il documentario d'autore sia nella fruizione cinematografica sia nella produzione di opere di qualità. Definito da Repubblica “una ricognizione minuziosa e mai vista prima di un problema sociale che ha molti versanti oscuri”, il film arriva a Bari dopo le proiezioni di Trento, Senigallia e Fano e traccia un pesante bilancio sulle conseguenze delle politiche di “promozione” del gioco d'azzardo legalizzato. Nel corso della serata del 14 interverranno il regista assieme a Don Alberto D’Urso, presidente della Fondazione Antiusura San Nicola e Santi Medici da anni impegnata sul territorio nella lotta al gioco d’azzardo patologico, insieme ad altri ospiti presenti all'interno del film. Il documentario sarà replicato il giorno successivo, martedì 15 alla stessa ora. L’evento è promosso inoltre da Banca Etica e Libera Puglia, tra i sostenitori alla produzione del film.
Speriamo possa essere un esempio per promuovere, come noi ci auguriamo, nuove produzioni e momenti d'incontro tra professionisti come quelli che abbiamo avuto la fortuna di organizzare grazie all'iniziativa Laboratori dal basso.
youtube
0 notes
ondocks · 9 years
Text
Dai banchi di INPUT/OUTPUT DOC alle sale cinematografiche
Francesco Adolini venerdì 13 Novembre presenta il suo documentario “Ogni preziosa giornata” al Festival Visioni Fuori Raccordo
Ricordo un pitching forum che mi impressionò molto per la storia che proponeva. A Bari si stava svolgendo il workshop sul cinema documentario I/O Doc e tanti giovani registi, videomaker e appassionati si erano affacciati nella nostra Puglia per assistere a questo laboratorio gratuito sul documentario. In quell’occasione, grazie agli splendidi tutor Stefano Tealdi ed Edoardo Fracchia della Stefilm sono stati presentati in maniera didattica alcuni progetti pre-selezionati. Uno di questi era “Ogni preziosa giornata” che il prossimo venerdì verrà proiettato presso il cinema Detour a Roma in occasione del Visioni Fuori Raccordo Film Festival. 
Ma quanto è bello sapere di aver collaborato anche se solo in maniera infinitesimale alla realizzazione di un qualcosa che sboccia? 
Abbiamo incontrato Francesco e gli abbiamo fatto qualche domanda:
Il tuo documentario tratta un tema molto personale, come è scaturita questa esigenza narrativa?
Mi sono reso conto di avere una storia e una testimonianza fortissima da raccontare quando ho letto il libro di mia madre sulla sua battaglia contro il cancro durata diciassette anni. Mia madre si ammalò quando avevo diciotto anni, dunque questa malattia, il tumore, è stata mio malgrado presente nella mia vita dall'adolescenza fino all'età adulta: era proprio il caso per me di confrontarmi con questo compagno indesiderato che abitava dentro mia madre. Il suo libro si intitola "Ci sarà il mare" ed è un inno alla vita che racconta una bellissima storia d'amore, un amore vero in tutte le sue declinazioni, la tenerezza, la gioia, la fatica, la rabbia, la forza. Ho voluto fare un documentario alla ricerca di queste emozioni e questi sentimenti.
ll tuo documentario ha modificato la relazione con i tuoi genitori e in particolare con tua madre? In che modo? Pensi possa essere servito per ricucire i fili del presente e del passato in una tela più solida?
Quando ho iniziato a girare ho fatto delle considerazioni riguardo al mio ruolo nei confronti del film, il fatto che dietro alla telecamera ci fossi io, loro figlio, mi avrebbe permesso di avere un accesso diretto verso di loro, a patto che questa relazione figlio/genitori non fosse stata snaturata dal meccanismo della messa in scena. Dunque ho mantenuto con loro le dinamiche di sempre e le ho arricchite di curiosità e domande nei loro confronti. Questo li ha molto divertiti e il documentario è diventato un pretesto per passare dinuovo del tempo insieme, intere giornate, come non accadeva da tanti anni. Per quanto riguarda la relazione con mia madre posso dire che senza che me ne rendessi conto le riprese sono durate nove mesi.
Ci descrivi il panorama del documentario italiano in questo periodo secondo te?
Negli ultimi anni, in particolare negli ultimi cinque anni, ho notato un deciso innalzamento della qualità dei documentari che vengono prodotti nel nostro paese, sia riguardo alle caratteristiche tecniche (fotografia, montaggio, postproduzione) che soprattutto riguardo ai temi trattati e alla relazione con i personaggi e al contatto degli autori (e quindi poi degli spettatori) con le storie raccontate. Da questo punto di vista forse noi nuove generazioni di documentaristi stiamo ritrovando quell'eredità neorealista che è a mio parere il grande valore del nostro cinema italiano.
Immagino che il montaggio sia un processo creativo molto importante anche nella tua attività di regia. Quanto è contato nell'elaborazione finale del film e quanto è stato affiancato ad una fase di scrittura?
Purtroppo scrivo in maniera molto lenta, molto più lenta dello scorrere delle cose, sono abituato per il lavoro che faccio a ragionare per immagini, ricordare e costruire associando suggestioni visive, affiancandole ad appunti e scarabocchi che difficilmente potrebbero essere chiamati scrittura. La mia carriera professionale è quella di montatore e ci sto molto bene in questo ruolo, diciamo che in questo caso mi sono prestato alla regia per una forte esigenza narrativa. Questo ha fatto sì che girassi le scene pensando già ai tagli di montaggio e devo dire che è stato un atteggiamento molto naif da parte mia che ha mostrato tutta la mia ingenuità e immaturità alla regia. Infatti poi al montaggio i margini per cercare "intorno" alle inquadrature un nuovo valore aggiunto al film erano veramente stretti. Per fortuna, comunque, le scene che mi ero montato in testa funzionavano una volta stese. La vera fatica e la vera difficoltà è stata strutturare il documentario e condensare diciassette anni di sentimenti ed emozioni inespresse in un'ora di film. In questo mi hanno aiutato molto il mio amico montatore Alessandro Latrofa e la mia amica e coproduttrice Eleonora Marino.
Quali sono i canali di distribuzione che hai in mente di attivare (festival/ passaggi televisivi/ vendita DVD)?
Il film è stato interamente prodotto in maniera indipendente grazie ad un collettivo di professionisti del settore, la Zen film, che hanno prestato le loro conoscenze e il loro talento per realizzare questo documentario, dunque non avendo un committente ed un distributore alle spalle contiamo di raggiungere il pubblico, i commissioning editors e i distributori direttamente nei festival ai quali cercheremo di partecipare. Ora siamo in concorso all'ottava edizione del festival Visioni fuori raccordo e da qui partiremo per una campagna di iscrizioni a diversi festival italiani ed internazionali, il tutto sempre seguendo i criteri della produzione indipendente, insomma, come recita il motto della Zen film, “keep calm and make a movie”
Un grande in bocca al lupo per la prima di “Ogni preziosa giornata”. 
¡Support doc!
vimeo
0 notes