Tumgik
marcocubeddu · 10 years
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TREDICI VIRGOLA CINQUE di Marco Cubeddu
Quindi l’Apocalisse. Ora, prima di andare avanti, non ho
nessuna intenzione di lasciare alcun margine di ambiguità
sulla faccenda. Il credo-non credo all’Apocalisse 2012, atteggiamento che sotto sotto abbracciano in molti, quella specie di «non ci credo però ne parlo» non mi riguarda in alcun modo.
Avete presente tutti quelli che ci ridono su ma che ogni volta
che viene l’occasione tirano fuori la faccenda della fine del
mondo? «aahahaha, pensa, tutta questa fatica per scrivere un libro che tanto il 21 dicembre finisce il mondo». Potete star certi che i Maya hanno torto. Dicono che avessero previsto la fine del mondo? Peccato non avessero previsto l’arrivo dei conquistadores. Non sentiremo la mancanza di un popolo che non aveva nemmeno inventato la ruota e che si è fatto estinguere a colpi di starnuti.
Però anni fa un mio amico, lo scomparso Giansebastiano
Redà, uno di quelli che leggono le riviste e sanno sempre un sacco di tutte quelle cose superflue che compongono il nocciolo di ogni conversazione degna di nota, mi disse che probabilmente, l’unica base scientifica su cui fondare le mie speranze di fine del mondo, consisteva nel probabile aumento dell’attività solare e nella probabilità che («con tutte le probabilità») questo avrebbe portato alla tempesta solare più potente a memoria d’uomo.
Sentendolo parlare di tempesta solare mi si pararono innanzi immagini di fuoco e devastazione, forse l’esplosione
della Terra stessa, un gigantesco kaboom, pacificatore.
«Niente di tutto questo, con la tempesta solare, cioè, almeno come diretta conseguenza della tempesta solare in sé, non muore nessuno».
Smettevo di seguirlo.
Questa stronzata della fine del mondo era appena stata riportata dai giornali italiani (era tipo il 2008) e io avevo appena finito di lamentarmi che i Maya erano stati/fossero un popolo di creduloni «il cui unico pregio consisteva nello sgozzare vergini sui campi di grano per renderli fertili», ero all’apice del mio nichilismo, senza progetti per il futuro e con il solo desiderio che non ci fosse nessun futuro da progettare. E Giansebastiano mi illudeva parlandomi di tempeste solari per il solo gusto di rivelarmi subito dopo la loro totale innocuità?
«Ma come non muore nessuno, allora che razza di Apocalisse è?»
«Io non ho detto che non muore nessuno. Ho detto che direttamente, per i raggi, non muore nessuno».
«Mmmmmmm».
«Una tempesta solare è una tempesta elettromagnetica».
«E che vuol dire?»
«Detto in parole povere?»
«Poverissime».
«Vuol dire che tutto quello che è elettronico smette da un
momento all’altro di funzionare».
«?»
«Per sempre».
«E quindi?»
«Quindi che?»
«Quindi che cosa me ne frega a me?»
«Non volevi l’Apocalisse?»
«Certo».
«Beh, immaginati: aerei che precipitano, tutte le macchine
ferme, i telefoni che non funzionano, niente più computer...»
«...i cancelli della carceri! Le impronte digitali! Il DNA! Nessuno che può chiamare aiuto. Nessuna telecamera a riprendere. Niente rifornimenti per la polizia, niente comunicazioni per l’esercito, niente verbali, niente multe...»
«...però anche niente acqua, niente iPod, niente luce elettrica...» obiettava il buon Redà, che non credeva possibile la mia esaltazione senza riserve per la venuta dei tempi del tutto o niente.
«Ma sì ma sì, però...tu pensa!», rispondevo io, «sarebbero i
tempi del tutto o niente, si vivrebbe di prepotenza, di brutalità,
di sopraffazione. Pensa a quel cazzone di Ponestà e ai
suoi esposti in questura contro di me: ... Marcel Baltò... nato a Montrouge... residente in via... barba incolta... sguardo da pazzo... muscoloso... manesco... alcolizzato... corpo disseminato di grossi tatuaggi... come conseguenza di usuali minacce di morte... intimidazioni... perdita del sonno... crisi d’ansia... attacchi di panico... disastrosa vita sessuale... spese per l’analista... tisane... gravi danni alla mia attività di promotore culturale... giocoleria... happening... festival delle periferie... irruzioni... scorribande... si è presentato come colui che mi ucciderà... ingente risarcimento...Tu pensa, presentarmi a casa di quel miserabile cialtrone con un seghetto da falegname e dirgli «ho intenzione di fare una cosa bellissima ma molto difficile. Vedi questo? È un seghetto per il legno. Andrebbe utilizzato solamente per il legno. Credo che ci metteremo una vita. Ma io non ho fretta...».
Smisi di ascoltare le complicate fandonie del mio amico, arzigogolati deliri scientisti su probabilità e regolarità delle tempeste solari, sul livello di intensità e tutte le altre oscillatorie teorie fisiche su quelle faccende elettriche e ripresi a guardare fuori dal finestrino.
E a fantasticare di un mondo in cui finalmente tutta la placida esistenza raccolta in crocchi e muccetti sociali sempre più ordinati di quanto la realtà materica di cui i nostri agglomerati umani siano composti, scompaia e regni in sua vece un inverno nucleare di barbarie e anarchia. Tutti gli incubi della buona borghesia ottocentesca, tutto l’inorridito indignarsi degli amanti dell’ordine, si sarebbe trasformato nella fantasmagorica anticiviltà che avevo sempre sognato. È probabile che partendo da un grado preciso di sviluppo delle forze produttive e di coscienza di questo sviluppo, forme contemporanee di organizzazione sociale tenderebbero a serpeggiare e financo a tentare di reinstaurarsi come ordine logico di cui la parte di umanità che vi ha sempre vissuto dentro abbisogna. Eppure, la mancanza di quella basilare forma di energia, basilare per
i nostri standard odierni, cioè l’elettricità, farebbe precipitare
di millenni la nostra evoluzione consegnando l’imbolsita civiltà occidentale al caos incontrollabile dei desideri che albergano nei cuori di uomini non ancora del tutto addomesticati.
Mi si potrà domandare, ma a chi può interessare una simile
fantasia?
Se avete mai sognato di mozzare una testa roteando una scimitarra.
Se avete mai sognato di violentare bambine, madri,
mogli di altri uomini davanti ai loro occhi. Se avete sognato di trapassare, sgozzare e trucidare, di imbrattarvi il volto col sangue dei vostri nemici. Se avete, semplicemente, considerato una o più cose esposte in una gigantesca quantità di romanzi e film e opere teatrali e videogiochi e fotografie a riprova che si tratta di cose che non solo esistono ma che avvengono con una frequenza allarmante nel mondo, nel migliore dei casi sotto forma di cronaca nera o nel peggiore sotto forma della più grande e avanzata sperimentazione in termini scientifici o logistici (vedi Hiroshima e vedi i campi di concentramento) allora tutto questo vi riguarda. Vedrete che vi riguarda.
  Da quella discussione con Giansebastiano frutto di evidenti
alterazioni psicofisiche in un pomeriggio di approvvigionamenti prima di una vacanza dell’orrore trascorsa nei dintorni
di Roxxxxtta Tanaro (Asti) è ormai passato molto tempo. Il
mio amico è morto in circostanze violente finora mai venute
alla luce (o, come sostiene la questura, è disperso in mare) e io credevo d’essermi avvantaggiato di qualche palmo nella mia scalata al successo letterario pubblicando racconti su alcune fra le più prestigiose riviste letterarie italiane, come «Liberi Libri» «Letteral/mente» «Uomini contro (la cattiva letteratura)» «Scrittura democratica» «Lettere militanti» e, naturalmente «Alfabetaupsilon» magistralmente diretta dal mio ex amico e confidente Dario Barabba. Grazie a lui ero a un passo dal siglare un contratto per un romanzo con una delle principali case editrici italiane. Quando, l’uscita di quel maledetto articolo, ha rovinato tutto.
Il 2013, in barba agli stramaledetti Maya, poteva essere il
mio anno d’oro, di certo l’anno migliore da quando (ecco la
prima rivelazione) godetti dei favori di una tredicenne in un
cascinale in provincia di Asti all’insaputa del mio amico Giansebastiano, che dio l’abbia in gloria.
O almeno così credevo.
Credevo anche d’essere finalmente in procinto di diventare
uno scrittore, di non avere più alcuna ragione per aggirarmi
come un ritornante in casa, nudo e senza alcuna intenzione di vestirmi, celandomi agli altri e tenendomi alla larga dalla frustrante realtà di uomini liberi e produttivi che vivono incasellati in master status ben definiti sotto la luce del sole.
E ora?
Non mi ricapiterà mai più di arrivare a Segrate con una
macchina scassata piena di bottiglie di Macallan e parcheggiare nel posto riservato all’amministratore delegato sentendomi dire che quel tocco da punk irriverente sarà perfetto per farci ricamare sopra i giornali. La gentilissima Giulia Mandarino, giovane mommyporn e dinamica caporedattrice non si complimenterà più al telefono per la mia «aurea di perversione» domandandomi se non mi fischiassero le orecchie per tutto il gran parlare di me. «Non vedo l’ora che ci incontriamo, così mi aggiorni sui tuoi progetti», mi diceva, «fissiamo subito dopo la raviolata con Massimo Manfredi. Tu lo conosci Massimo Manfredi, no?». «Stai rilassato» mi diceva Dario Barabba, «sentiti libero, tu, non ti preoccupare del libro, tu, cerca di divertirti, tu, cerca di scrivere quello che vuoi».
Mi sembra assurdo che adesso il telefono sia muto, che perfino il Corriere Portuense, l’unico lavoro stabile che abbia mai avuto, non mi commissioni più neanche un articolo sui carichi pendenti nelle banchine.
E tutto per colpa di un banco di stupidi tonni.
Ebbene. Quella che state leggendo è a tutti gli effetti una
confessione.
Sono stato a un passo dall’avercela fatta. Per mesi ho tormentato il bravo Dario Barabba per un contatto nel mondo del cinema. «ma se c’è crisi dovunque...» «ok, ho capito, c’è crisi, ma mica voglio un produttore che mi faccia girare un kolossal... »
«quindi...?»
«ma ci sarà pure qualche dialogo da mettere
a posto, qualche scena da riscrivere...».
E dopo mesi di rigorosi «niet niet niet» finalmente un «in effetti forse...»
«forse...?»
«...ci sarebbe un film iraniano, su un poeta curdo, lo devono
girare tra poco, con Monica Bellucci protagonista, glie mettono pure er burqa...»
Film iraniano? Poeta curdo?
«va bene, lo faccio!»
«Marcello, ma guarda che la Bellucci nun scopa neanche, è
un film impegnato...»
«non ha importanza. Lo faccio, lo faccio. Qualunque cosa».
«Va bene, va bene, va bene, dammi il tempo di organizzarti
un incontro a Rai cinema. E nel frattempo riposati, ok, non
startene sempre lì con l’aria ingrugnata, goditi la vita, fai una
passeggiata ogni tanto».
E io, invece di riposarmi che ho fatto? Mi sono messo a scrivere uno stupidissimo articolo di denuncia per «Alfabetaupsilon».
C’era tutto quel bisogno di scagliarmi con tanta violenza
contro il tonno pinne rosse? Dopo un’intera giornata negli uffici di un importante editore passata a incalzare, il buon Dario Barabba, il mio futuro editor dalla barba caprina, e a dissimulare il mio crescente interesse sessuale verso tutte le figure femminili del Palazzo (se aveste visto il reggicalze della Mandarino, capireste di cosa parlo) non avevo proprio nient’altro da fare che dedicarmi energicamente alla mia arringa contro la Rio Bravo? Come si fa ad appassionarsi tanto alla distinzione tra banchi di tonni?
Ora, alla luce di quello che leggerete io vi sembrerò un
mostro.
Ma in quella circostanza dovete immaginarmi mentre faccio
del mio meglio.
Animato dalle migliori intenzioni.
Sto pensando che forse farò un film. Iraniano. Su un poeta
curdo.
Non è stato facile convincere Barabba dopo tutti quei gin tonic al bar aziendale, sotto il sole cocente di agosto, gettando le cicche delle mie sigarette da uomo in pasto alle orrende carpe aziendali («oddio, non farlo, se ti vede qualcuno... a me mi licenziano e a te non ti proporranno mai un contratto...»). Ma ce l’ho fatta. «Intanto scrivo i dialoghi di un film con la Bellucci. E poi forse quel satireggiante imbonitore riuscirà a farmi diventare un best seller per adolescenti in cerca di modelli».
Questo era il mio spirito.
Ma era troppo bello per essere vero.
E mi sembra tutt’ora impossibile che sia andato tutto a monte per via dei tonni pinne rosse. Chi poteva immaginare che bastava scrivere che non esistevano, che era tutta una truffa, una montatura, per scatenare un simile putiferio? La Rio Bravo ha chiesto 20 milioni di risarcimento. Alfabetaupsilon rischia il fallimento per debiti. I prossimi numeri saranno commissariati. Alle altre riviste del Gruppo toccherà fare pubblicità gratis al tonno Rio Bravo per i prossimi dieci anni.
E a me non mi vuole più nessuno. Nessun giornale. Nessuna rivista.
Il film iraniano? Saltato.
Il possibile contratto per un romanzo? dimenticatelo.
Il buon Barabba voleva un racconto sull’Apocalisse? «Nemmeno se fosse davvero la fine del mondo».
Chi mi ha conosciuto un po’, sa che ci ho provato. Dio sa che ci ho provato. Ma non posso cambiare. Dio sa che non posso cambiare.
Questa fine del 2012 per me coincide davvero con l’Apocalisse.
Portata dai tonni e non dai Maya. Ma la vera fine del
mondo per me è cominciata quando ho valicato ogni segno,
qualche anno fa, prima di passare questi a sperare di non essere scoperto e a scrivere per non impazzire dall’ansia.
«Dario, ti giuro, il tonno pinne rosse non esiste!»
«mi avevi detto di esserne certo!»
«ne sono certo»
«ma non hai le prove! Non hai uno straccio di prova!»
«però io ne sono convinto»
Se solo avessi avuto le prove potevo diventare il santo patrono dei consumatori.
Ma ormai non me lo lasceranno più scrivere da nessuna parte. Ormai non mi lasceranno più scrivere niente da nessuna parte.
E a me non resta che confessare anche il resto e diventare
Nessuno.
È molto meglio essere Nessuno che essere tutti.
Spedito il file a Barabba perché ne faccia quel che vuole,
sparirò, dopo un breve pellegrinaggio sulla tomba di Dolly
Schiller nell’ombreggiato cimitero di Gray Star, alla volta di
una landa desolata, spazzata da indicibili e gelidi venti, meglio conosciuta come l’Alaska.
  Diciamocelo un po’ chiaramente: a guardar bene, anche i pacchetti delle Marlboro, sono un segno della crisi imminente.
Non che ci sia da preoccuparsene.
Una volta erano un emblema di virilità.
Guardateli adesso.
Sbrilluccicano.
Ma non c’è davvero di che preoccuparsi: ogni società morente ne partorisce un’altra più corrispondente a quelle che potremmo racchiudere nel macro insieme delle «umane esigenze».
Ecco perché, ogni volta che alzo un bicchiere, brindo alla
Terza.
Che arrivi in fretta.
Immaginate, come uno schianto, in limine, il fragore della
guerra.
Tutte le nostre paure che riecheggiano in cerchi concentrici
attraverso i secoli, per un milione di anni.
Immaginate di fermarvi davanti a una stazione. Immaginate
l’andirivieni dei treni. Immaginate di guardare dentro, i
pendolari, le scolaresche che aspettano, e sapere che non riusciranno a scappare o che non sarà una sbornia che li tirerà fuori di lì, o che non sarà un biglietto per un posto lontano a liberarli da tutto quel frastuono. Che non sarà la morte, nella sua parvenza di decoro, in un letto madido d’affetti, a trascinarli via.
Immaginate che tutto resti, come sospeso. In lontananza, il
vociare acuto d’un bambinetto coi calzoni corti. Il rotolare di
una palla lungo il pendio di una collina. L’agghiacciante divisione atomica di tutto ciò che esiste. Ogni filo d’erba che la compone, il corpo lucido di una lucertola sul punto d’acchiappare un moscone. Ogni agave spaccante le pietre d’una mattonata sul mare, ogni gramigna che cresce al lato dell’asfalto.
E poi d’un tratto, quel fragore, lancinante e meraviglioso,
della guerra, che si espande, nello spazio e nel tempo, in
ogni istante e in ogni luogo, in questo infinito morire.
  Avanziamo a passo d’uomo verso l’ingresso dell’autostrada.
Sono in macchina con Giansebastiano Redà, un vecchio
amico che ama le mezze misure. Per quanto si sforzi di sembrare eccessivo, di misurare il suo ego in galloni di sangue e litri di birra, Giansebastiano è uno fra i migliori moderati che possiate osservare in azione su questa fottutissima Penisola.
Non vi sembra di poterlo vedere mentre inveisce contro una
macchina che l’ha superato?
Eccolo tentare di superarla a sua volta, non riuscirci, e rientrare imprecando nella sua corsia.
Non vi sembra di averlo di fronte, intento a canticchiare con
aria svagata e poi, come colto sul fatto, girarsi riversando uno sguardo truce al posacenere, raccattare un mozzicone e mettersi a fumare con avidità una di quelle sue stramaledette sigarette da frocio?
Da parte mia fisso il suo pacchetto di Marlboro gold touch,
mi trattengo per non infierire sulla sua fresca e immeritata patente di guida e mi sforzo di non guardare il paesaggio, per nulla attraente, nell’inarrestabile galoppare della disantropia.
Io odio il Piemonte.
Dico sul serio.
E odio ancora di più i piemontesi e lo sporco contadino che
nascondono dietro quella loro sempiterna aria sabauda. Come se qualcosa della fierezza francese, qualcosa che riguarda le guerre e le rivoluzioni, riguardasse in qualche modo anche loro.
Come se ribollisse nel loro sangue, come se riecheggiasse
nel loro passato, uno stigma – l’ampolloso nome di Cavour – a garantirne una superiorità quasi regale.
Baby don’t fear the reaper si fa strada nei foschi meandri dei
miei pensieri, sconcatenandoli, convincendomi che in un
mondo più aderente alle mie umane esigenze non mi troverei a varcare il confine di questa fottutissima Regione ma starei viaggiando a 180 km/h verso il Messico su una Chevrolet Malibu del ‘64 in compagnia di una giovane punk dalle umide mutandine di pizzo e gli anfibi imbrattati di fango.
Senza temere il mietitore.
Stiamo andando in un posto sperduto nei pressi di Asti.
Non c’è bisogno che sappiate di preciso di quale buco di culo si tratti. Vi basti sapere che quel buco di culo non è diverso da un milione almeno di altri buchi di culo in cui sarete stati o andrete a svernare con l’arrivo della prima pallida primavera. Dovete immaginarvi i campi e il fieno e il
letame che sentono l’esigenza insopprimibile di gridare il
loro inno alla vita in tutte le sinestesie umanamente comprensibili.
Non è affatto necessario infarcire il racconto di dettagli e riferimenti che potrebbero risultare in qualche modo compromettenti per le altre persone che in questa storia sono state coinvolte. Meglio conservare questo velo di pudore, mischiare qua e là le carte e celare qualche nome.
Ad ogni modo mi trovo in questa macchina del cazzo perché
mi sono incautamente lasciato convincere da Giansebastiano (nome di fantasia) ad abbandonare per qualche giorno il Risiko on line, al quale sono dedito da parecchi mesi, per andare a godere di quelle che mi vengono presentate come, testuali parole: «le vere gioie della campagna».
Di cosa si tratti, davvero, non saprei dire ma, per come la
vedo io, le gioie, in campagna o sul litorale, hanno sempre
avuto le sembianze di un qualche locale un po’ a la page,
qualche giovane curiosa di scoprire i miei giochini preferiti,
una bottiglia di qualcosa da buttar giù, delle lenzuola pulite
che non temano d’essere insozzate, la possibilità di ritirarsi alla chetichella se le cose si mettono male. Un bar con una buona riserva di whisky nelle vicinanze non guasta. Un po’di cocaina è ovviamente indispensabile.
In ogni caso la mia bucolica gita si preannuncia tutt’altro che all’insegna dello sballo: appena arrivati aiuto Giansebastiano a scaricare la macchina in quello che mi sembra a tutti gli effetti il regno incantato degli insetti.
Se c’è una cosa in vita mia che no ho mai potuto soffrire sono gli insetti. Tutte quelle cose striscianti e brulicanti che svolazzano e si perdono in sibili e ronzii mi danno il voltastomaco.
E la sensazione che provo, appena sceso dalla macchina, è
quella di trovarmi circondato da quelle bestiacce con le loro
elitre ronzanti, semidisperso in un diasporico nulla in cui nulla di buono è possibile e tantomeno acquistabile.
Il bagagliaio è comunque ben fornito: abbiamo con noi diverse bottiglie di champagne, delle bottiglie di Galliano, stampini per fare il ghiaccio, due casse di ananas, ciliegine, lime, un gigantesco orso di peluche raccolto lungo la strada, un portatile rigorosamente Microsoft (io li odio quei fottuti froci col Mac), sigarette da uomini, tabacco da fiuto, e il mio necessaire, con tutto quello che occorre per alleviare il fastidio degli insetti, del fango e, più in generale, di questo senso di sciatteria che mi avvolge da tutto il viaggio, il quale si ostina a non decollare in qualcosa di definito, sia esso orripilante o meraviglioso, e che con ostinazione si limita a mantenersi incerto.
Tra le altre cose abbiamo con noi un ritratto da ultimare, uno dei lavori di Giansebastiano, a cui piace definirsi un artista incompreso.
La realtà è che è incompreso per una buona ragione. Anche
se ci prova, non andrà mai oltre la qualifica di pittore dilettante, uno di quei bei tipi che appendono in tutta la casa i propri pretenziosi scarabocchi credendoli capolavori e che impongono agli amici più stretti lo stesso supplizio regalando loro, per natali e compleanni, tele e manufatti di dimensioni decisamente superiori alla normale tollerabilità.
Il nostro pittore dilettante, aveva tanto insistito per ritrarmi in quella che a lui sembrava una geniale rielaborazione della
mia figura (una specie di ritratto in cui sembro Heath Ledger
nel Cavaliere oscuro di Nolan mentre affronto, raffigurato come un’ombra, un misterioso tutore dell’ordine) che non avevo potuto sottrarmi dal posare per ore davanti al suo sguardo assurdamente analitico, nudo, e per giunta tutt’altro che ubriaco, semidisteso su un divano.
E ora si replica in un altro ambiente, perché il nostro pittore
deve sentire l’ispirazione.
Io sento solo che mi si geleranno le palle.
Dopo aver scaricato, torniamo in macchina perché Giansebastiano insiste per mostrarmi quell’infinità di inutili luoghi d’infanzia che risultano importanti solo per chi li ha vissuti e che immancabilmente annoiano a morte chi è costretto a subirne gli aneddoti retrospettivi con tanto di sguardi fuori campo mentre elenca metodicamente i dettagli, con lo sguardo «trasognato» ad indicare un malessere causato dalla nostalgia.
Così non mi resta che vagare per quelle langhe desolate, passando di frazione in frazione in una spirale di noia e finta
cordialità che mi asciuga la bocca da fare schifo.
In uno di questi assembramenti sbagliati di casupole in rovina, mentre subisco la ricostruzione di una battaglia di soldatini particolarmente avvincente, combattuta da queste parti 10 o 12 anni fa, passiamo davanti a una villetta bianca, ristrutturata da poco, dentro la quale albeggia, fra i grossolani fiori da giardino di un rosso stinto dal sole, una giovinetta in bikini nero coi capelli tinti di autentico biondo.
Interrompo di scatto la sequela di precisazioni di Redà per
segnalargli la visione sulla sua destra, mentre lui si concentra visibilmente per ascoltarmi ed evitare contemporaneamente uno dei fossi sulla sua sinistra.
Arrivati sulla sommità della collina, con qualche faticosa manovra, riusciamo a ridiscendere verso la casa bianca per
scoprire se Giansebastiano la conosce e se è possibile invitarla a trascorrere la serata con noi, magari in compagnia di qualche sua amica ansiosa di venire a contatto con quelle che ritengo essere, «le vere gioie della città».
Scendendo, nel giardino non c’è più nessuno, solo una luce
segnala la presenza di esseri umani in quella casa, una delle poche abitate di questa stagione in questi paesini del basso Piemonte dimenticati da Dio.
Giansebastiano non ricorda di nessuna ragazza che abitasse lì.
Potrebbe essere qualche famiglia nuova, una di quelle che
ogni tanto compare in questi luoghi conservatori e che segna l’inevitabile cambio della guardia fra le generazioni di impiegati e le loro scomode seconde case a misura d’infanzia sicura.
Così questo miraggio da cartolina si sfarina come le ali di una falena fra le mani e a me non resta che mettermi comodo, allungare i piedi fin sul cruscotto della Citroën scassata messaci generosamente a disposizione dal nonno di Giansebastiano, patriarca dei prolificissimi Redà, e godermi gli elenchi di ricordi cercando di non perdermi a contare i ronzii e gli attentati suicidi dei mosconi che si riversano senza sosta contro il parabrezza di questa merda di macchina.
Tornati, ceniamo. Fra una mano di poker e un Barracuda, servito direttamente dentro gli ananas decapitati, l’inquietudine non mi abbandona neanche un attimo costringendomi ad appartarmi nel bagno per prendere qualche goccia di valium e buttar giù una pastiglia.
Dopo essermi sciacquato la faccia torno da Giansebastiano e suggerisco una passeggiata fuori, fra le «gioie della campagna», in questa notte di giugno a ridosso di un temporale, particolarmente fresca e profumata, tanto che non mi dispiacerebbe se un coltello ben affilato mi penetrasse nel costato e mi desse una bella strizzata d’occhi, qualcosa tipo, «live fast die young».
Giansebastiano è stanco, vorrebbe restare a casa, finire la
mano e andare a dormire che l’indomani deve studiare per un esame.
Tipico.
«Ok, andrò io, sarò di ritorno fra una mezz’ora, un’ora al massimo, il tempo di prendere una boccata d’aria a fumare una sigaretta».
Il tempo di stancarmi un po’.
Mentre esco dalla porta della casa principale, parte di quello
che Giansebastiano finge essere un palazzo rinascimentale
e che altro non è se non un agglomerato maltagliato di cubi,
vedo le chiavi della Citroën sul tavolino dell’ingresso.
Perché no?
Guidare di notte mette allegria.
Non fosse che queste strade sono tortuose, infide e tortuose, e che i lampioni sono pochi, le case grigie e rade, e i paesini, un agglomerato dopo l’altro, si susseguono quasi identici, come presepi nel cuore di una tempesta di sabbia.
I lampi degli abbaglianti si stagliano contro cartelli stradali arrugginiti, enumerando nomi di posti impossibili da ricordare, frazioni impronunciabili nel su e giù sobbalzante della notte.
Mentre risalgo, sforzando troppo il motore di questa carretta, su per la salita che porta alla sommità di un’ennesima collina dove si stende un grosso campo di grano, mi trovo sulla destra la casa bianca che nella notte rosata sembra una chiazza chiara dai contorni tremolanti.
La luce di una camera al secondo piano è accesa e viene fuori come l’invito di un bordello d’altri tempi dalle tende rosse di raso.
Accosto.
È il posto ideale per fare due passi.
Scendo sbuffando fumo dal naso, neanche fossero le nari
fiammeggianti di un drago.
Mi avvicino.
Dallo stancil di un orsetto appiccicato al vetro prendo coraggio e vigore.
Quella non sembra la stanza di una coppia sposata. Ha tutta l’aria di essere invece la stanza della loro figlia adolescente in bilico fra la curiosità per le cose del mondo e il suo immaginario di fate e principesse danzanti.
Se c’è una cosa che so fare bene è sbilanciare chi sta per cadere.
Se c’è una cosa che mi piace, a questo mondo, è passare il segno, indicare i differenti sentieri che la vita può porre di fronte e stare a vedere che cosa succede.
Come da copione lancio un sassolino contro la finestra.
Aspetto.
Ne lancio un altro.
Vedo una tenda scostarsi.
Un terzo.
Dopo pochi secondi la finestra si apre e si affaccia quella che sembra essere proprio una bambina troppo cresciuta.
Dalla fantasia del pigiama emergono due seni a punta ben distanziati l’uno dall’altro, al di sopra del collo una folta chioma di capelli biondi con le radici scure e una faccia più incuriosita che preoccupata.
Ciao, le sussurro. Ti disturbo?
No, dice lei. Chi sei?
Niente, sono uno di fuori, sono qua con un mio amico che ha la casa non so quasi più dove più in giù.
Pausa.
Non riuscivo a dormire e ho fatto due passi, le dico. Oggi mi
sembrava di averti vista mentre passavamo in macchina e mi sembravi carina, e Giansebastiano dorme e io mi annoiavo così ho pensato di venire a fare conoscenza.
Ah. Tutto qui, la sua risposta. Ah.
Cosa vuol dire «ah»?
Beh, non so, è che, boh.
Boh?!? Io sono come un fottuto Romeo sotto la tua finestra
e tutto quello che hai da dire è «boh»?
Ride.
Potresti buttarmi giù la treccia, così salgo.
Ride di nuovo. Non ce l’ho la treccia io.
Allora una scala, le suggerisco.
No, aspetta.
Mmmm?
Aspetta un attimo.
Scompare dietro quel sipario da avanspettacolo lasciando ondeggiare i lembi delle tende alle sue spalle.
Ritorna dopo meno di un minuto.
I miei dormono. Scendo un attimo. Mi metto qualcosa addosso e arrivo.
Non toglierti il pigiama, le suggerisco. Sono molto curioso
dei pigiami io.
Ride di nuovo e riscompare fra un grande svolazzare di tende.
Dopo un paio di minuti scende. Negli occhi un tizzone di
matita, un po’ di ombretto troppo calcato. Sulle labbra deve
essere del lucidalabbra quella cosa che sfarfalla e riflette i raggi della luna tutto intorno.
D’istinto allungo una mano verso la sua palpebra. Ci passo
sopra un dito, a metà fra una carezza e quella pesantezza della mano che hanno le mamme nel togliere lo sporco sul muso dei loro ragazzi.
Riportando la mano verso di me scruto l’indice e il medio
imbrattati d’azzurro.
Lei è stupita, mi guarda con gli occhioni spalancati. Ora ha
una piacevole asimmetria di colore e sembra più fresca e accattivante di come mi era apparsa, grossolana e seminuda, nel tardo pomeriggio.
Non dovresti truccarti così tanto alla tua età. Sai?
Ma, io.
Comunque, dato che te lo sei messo per fare bella figura con me, dovrei essere lusingato.
Veramente non mi ero ancora struccata prima di andare a
dormire e… Sai che sei bellissima?
???
Dico sul serio. Quanti anni hai?
Io, ne ho, 16.
Sei davvero carinissima.
So che te lo diranno in molti, ma, sei proprio carina. Alla tua
età le ragazze attraversano quel ponte che stacca l’infanzia
dall’adolescenza e che le porta più in là, non so come dire, non so se capisci.
Non sono mica una bambina.
Ah si? È per questo che hai un pigiama con gli orsacchiotti?
Rimane in silenzio, imbarazzata.
Ti va di fare due passi?
La ragazzina mi guarda.
Potresti mostrarmi qualcuna delle «gioie della campagna».
Di nuovo, sorride.
Ci avviamo lungo la strada principale, camminando per
una cinquantina di metri al buio prima di raggiungere la luce
della casa successiva, verso la collina.
Sulla sinistra un embrione di discarica abusiva, sulla destra
i campi di grano che fluttuano come alghe, illuminati solo dalla luna.
Non parliamo. Nei suoi occhi, che di taglio scrutano i miei
per virare bruscamente se ricambiati, si scorge una sorta di
speranza, un brivido, uno di quei momenti rari e fantastici in
cui una donna dice tacitamente a un uomo che è a sua completa disposizione.
Non sono tanti quanto si crede.
Spesso una donna si concede per rassicurazione. A volte per vizio. Altre per solitudine, calore. Lei, questa ragazzina in trasformazione, mi si concederà per curiosità, per dimostrare a se stessa che la trasformazione è avvenuta, che può essere o potrebbe essere una di quelle ragazze che si vedono in televisione.
Mi si concederà perché non ha mai sentito uno sguardo così
pesante e attento e giudicante su di lei, abituata alla lascivia
dei suoi coetanei, frettolosi, timorosi, avidi.
Non è esatto però ritenermi un grande amatore.
Tutt’altro.
Per quanto sia sempre stato in grado di riconoscere le qualità che si necessitano a un grande amatore (sostanzialmente una profondità di sguardo che lasci trapelare il desiderio senza trasformarsi in supplica) e per quanto io stesso, in certe rarissime occasioni, sia stato in grado di intrappolare una giovane fra le mie braccia trasmettendole un calore che non provavo, difetto il più delle volte di una spregiudicata sincerità, di una sfida gaudente che respinge la maggior parte delle ragazze, vuoi per stupidità, vuoi per superbia.
Ma con quelle come lei. In queste circostanze. Non ho un attimo di esitazione. Nessun dubbio circa come evolveranno le cose.
Farà l’amore con me. È solo questione di quando.
E come.
In questi momenti mi tornano alla mente le mie letture di
adolescente: le pagine sulla seduzione di Ovidio, quelle voluttuose di Wilde, quelle morbose e dogmatiche di Kierkegaard.
E il gioco come non potrebbe non attrarmi? In fondo che ho fatto fino ad ora nella mia vita?
La storia della mia vita è, in qualche modo, la storia di un suicidio sociale, di come sia riuscito ad impiegare le mie (presunte) enormi potenzialità per un suicidio più o meno cosciente.
E non si tratta solo delle droghe o dell’alcool.
Quelle sono solo pose che si trasformano poi in dipendenze, per quanto eleganti e coscienti, legate a una necessità che è, in vero, il massimo di schiavitù.
E neanche si tratta di quella che grossolanamente qualcuno
potrebbe definire tendenza all’autosabotaggio. Inseguire le cose
che non si possono avere, essere attratti da chi ci tratta male.
Bella scoperta. Gli affamati d’assoluto ne colgono l’aspetto
relativo e si abbassano i pantaloni, si piegano alla necessità di campare.
Dopo una estenuante conversazione sulle tempeste solari,
sulle probabilità che fra qualche anno, sul finire del 2012, quegli imbecilli seminudi vedano soddisfatte le loro superstizioni grazie all’aumento dell’attività solare, finiamo come sempre a discutere di me e del mio caratteraccio. Io voglio un futuro, voglio diventare famoso, voglio arricchirmi.
Ma io, come Giansebastiano ha avuto modo di ripetermi durante il lentissimo viaggio in macchina fino a questo postaccio, non sono e non sarò mai un uomo integrabile.
Vale la pena citare quel bifolco moderato con cui mi accompagno: nelle gradazioni delle mie parole, «rabbia e sdegno traspaiono incessantemente» e sono «pericolosamente serio»
durante le mie follie. Pericolosamente coerente nel mostrarmi «gentile e spietato, trattenuto e fuori di testa» col mondo che mi circonda.
Un quadro niente male, non c’è che dire.
Oggi Giansebastiano, mentre ripeteva senza sosta che «non ci sono prove scientifiche sulla fine del mondo» ha dato anche la terza migliore definizione della mia persona che mi sia capitato di sentire finora.
La prima classificata è «ladro di zen»: un coinquilino che aveva dovuto saldare al posto mio gli affitti arretrati per non
essere buttato in mezzo alla strada come il sottoscritto.
La seconda: «Re Mida della merda». Altisonante forse, ma accompagnata da un risentimento cieco da parte di una ragazza di cui ero stato il primo amante, che dopo anni di pompini a richiesta ha scoperto che avevo una storia con la sua migliore amica e coinquilina.
La terza, quella di Giansebastiano appunto, è se possibile
più pop, dettata da una speranza che io possa cambiare che è senza possibilità, ed è forse la più dolorosa perché in qualche modo la più vera: «Dr. House respinto al test di medicina».
Potenza che non si traduce in atto.
Mentre cammino in silenzio, con questa ragazzina sconosciuta a fianco, a pochi metri dai detriti vicino al pendio, mi rendo conto di essere turbato per quello che è il disegno del mio futuro che oggi Giansebastiano ha tracciato. Lungi dall’essere radicale ma vincente come il Joker, Giansebastiano mi diagnostica un futuro di solitudine, costellato da frustrazioni in cui l’ammasso di idiosincrasie che oggi mi rendono un «non ancora trentenne eccentrico» saranno il colpo di piccone che mi condannerà a «una vecchiaia invivibile».
Così va il mondo.
Ma nel frattempo, tutto quel che posso fare, mentre la guar-
do, questa ragazzina, è pensare a dove strofinerò il mio pene: fra le sue labbra, sui capezzoli tumorali, lungo la serica peluria delle gambe, sotto le ascelle?
Hey, fermati un attimo, le dico.
Si ferma. Mi ubbidisce, e la cosa un po’ mi eccita e un po’ mi disgusta.
Tu vuoi baciarmi vero?
???
Sei ansiosa, hai paura, vuoi baciarmi ma non sai se sarai in
grado.
Io, cosa te lo fa pensare?
Vuoi baciarmi si o no?
…Sì.
E così, sul ciglio della strada, senza nessun ambiente ricreato apposta, senza nessuna costruzione di atmosfera, appoggio le mia bocca alla sua e la assaggio. Mi passo la lingua sulle labbra facendola schioccare compiaciuto e vado più a fondo, verso la sua lingua che si divincola troppo in fretta picchiandomi sulle zanne.
Mi stacco.
Le sorrido.
Contenta? Le chiedo.
Guarda in basso.
Non può trattarsi certo del suo primo bacio.
Ma la cerimonia del primo bacio, la costruzione intorno all’intimità di un castello fatto di riti e sacralità è ancora presente in questa ragazzina.
Si vede benissimo che si immagina accoccolata ad ascoltare il mare.
A strapparmi da queste romanticherie senza senso fu proprio una ragazzina, poco più grande di me all’epoca, una tipica adolescente genovese che è riuscita a convincere il padre a regalarle il motorino, e ora è libera di sfrecciare nel traffico ostentando un casco rosa con tanto di orecchie pelose incollate sulla sommità.
Essendo io senza mezzi di trasporto autonomi, ed essendo
lei impedita legalmente a trasportarmi sul suo cinquantino, stazionavamo alla fermata dell’autobus vicino al porto, un pomeriggio, in attesa di tornare a casa. Questa ballerina, che ricordo bellissima grazie all’azione restauratrice della memoria, di punto in bianco, stanca dei mie tentennamenti, mi bacia in mezzo al traffico. Allo smog. Al vociare.
Io la guardo e le chiedo, Ma, qui?
E lei, Perché? Sei ancora convinto che ci siano posti romantici e posti che no? Un cesso di un McDonald’s o il sedile di un treno possono essere altrettanto romantici e forse anche più eccitanti che una spiaggia al tramonto.
Bingo.
La sfacciataggine di quella ballerina spigliata, all’epoca fidanzata con un naziskin che mi faceva paura e che andava all’Itis, mi si è conficcata nella memoria con un’esattezza indimenticabile.
La serietà del profeta unita alla leggerezza di una bocca perfetta e di piccoli denti piacevolmente irregolari al suo interno.
Da allora, posso dirlo senza vergogna, molto di quel che ho
fatto, con le ragazze, l’ho fatto sotto una sorta di imperativo
morale che mi imponeva di sconfessare la sacralità della cosa.
E ad ogni bacio, compreso questo bacio, con questa ragazzina di campagna, basta affidarsi al sassolino che è penetrato attraverso il caucciù delle mie Clarks bucate, al rivolo della sua bava che mi cola dal labbro inferiore, allo spicchio pallido di luna che si staglia attraverso la coda dell’occhio, il grano, i detriti: perfetto.
La scorto, senza fiatare, verso il centro del campo. Circospetto, la guido tenendola per mano fra le spighe, e lì, infastidito dal frinire dei grilli, disgustato dall’impatto che una lucciola produce contro la mia spalla sinistra, le tiro giù in un
unico movimento i pantaloni del pigiama e le scosto le mutandine con le dita. Dopo averla superficialmente accarezzata, al secondo o terzo gemito che manda dallo stomaco, mi chino per annusarla e, con una secca, unica passata della lingua, con la quale cerco di portare al mio mulino più saliva possibile, risalgo dalle cosce lungo il mistico taglio, fino ad arrivare al pertugio tondo instrettito da un brivido.
Mi rimetto in piedi con un grugnito e, senza troppi preamboli, il membro in pungo, prendo a strofinarglielo contro quella lumaca bagnata che si schiude sempre di più ad ogni passaggio.
Quindi premo e mi allontano.
Una volta.
Due volte.
Tre.
Entrare è fantastico.
Senza mezze misure.
Non ci sono altri aggettivi da usare in un caso come questo.
Il formicolio che quella passerina, circondata da una lucente
e corta peluria volpina, produce sulla punta del mio cazzo, è una sensazione fantastica. Fantastica. Per tutto il portato che ne viene insieme. Per tutta l’affermazione di sé che da il portarsi a letto, se così si può dire, una ragazzina sconosciuta presa senza alcuno sforzo.
Forse è vergine.
Confesso che questo pensiero, tutt’altro che banale, mi attraversa la mente mentre me la sto prendendo.
Ma l’andirivieni dentro di lei non ne risente affatto. Probabilmente qualche bruto con le sue tozze dita da contadino dita ha già portato a termine la parte dolorosa del lavoro. O forse un amplesso concluso a metà. O magari uno stuolo di ragazzotti che non posso neanche lontanamente immaginare nei recessi della mia mente, benché avvezza alle cose della vita, cristallizzata com’è al moralismo cattolico e conservatore che in qualche modo mi si è inculcato durante gli anni dalle Franzoniane.
In ogni caso entro e esco con facilità e, ad un certo punto, la
sento cedere sotto le mie spinte, le sue caviglie, circondate dai pantaloni lunghi del pigiama, si flettono in avanti e io mi lascio cadere, sovrastandola, trascinandola a terra, supina, accoppiandomi come un coniglio, frettolosamente, senza lasciarmi troppo trasportare, solo preso dal cambio di ritmo e distratto dal freddo della terra sotto i miei pugni, dal ronzio
vero o presunto degli insetti e dal tormento del pensiero che
qualcuna di quelle bestie striscianti si arrampichi dal basso e risalga appigliandosi ai miei vestiti fin lungo la schiena.
A un certo punto mi sembra di vederla venire.
O, a posteriori, quello che scambio per un orgasmo è solo una liberazione gutturale del senso di ansia che la opprime.
Pochi secondi dopo sono in piedi, il cazzo puntato contro la
sua bocca, la mano destra che stantuffa ritmicamente.
Voglio venire.
Mentre glielo spingo fra le labbra senza incontrare troppa
resistenza, sperando che il gravare dei denti non mi sia troppo d’intralcio e sperando che si decida ad usare con maggior lena la lingua mi accorgo che non manca poi molto.
Mi ritraggo e accelero concludendo con un getto che, come
nella migliore tradizione dei porno, le finisce solo parzialmente sulle labbra e per il resto le si spande per tutto il viso ricoprendole la guancia destra e parte del naso.
Dopo una paio di secondi faccio un passo indietro per guardarla meglio, sporcata dal mio sesso, alla luce della luna. Se fossi un autentico romantico, se coltivassi in maniera più primitiva il mito dell’oltreuomo potrei forse dire che mi sento potentissimo.
Invincibile.
Immortale.
In realtà, è più un senso di vuoto quello che mi prende.
Così, di soppiatto.
Un torpore istantaneo che mi fa desiderare un letto, lenzuola pulite e un cuscino fra le gambe, da stringere e su cui abbandonarmi.
In un certo senso mi risveglia quello che dapprima mi sembra
una sottospecie di sibilo. La guardo. Ansima. Sembra una crisi d’asma, che monta pian piano seguita da un pianto isterico.
È sconcertata, sconvolta.
Singhiozza, e alza il tono dei singhiozzi ad ogni sussulto, un
sorso d’aria dietro l’altro, sempre più rarefatto.
Mi chino su di lei per abbracciarla. Si aggrappa alla mia camicia come se artigliasse un arbusto su una parete calva, appena in tempo prima di precipitare. Avvicina la guancia alla mia. Sento il freddo lucore del mio sperma spandersi, come uno sfregare di mani fra le nostre guance, insinuarsi fra il corto ispido della mia barba.
Trattengo il disgusto e le massaggio la schiena con una mano, passandola circolarmente al centro come si fa per lasciar digerire i bambini.
Non si placa, continua a singhiozzare.
Così tiro fuori la boccetta di valium dalla tasca, la svito e gliene verso qualche goccia direttamente in bocca, Ti farà bene, le dico.
Deglutisce a fatica.
Deglutisce più volte prima di rallentare il respiro, di vibrare di meno fra le mie braccia mentre continuo ad accarezzarla, circolarmente.
Non mi sconvolgono le manifestazioni isteriche.
Niente di più comune, se parliamo di come reagiscono normalmente le donne.
Sono manifestazioni di impotenza, la frustrazione di un desiderio che si traduce in una reazione convulsa e incontrollata.
Freud ci ha fondato tutta la sua carriera.
Non posso dire che mi sconvolgano.
Certo mi irritano, talvolta mi annoiano.
Nella maggior parte mi disgustano.
Soprattutto i pianti.
Ma è bello quando, anche senza empatizzare con quel dolore superficiale, tenendo a mente che «una donna che piange è una donna che trama», non me ne distanzio, e mi sforzo di sopportare il disprezzo per quella fuoriuscita insignificante di emozioni e mi trastullo nel ruolo di compassionevole consolatore.
Dopo qualche minuto riesco a farla alzare, l’aiuto a ricomporsi e sostenendola riscendiamo lungo la strada, la discarica sulla destra, il campo di grano, a specchio, sulla sinistra.
Ci fermiamo per qualche istante di fronte a casa sua. Tentenna.
Poi ricomincia a piangere. Quindi la faccio salire in macchina e la porto a fare un giro sperando di distrarla.
Dopo un quarto d’ora mi fermo di nuovo davanti a casa sua.
Tiro il freno a mano.
La guardo.
Scoppia a piangere di nuovo.
Avrei voglia di darle uno schiaffo.
Riavvio il motore.
Proseguiamo verso casa di Giansebastiano in un finto silenzio rotto soltanto da qualche sporadico singhiozzo, accompagnato a tratti da un mugolio sommesso che lo rende ancora più intenso e che scompagina il sottofondo di creature brulicanti e intermittenti che popolano il terreno e i campi circostanti.
Arrivati non sono certo di che ore siano.
Le dico di aspettare giù.
Salgo la ripida sala in pietra della casa principale, che conduce alla camera dove ci siamo sistemati io e Giansebastiano.
Dorme profondamente.
Cerco con cautela le chiavi dell’altra ala della casa, una specie di monolocale dove Giansebastiano stava sul finire dell’adolescenza quando anche i suoi erano in paese e che adesso è una specie di magazzino.
Riscendo più in fretta possibile, la trovo che guarda per terra, una chiazza scura fra l’erba, probabilmente un formicaio.
Apro la porta del monolocale dove sono ammonticchiate varie cianfrusaglie fra cui quel residuato bellico di orso di peluche e il mio ritratto incompiuto, come fosse lo studio di un artista contemporaneo, circondato da scatolame, vecchi cappelli, animali impagliati alle pareti, i resti di una console Nintendo.
La faccio sdraiare sul divano.
Si accoccola sulle mie ginocchia, sdraiata come un gatto, le
gambe raccolte.
Resto con lei fino a che non si addormenta.
Mi districo dal suo abbraccio con cautela.
Chiudo piano la porta uscendo, per non svegliarla.
Arrivo in camera, mi svesto in silenzio, punto la sveglia abbastanza presto e mi addormento in fretta, aiutato da qualche goccia di valium che mi trasporta in un sonno senza sogni per cui non finirò mai di ringraziare le scoperte dell’industria farmacologica.
Il suono della sveglia mi trapana in qualche modo dolcemente il cervello. Osservo per pochi istanti il cellulare strisciare verso il vuoto in cui termina il comodino. Lo afferrò in tempo. Premo «allarme ripetuto» e mi stendo altri 5 minuti.
Poi ancora 5.
Ancora 5.
Quando mi alzo Giansebastiano dorme ancora: la faccia rivolta verso il basso sul cuscino, il respiro sereno del sonno
mattutino, illuminato da un raggio di sole a perpendicolo su
parte del viso.
Avrei voglia di aprirgli la faccia con un coltello.
Mi rivesto con calma e dopo aver preparato una tazza molto
dolce di Nescafé, butto giù una pastiglia giusto per precauzione.
Prendo le chiavi e scendo al piano di sotto.
Apro la porta e trovo la ragazzina già sveglia, seduta piegata in due sul divano, immobile.
Sembra avere male alla pancia.
Hey, buongiorno, dico io.
Mi guarda di sfuggita.
Come stai? le chiedo.
Io, che ore sono? Dovrei essere a casa, i miei, i miei si saranno accorti che non ci sono, mio padre, sarà incazzato nero, io, io, mio padre mi ammazza, che cazzo gli dico, cosa gli dico… Calmati, dai, non è successo niente.
Mio padre mi ammazza, sarà incazzato nero, che cosa gli
racconto, io Ok, ora ascoltami, calmati ok? Calmati. Gli dici che eri da un’amica...
Prende invece ad agitarsi sempre di più. Ansima. Mi guarda
di sfuggita e inizia a piangere.
Calmati, le dico. Su, calmati.
Non si calma.
Ma che cosa gli dico? Che cosa gli dico? Mio padre mi ammazza, sarà incazzato come una belva, io che cosa gli dico, perché sono uscita? Che cazzo gli dico?
Sta iniziando a urlare.
Calmati, le dico io. Tiro fuori la boccetta e metto parecchie
gocce nel mio caffè che non ho quasi toccato.
Bevi, su, ti farà bene.
Che cosa ci hai messo?
Niente, qualche goccia che ti farà bene. Bevi, su.
Beve.
Adesso calmati ok? Calmati. Non è successo nulla. Ora vai
a casa e ti calmi.
A casa? Mio padre sarà incazzato come una bestia. Io non so che cazzo dirgli. Quello mi ammazza. Io non so che cazzo dirgli.
Riprende a urlare.
Tiro fuori una pillola, un barbiturico che uso per dormire
quando le ansie e i rancori mi tormentano e sono troppo stanco per fare qualsiasi cosa che non sia piegarmi alle preoccupazioni e restare, gli occhi spalancati, nel letto.
Prendi questa. Calmati, ti farà bene.
Come faccio a calmarmi? Mio padre mi ammazza, hai capito?
io non so neanche come ti chiami. Mi ammazza.
Calmati, va bene?
Non sopporto quando le donne diventano troppo teatrali.
Il dialogo con loro diventa una farsa. Gli scambi sembrano
dettati da un copione, le loro pose, i loro sguardi, sono semplicemente ridicoli e tutto prende una piega eccessivamente drammatica.
Calmati, prendi questa, ti farà bene, le ripeto.
Butta giù la pillola con un sorso di caffè.
Questa ti calmerà. Aspetta solo che faccia effetto. Bevi un
po’ di caffè.
In capo a pochi minuti si stende sul divano, bofonchiando
qualcosa, tipo che devo parlare con suo padre, che devo essere io a parlargli, che altrimenti la ammazza o qualcosa del genere.
Quando si addormenta me ne vado.
Chiudo a chiave la porta e torno in stanza.
Mi sdraio sul lettino a fianco a quello di Giansebastiano e
fisso il soffitto.
Ora mi sento troppo teatrale anche io.
Chiudo gli occhi, mi volto su un lato, e senza riuscire ad addormentarmi resto immobile, modulando il respiro per tranquillizzarmi.
Dopo una mezz’ora Giansebastiano si sveglia. Mi guarda assonnato e abbozza un sorriso che è più una smorfia. Si alza dopo poco e prepara un vero caffè. Un po’ di latte, una merendina e si sente rifocillato a sufficienza per iniziare a parlarmi.
Io non ho voglia di parlare. Sono stanco. Affaticato. Mi sembra che tutto quello che mi circonda in qualche modo mi sfugga.
Vorrei solo una sigaretta e due dita di qualcosa, un po’ di
musica, una rivista di cinema, sarebbe perfetto.
Fa caldo. Giansebastiano mi parla della sessione estiva. Degli esami, di linguistica generale.
Gli rispondo a monosillabi.
Che intenzioni ha per la giornata?
Studiare. Una passeggiata nei boschi. Due chiacchiere. Bere
un po’. Ritemprarsi, che negli ultimi tempi, fra la ragazza che lo ha lasciato per telefono, il ritorno dall’Erasmus a Parigi e le ansie dei genitori, sta passando un periodo di merda. Inoltre sta cercando di rimuovere il Lexotan dai suoi elenchi mentali.
Non credo capisca quanto lo odio.
Non credo si accorga di quanto lo disprezzo.
Ok. Cerco di assecondarlo.
Di guardarlo per pochi secondi consecutivi.
Di non cedere alla tentazione di urlare.
Appena si mette a studiare scendo da basso.
Apro piano piano la porta del monolocale.
Dorme ancora.
Richiudo e torno su.
Guardo Giansebastiano concentrarsi sul manuale di Storia
dell’Arte. Ma non doveva preparare Linguistica generale? Osservo due insetti sbattere contro la vetrata del terrazzo, nel disperato tentativo di riguadagnare la libertà.
Rifletto: cosa ti ha fatto diventare così?
Così privo di energia, così dipendente, così meschino?
E mentre Giansebastiano sfoglia svogliatamente le pagine illustrate che gli rivelano i segreti di Giotto e Brunelleschi io cedo alle mie voglie e mi ritiro in bagno per buttar giù una pillola con due dita di whisky, come nel più classico e ammirevole cliché americano.
E nella mia testa sento le bombe cadere.
Dopo un paio d’ore torno a controllare la situazione di sotto. La ragazzina dorme sempre ma si rigira su se stessa, le braccia penzoloni a terra, sembra un sonno agitato il suo. Così verso un po’ di valium in un bicchiere e glielo faccio scivolare in bocca di lato.
Tossisce.
Si volta con la faccia verso la spalliera.
Questo dovrebbe darmi un altro po’ di tempo.
Dopo pranzo e un paio di partite a carte Giansebastiano vuole andare a fare una passeggiata.
Facesse pure.
Io sono stanco, gli dico. Stanotte ho letto fino a tardi. Gli spiace andare da solo?
Un po’ contrariato Giansebastiano si avvia fra i boschi, dice
che vuole cercare dove aveva costruito anni fa una capanna su un albero.
Penso che dovrebbe farsi curare.
Penso che dovrebbe farsi curare da uno bravo.
Ok, gli dico. Ti aspetto qui, magari dormo un po’.
Appena se ne va scendo di sotto.
La ragazzina è di nuovo sveglia, ha fame, è preoccupata.
Cerco di tranquillizzarla.
Tra poco dovrebbe andare a casa, le dico, saranno preoccupati.
Inizia a protestare che la uccideranno e poi scoppia in lacrime.
Risalgo e le porto un po’ di pasta avanzata e le dico che si sistemerà tutto.
Mischio altro valium all’acqua che le do da bere e aggiungo
un’altra pastiglia di un tranquillante qualunque sminuzzata
nel caffé.
Mangia svogliatamente, è confusa, stanca. Mi abbraccia e mi tira a sé sul divano.
Mentre la accarezzo mi viene voglia di scopare.
Diavolo.
Penso che sono un idiota, penso che sono un vero idiota, penso che sto facendo una grandissima puttanata, controllati mi dico, controllati, ma più penso che non dovrei farlo, più sembra inevitabile che io lo faccia.
E una punta di compiacimento si stampa ritta come un baluardo di mediocrità sulla mia faccia.
Sei un cretino, mi dico.
Te ne pentirai, mi ripeto.
Te ne pentirai.
Te ne pentirai.
Ma piano piano prendo a toccarla.
Te ne pentirai.
Lei geme, fa per divincolarsi, poi si arrende ai miei tentativi
e si abbandona del tutto alle mie insistenti carezze.
Te ne pentirai.
È un amplesso diverso. Come tutte le volte che ci sono di
mezzo le droghe.
I tranquillanti intendo.
Chiunque abbia fatto l’amore in quelle condizioni sa di che
parlo.
Alcuni dicono di sentirsi disinibiti sotto l’effetto delle droghe.
Che il sesso sia meglio perché si perdono i freni e tutto diventa possibile, giustificati dalla sostanza, ogni desiderio può realizzarsi e le fantasie prendono corpo, sfrenate e incontrollate, è uno dei concetti a più alto raggio che si siano mai sentiti a questo mondo.
A parer mio non si tratta di questo.
Quando sei fatto credi di essere sul punto di fare cose incredibili.
Tutte le sensazioni raddoppiano, triplicano, e l’epidermide
si erotizza in maniera talvolta problematica.
Stiamo parlando di qualcosa che non manca mai di fare paura. Ogni movimento, ogni affondo o fluttuazione, sembra
essere ai limiti, ti senti libero e in gabbia, preda di un delirio che ti sta portando a fare la scopata della tua vita. Ad essere un amante eccezionale. A farle delle cose che non potrà scordare.
Si tratta di un’estraneazione che quando diventa totale, permette di raggiungere un’affermazione di se stessi praticamente infinita.
Come se il fatto di sentirsi fuori dal corpo e non rendersi bene conto di cosa si fa potesse renderci immortali. Intramontabili.
Pericolosamente vicino all’abisso, sull’orlo del baratro,
pronti a spingersi oltre il ciglio del burrone.
Ma con i tranquillanti è tutta un’altra cosa.
Se mischiate barbiturici e qualunque pasticca contenuta nel
macro insieme SSRI (selective serotonin reuptake inhibitors) otterrete un sesso pieno di paranoie.
Un sesso morboso, fatto di remore e incertezze.
Tutto vi sembrerà grave, sbagliato.
Ed è così che mi sento: colpevole, mentre vado avanti e indietro.
Dentro e fuori è solo una questione di movimento.
È così che mi sento.
Confuso.
Dilatato.
Immobile.
E l’immagine che mi accompagna, la mia idea fissa, se così
si può dire, è che il mio corpo dovrebbe far compagnia ai pesci.
Cullato dal passare delle correnti, travolto dall’andirivieni dei banchi di tonni e sardine.
Apnea.
Eccessiva sudorazione.
Senso di indigestione.
E adesso, penso?
Dolori addominali.
Adesso che le sono dentro, adesso che la sto violando ancora, adesso? Adesso cosa succede?
La risposta è semplice, come nella maggior parte dei casi, tranne qualcuno: non succede niente.
Succede quel che deve succedere prima che si possa pensare di indirizzare le cose in una maniera diversa.
Mentre cerco di rivestirmi un po’ intontito non posso fare a meno di pensare al sapore che la sua cosa bagnata mi ha lasciato in bocca. Pensare che il gusto di un buon whisky irlandese ci si accosterebbe alla perfezione, pensare alle cose blu, alle cose azzurre che ci sono nel mondo, al modo che ho per catturarle.
A Elvis.
A Ian Curtis.
Penso che lei è un drago, che suo padre mi taglierà le palle,
che dovrò scappare in Argentina.
Adesso sono vestito mentre lei è pericolosamente nuda.
Neanche un fremito di desiderio si frappone fra me e il desiderio di farle saltare le cervella con un gigantesco revolver.
Un colpo solo e potrei staccarle la testa di netto.
Due colpi e potrei essere sicuro di finirla.
Se avessi una pistola giuro che le sparerei.
Mi viene il vomito. Me ne devo andare.
Cazzo cazzo cazzo.
Senti, le dico, ragazzina, ti staranno cercando io credo.
Non mi guarda.
Senti ragazzina, non vorresti magari che ne so, dimenticare
tutta questa faccenda?
Cosa?
Cosa?
Cosa vuoi che faccia? Non so cosa dire a mio padre. Non so neanche come ti chiami. Ci sarà mia madre che starà dando di matto e mio padre sarà furioso. Io, bisogna dirgli qualcosa. Bisogna che ci parli tu. Che gli dici qualcosa perché io non so che cacchio dirgli.
Digli che sei uscita con qualche tuo amico, che hai fatto tardi a sei rimasta a dormire a casa sua.
Ma sei pazzo? Sei completamente fuori di testa? Mio padre
mi stacca la testa dal collo se scopre che sono uscita. Io, io, io non so che cacchio fare.
Senti, li ho avuti anche io 16 anni. Lo capisco, le capisco le
regole e tutto il resto, ma cosa vuoi che…
No tu non capisci. Io non ho sedici anni, ne ho tredici e mezzo.
13,5.
13. virgola 5.
«Sweet child in time you’ll see the line/The line that’s
drawn between the good and the bad».
Ognuno è figlio del suo tempo cazzo. Ognuno è schiavo di
quel che l’ha partorito.
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Non ho la più pallida idea di cosa dirle.
Sono fottuto.
Sono nella merda.
Senti, le dico, ok, stiamo calmi. Che cazzo vuoi dire che hai… che hai…
Tredici anni e mezzo.
Ecco, sì, tu avevi detto…
Ho tredici anni e mezzo.
Ma, ma, avevi detto che
Io non so che cavolo farci. Mio padre ci farà il sedere a strisce.
Sono rovinata. Sarà così incazzato. Mia madre. Mia madre
ci resterà malissimo.
Ascolta. Facciamo un bel respiro. Ok? Facciamo un bel respiro.
Tiro fuori dalla tasca un flacone di pillole: 2 lendormin, 2 ipnovel.
Sono bellissime.
Prendile su.
Ma che roba è?
Niente, niente, solo, roba omeopatica, tipo valeriana.
Tipo quelle piante per le tisane?
Ecco, sì, una roba del genere.
Prendo anche io un paio di pastiglie, per calmarmi.
Le butta giù a fatica.
Ecco, brava, queste serviranno a distenderci un po’, ok.
Adesso ascolta cosa faremo, ci mettiamo un po’ giù e decidiamo sul da farsi.
  Fortunatamente non ci mette molto ad acquietarsi. Questa
roba fa uno splendido effetto calmante su chi non è abituato.
E per soprammercato agisce in frettissima.
Ho bisogno di tempo per pensare.
Assoluto bisogno di tempo per pensare.
Mi gira la testa.
Sto tremando.
Ho bisogno di qualcosa di più pesante di questa robaccia.
Tempo.
Soldi.
Più tempo.
Più soldi.
Tiro fuori la boccetta di valium e le verso il contenuto direttamente in bocca.
Ci vorrebbe qualcosa di più forte da dare anche a lei, cristo.
Comunque dovrebbe dormire per un bel po’ con tutta questa
roba.
Ma se si svegliasse?
Se si svegliasse e si mettesse a urlare?
13,5.
13,5 è un reato grave.
Senza eufemismi.
13,5 è un reato gravissimo.
Nessuna pietà, nessuna attenuante.
13,5 vuol dire nessuna speranza di cavarsela con un qualche patteggiamento del cazzo.
13,5 vuol dire che sono fottuto.
13,5 vuol dire che sono dannatamente fottuto.
Mi alzo e cerco in giro qualcosa che possa aiutarmi.
Il mio necessaire.
Quel fottuto orso.
Quel fottuto quadro di me che ghigno come un cazzo di
clown.
Si appelleranno a tutto.
Ogni cosa mi si ritorcerà contro.
Ci sono vestiti da montanari ammonticchiati.
Attrezzi da muratore, secchi con ancora incrostata la vernice.
Cavi elettrici.
E se la legassi?
Se la imbavagliassi fino a che non ho deciso che fare?
Potrei sempre buttare il corpo in una discarica.
Al momento mi sembra un buona idea quindi le lego le mani
e le lego i piedi, separatamente.
Non sono mai stato un maestro di nodi ma sto attento a non
legarla troppo stretta.
Per non lasciare segni.
Le impronte cazzo.
Il dna.
Le ficco in bocca un guanto di pelle scamosciato e le passo
attorno alla testa un paio di giri di filo elettrico isolante per tenerlo bloccato.
È ancora pericolosamente nuda.
C’è una vecchia coperta di lana, di quelle a scacchi rossi e
blu.
Gliela metto addosso e me ne vado, chiudendo la porta a
chiave.
Cristo dio che giornata di merda.
Barcollo alla luce del sole. Bastano un po’ di quegli aghi di
paglia dorata per sfiancarmi e infradiciarmi di sudore.
Ho le labbra secche.
Un passo dopo l’altro avanti a me, verso l’ombra di quello
che sembra un abete ma dubito possa realmente esserlo.
Mi accascio.
Sento il brulicare della terra. Sento il fresco rasserenante delle fronde. Sento l’appiccicoso fluttuare delle ragnatele.
Cristo che giornata di merda.
Me ne sto lì non so per quanto.
Ore, minuti, che importa?
Mi sveglia Giansebastiano, con la sua smania di azione.
«Che passeggiata, ragazzi». Dice di aver ritrovato i vecchi sentieri di quando era bambino, perfino un nascondiglio dove aveva ammonticchiato delle ghiande. Naturalmente non c’erano più dopo più di dieci anni ma lui sa che il posto era quello.
Naturalmente se lo colpissi ora avrei tutto il tempo per pentirmene dopo.
Senti, gli dico io, facciamoci una pippatina.
Al tramonto, mentre quella moneta infuocata, quel disco di
fuoco o come diavolo volete chiamarlo va a nascondersi dietro la collina, passandomi lo specchietto impolverato con
Giansebastiano, sento un brivido sotto la maglietta.
Lui appoggiato al tronco del pino. Io in sospensione, gli addominali semi contratti, per non prestare troppo la mia superficie al fertile regno degli insetti, nascosti fra i fili d’erba, radunati dentro le gocce d’ambra della resina.
Mi sento quasi bene mentre si fa sera.
Vai a prendere la bottiglia Ma.
Lui sembra caracollare mentre si alza, incrociando le gambe
e improvvisando un balletto perfino aggraziato. Poi scompare lungo la scala che porta al piano di sopra e io ho il tempo d’inframmezzare a ogni tiro uno sguardo agghiacciato alla porta azzurra del magazzino da basso. Il tempo di guardare accigliato il mezzo alveare che le api hanno costruito sopra la porta seminascosto dalla tenda verdone.
Che razza di posto.
In che razza di posto sono finito.
Tiro fuori una pastiglia dalla tasca. Potrebbe essere Prozac,
o Seropram, ma la vista annebbiata dal crepuscolo mi fa difetto quel tanto che basta per regalarmi il brivido dell’ignoto.
Quando Giansebastiano torna mi ficco in gola senza farmi
vedere la capsula ingrigita dalla sera. Una golata di whisky e perfino questa serata di merda, con l’odore di letame che viene dai campi, l’impressione di non lavarmi da un secolo e la vista offuscata mi sembra apparire perfetta.
Il resto della sera prosegue come se non avessimo dovuto invecchiare mai, o pagare le rate della macchina, o usare una lavastoviglie.
Non ci vuole molto per sentirsi giovani quando si è giovani.
Sapete? Basta metter su un pezzo degli Stones, uno qualunque di quelli famosi. Basta avere una bottiglia da far fuori, qualche grammo, un mazzo di carte.
Non molto e ballerete coi diavoli dell’inferno fino al mattino.
Non molto e vi sentirete come degli dei corrotti, disposti a mostrare la lingua e torcervi le orecchie pur di ridere con niente.
Disposti a parlare di ogni porcata pur di parlare di niente.
Disposti a gettarvi fra le braccia di chiunque pur di non sentirvi niente.
La mattina arriva come un pungolo.
Mi sveglia la tachicardia.
Non è la prima volta che succede.
Basta rimanere calmi.
Basta lasciar passare il battito, poi respirare; poi respirare; poi respirare.
Prendere il ritmo.
Non morirai bello, non morirai.
Basta respirare.
I denti si serrano.
La mascella si apre in smorfie mostruose che per fortuna
non c’è nessuno a guardare.
Giansebastiano russa ancora.
Là fuori gli uccellini cantano.
E tu non morirai.
No, per dio, tu non morirai.
Ti parli come se lo potessi controllare.
Come se ne potessi qualcosa.
Tu non morirai.
Quant’è vero dio, tu, non morirai.
Ti sforzi di metterti in piedi.
Basta respirare.
Ti acchiappi forte con la mano sinistra il fianco destro.
Cerchi di girarti.
Tu, non morirai.
Sei seduto.
I piedi sul pavimento.
La schiena arcuata come un uomo deforme mentre lotti per
non accasciarti ti pare di scorgere il film della tua vita che batte sullo specchio appannato. Non è forse la quinta di Beethoven questa?
Non è la colonna sonora della tua meschina dipartita?
Tu non morirai.
Che ne diranno di quella ragazzina intrappolata da basso?
Che penseranno di te?
Tu non morirai.
Che penserà tua madre?
Cosa penserà tuo fratello dall’alto dei suoi paroloni?
Cosa scriveranno i giornali?
Devi resistere.
Devi calmarti.
Devi rimediare.
Tu non morirai.
Devi liberarti di tutte quelle medicine, devi buttare nel cesso
tutta la droga, devi slegare quella ragazzina.
Devi slegare quella maledetta ragazzina.
Giansebastiano dorme come un angioletto quando riesco finalmente ad alzarmi.
Una sorsata d’aria dopo l’altra, un piede avanti e poi l’altro.
1.
2.
Basta respirare.
3.
4.
Sono di fronte allo specchio.
Ok, ora mi calmo, penso.
Ora mi calmo.
Basta respirare.
5.
6.
Prendo qualche goccia di valium, poi mi lavo i denti.
Ok, sorrido nello specchio.
Accendo una sigaretta e sono pronto a comportarmi bene.
Scendo da basso.
Apro la porta azzurra facendo attenzione a non scontrare la
tenda per non svegliare le api.
La coperta si agita.
La ragazzina è sveglia.
Tolgo la coperta.
È pericolosamente nuda.
Si agita come fosse un pesce.
Mentre la guardo contorcersi penso che vorrei vederla fare
pipì nel vasino.
In uno di quei buffi vasini di plastica, a forma di Pluto o Paperino.
Penso che mi piacerebbe vederla fare pipì nel vasino.
Non so se lo troverei eccitante ma mi piacerebbe molto.
Giansebastiano tirerebbe in ballo qualche complesso edipico.
La slego senza troppi preamboli.
Sembra come riemergere dall’acqua di mare.
È tutta sudata.
È bellissima.
Senti ragazzina, secondo me dovresti andare tipo da tuo padre e dirgli una cazzata tipo che ti eri persa nel bosco o tipo…
Scoppia a piangere.
Su, non piangere, non puoi sempre scoppiare a piangere
ogni volta che…
Il pianto erompe in un suono più acuto, fastidioso.
Ascoltami adesso ci facciamo due gocce di…
Non le voglio le tue stupide gocce mi risponde.
Sei uno stronzo vaffanculo non le voglio.
Sembra aver smesso di piangere.
Ok, ok stai calma vorrà dire che…
Non le voglio le tue stupide gocce, non le voglio, non le voglio.
Cerco di abbracciarla ma inizia a dimenarsi.
Le tiro un ceffone.
Si scaglia contro di me. I pugni serrati. Mi si getta addosso
e accenna un urlo.
Cerco di tapparle la bocca.
La stringo.
Si dimena.
Cerca di divincolarsi.
Zitta.
Stai zitta.
Si agita convulsamente.
Devi stare zitta le sussurro digrignando i denti.
E mentre le tengo una mano sulla bocca con l’altra l’afferro
per il collo e la spingo sul divano.
Zitta, devi stare zitta.
Continua a dimenarsi furiosamente.
Scalcia.
Quindi le salgo sopra con tutto il corpo e le blocco i movimenti.
Stringo più forte.
Sembra calmarsi.
Provo a togliere la mano ma non appena prende fiato prorompe in un urlo isterico, lacerante.
Le rimetto la mano sulla bocca, cerco di coprirle anche parte
del naso.
Zitta, devi stare zitta.
Con le caviglie le tengo ferme le gambe.
Cerco di pararmi dai possibili colpi nelle parti basse.
Si agita, scalcia, sembra imbizzarrita.
Zitta.
Stai zitta le digrigno a un centimetro dalla sua bellissima faccia, mentre con la destra continuo a tapparle la bocca e con la sinistra le stringo il collo sottile.
Volta la testa da una parte all’altra come per prendermi a testate il polso.
Con le gambe sembra impegnata a mimare lo sci di fondo,
dimenandosi con colpi secchi dei quadricipiti.
Gli occhi le roteano. Un po’ li chiude. Un po’ mi guarda furiosa ma a tratti sembra disperata.
A un certo punto mi accorgo di trovarmi nel limite estremo.
C’è un valico. Questo valico come ogni altro valico divide il di qua dal di là.
Io so bene che sono ancora in tempo. Per non oltrepassare il confine.
Per restare dalla parte vicina delle cose.
Ma non riesco a smettere.
Non riesco a trattenermi.
Non voglio trattenermi.
Non posso pensare di dovermi trattenere.
Attorno, tutto quel sole illumina il pulviscolo.
La porta è spalancata sul verde brillante dell’erba.
La vita rigoglisce e turbina in un frullo d’ali scomposte, si innerva dentro le arterie marroni degli alberi e sprizza via dalle gemme umidicce e tumorali all’estremità dei rami.
L’orso mi guarda e sorride, un bottone dell’occhio scheggiato sembra alludere a un consenso che non gli può appartenere.
Sento lo scalpiccio degli zoccoli dei quattro cavalli della fine
del mondo.
Mi ricordo che erano colorati, ma non ricordo i colori, né i
simboli.
E poi c’è quell’orso che mi fissa.
Accanto all’orso il mio specchio ad olio, beffardo.
Sento i nervi del suo collo che si tendono, sento i miei polpastrelli quasi conficcarsi fra quelle fibre, come rompendo qualcosa di duro ma non duro abbastanza.
E mi vedo lottare, nella fantasia, con un misterioso ed oscuro aggressore.
I tratti ancora da completare, come lo schema di un fumetto.
Guardo prima le imperfezioni del corpo.
Poi il disegno generale, con quelle chiazza di colore intenso
e grumoso che mi assale.
Un’ombra, una sega di golem che incombe sul mio sorriso
da clown.
Getto un’occhiata a quell’ingombrante pezzo di carne che a
scatti cerca di spezzarmi le dita.
La guardo mentre sembra cercare di deglutire.
Poi smette.
Uno squarcio di luce le illumina il lato sinistro del viso.
Il resto è avvolto in un’inverosimile oscurità.
Il giorno 08 gennaio 2014 18:48, marco cubeddu <[email protected]> ha scritto:
TREDICI VIRGOLA CINQUE
di Marco Cubeddu
Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita,
nel senso eccentrico del termine, «moderna», e non
abbia creduto d’essere immediatamente davanti a
un abisso. La lucida coscienza disperata di stare
nel mezzo di una crisi decisiva è un cronico germe
nell’umanità.
W. Benjamin.
  Ma è esattamente l’opposto che sulla scacchiera! La verità è
che l’arte non ha davvero nessuna relazione con la logica.
M. Duchamp.
Quindi l’Apocalisse. Ora, prima di andare avanti, non ho
nessuna intenzione di lasciare alcun margine di ambiguità
sulla faccenda. Il credo-non credo all’Apocalisse 2012, atteggiamento che sotto sotto abbracciano in molti, quella specie di «non ci credo però ne parlo» non mi riguarda in alcun modo.
Avete presente tutti quelli che ci ridono su ma che ogni volta
che viene l’occasione tirano fuori la faccenda della fine del
mondo? «aahahaha, pensa, tutta questa fatica per scrivere un libro che tanto il 21 dicembre finisce il mondo». Potete star certi che i Maya hanno torto. Dicono che avessero previsto la fine del mondo? Peccato non avessero previsto l’arrivo dei conquistadores. Non sentiremo la mancanza di un popolo che non aveva nemmeno inventato la ruota e che si è fatto estinguere a colpi di starnuti.
Però anni fa un mio amico, lo scomparso Giansebastiano
Redà, uno di quelli che leggono le riviste e sanno sempre un sacco di tutte quelle cose superflue che compongono il nocciolo di ogni conversazione degna di nota, mi disse che probabilmente, l’unica base scientifica su cui fondare le mie speranze di fine del mondo, consisteva nel probabile aumento dell’attività solare e nella probabilità che («con tutte le probabilità») questo avrebbe portato alla tempesta solare più potente a memoria d’uomo.
Sentendolo parlare di tempesta solare mi si pararono innanzi immagini di fuoco e devastazione, forse l’esplosione
della Terra stessa, un gigantesco kaboom, pacificatore.
«Niente di tutto questo, con la tempesta solare, cioè, almeno come diretta conseguenza della tempesta solare in sé, non muore nessuno».
Smettevo di seguirlo.
Questa stronzata della fine del mondo era appena stata riportata dai giornali italiani (era tipo il 2008) e io avevo appena finito di lamentarmi che i Maya erano stati/fossero un popolo di creduloni «il cui unico pregio consisteva nello sgozzare vergini sui campi di grano per renderli fertili», ero all’apice del mio nichilismo, senza progetti per il futuro e con il solo desiderio che non ci fosse nessun futuro da progettare. E Giansebastiano mi illudeva parlandomi di tempeste solari per il solo gusto di rivelarmi subito dopo la loro totale innocuità?
«Ma come non muore nessuno, allora che razza di Apocalisse è?»
«Io non ho detto che non muore nessuno. Ho detto che direttamente, per i raggi, non muore nessuno».
«Mmmmmmm».
«Una tempesta solare è una tempesta elettromagnetica».
«E che vuol dire?»
«Detto in parole povere?»
«Poverissime».
«Vuol dire che tutto quello che è elettronico smette da un
momento all’altro di funzionare».
«?»
«Per sempre».
«E quindi?»
«Quindi che?»
«Quindi che cosa me ne frega a me?»
«Non volevi l’Apocalisse?»
«Certo».
«Beh, immaginati: aerei che precipitano, tutte le macchine
ferme, i telefoni che non funzionano, niente più computer...»
«...i cancelli della carceri! Le impronte digitali! Il DNA! Nessuno che può chiamare aiuto. Nessuna telecamera a riprendere. Niente rifornimenti per la polizia, niente comunicazioni per l’esercito, niente verbali, niente multe...»
«...però anche niente acqua, niente iPod, niente luce elettrica...» obiettava il buon Redà, che non credeva possibile la mia esaltazione senza riserve per la venuta dei tempi del tutto o niente.
«Ma sì ma sì, però...tu pensa!», rispondevo io, «sarebbero i
tempi del tutto o niente, si vivrebbe di prepotenza, di brutalità,
di sopraffazione. Pensa a quel cazzone di Ponestà e ai
suoi esposti in questura contro di me: ... Marcel Baltò... nato a Montrouge... residente in via... barba incolta... sguardo da pazzo... muscoloso... manesco... alcolizzato... corpo disseminato di grossi tatuaggi... come conseguenza di usuali minacce di morte... intimidazioni... perdita del sonno... crisi d’ansia... attacchi di panico... disastrosa vita sessuale... spese per l’analista... tisane... gravi danni alla mia attività di promotore culturale... giocoleria... happening... festival delle periferie... irruzioni... scorribande... si è presentato come colui che mi ucciderà... ingente risarcimento...Tu pensa, presentarmi a casa di quel miserabile cialtrone con un seghetto da falegname e dirgli «ho intenzione di fare una cosa bellissima ma molto difficile. Vedi questo? È un seghetto per il legno. Andrebbe utilizzato solamente per il legno. Credo che ci metteremo una vita. Ma io non ho fretta...».
Smisi di ascoltare le complicate fandonie del mio amico, arzigogolati deliri scientisti su probabilità e regolarità delle tempeste solari, sul livello di intensità e tutte le altre oscillatorie teorie fisiche su quelle faccende elettriche e ripresi a guardare fuori dal finestrino.
E a fantasticare di un mondo in cui finalmente tutta la placida esistenza raccolta in crocchi e muccetti sociali sempre più ordinati di quanto la realtà materica di cui i nostri agglomerati umani siano composti, scompaia e regni in sua vece un inverno nucleare di barbarie e anarchia. Tutti gli incubi della buona borghesia ottocentesca, tutto l’inorridito indignarsi degli amanti dell’ordine, si sarebbe trasformato nella fantasmagorica anticiviltà che avevo sempre sognato. È probabile che partendo da un grado preciso di sviluppo delle forze produttive e di coscienza di questo sviluppo, forme contemporanee di organizzazione sociale tenderebbero a serpeggiare e financo a tentare di reinstaurarsi come ordine logico di cui la parte di umanità che vi ha sempre vissuto dentro abbisogna. Eppure, la mancanza di quella basilare forma di energia, basilare per
i nostri standard odierni, cioè l’elettricità, farebbe precipitare
di millenni la nostra evoluzione consegnando l’imbolsita civiltà occidentale al caos incontrollabile dei desideri che albergano nei cuori di uomini non ancora del tutto addomesticati.
Mi si potrà domandare, ma a chi può interessare una simile
fantasia?
Se avete mai sognato di mozzare una testa roteando una scimitarra.
Se avete mai sognato di violentare bambine, madri,
mogli di altri uomini davanti ai loro occhi. Se avete sognato di trapassare, sgozzare e trucidare, di imbrattarvi il volto col sangue dei vostri nemici. Se avete, semplicemente, considerato una o più cose esposte in una gigantesca quantità di romanzi e film e opere teatrali e videogiochi e fotografie a riprova che si tratta di cose che non solo esistono ma che avvengono con una frequenza allarmante nel mondo, nel migliore dei casi sotto forma di cronaca nera o nel peggiore sotto forma della più grande e avanzata sperimentazione in termini scientifici o logistici (vedi Hiroshima e vedi i campi di concentramento) allora tutto questo vi riguarda. Vedrete che vi riguarda.
  Da quella discussione con Giansebastiano frutto di evidenti
alterazioni psicofisiche in un pomeriggio di approvvigionamenti prima di una vacanza dell’orrore trascorsa nei dintorni
di Roxxxxtta Tanaro (Asti) è ormai passato molto tempo. Il
mio amico è morto in circostanze violente finora mai venute
alla luce (o, come sostiene la questura, è disperso in mare) e io credevo d’essermi avvantaggiato di qualche palmo nella mia scalata al successo letterario pubblicando racconti su alcune fra le più prestigiose riviste letterarie italiane, come «Liberi Libri» «Letteral/mente» «Uomini contro (la cattiva letteratura)» «Scrittura democratica» «Lettere militanti» e, naturalmente «Alfabetaupsilon» magistralmente diretta dal mio ex amico e confidente Dario Barabba. Grazie a lui ero a un passo dal siglare un contratto per un romanzo con una delle principali case editrici italiane. Quando, l’uscita di quel maledetto articolo, ha rovinato tutto.
Il 2013, in barba agli stramaledetti Maya, poteva essere il
mio anno d’oro, di certo l’anno migliore da quando (ecco la
prima rivelazione) godetti dei favori di una tredicenne in un
cascinale in provincia di Asti all’insaputa del mio amico Giansebastiano, che dio l’abbia in gloria.
O almeno così credevo.
Credevo anche d’essere finalmente in procinto di diventare
uno scrittore, di non avere più alcuna ragione per aggirarmi
come un ritornante in casa, nudo e senza alcuna intenzione di vestirmi, celandomi agli altri e tenendomi alla larga dalla frustrante realtà di uomini liberi e produttivi che vivono incasellati in master status ben definiti sotto la luce del sole.
E ora?
Non mi ricapiterà mai più di arrivare a Segrate con una
macchina scassata piena di bottiglie di Macallan e parcheggiare nel posto riservato all’amministratore delegato sentendomi dire che quel tocco da punk irriverente sarà perfetto per farci ricamare sopra i giornali. La gentilissima Giulia Mandarino, giovane mommyporn e dinamica caporedattrice non si complimenterà più al telefono per la mia «aurea di perversione» domandandomi se non mi fischiassero le orecchie per tutto il gran parlare di me. «Non vedo l’ora che ci incontriamo, così mi aggiorni sui tuoi progetti», mi diceva, «fissiamo subito dopo la raviolata con Massimo Manfredi. Tu lo conosci Massimo Manfredi, no?». «Stai rilassato» mi diceva Dario Barabba, «sentiti libero, tu, non ti preoccupare del libro, tu, cerca di divertirti, tu, cerca di scrivere quello che vuoi».
Mi sembra assurdo che adesso il telefono sia muto, che perfino il Corriere Portuense, l’unico lavoro stabile che abbia mai avuto, non mi commissioni più neanche un articolo sui carichi pendenti nelle banchine.
E tutto per colpa di un banco di stupidi tonni.
Ebbene. Quella che state leggendo è a tutti gli effetti una
confessione.
Sono stato a un passo dall’avercela fatta. Per mesi ho tormentato il bravo Dario Barabba per un contatto nel mondo del cinema. «ma se c’è crisi dovunque...» «ok, ho capito, c’è crisi, ma mica voglio un produttore che mi faccia girare un kolossal... »
«quindi...?»
«ma ci sarà pure qualche dialogo da mettere
a posto, qualche scena da riscrivere...».
E dopo mesi di rigorosi «niet niet niet» finalmente un «in effetti forse...»
«forse...?»
«...ci sarebbe un film iraniano, su un poeta curdo, lo devono
girare tra poco, con Monica Bellucci protagonista, glie mettono pure er burqa...»
Film iraniano? Poeta curdo?
«va bene, lo faccio!»
«Marcello, ma guarda che la Bellucci nun scopa neanche, è
un film impegnato...»
«non ha importanza. Lo faccio, lo faccio. Qualunque cosa».
«Va bene, va bene, va bene, dammi il tempo di organizzarti
un incontro a Rai cinema. E nel frattempo riposati, ok, non
startene sempre lì con l’aria ingrugnata, goditi la vita, fai una
passeggiata ogni tanto».
E io, invece di riposarmi che ho fatto? Mi sono messo a scrivere uno stupidissimo articolo di denuncia per «Alfabetaupsilon».
C’era tutto quel bisogno di scagliarmi con tanta violenza
contro il tonno pinne rosse? Dopo un’intera giornata negli uffici di un importante editore passata a incalzare, il buon Dario Barabba, il mio futuro editor dalla barba caprina, e a dissimulare il mio crescente interesse sessuale verso tutte le figure femminili del Palazzo (se aveste visto il reggicalze della Mandarino, capireste di cosa parlo) non avevo proprio nient’altro da fare che dedicarmi energicamente alla mia arringa contro la Rio Bravo? Come si fa ad appassionarsi tanto alla distinzione tra banchi di tonni?
Ora, alla luce di quello che leggerete io vi sembrerò un
mostro.
Ma in quella circostanza dovete immaginarmi mentre faccio
del mio meglio.
Animato dalle migliori intenzioni.
Sto pensando che forse farò un film. Iraniano. Su un poeta
curdo.
Non è stato facile convincere Barabba dopo tutti quei gin tonic al bar aziendale, sotto il sole cocente di agosto, gettando le cicche delle mie sigarette da uomo in pasto alle orrende carpe aziendali («oddio, non farlo, se ti vede qualcuno... a me mi licenziano e a te non ti proporranno mai un contratto...»). Ma ce l’ho fatta. «Intanto scrivo i dialoghi di un film con la Bellucci. E poi forse quel satireggiante imbonitore riuscirà a farmi diventare un best seller per adolescenti in cerca di modelli».
Questo era il mio spirito.
Ma era troppo bello per essere vero.
E mi sembra tutt’ora impossibile che sia andato tutto a monte per via dei tonni pinne rosse. Chi poteva immaginare che bastava scrivere che non esistevano, che era tutta una truffa, una montatura, per scatenare un simile putiferio? La Rio Bravo ha chiesto 20 milioni di risarcimento. Alfabetaupsilon rischia il fallimento per debiti. I prossimi numeri saranno commissariati. Alle altre riviste del Gruppo toccherà fare pubblicità gratis al tonno Rio Bravo per i prossimi dieci anni.
E a me non mi vuole più nessuno. Nessun giornale. Nessuna rivista.
Il film iraniano? Saltato.
Il possibile contratto per un romanzo? dimenticatelo.
Il buon Barabba voleva un racconto sull’Apocalisse? «Nemmeno se fosse davvero la fine del mondo».
Chi mi ha conosciuto un po’, sa che ci ho provato. Dio sa che ci ho provato. Ma non posso cambiare. Dio sa che non posso cambiare.
Questa fine del 2012 per me coincide davvero con l’Apocalisse.
Portata dai tonni e non dai Maya. Ma la vera fine del
mondo per me è cominciata quando ho valicato ogni segno,
qualche anno fa, prima di passare questi a sperare di non essere scoperto e a scrivere per non impazzire dall’ansia.
«Dario, ti giuro, il tonno pinne rosse non esiste!»
«mi avevi detto di esserne certo!»
«ne sono certo»
«ma non hai le prove! Non hai uno straccio di prova!»
«però io ne sono convinto»
Se solo avessi avuto le prove potevo diventare il santo patrono dei consumatori.
Ma ormai non me lo lasceranno più scrivere da nessuna parte. Ormai non mi lasceranno più scrivere niente da nessuna parte.
E a me non resta che confessare anche il resto e diventare
Nessuno.
È molto meglio essere Nessuno che essere tutti.
Spedito il file a Barabba perché ne faccia quel che vuole,
sparirò, dopo un breve pellegrinaggio sulla tomba di Dolly
Schiller nell’ombreggiato cimitero di Gray Star, alla volta di
una landa desolata, spazzata da indicibili e gelidi venti, meglio conosciuta come l’Alaska.
  Diciamocelo un po’ chiaramente: a guardar bene, anche i pacchetti delle Marlboro, sono un segno della crisi imminente.
Non che ci sia da preoccuparsene.
Una volta erano un emblema di virilità.
Guardateli adesso.
Sbrilluccicano.
Ma non c’è davvero di che preoccuparsi: ogni società morente ne partorisce un’altra più corrispondente a quelle che potremmo racchiudere nel macro insieme delle «umane esigenze».
Ecco perché, ogni volta che alzo un bicchiere, brindo alla
Terza.
Che arrivi in fretta.
Immaginate, come uno schianto, in limine, il fragore della
guerra.
Tutte le nostre paure che riecheggiano in cerchi concentrici
attraverso i secoli, per un milione di anni.
Immaginate di fermarvi davanti a una stazione. Immaginate
l’andirivieni dei treni. Immaginate di guardare dentro, i
pendolari, le scolaresche che aspettano, e sapere che non riusciranno a scappare o che non sarà una sbornia che li tirerà fuori di lì, o che non sarà un biglietto per un posto lontano a liberarli da tutto quel frastuono. Che non sarà la morte, nella sua parvenza di decoro, in un letto madido d’affetti, a trascinarli via.
Immaginate che tutto resti, come sospeso. In lontananza, il
vociare acuto d’un bambinetto coi calzoni corti. Il rotolare di
una palla lungo il pendio di una collina. L’agghiacciante divisione atomica di tutto ciò che esiste. Ogni filo d’erba che la compone, il corpo lucido di una lucertola sul punto d’acchiappare un moscone. Ogni agave spaccante le pietre d’una mattonata sul mare, ogni gramigna che cresce al lato dell’asfalto.
E poi d’un tratto, quel fragore, lancinante e meraviglioso,
della guerra, che si espande, nello spazio e nel tempo, in
ogni istante e in ogni luogo, in questo infinito morire.
  Avanziamo a passo d’uomo verso l’ingresso dell’autostrada.
Sono in macchina con Giansebastiano Redà, un vecchio
amico che ama le mezze misure. Per quanto si sforzi di sembrare eccessivo, di misurare il suo ego in galloni di sangue e litri di birra, Giansebastiano è uno fra i migliori moderati che possiate osservare in azione su questa fottutissima Penisola.
Non vi sembra di poterlo vedere mentre inveisce contro una
macchina che l’ha superato?
Eccolo tentare di superarla a sua volta, non riuscirci, e rientrare imprecando nella sua corsia.
Non vi sembra di averlo di fronte, intento a canticchiare con
aria svagata e poi, come colto sul fatto, girarsi riversando uno sguardo truce al posacenere, raccattare un mozzicone e mettersi a fumare con avidità una di quelle sue stramaledette sigarette da frocio?
Da parte mia fisso il suo pacchetto di Marlboro gold touch,
mi trattengo per non infierire sulla sua fresca e immeritata patente di guida e mi sforzo di non guardare il paesaggio, per nulla attraente, nell’inarrestabile galoppare della disantropia.
Io odio il Piemonte.
Dico sul serio.
E odio ancora di più i piemontesi e lo sporco contadino che
nascondono dietro quella loro sempiterna aria sabauda. Come se qualcosa della fierezza francese, qualcosa che riguarda le guerre e le rivoluzioni, riguardasse in qualche modo anche loro.
Come se ribollisse nel loro sangue, come se riecheggiasse
nel loro passato, uno stigma – l’ampolloso nome di Cavour – a garantirne una superiorità quasi regale.
Baby don’t fear the reaper si fa strada nei foschi meandri dei
miei pensieri, sconcatenandoli, convincendomi che in un
mondo più aderente alle mie umane esigenze non mi troverei a varcare il confine di questa fottutissima Regione ma starei viaggiando a 180 km/h verso il Messico su una Chevrolet Malibu del ‘64 in compagnia di una giovane punk dalle umide mutandine di pizzo e gli anfibi imbrattati di fango.
Senza temere il mietitore.
Stiamo andando in un posto sperduto nei pressi di Asti.
Non c’è bisogno che sappiate di preciso di quale buco di culo si tratti. Vi basti sapere che quel buco di culo non è diverso da un milione almeno di altri buchi di culo in cui sarete stati o andrete a svernare con l’arrivo della prima pallida primavera. Dovete immaginarvi i campi e il fieno e il
letame che sentono l’esigenza insopprimibile di gridare il
loro inno alla vita in tutte le sinestesie umanamente comprensibili.
Non è affatto necessario infarcire il racconto di dettagli e riferimenti che potrebbero risultare in qualche modo compromettenti per le altre persone che in questa storia sono state coinvolte. Meglio conservare questo velo di pudore, mischiare qua e là le carte e celare qualche nome.
Ad ogni modo mi trovo in questa macchina del cazzo perché
mi sono incautamente lasciato convincere da Giansebastiano (nome di fantasia) ad abbandonare per qualche giorno il Risiko on line, al quale sono dedito da parecchi mesi, per andare a godere di quelle che mi vengono presentate come, testuali parole: «le vere gioie della campagna».
Di cosa si tratti, davvero, non saprei dire ma, per come la
vedo io, le gioie, in campagna o sul litorale, hanno sempre
avuto le sembianze di un qualche locale un po’ a la page,
qualche giovane curiosa di scoprire i miei giochini preferiti,
una bottiglia di qualcosa da buttar giù, delle lenzuola pulite
che non temano d’essere insozzate, la possibilità di ritirarsi alla chetichella se le cose si mettono male. Un bar con una buona riserva di whisky nelle vicinanze non guasta. Un po’di cocaina è ovviamente indispensabile.
In ogni caso la mia bucolica gita si preannuncia tutt’altro che all’insegna dello sballo: appena arrivati aiuto Giansebastiano a scaricare la macchina in quello che mi sembra a tutti gli effetti il regno incantato degli insetti.
Se c’è una cosa in vita mia che no ho mai potuto soffrire sono gli insetti. Tutte quelle cose striscianti e brulicanti che svolazzano e si perdono in sibili e ronzii mi danno il voltastomaco.
E la sensazione che provo, appena sceso dalla macchina, è
quella di trovarmi circondato da quelle bestiacce con le loro
elitre ronzanti, semidisperso in un diasporico nulla in cui nulla di buono è possibile e tantomeno acquistabile.
Il bagagliaio è comunque ben fornito: abbiamo con noi diverse bottiglie di champagne, delle bottiglie di Galliano, stampini per fare il ghiaccio, due casse di ananas, ciliegine, lime, un gigantesco orso di peluche raccolto lungo la strada, un portatile rigorosamente Microsoft (io li odio quei fottuti froci col Mac), sigarette da uomini, tabacco da fiuto, e il mio necessaire, con tutto quello che occorre per alleviare il fastidio degli insetti, del fango e, più in generale, di questo senso di sciatteria che mi avvolge da tutto il viaggio, il quale si ostina a non decollare in qualcosa di definito, sia esso orripilante o meraviglioso, e che con ostinazione si limita a mantenersi incerto.
Tra le altre cose abbiamo con noi un ritratto da ultimare, uno dei lavori di Giansebastiano, a cui piace definirsi un artista incompreso.
La realtà è che è incompreso per una buona ragione. Anche
se ci prova, non andrà mai oltre la qualifica di pittore dilettante, uno di quei bei tipi che appendono in tutta la casa i propri pretenziosi scarabocchi credendoli capolavori e che impongono agli amici più stretti lo stesso supplizio regalando loro, per natali e compleanni, tele e manufatti di dimensioni decisamente superiori alla normale tollerabilità.
Il nostro pittore dilettante, aveva tanto insistito per ritrarmi in quella che a lui sembrava una geniale rielaborazione della
mia figura (una specie di ritratto in cui sembro Heath Ledger
nel Cavaliere oscuro di Nolan mentre affronto, raffigurato come un’ombra, un misterioso tutore dell’ordine) che non avevo potuto sottrarmi dal posare per ore davanti al suo sguardo assurdamente analitico, nudo, e per giunta tutt’altro che ubriaco, semidisteso su un divano.
E ora si replica in un altro ambiente, perché il nostro pittore
deve sentire l’ispirazione.
Io sento solo che mi si geleranno le palle.
Dopo aver scaricato, torniamo in macchina perché Giansebastiano insiste per mostrarmi quell’infinità di inutili luoghi d’infanzia che risultano importanti solo per chi li ha vissuti e che immancabilmente annoiano a morte chi è costretto a subirne gli aneddoti retrospettivi con tanto di sguardi fuori campo mentre elenca metodicamente i dettagli, con lo sguardo «trasognato» ad indicare un malessere causato dalla nostalgia.
Così non mi resta che vagare per quelle langhe desolate, passando di frazione in frazione in una spirale di noia e finta
cordialità che mi asciuga la bocca da fare schifo.
In uno di questi assembramenti sbagliati di casupole in rovina, mentre subisco la ricostruzione di una battaglia di soldatini particolarmente avvincente, combattuta da queste parti 10 o 12 anni fa, passiamo davanti a una villetta bianca, ristrutturata da poco, dentro la quale albeggia, fra i grossolani fiori da giardino di un rosso stinto dal sole, una giovinetta in bikini nero coi capelli tinti di autentico biondo.
Interrompo di scatto la sequela di precisazioni di Redà per
segnalargli la visione sulla sua destra, mentre lui si concentra visibilmente per ascoltarmi ed evitare contemporaneamente uno dei fossi sulla sua sinistra.
Arrivati sulla sommità della collina, con qualche faticosa manovra, riusciamo a ridiscendere verso la casa bianca per
scoprire se Giansebastiano la conosce e se è possibile invitarla a trascorrere la serata con noi, magari in compagnia di qualche sua amica ansiosa di venire a contatto con quelle che ritengo essere, «le vere gioie della città».
Scendendo, nel giardino non c’è più nessuno, solo una luce
segnala la presenza di esseri umani in quella casa, una delle poche abitate di questa stagione in questi paesini del basso Piemonte dimenticati da Dio.
Giansebastiano non ricorda di nessuna ragazza che abitasse lì.
Potrebbe essere qualche famiglia nuova, una di quelle che
ogni tanto compare in questi luoghi conservatori e che segna l’inevitabile cambio della guardia fra le generazioni di impiegati e le loro scomode seconde case a misura d’infanzia sicura.
Così questo miraggio da cartolina si sfarina come le ali di una falena fra le mani e a me non resta che mettermi comodo, allungare i piedi fin sul cruscotto della Citroën scassata messaci generosamente a disposizione dal nonno di Giansebastiano, patriarca dei prolificissimi Redà, e godermi gli elenchi di ricordi cercando di non perdermi a contare i ronzii e gli attentati suicidi dei mosconi che si riversano senza sosta contro il parabrezza di questa merda di macchina.
Tornati, ceniamo. Fra una mano di poker e un Barracuda, servito direttamente dentro gli ananas decapitati, l’inquietudine non mi abbandona neanche un attimo costringendomi ad appartarmi nel bagno per prendere qualche goccia di valium e buttar giù una pastiglia.
Dopo essermi sciacquato la faccia torno da Giansebastiano e suggerisco una passeggiata fuori, fra le «gioie della campagna», in questa notte di giugno a ridosso di un temporale, particolarmente fresca e profumata, tanto che non mi dispiacerebbe se un coltello ben affilato mi penetrasse nel costato e mi desse una bella strizzata d’occhi, qualcosa tipo, «live fast die young».
Giansebastiano è stanco, vorrebbe restare a casa, finire la
mano e andare a dormire che l’indomani deve studiare per un esame.
Tipico.
«Ok, andrò io, sarò di ritorno fra una mezz’ora, un’ora al massimo, il tempo di prendere una boccata d’aria a fumare una sigaretta».
Il tempo di stancarmi un po’.
Mentre esco dalla porta della casa principale, parte di quello
che Giansebastiano finge essere un palazzo rinascimentale
e che altro non è se non un agglomerato maltagliato di cubi,
vedo le chiavi della Citroën sul tavolino dell’ingresso.
Perché no?
Guidare di notte mette allegria.
Non fosse che queste strade sono tortuose, infide e tortuose, e che i lampioni sono pochi, le case grigie e rade, e i paesini, un agglomerato dopo l’altro, si susseguono quasi identici, come presepi nel cuore di una tempesta di sabbia.
I lampi degli abbaglianti si stagliano contro cartelli stradali arrugginiti, enumerando nomi di posti impossibili da ricordare, frazioni impronunciabili nel su e giù sobbalzante della notte.
Mentre risalgo, sforzando troppo il motore di questa carretta, su per la salita che porta alla sommità di un’ennesima collina dove si stende un grosso campo di grano, mi trovo sulla destra la casa bianca che nella notte rosata sembra una chiazza chiara dai contorni tremolanti.
La luce di una camera al secondo piano è accesa e viene fuori come l’invito di un bordello d’altri tempi dalle tende rosse di raso.
Accosto.
È il posto ideale per fare due passi.
Scendo sbuffando fumo dal naso, neanche fossero le nari
fiammeggianti di un drago.
Mi avvicino.
Dallo stancil di un orsetto appiccicato al vetro prendo coraggio e vigore.
Quella non sembra la stanza di una coppia sposata. Ha tutta l’aria di essere invece la stanza della loro figlia adolescente in bilico fra la curiosità per le cose del mondo e il suo immaginario di fate e principesse danzanti.
Se c’è una cosa che so fare bene è sbilanciare chi sta per cadere.
Se c’è una cosa che mi piace, a questo mondo, è passare il segno, indicare i differenti sentieri che la vita può porre di fronte e stare a vedere che cosa succede.
Come da copione lancio un sassolino contro la finestra.
Aspetto.
Ne lancio un altro.
Vedo una tenda scostarsi.
Un terzo.
Dopo pochi secondi la finestra si apre e si affaccia quella che sembra essere proprio una bambina troppo cresciuta.
Dalla fantasia del pigiama emergono due seni a punta ben distanziati l’uno dall’altro, al di sopra del collo una folta chioma di capelli biondi con le radici scure e una faccia più incuriosita che preoccupata.
Ciao, le sussurro. Ti disturbo?
No, dice lei. Chi sei?
Niente, sono uno di fuori, sono qua con un mio amico che ha la casa non so quasi più dove più in giù.
Pausa.
Non riuscivo a dormire e ho fatto due passi, le dico. Oggi mi
sembrava di averti vista mentre passavamo in macchina e mi sembravi carina, e Giansebastiano dorme e io mi annoiavo così ho pensato di venire a fare conoscenza.
Ah. Tutto qui, la sua risposta. Ah.
Cosa vuol dire «ah»?
Beh, non so, è che, boh.
Boh?!? Io sono come un fottuto Romeo sotto la tua finestra
e tutto quello che hai da dire è «boh»?
Ride.
Potresti buttarmi giù la treccia, così salgo.
Ride di nuovo. Non ce l’ho la treccia io.
Allora una scala, le suggerisco.
No, aspetta.
Mmmm?
Aspetta un attimo.
Scompare dietro quel sipario da avanspettacolo lasciando ondeggiare i lembi delle tende alle sue spalle.
Ritorna dopo meno di un minuto.
I miei dormono. Scendo un attimo. Mi metto qualcosa addosso e arrivo.
Non toglierti il pigiama, le suggerisco. Sono molto curioso
dei pigiami io.
Ride di nuovo e riscompare fra un grande svolazzare di tende.
Dopo un paio di minuti scende. Negli occhi un tizzone di
matita, un po’ di ombretto troppo calcato. Sulle labbra deve
essere del lucidalabbra quella cosa che sfarfalla e riflette i raggi della luna tutto intorno.
D’istinto allungo una mano verso la sua palpebra. Ci passo
sopra un dito, a metà fra una carezza e quella pesantezza della mano che hanno le mamme nel togliere lo sporco sul muso dei loro ragazzi.
Riportando la mano verso di me scruto l’indice e il medio
imbrattati d’azzurro.
Lei è stupita, mi guarda con gli occhioni spalancati. Ora ha
una piacevole asimmetria di colore e sembra più fresca e accattivante di come mi era apparsa, grossolana e seminuda, nel tardo pomeriggio.
Non dovresti truccarti così tanto alla tua età. Sai?
Ma, io.
Comunque, dato che te lo sei messo per fare bella figura con me, dovrei essere lusingato.
Veramente non mi ero ancora struccata prima di andare a
dormire e… Sai che sei bellissima?
???
Dico sul serio. Quanti anni hai?
Io, ne ho, 16.
Sei davvero carinissima.
So che te lo diranno in molti, ma, sei proprio carina. Alla tua
età le ragazze attraversano quel ponte che stacca l’infanzia
dall’adolescenza e che le porta più in là, non so come dire, non so se capisci.
Non sono mica una bambina.
Ah si? È per questo che hai un pigiama con gli orsacchiotti?
Rimane in silenzio, imbarazzata.
Ti va di fare due passi?
La ragazzina mi guarda.
Potresti mostrarmi qualcuna delle «gioie della campagna».
Di nuovo, sorride.
Ci avviamo lungo la strada principale, camminando per
una cinquantina di metri al buio prima di raggiungere la luce
della casa successiva, verso la collina.
Sulla sinistra un embrione di discarica abusiva, sulla destra
i campi di grano che fluttuano come alghe, illuminati solo dalla luna.
Non parliamo. Nei suoi occhi, che di taglio scrutano i miei
per virare bruscamente se ricambiati, si scorge una sorta di
speranza, un brivido, uno di quei momenti rari e fantastici in
cui una donna dice tacitamente a un uomo che è a sua completa disposizione.
Non sono tanti quanto si crede.
Spesso una donna si concede per rassicurazione. A volte per vizio. Altre per solitudine, calore. Lei, questa ragazzina in trasformazione, mi si concederà per curiosità, per dimostrare a se stessa che la trasformazione è avvenuta, che può essere o potrebbe essere una di quelle ragazze che si vedono in televisione.
Mi si concederà perché non ha mai sentito uno sguardo così
pesante e attento e giudicante su di lei, abituata alla lascivia
dei suoi coetanei, frettolosi, timorosi, avidi.
Non è esatto però ritenermi un grande amatore.
Tutt’altro.
Per quanto sia sempre stato in grado di riconoscere le qualità che si necessitano a un grande amatore (sostanzialmente una profondità di sguardo che lasci trapelare il desiderio senza trasformarsi in supplica) e per quanto io stesso, in certe rarissime occasioni, sia stato in grado di intrappolare una giovane fra le mie braccia trasmettendole un calore che non provavo, difetto il più delle volte di una spregiudicata sincerità, di una sfida gaudente che respinge la maggior parte delle ragazze, vuoi per stupidità, vuoi per superbia.
Ma con quelle come lei. In queste circostanze. Non ho un attimo di esitazione. Nessun dubbio circa come evolveranno le cose.
Farà l’amore con me. È solo questione di quando.
E come.
In questi momenti mi tornano alla mente le mie letture di
adolescente: le pagine sulla seduzione di Ovidio, quelle voluttuose di Wilde, quelle morbose e dogmatiche di Kierkegaard.
E il gioco come non potrebbe non attrarmi? In fondo che ho fatto fino ad ora nella mia vita?
La storia della mia vita è, in qualche modo, la storia di un suicidio sociale, di come sia riuscito ad impiegare le mie (presunte) enormi potenzialità per un suicidio più o meno cosciente.
E non si tratta solo delle droghe o dell’alcool.
Quelle sono solo pose che si trasformano poi in dipendenze, per quanto eleganti e coscienti, legate a una necessità che è, in vero, il massimo di schiavitù.
E neanche si tratta di quella che grossolanamente qualcuno
potrebbe definire tendenza all’autosabotaggio. Inseguire le cose
che non si possono avere, essere attratti da chi ci tratta male.
Bella scoperta. Gli affamati d’assoluto ne colgono l’aspetto
relativo e si abbassano i pantaloni, si piegano alla necessità di campare.
Dopo una estenuante conversazione sulle tempeste solari,
sulle probabilità che fra qualche anno, sul finire del 2012, quegli imbecilli seminudi vedano soddisfatte le loro superstizioni grazie all’aumento dell’attività solare, finiamo come sempre a discutere di me e del mio caratteraccio. Io voglio un futuro, voglio diventare famoso, voglio arricchirmi.
Ma io, come Giansebastiano ha avuto modo di ripetermi durante il lentissimo viaggio in macchina fino a questo postaccio, non sono e non sarò mai un uomo integrabile.
Vale la pena citare quel bifolco moderato con cui mi accompagno: nelle gradazioni delle mie parole, «rabbia e sdegno traspaiono incessantemente» e sono «pericolosamente serio»
durante le mie follie. Pericolosamente coerente nel mostrarmi «gentile e spietato, trattenuto e fuori di testa» col mondo che mi circonda.
Un quadro niente male, non c’è che dire.
Oggi Giansebastiano, mentre ripeteva senza sosta che «non ci sono prove scientifiche sulla fine del mondo» ha dato anche la terza migliore definizione della mia persona che mi sia capitato di sentire finora.
La prima classificata è «ladro di zen»: un coinquilino che aveva dovuto saldare al posto mio gli affitti arretrati per non
essere buttato in mezzo alla strada come il sottoscritto.
La seconda: «Re Mida della merda». Altisonante forse, ma accompagnata da un risentimento cieco da parte di una ragazza di cui ero stato il primo amante, che dopo anni di pompini a richiesta ha scoperto che avevo una storia con la sua migliore amica e coinquilina.
La terza, quella di Giansebastiano appunto, è se possibile
più pop, dettata da una speranza che io possa cambiare che è senza possibilità, ed è forse la più dolorosa perché in qualche modo la più vera: «Dr. House respinto al test di medicina».
Potenza che non si traduce in atto.
Mentre cammino in silenzio, con questa ragazzina sconosciuta a fianco, a pochi metri dai detriti vicino al pendio, mi rendo conto di essere turbato per quello che è il disegno del mio futuro che oggi Giansebastiano ha tracciato. Lungi dall’essere radicale ma vincente come il Joker, Giansebastiano mi diagnostica un futuro di solitudine, costellato da frustrazioni in cui l’ammasso di idiosincrasie che oggi mi rendono un «non ancora trentenne eccentrico» saranno il colpo di piccone che mi condannerà a «una vecchiaia invivibile».
Così va il mondo.
Ma nel frattempo, tutto quel che posso fare, mentre la guar-
do, questa ragazzina, è pensare a dove strofinerò il mio pene: fra le sue labbra, sui capezzoli tumorali, lungo la serica peluria delle gambe, sotto le ascelle?
Hey, fermati un attimo, le dico.
Si ferma. Mi ubbidisce, e la cosa un po’ mi eccita e un po’ mi disgusta.
Tu vuoi baciarmi vero?
???
Sei ansiosa, hai paura, vuoi baciarmi ma non sai se sarai in
grado.
Io, cosa te lo fa pensare?
Vuoi baciarmi si o no?
…Sì.
E così, sul ciglio della strada, senza nessun ambiente ricreato apposta, senza nessuna costruzione di atmosfera, appoggio le mia bocca alla sua e la assaggio. Mi passo la lingua sulle labbra facendola schioccare compiaciuto e vado più a fondo, verso la sua lingua che si divincola troppo in fretta picchiandomi sulle zanne.
Mi stacco.
Le sorrido.
Contenta? Le chiedo.
Guarda in basso.
Non può trattarsi certo del suo primo bacio.
Ma la cerimonia del primo bacio, la costruzione intorno all’intimità di un castello fatto di riti e sacralità è ancora presente in questa ragazzina.
Si vede benissimo che si immagina accoccolata ad ascoltare il mare.
A strapparmi da queste romanticherie senza senso fu proprio una ragazzina, poco più grande di me all’epoca, una tipica adolescente genovese che è riuscita a convincere il padre a regalarle il motorino, e ora è libera di sfrecciare nel traffico ostentando un casco rosa con tanto di orecchie pelose incollate sulla sommità.
Essendo io senza mezzi di trasporto autonomi, ed essendo
lei impedita legalmente a trasportarmi sul suo cinquantino, stazionavamo alla fermata dell’autobus vicino al porto, un pomeriggio, in attesa di tornare a casa. Questa ballerina, che ricordo bellissima grazie all’azione restauratrice della memoria, di punto in bianco, stanca dei mie tentennamenti, mi bacia in mezzo al traffico. Allo smog. Al vociare.
Io la guardo e le chiedo, Ma, qui?
E lei, Perché? Sei ancora convinto che ci siano posti romantici e posti che no? Un cesso di un McDonald’s o il sedile di un treno possono essere altrettanto romantici e forse anche più eccitanti che una spiaggia al tramonto.
Bingo.
La sfacciataggine di quella ballerina spigliata, all’epoca fidanzata con un naziskin che mi faceva paura e che andava all’Itis, mi si è conficcata nella memoria con un’esattezza indimenticabile.
La serietà del profeta unita alla leggerezza di una bocca perfetta e di piccoli denti piacevolmente irregolari al suo interno.
Da allora, posso dirlo senza vergogna, molto di quel che ho
fatto, con le ragazze, l’ho fatto sotto una sorta di imperativo
morale che mi imponeva di sconfessare la sacralità della cosa.
E ad ogni bacio, compreso questo bacio, con questa ragazzina di campagna, basta affidarsi al sassolino che è penetrato attraverso il caucciù delle mie Clarks bucate, al rivolo della sua bava che mi cola dal labbro inferiore, allo spicchio pallido di luna che si staglia attraverso la coda dell’occhio, il grano, i detriti: perfetto.
La scorto, senza fiatare, verso il centro del campo. Circospetto, la guido tenendola per mano fra le spighe, e lì, infastidito dal frinire dei grilli, disgustato dall’impatto che una lucciola produce contro la mia spalla sinistra, le tiro giù in un
unico movimento i pantaloni del pigiama e le scosto le mutandine con le dita. Dopo averla superficialmente accarezzata, al secondo o terzo gemito che manda dallo stomaco, mi chino per annusarla e, con una secca, unica passata della lingua, con la quale cerco di portare al mio mulino più saliva possibile, risalgo dalle cosce lungo il mistico taglio, fino ad arrivare al pertugio tondo instrettito da un brivido.
Mi rimetto in piedi con un grugnito e, senza troppi preamboli, il membro in pungo, prendo a strofinarglielo contro quella lumaca bagnata che si schiude sempre di più ad ogni passaggio.
Quindi premo e mi allontano.
Una volta.
Due volte.
Tre.
Entrare è fantastico.
Senza mezze misure.
Non ci sono altri aggettivi da usare in un caso come questo.
Il formicolio che quella passerina, circondata da una lucente
e corta peluria volpina, produce sulla punta del mio cazzo, è una sensazione fantastica. Fantastica. Per tutto il portato che ne viene insieme. Per tutta l’affermazione di sé che da il portarsi a letto, se così si può dire, una ragazzina sconosciuta presa senza alcuno sforzo.
Forse è vergine.
Confesso che questo pensiero, tutt’altro che banale, mi attraversa la mente mentre me la sto prendendo.
Ma l’andirivieni dentro di lei non ne risente affatto. Probabilmente qualche bruto con le sue tozze dita da contadino dita ha già portato a termine la parte dolorosa del lavoro. O forse un amplesso concluso a metà. O magari uno stuolo di ragazzotti che non posso neanche lontanamente immaginare nei recessi della mia mente, benché avvezza alle cose della vita, cristallizzata com’è al moralismo cattolico e conservatore che in qualche modo mi si è inculcato durante gli anni dalle Franzoniane.
In ogni caso entro e esco con facilità e, ad un certo punto, la
sento cedere sotto le mie spinte, le sue caviglie, circondate dai pantaloni lunghi del pigiama, si flettono in avanti e io mi lascio cadere, sovrastandola, trascinandola a terra, supina, accoppiandomi come un coniglio, frettolosamente, senza lasciarmi troppo trasportare, solo preso dal cambio di ritmo e distratto dal freddo della terra sotto i miei pugni, dal ronzio
vero o presunto degli insetti e dal tormento del pensiero che
qualcuna di quelle bestie striscianti si arrampichi dal basso e risalga appigliandosi ai miei vestiti fin lungo la schiena.
A un certo punto mi sembra di vederla venire.
O, a posteriori, quello che scambio per un orgasmo è solo una liberazione gutturale del senso di ansia che la opprime.
Pochi secondi dopo sono in piedi, il cazzo puntato contro la
sua bocca, la mano destra che stantuffa ritmicamente.
Voglio venire.
Mentre glielo spingo fra le labbra senza incontrare troppa
resistenza, sperando che il gravare dei denti non mi sia troppo d’intralcio e sperando che si decida ad usare con maggior lena la lingua mi accorgo che non manca poi molto.
Mi ritraggo e accelero concludendo con un getto che, come
nella migliore tradizione dei porno, le finisce solo parzialmente sulle labbra e per il resto le si spande per tutto il viso ricoprendole la guancia destra e parte del naso.
Dopo una paio di secondi faccio un passo indietro per guardarla meglio, sporcata dal mio sesso, alla luce della luna. Se fossi un autentico romantico, se coltivassi in maniera più primitiva il mito dell’oltreuomo potrei forse dire che mi sento potentissimo.
Invincibile.
Immortale.
In realtà, è più un senso di vuoto quello che mi prende.
Così, di soppiatto.
Un torpore istantaneo che mi fa desiderare un letto, lenzuola pulite e un cuscino fra le gambe, da stringere e su cui abbandonarmi.
In un certo senso mi risveglia quello che dapprima mi sembra
una sottospecie di sibilo. La guardo. Ansima. Sembra una crisi d’asma, che monta pian piano seguita da un pianto isterico.
È sconcertata, sconvolta.
Singhiozza, e alza il tono dei singhiozzi ad ogni sussulto, un
sorso d’aria dietro l’altro, sempre più rarefatto.
Mi chino su di lei per abbracciarla. Si aggrappa alla mia camicia come se artigliasse un arbusto su una parete calva, appena in tempo prima di precipitare. Avvicina la guancia alla mia. Sento il freddo lucore del mio sperma spandersi, come uno sfregare di mani fra le nostre guance, insinuarsi fra il corto ispido della mia barba.
Trattengo il disgusto e le massaggio la schiena con una mano, passandola circolarmente al centro come si fa per lasciar digerire i bambini.
Non si placa, continua a singhiozzare.
Così tiro fuori la boccetta di valium dalla tasca, la svito e gliene verso qualche goccia direttamente in bocca, Ti farà bene, le dico.
Deglutisce a fatica.
Deglutisce più volte prima di rallentare il respiro, di vibrare di meno fra le mie braccia mentre continuo ad accarezzarla, circolarmente.
Non mi sconvolgono le manifestazioni isteriche.
Niente di più comune, se parliamo di come reagiscono normalmente le donne.
Sono manifestazioni di impotenza, la frustrazione di un desiderio che si traduce in una reazione convulsa e incontrollata.
Freud ci ha fondato tutta la sua carriera.
Non posso dire che mi sconvolgano.
Certo mi irritano, talvolta mi annoiano.
Nella maggior parte mi disgustano.
Soprattutto i pianti.
Ma è bello quando, anche senza empatizzare con quel dolore superficiale, tenendo a mente che «una donna che piange è una donna che trama», non me ne distanzio, e mi sforzo di sopportare il disprezzo per quella fuoriuscita insignificante di emozioni e mi trastullo nel ruolo di compassionevole consolatore.
Dopo qualche minuto riesco a farla alzare, l’aiuto a ricomporsi e sostenendola riscendiamo lungo la strada, la discarica sulla destra, il campo di grano, a specchio, sulla sinistra.
Ci fermiamo per qualche istante di fronte a casa sua. Tentenna.
Poi ricomincia a piangere. Quindi la faccio salire in macchina e la porto a fare un giro sperando di distrarla.
Dopo un quarto d’ora mi fermo di nuovo davanti a casa sua.
Tiro il freno a mano.
La guardo.
Scoppia a piangere di nuovo.
Avrei voglia di darle uno schiaffo.
Riavvio il motore.
Proseguiamo verso casa di Giansebastiano in un finto silenzio rotto soltanto da qualche sporadico singhiozzo, accompagnato a tratti da un mugolio sommesso che lo rende ancora più intenso e che scompagina il sottofondo di creature brulicanti e intermittenti che popolano il terreno e i campi circostanti.
Arrivati non sono certo di che ore siano.
Le dico di aspettare giù.
Salgo la ripida sala in pietra della casa principale, che conduce alla camera dove ci siamo sistemati io e Giansebastiano.
Dorme profondamente.
Cerco con cautela le chiavi dell’altra ala della casa, una specie di monolocale dove Giansebastiano stava sul finire dell’adolescenza quando anche i suoi erano in paese e che adesso è una specie di magazzino.
Riscendo più in fretta possibile, la trovo che guarda per terra, una chiazza scura fra l’erba, probabilmente un formicaio.
Apro la porta del monolocale dove sono ammonticchiate varie cianfrusaglie fra cui quel residuato bellico di orso di peluche e il mio ritratto incompiuto, come fosse lo studio di un artista contemporaneo, circondato da scatolame, vecchi cappelli, animali impagliati alle pareti, i resti di una console Nintendo.
La faccio sdraiare sul divano.
Si accoccola sulle mie ginocchia, sdraiata come un gatto, le
gambe raccolte.
Resto con lei fino a che non si addormenta.
Mi districo dal suo abbraccio con cautela.
Chiudo piano la porta uscendo, per non svegliarla.
Arrivo in camera, mi svesto in silenzio, punto la sveglia abbastanza presto e mi addormento in fretta, aiutato da qualche goccia di valium che mi trasporta in un sonno senza sogni per cui non finirò mai di ringraziare le scoperte dell’industria farmacologica.
Il suono della sveglia mi trapana in qualche modo dolcemente il cervello. Osservo per pochi istanti il cellulare strisciare verso il vuoto in cui termina il comodino. Lo afferrò in tempo. Premo «allarme ripetuto» e mi stendo altri 5 minuti.
Poi ancora 5.
Ancora 5.
Quando mi alzo Giansebastiano dorme ancora: la faccia rivolta verso il basso sul cuscino, il respiro sereno del sonno
mattutino, illuminato da un raggio di sole a perpendicolo su
parte del viso.
Avrei voglia di aprirgli la faccia con un coltello.
Mi rivesto con calma e dopo aver preparato una tazza molto
dolce di Nescafé, butto giù una pastiglia giusto per precauzione.
Prendo le chiavi e scendo al piano di sotto.
Apro la porta e trovo la ragazzina già sveglia, seduta piegata in due sul divano, immobile.
Sembra avere male alla pancia.
Hey, buongiorno, dico io.
Mi guarda di sfuggita.
Come stai? le chiedo.
Io, che ore sono? Dovrei essere a casa, i miei, i miei si saranno accorti che non ci sono, mio padre, sarà incazzato nero, io, io, mio padre mi ammazza, che cazzo gli dico, cosa gli dico… Calmati, dai, non è successo niente.
Mio padre mi ammazza, sarà incazzato nero, che cosa gli
racconto, io Ok, ora ascoltami, calmati ok? Calmati. Gli dici che eri da un’amica...
Prende invece ad agitarsi sempre di più. Ansima. Mi guarda
di sfuggita e inizia a piangere.
Calmati, le dico. Su, calmati.
Non si calma.
Ma che cosa gli dico? Che cosa gli dico? Mio padre mi ammazza, sarà incazzato come una belva, io che cosa gli dico, perché sono uscita? Che cazzo gli dico?
Sta iniziando a urlare.
Calmati, le dico io. Tiro fuori la boccetta e metto parecchie
gocce nel mio caffè che non ho quasi toccato.
Bevi, su, ti farà bene.
Che cosa ci hai messo?
Niente, qualche goccia che ti farà bene. Bevi, su.
Beve.
Adesso calmati ok? Calmati. Non è successo nulla. Ora vai
a casa e ti calmi.
A casa? Mio padre sarà incazzato come una bestia. Io non so che cazzo dirgli. Quello mi ammazza. Io non so che cazzo dirgli.
Riprende a urlare.
Tiro fuori una pillola, un barbiturico che uso per dormire
quando le ansie e i rancori mi tormentano e sono troppo stanco per fare qualsiasi cosa che non sia piegarmi alle preoccupazioni e restare, gli occhi spalancati, nel letto.
Prendi questa. Calmati, ti farà bene.
Come faccio a calmarmi? Mio padre mi ammazza, hai capito?
io non so neanche come ti chiami. Mi ammazza.
Calmati, va bene?
Non sopporto quando le donne diventano troppo teatrali.
Il dialogo con loro diventa una farsa. Gli scambi sembrano
dettati da un copione, le loro pose, i loro sguardi, sono semplicemente ridicoli e tutto prende una piega eccessivamente drammatica.
Calmati, prendi questa, ti farà bene, le ripeto.
Butta giù la pillola con un sorso di caffè.
Questa ti calmerà. Aspetta solo che faccia effetto. Bevi un
po’ di caffè.
In capo a pochi minuti si stende sul divano, bofonchiando
qualcosa, tipo che devo parlare con suo padre, che devo essere io a parlargli, che altrimenti la ammazza o qualcosa del genere.
Quando si addormenta me ne vado.
Chiudo a chiave la porta e torno in stanza.
Mi sdraio sul lettino a fianco a quello di Giansebastiano e
fisso il soffitto.
Ora mi sento troppo teatrale anche io.
Chiudo gli occhi, mi volto su un lato, e senza riuscire ad addormentarmi resto immobile, modulando il respiro per tranquillizzarmi.
Dopo una mezz’ora Giansebastiano si sveglia. Mi guarda assonnato e abbozza un sorriso che è più una smorfia. Si alza dopo poco e prepara un vero caffè. Un po’ di latte, una merendina e si sente rifocillato a sufficienza per iniziare a parlarmi.
Io non ho voglia di parlare. Sono stanco. Affaticato. Mi sembra che tutto quello che mi circonda in qualche modo mi sfugga.
Vorrei solo una sigaretta e due dita di qualcosa, un po’ di
musica, una rivista di cinema, sarebbe perfetto.
Fa caldo. Giansebastiano mi parla della sessione estiva. Degli esami, di linguistica generale.
Gli rispondo a monosillabi.
Che intenzioni ha per la giornata?
Studiare. Una passeggiata nei boschi. Due chiacchiere. Bere
un po’. Ritemprarsi, che negli ultimi tempi, fra la ragazza che lo ha lasciato per telefono, il ritorno dall’Erasmus a Parigi e le ansie dei genitori, sta passando un periodo di merda. Inoltre sta cercando di rimuovere il Lexotan dai suoi elenchi mentali.
Non credo capisca quanto lo odio.
Non credo si accorga di quanto lo disprezzo.
Ok. Cerco di assecondarlo.
Di guardarlo per pochi secondi consecutivi.
Di non cedere alla tentazione di urlare.
Appena si mette a studiare scendo da basso.
Apro piano piano la porta del monolocale.
Dorme ancora.
Richiudo e torno su.
Guardo Giansebastiano concentrarsi sul manuale di Storia
dell’Arte. Ma non doveva preparare Linguistica generale? Osservo due insetti sbattere contro la vetrata del terrazzo, nel disperato tentativo di riguadagnare la libertà.
Rifletto: cosa ti ha fatto diventare così?
Così privo di energia, così dipendente, così meschino?
E mentre Giansebastiano sfoglia svogliatamente le pagine illustrate che gli rivelano i segreti di Giotto e Brunelleschi io cedo alle mie voglie e mi ritiro in bagno per buttar giù una pillola con due dita di whisky, come nel più classico e ammirevole cliché americano.
E nella mia testa sento le bombe cadere.
Dopo un paio d’ore torno a controllare la situazione di sotto. La ragazzina dorme sempre ma si rigira su se stessa, le braccia penzoloni a terra, sembra un sonno agitato il suo. Così verso un po’ di valium in un bicchiere e glielo faccio scivolare in bocca di lato.
Tossisce.
Si volta con la faccia verso la spalliera.
Questo dovrebbe darmi un altro po’ di tempo.
Dopo pranzo e un paio di partite a carte Giansebastiano vuole andare a fare una passeggiata.
Facesse pure.
Io sono stanco, gli dico. Stanotte ho letto fino a tardi. Gli spiace andare da solo?
Un po’ contrariato Giansebastiano si avvia fra i boschi, dice
che vuole cercare dove aveva costruito anni fa una capanna su un albero.
Penso che dovrebbe farsi curare.
Penso che dovrebbe farsi curare da uno bravo.
Ok, gli dico. Ti aspetto qui, magari dormo un po’.
Appena se ne va scendo di sotto.
La ragazzina è di nuovo sveglia, ha fame, è preoccupata.
Cerco di tranquillizzarla.
Tra poco dovrebbe andare a casa, le dico, saranno preoccupati.
Inizia a protestare che la uccideranno e poi scoppia in lacrime.
Risalgo e le porto un po’ di pasta avanzata e le dico che si sistemerà tutto.
Mischio altro valium all’acqua che le do da bere e aggiungo
un’altra pastiglia di un tranquillante qualunque sminuzzata
nel caffé.
Mangia svogliatamente, è confusa, stanca. Mi abbraccia e mi tira a sé sul divano.
Mentre la accarezzo mi viene voglia di scopare.
Diavolo.
Penso che sono un idiota, penso che sono un vero idiota, penso che sto facendo una grandissima puttanata, controllati mi dico, controllati, ma più penso che non dovrei farlo, più sembra inevitabile che io lo faccia.
E una punta di compiacimento si stampa ritta come un baluardo di mediocrità sulla mia faccia.
Sei un cretino, mi dico.
Te ne pentirai, mi ripeto.
Te ne pentirai.
Te ne pentirai.
Ma piano piano prendo a toccarla.
Te ne pentirai.
Lei geme, fa per divincolarsi, poi si arrende ai miei tentativi
e si abbandona del tutto alle mie insistenti carezze.
Te ne pentirai.
È un amplesso diverso. Come tutte le volte che ci sono di
mezzo le droghe.
I tranquillanti intendo.
Chiunque abbia fatto l’amore in quelle condizioni sa di che
parlo.
Alcuni dicono di sentirsi disinibiti sotto l’effetto delle droghe.
Che il sesso sia meglio perché si perdono i freni e tutto diventa possibile, giustificati dalla sostanza, ogni desiderio può realizzarsi e le fantasie prendono corpo, sfrenate e incontrollate, è uno dei concetti a più alto raggio che si siano mai sentiti a questo mondo.
A parer mio non si tratta di questo.
Quando sei fatto credi di essere sul punto di fare cose incredibili.
Tutte le sensazioni raddoppiano, triplicano, e l’epidermide
si erotizza in maniera talvolta problematica.
Stiamo parlando di qualcosa che non manca mai di fare paura. Ogni movimento, ogni affondo o fluttuazione, sembra
essere ai limiti, ti senti libero e in gabbia, preda di un delirio che ti sta portando a fare la scopata della tua vita. Ad essere un amante eccezionale. A farle delle cose che non potrà scordare.
Si tratta di un’estraneazione che quando diventa totale, permette di raggiungere un’affermazione di se stessi praticamente infinita.
Come se il fatto di sentirsi fuori dal corpo e non rendersi bene conto di cosa si fa potesse renderci immortali. Intramontabili.
Pericolosamente vicino all’abisso, sull’orlo del baratro,
pronti a spingersi oltre il ciglio del burrone.
Ma con i tranquillanti è tutta un’altra cosa.
Se mischiate barbiturici e qualunque pasticca contenuta nel
macro insieme SSRI (selective serotonin reuptake inhibitors) otterrete un sesso pieno di paranoie.
Un sesso morboso, fatto di remore e incertezze.
Tutto vi sembrerà grave, sbagliato.
Ed è così che mi sento: colpevole, mentre vado avanti e indietro.
Dentro e fuori è solo una questione di movimento.
È così che mi sento.
Confuso.
Dilatato.
Immobile.
E l’immagine che mi accompagna, la mia idea fissa, se così
si può dire, è che il mio corpo dovrebbe far compagnia ai pesci.
Cullato dal passare delle correnti, travolto dall’andirivieni dei banchi di tonni e sardine.
Apnea.
Eccessiva sudorazione.
Senso di indigestione.
E adesso, penso?
Dolori addominali.
Adesso che le sono dentro, adesso che la sto violando ancora, adesso? Adesso cosa succede?
La risposta è semplice, come nella maggior parte dei casi, tranne qualcuno: non succede niente.
Succede quel che deve succedere prima che si possa pensare di indirizzare le cose in una maniera diversa.
Mentre cerco di rivestirmi un po’ intontito non posso fare a meno di pensare al sapore che la sua cosa bagnata mi ha lasciato in bocca. Pensare che il gusto di un buon whisky irlandese ci si accosterebbe alla perfezione, pensare alle cose blu, alle cose azzurre che ci sono nel mondo, al modo che ho per catturarle.
A Elvis.
A Ian Curtis.
Penso che lei è un drago, che suo padre mi taglierà le palle,
che dovrò scappare in Argentina.
Adesso sono vestito mentre lei è pericolosamente nuda.
Neanche un fremito di desiderio si frappone fra me e il desiderio di farle saltare le cervella con un gigantesco revolver.
Un colpo solo e potrei staccarle la testa di netto.
Due colpi e potrei essere sicuro di finirla.
Se avessi una pistola giuro che le sparerei.
Mi viene il vomito. Me ne devo andare.
Cazzo cazzo cazzo.
Senti, le dico, ragazzina, ti staranno cercando io credo.
Non mi guarda.
Senti ragazzina, non vorresti magari che ne so, dimenticare
tutta questa faccenda?
Cosa?
Cosa?
Cosa vuoi che faccia? Non so cosa dire a mio padre. Non so neanche come ti chiami. Ci sarà mia madre che starà dando di matto e mio padre sarà furioso. Io, bisogna dirgli qualcosa. Bisogna che ci parli tu. Che gli dici qualcosa perché io non so che cacchio dirgli.
Digli che sei uscita con qualche tuo amico, che hai fatto tardi a sei rimasta a dormire a casa sua.
Ma sei pazzo? Sei completamente fuori di testa? Mio padre
mi stacca la testa dal collo se scopre che sono uscita. Io, io, io non so che cacchio fare.
Senti, li ho avuti anche io 16 anni. Lo capisco, le capisco le
regole e tutto il resto, ma cosa vuoi che…
No tu non capisci. Io non ho sedici anni, ne ho tredici e mezzo.
13,5.
13. virgola 5.
«Sweet child in time you’ll see the line/The line that’s
drawn between the good and the bad».
Ognuno è figlio del suo tempo cazzo. Ognuno è schiavo di
quel che l’ha partorito.
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Non ho la più pallida idea di cosa dirle.
Sono fottuto.
Sono nella merda.
Senti, le dico, ok, stiamo calmi. Che cazzo vuoi dire che hai… che hai…
Tredici anni e mezzo.
Ecco, sì, tu avevi detto…
Ho tredici anni e mezzo.
Ma, ma, avevi detto che
Io non so che cavolo farci. Mio padre ci farà il sedere a strisce.
Sono rovinata. Sarà così incazzato. Mia madre. Mia madre
ci resterà malissimo.
Ascolta. Facciamo un bel respiro. Ok? Facciamo un bel respiro.
Tiro fuori dalla tasca un flacone di pillole: 2 lendormin, 2 ipnovel.
Sono bellissime.
Prendile su.
Ma che roba è?
Niente, niente, solo, roba omeopatica, tipo valeriana.
Tipo quelle piante per le tisane?
Ecco, sì, una roba del genere.
Prendo anche io un paio di pastiglie, per calmarmi.
Le butta giù a fatica.
Ecco, brava, queste serviranno a distenderci un po’, ok.
Adesso ascolta cosa faremo, ci mettiamo un po’ giù e decidiamo sul da farsi.
  Fortunatamente non ci mette molto ad acquietarsi. Questa
roba fa uno splendido effetto calmante su chi non è abituato.
E per soprammercato agisce in frettissima.
Ho bisogno di tempo per pensare.
Assoluto bisogno di tempo per pensare.
Mi gira la testa.
Sto tremando.
Ho bisogno di qualcosa di più pesante di questa robaccia.
Tempo.
Soldi.
Più tempo.
Più soldi.
Tiro fuori la boccetta di valium e le verso il contenuto direttamente in bocca.
Ci vorrebbe qualcosa di più forte da dare anche a lei, cristo.
Comunque dovrebbe dormire per un bel po’ con tutta questa
roba.
Ma se si svegliasse?
Se si svegliasse e si mettesse a urlare?
13,5.
13,5 è un reato grave.
Senza eufemismi.
13,5 è un reato gravissimo.
Nessuna pietà, nessuna attenuante.
13,5 vuol dire nessuna speranza di cavarsela con un qualche patteggiamento del cazzo.
13,5 vuol dire che sono fottuto.
13,5 vuol dire che sono dannatamente fottuto.
Mi alzo e cerco in giro qualcosa che possa aiutarmi.
Il mio necessaire.
Quel fottuto orso.
Quel fottuto quadro di me che ghigno come un cazzo di
clown.
Si appelleranno a tutto.
Ogni cosa mi si ritorcerà contro.
Ci sono vestiti da montanari ammonticchiati.
Attrezzi da muratore, secchi con ancora incrostata la vernice.
Cavi elettrici.
E se la legassi?
Se la imbavagliassi fino a che non ho deciso che fare?
Potrei sempre buttare il corpo in una discarica.
Al momento mi sembra un buona idea quindi le lego le mani
e le lego i piedi, separatamente.
Non sono mai stato un maestro di nodi ma sto attento a non
legarla troppo stretta.
Per non lasciare segni.
Le impronte cazzo.
Il dna.
Le ficco in bocca un guanto di pelle scamosciato e le passo
attorno alla testa un paio di giri di filo elettrico isolante per tenerlo bloccato.
È ancora pericolosamente nuda.
C’è una vecchia coperta di lana, di quelle a scacchi rossi e
blu.
Gliela metto addosso e me ne vado, chiudendo la porta a
chiave.
Cristo dio che giornata di merda.
Barcollo alla luce del sole. Bastano un po’ di quegli aghi di
paglia dorata per sfiancarmi e infradiciarmi di sudore.
Ho le labbra secche.
Un passo dopo l’altro avanti a me, verso l’ombra di quello
che sembra un abete ma dubito possa realmente esserlo.
Mi accascio.
Sento il brulicare della terra. Sento il fresco rasserenante delle fronde. Sento l’appiccicoso fluttuare delle ragnatele.
Cristo che giornata di merda.
Me ne sto lì non so per quanto.
Ore, minuti, che importa?
Mi sveglia Giansebastiano, con la sua smania di azione.
«Che passeggiata, ragazzi». Dice di aver ritrovato i vecchi sentieri di quando era bambino, perfino un nascondiglio dove aveva ammonticchiato delle ghiande. Naturalmente non c’erano più dopo più di dieci anni ma lui sa che il posto era quello.
Naturalmente se lo colpissi ora avrei tutto il tempo per pentirmene dopo.
Senti, gli dico io, facciamoci una pippatina.
Al tramonto, mentre quella moneta infuocata, quel disco di
fuoco o come diavolo volete chiamarlo va a nascondersi dietro la collina, passandomi lo specchietto impolverato con
Giansebastiano, sento un brivido sotto la maglietta.
Lui appoggiato al tronco del pino. Io in sospensione, gli addominali semi contratti, per non prestare troppo la mia superficie al fertile regno degli insetti, nascosti fra i fili d’erba, radunati dentro le gocce d’ambra della resina.
Mi sento quasi bene mentre si fa sera.
Vai a prendere la bottiglia Ma.
Lui sembra caracollare mentre si alza, incrociando le gambe
e improvvisando un balletto perfino aggraziato. Poi scompare lungo la scala che porta al piano di sopra e io ho il tempo d’inframmezzare a ogni tiro uno sguardo agghiacciato alla porta azzurra del magazzino da basso. Il tempo di guardare accigliato il mezzo alveare che le api hanno costruito sopra la porta seminascosto dalla tenda verdone.
Che razza di posto.
In che razza di posto sono finito.
Tiro fuori una pastiglia dalla tasca. Potrebbe essere Prozac,
o Seropram, ma la vista annebbiata dal crepuscolo mi fa difetto quel tanto che basta per regalarmi il brivido dell’ignoto.
Quando Giansebastiano torna mi ficco in gola senza farmi
vedere la capsula ingrigita dalla sera. Una golata di whisky e perfino questa serata di merda, con l’odore di letame che viene dai campi, l’impressione di non lavarmi da un secolo e la vista offuscata mi sembra apparire perfetta.
Il resto della sera prosegue come se non avessimo dovuto invecchiare mai, o pagare le rate della macchina, o usare una lavastoviglie.
Non ci vuole molto per sentirsi giovani quando si è giovani.
Sapete? Basta metter su un pezzo degli Stones, uno qualunque di quelli famosi. Basta avere una bottiglia da far fuori, qualche grammo, un mazzo di carte.
Non molto e ballerete coi diavoli dell’inferno fino al mattino.
Non molto e vi sentirete come degli dei corrotti, disposti a mostrare la lingua e torcervi le orecchie pur di ridere con niente.
Disposti a parlare di ogni porcata pur di parlare di niente.
Disposti a gettarvi fra le braccia di chiunque pur di non sentirvi niente.
La mattina arriva come un pungolo.
Mi sveglia la tachicardia.
Non è la prima volta che succede.
Basta rimanere calmi.
Basta lasciar passare il battito, poi respirare; poi respirare; poi respirare.
Prendere il ritmo.
Non morirai bello, non morirai.
Basta respirare.
I denti si serrano.
La mascella si apre in smorfie mostruose che per fortuna
non c’è nessuno a guardare.
Giansebastiano russa ancora.
Là fuori gli uccellini cantano.
E tu non morirai.
No, per dio, tu non morirai.
Ti parli come se lo potessi controllare.
Come se ne potessi qualcosa.
Tu non morirai.
Quant’è vero dio, tu, non morirai.
Ti sforzi di metterti in piedi.
Basta respirare.
Ti acchiappi forte con la mano sinistra il fianco destro.
Cerchi di girarti.
Tu, non morirai.
Sei seduto.
I piedi sul pavimento.
La schiena arcuata come un uomo deforme mentre lotti per
non accasciarti ti pare di scorgere il film della tua vita che batte sullo specchio appannato. Non è forse la quinta di Beethoven questa?
Non è la colonna sonora della tua meschina dipartita?
Tu non morirai.
Che ne diranno di quella ragazzina intrappolata da basso?
Che penseranno di te?
Tu non morirai.
Che penserà tua madre?
Cosa penserà tuo fratello dall’alto dei suoi paroloni?
Cosa scriveranno i giornali?
Devi resistere.
Devi calmarti.
Devi rimediare.
Tu non morirai.
Devi liberarti di tutte quelle medicine, devi buttare nel cesso
tutta la droga, devi slegare quella ragazzina.
Devi slegare quella maledetta ragazzina.
Giansebastiano dorme come un angioletto quando riesco finalmente ad alzarmi.
Una sorsata d’aria dopo l’altra, un piede avanti e poi l’altro.
1.
2.
Basta respirare.
3.
4.
Sono di fronte allo specchio.
Ok, ora mi calmo, penso.
Ora mi calmo.
Basta respirare.
5.
6.
Prendo qualche goccia di valium, poi mi lavo i denti.
Ok, sorrido nello specchio.
Accendo una sigaretta e sono pronto a comportarmi bene.
Scendo da basso.
Apro la porta azzurra facendo attenzione a non scontrare la
tenda per non svegliare le api.
La coperta si agita.
La ragazzina è sveglia.
Tolgo la coperta.
È pericolosamente nuda.
Si agita come fosse un pesce.
Mentre la guardo contorcersi penso che vorrei vederla fare
pipì nel vasino.
In uno di quei buffi vasini di plastica, a forma di Pluto o Paperino.
Penso che mi piacerebbe vederla fare pipì nel vasino.
Non so se lo troverei eccitante ma mi piacerebbe molto.
Giansebastiano tirerebbe in ballo qualche complesso edipico.
La slego senza troppi preamboli.
Sembra come riemergere dall’acqua di mare.
È tutta sudata.
È bellissima.
Senti ragazzina, secondo me dovresti andare tipo da tuo padre e dirgli una cazzata tipo che ti eri persa nel bosco o tipo…
Scoppia a piangere.
Su, non piangere, non puoi sempre scoppiare a piangere
ogni volta che…
Il pianto erompe in un suono più acuto, fastidioso.
Ascoltami adesso ci facciamo due gocce di…
Non le voglio le tue stupide gocce mi risponde.
Sei uno stronzo vaffanculo non le voglio.
Sembra aver smesso di piangere.
Ok, ok stai calma vorrà dire che…
Non le voglio le tue stupide gocce, non le voglio, non le voglio.
Cerco di abbracciarla ma inizia a dimenarsi.
Le tiro un ceffone.
Si scaglia contro di me. I pugni serrati. Mi si getta addosso
e accenna un urlo.
Cerco di tapparle la bocca.
La stringo.
Si dimena.
Cerca di divincolarsi.
Zitta.
Stai zitta.
Si agita convulsamente.
Devi stare zitta le sussurro digrignando i denti.
E mentre le tengo una mano sulla bocca con l’altra l’afferro
per il collo e la spingo sul divano.
Zitta, devi stare zitta.
Continua a dimenarsi furiosamente.
Scalcia.
Quindi le salgo sopra con tutto il corpo e le blocco i movimenti.
Stringo più forte.
Sembra calmarsi.
Provo a togliere la mano ma non appena prende fiato prorompe in un urlo isterico, lacerante.
Le rimetto la mano sulla bocca, cerco di coprirle anche parte
del naso.
Zitta, devi stare zitta.
Con le caviglie le tengo ferme le gambe.
Cerco di pararmi dai possibili colpi nelle parti basse.
Si agita, scalcia, sembra imbizzarrita.
Zitta.
Stai zitta le digrigno a un centimetro dalla sua bellissima faccia, mentre con la destra continuo a tapparle la bocca e con la sinistra le stringo il collo sottile.
Volta la testa da una parte all’altra come per prendermi a testate il polso.
Con le gambe sembra impegnata a mimare lo sci di fondo,
dimenandosi con colpi secchi dei quadricipiti.
Gli occhi le roteano. Un po’ li chiude. Un po’ mi guarda furiosa ma a tratti sembra disperata.
A un certo punto mi accorgo di trovarmi nel limite estremo.
C’è un valico. Questo valico come ogni altro valico divide il di qua dal di là.
Io so bene che sono ancora in tempo. Per non oltrepassare il confine.
Per restare dalla parte vicina delle cose.
Ma non riesco a smettere.
Non riesco a trattenermi.
Non voglio trattenermi.
Non posso pensare di dovermi trattenere.
Attorno, tutto quel sole illumina il pulviscolo.
La porta è spalancata sul verde brillante dell’erba.
La vita rigoglisce e turbina in un frullo d’ali scomposte, si innerva dentro le arterie marroni degli alberi e sprizza via dalle gemme umidicce e tumorali all’estremità dei rami.
L’orso mi guarda e sorride, un bottone dell’occhio scheggiato sembra alludere a un consenso che non gli può appartenere.
Sento lo scalpiccio degli zoccoli dei quattro cavalli della fine
del mondo.
Mi ricordo che erano colorati, ma non ricordo i colori, né i
simboli.
E poi c’è quell’orso che mi fissa.
Accanto all’orso il mio specchio ad olio, beffardo.
Sento i nervi del suo collo che si tendono, sento i miei polpastrelli quasi conficcarsi fra quelle fibre, come rompendo qualcosa di duro ma non duro abbastanza.
E mi vedo lottare, nella fantasia, con un misterioso ed oscuro aggressore.
I tratti ancora da completare, come lo schema di un fumetto.
Guardo prima le imperfezioni del corpo.
Poi il disegno generale, con quelle chiazza di colore intenso
e grumoso che mi assale.
Un’ombra, una sega di golem che incombe sul mio sorriso
da clown.
Getto un’occhiata a quell’ingombrante pezzo di carne che a
scatti cerca di spezzarmi le dita.
La guardo mentre sembra cercare di deglutire.
Poi smette.
Uno squarcio di luce le illumina il lato sinistro del viso.
Il resto è avvolto in un’inverosimile oscurità.
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marcocubeddu · 11 years
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backstage da uno shooting di Giulia Ferrando
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marcocubeddu · 11 years
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marcocubeddu · 11 years
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Il mio articolo per IlVenerdì di Repubblica del 5/7/2013.
il soggetto, Gerry, lo potete vedere anche qui:
https://www.facebook.com/giuliaferrando.ph/media_set?set=a.1397012323845270.1073741830.100006095462760&type=1
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marcocubeddu · 11 years
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Leonard Cohen, tra pochi giorni, dal vivo.
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marcocubeddu · 11 years
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We are ugly but we have the music
Leonard Cohen
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marcocubeddu · 11 years
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marcocubeddu · 11 years
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marcocubeddu · 11 years
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"Tutto in natura ha un’essenza lirica, un destino tragico, un’esistenza comica."
George Santayana
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marcocubeddu · 11 years
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"...fissando al tempo della messa in onda di “Non è la Rai” la sessualizzazione patologica di Spera"
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marcocubeddu · 11 years
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T'appartengo
"...proprio a causa dei molti appunti su Ambra, rinvenuti nei quaderni di Spera dopo la fuga dalla chiesa in cui uccise l’amore della sua vita, molti hanno voluto leggere la sua storia d’amore con Mel come la storia di una gigantesca attrazione sessuale o, per meglio dire, della sua frustrazione. Fissando al tempo della messa in onda di “Non è la Rai” la sessualizzazione patologica di Spera".
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marcocubeddu · 11 years
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Il sociologo francese, Emile Durkheim in una sua importante riflessione sull’argomento, arrivava alla conclusione che il suicidio dipendesse più da dinamic
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marcocubeddu · 11 years
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L'uomo che ogni uomo vorrebbe essere.
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marcocubeddu · 11 years
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Ci sono voluti sei uomini per portarlo fuori dalla stanza dell'hotel e caricarlo sull'ambulanza
Quattro shot di rum, due Pina Colada e due birre, accompagnati da una doppia porzione di frittura di gamberi con abbondante maionese e un grande piatto di foie gras.
Secondo la fonte citata dal Post, Gandolfini avrebbe ordinato solo fritti per quasi tutto il soggiorno romano.
"L'uomo", nei sogni di ogni uomo.
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marcocubeddu · 11 years
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marcocubeddu · 11 years
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marcocubeddu · 11 years
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