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adrianofrinchi-blog · 8 years
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La straordinaria vita di madre Alipia di Kiev
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Chi giunge allo splendido monastero di Goloseevo a Kiev non potrà fare a meno di notare come i pellegrini si dirigano speditamente verso un’umile sotterraneo ricoperto di piastrelle bianche che ricorda vagamente un locale ospedaliero. Non si tratta di una struttura medica, anche se lì vengono curati i corpi e le anime, ma del sepolcro di madre Alipia (Avdeyev). 
Nessuno potrebbe immaginare che questo fiorente monastero un tempo fu reso una landa desolata dai bolscevichi e che quel luogo che custodisce le reliquie di madre Alipia un tempo fu l’umile dimora di questa straordinaria figura. 
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Se dal 1993 la vita spirituale è stata rinnovata e se questo luogo oggi è meta di pellegrinaggi da tutto il mondo il merito è senz’altro dello sforzo ascetico di madre Alipia che ha santificato e continua a santificare con la sua presenza questi luoghi.
Madre Alipia nacque nel 1905 nella regione di Penza in una famiglia di pii contadini e venne battezzata col nome di Agata. La sua giovinezza fu quella ordinaria di una giovane ragazza prima della rivoluzione ma fin da subito manifestò il suo amore per Dio e la pratica ascetica: la preghiera e il lavoro scandivano la sua vita, il tempo libero era dedicato alla lettura di libri di spiritualità e soprattutto al Salterio. Matushka Alipia in seguito disse: “una contadina che lavora nei campi, che fatica, e che glorifica Dio, sarà salvata”. 
La folle rivoluzione bolscevica però spazzo via questa serenità. I genitori della dodicenne Agata vennero fucilati e la piccola rimase sola davanti al furore ateista che aggredì la chiesa ortodossa. In quei bui tempi anche il solo dirsi cristiani era una colpa, figurarsi se si tentava di condurre una vita pia. La giovane Agata, che amava frequentare i luoghi santi, venne presto imprigionata. Furono quegli anni ‘30 tempi di dura prigionia ma il Signore volle che Agata fosse rilasciata nel 1939 e cominciasse un altro periodo difficile da fuggitiva, senza documenti e senza casa. Poi la Seconda guerra mondiale con le sue atroci sofferenze e una nuova prigionia.
Dopo la guerra il Signore volle donare a questa grande anima una casa cristiana degna: la riaperta Lavra delle grotte di Kiev. I santi padri della Lavra, molti dei quali avevano sofferto persecuzioni e prigionia, divennero la famiglia di Agata. 
L’igumeno della Lavra, l’archimandrita Kronid, divenne il padre spirituale della giovane e successivamente fu colui che la tonsurò monaca con il nome di Alipia. Alla Lavra, con la benedizione e la guida dell’archimandrita Kronid, lo sforzo ascetico di matushka crebbe di intensità ma sempre nel nascondimento. 
Madre Alipia si dedicava a tutti i servizi e praticava la sua ascesi in segreto nella cavità di un albero non lontano dal posso di san Teodosio delle Grotte. Nulla nell’abbigliamento e nei servizi la distingueva dagli altri ma lei continua a rimanere fedele al suo monachesimo segreto per sfuggire ai frequenti controlli dell’ateo potere sovietico. 
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Dopo la morte dell’archimandrita Kronid, un altro anziano della Lavra divenne la guida di Matushka, lo schemonaco Damiano, un uomo dotato di molti doni spirituali. 
Nel 1961 la Lavra venne nuovamente chiusa e ricominciò l’esilio di matushka Alipia. Scantinati fatiscenti e pieni di topi divennero la sua dimora e il lavoro edile fu la sua nuova attività ma ella rimase sempre fedele al suo monachesimo e alla sua ascesi che proseguì sempre più intensa tanto che non dormiva mai di notte ma continua a pregare incessantemente. La chiesa dell’Ascensione a Kiev divenne il suo punto di riferimento e fu lì che il popolo imparò a riconoscere in lei una vera folle di amore per Cristo: i suoi comportamenti apparentemente strani, la sua chiaroveggenza divennero segni inequivocabili per i credenti. 
Il Signore portò Matushka nella zona ormai spopolata dove sorgeva il monastero Goloseevo. Lì madre Alipia stabilì la sua cella che divenne meta di pellegrinaggi da tutta l’Unione sovietica. Nella sua povera cella matushka Alipia riceveva dalla mattina alla sera, per tutti, fossero militari o alti funzionari o gente umile, c’era una preghiera, una parola di conforto e un pasto preparato da lei. Ci furono anche molti miracoli, soprattutto guarigioni, che però matushka cercava sempre di nascondere. 
Fu proprio in questo periodo che matushka Alipia cominciò ad indossare di notte pesanti catene, esse simboleggiavano le pene dei suoi visitatori di cui lei si caricava nella preghiera. In breve esse diventarono numerose e pesanti tanto da ingobbirla. 
L’eremita impensieriva le autorità sovietiche che sovente le facevano visita con la minaccia di demolire la sua cella o di internarla in un ospedale psichiatrico ma madre Alipia non si scoraggiò mai e perseverò nella sua preghiera e nel consolare e consigliare i pellegrini, predicendo il rifiorire del monastero di Goloseevo e la riapertura della Lavra delle Grotte di Kiev.
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Madre Alipia più volte predisse la sua morte e si preparò piamente all’incontro con il suo Signore: nella sua ultima settimana di vita chiesa ad una donna di venire a leggere il Salterio per lei. Matushka si spense in un clima di preghiera il 30 ottobre 1988 mentre i solenni funerali si svolsero il primo novembre, in una bella giornata con grande afflusso di popolo e di clero.
Nel 2006 le reliquie di Madre Alipia, con la benedizione del metropolita Vladimir (Sabodan), sono state trasferite nel monastero di Goloseevo di cui in vita Matushka aveva predetto la ricostruzione. 
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Oggi migliaia di pellegrini di tutto il mondo accorrono al sepolcro marmoreo di Matushka Alipia che si trova nella cripta della cappella con cinque cupole che ora sorge nel luogo dove c’era la sua cella. E lì Matushka continua ad operare miracoli e guarigioni per tutti coloro che con fede e amore si accostano alle sue venerabili reliquie.
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adrianofrinchi-blog · 8 years
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A Saint Denis si perde la testa
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Peggio del terrorismo c'è solo l'oblio. Ed ora che Saint Denis è stato eletto dalle cronache a covo dei terroristi islamici mi sembra atto di misericordia spirituale e corporale verso la povera Europa rammentare lo splendore di Saint Denis, mirabile abbazia e sepolcro dei re di Francia. Il luogo come l'abbazia prendono il nome da Denis (Dionigi) primo vescovo di Lutetia (Parigi) che decapitato a Montmartre (che vuol dire appunto "Monte del martirio") insieme ai compagni Eleuterio presbitero e Rustico, diacono miracolosamente portò la sua testa in questo luogo per riposarvi e far fiorire il Vangelo. Oggi a Saint Denis non ci sono né abati né re c'è solo un immenso accampamento che odora perpetuamente di cibo a poco prezzo e di miseria. Una landa megalopolitana nelle quale può succedere di tutto. A Saint Denis si perde la testa ma le teste non sono più quelle di una volta.
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adrianofrinchi-blog · 8 years
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Lettera di don Camillo a Papa Francesco
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Qualunque prete sarebbe orgoglioso di essere indicato dal Papa come modello ma don Camillo no. Mai si sarebbe aspettato che Papa Francesco a Firenze davanti ad illustri prelati e sacerdoti lo citasse come esempio di sacerdote. A dirla tutta il reverendo parroco si è anche molto arrabbiato perché Peppone e i suoi sono venuti a canzonarlo leggendo ad alta voce sotto le finestre della canonica un articolo di Repubblica. “In don Camillo la preghiera di un buon parroco si unisce alla evidente vicinanza con la gente” leggeva solennemente Peppone mentre gli altri si sbellicavano dalle risate e il Brusco chiosava “vicinissimo, come quando si mise a sparare dal campanile!”.
Così don Camillo, un po' per ringraziare, un po' per umiltà e per coscienza sporca mi ha consegnato una lettera per il Papa. Don Camillo mi ha anche detto di precisare agli uffici di Sua Santità di dire al Papa di non chiamarlo al telefono perché di solito risponde l'Anselma, la perpetua, che lo manderebbe sicuramente a quel paese visto che un giorno sì e l'altro pure lo Smilzo telefona fingendosi papa Francesco.
Santità,
ho appreso dalla stampa, anche quella comunista, delle vostre graziose parole nei miei confronti e di come Voi mi avete indicato agli eminentissimi prelati e reverendissimi presbiteri come modello di sacerdote.
Vorrei sinceramente ringraziarVi per queste parole ma sento il dovere, dopo attento esame di coscienza, di scriverVi che non sono un modello adatto per i preti di oggi.
Santità, io sono un povero curato di campagna che ha letto pochi libri e pochissimi giornali in più il buon Dio mi ha voluto dotare di due mani larghe come badili e dello spessore di un mattone che quando va bene uso, con la tecnica dello scapaccione “radente”, sui chierichetti e quando invece va male le uso contro il sindaco del mio paesello e la sua banda di scalmanati senza Dio. Penso anche che avrete appreso da monsignor vescovo di quella faccenda, non proprio edificante, delle panche di rovere. Sua eccellenza paternamente mi ha anche chiesto perché invece di fare il prete non avessi fatto l'elefante.
Nutro poi, Santo Padre, il dubbio che i preti d'oggi mi vogliano come modello. Don Francesco, il giovane coadiutore in borghese che la Curia volle assegnarmi ai tempi del concilio, mi disse che ero fermo al 1666. Ancora oggi alle riunione del clero i pretini moderni, quando sollevano lo sguardo dai quegli infernali aggeggi informatici che hanno tra le mani , mi squadrano e mi osservano come una bestia rara. Sarà per la tonaca sarà perché sanno che la domenica me ne vado a celebrare una messa  clandestina, in latino, per i cattolici nella vecchia cappella privata del mio amico Perletti dove i fedeli continuano a ricevere l'Ostia inginocchiati davanti alla balaustra e dove ho traslocato il Cristo crocefisso e la statua di sant'Antonio.
Forse non sa, Beatissimo Padre, che un altro pretino mandato dalla Suprema Autorità Ecclesiastica un giorno mi disse: “Reverendo, lei dimostra di non aver capito che la Chiesa deve aggiornarsi e deve aiutare il progresso, non ostacolarlo!”. Questa faccenda del progresso e delle riforme è troppo difficile per me. Io non posso andare più in là di Cristo e per dirla tutta, Santità, io non ho mai capito quale mai sia questa nuova strada presa dalla Chiesa. Lei ha detto, l'ho letto sull'Osservatore Romano, che la Chiesa è un “ospedale da campo”. E' vero ma la Chiesa in quanto ospedale da campo – lo dice uno che la guerra l'ha fatta – si trova in campo di battaglia dove si combatte la guerra contro il male e il peccato. Prendete il mio caso, Santo Padre, io non ho mai approvato nessuna delle diavolerie o delle bestemmie che la federazione del partito o il Soviet Supremo mettevano nella teste bacate di Peppone e dei suoi compagni ma la porta laterale della mia chiesetta la sera rimaneva e rimane sempre aperta e così questi poveretti all'imbrunire vengono a confessare il loro peccato di scemenza e io, prontamente, gli dico qualche buona parola, impartisco l’assoluzione e regalo qualche santino.
Oggi però sento soffiare un vento di pazzia e mi pare che l'uomo stia distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L'unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato. No, non ce la faccio ad entusiasmarmi come tutti i preti progressisti della nouvelle vague, non sarò mai un modello per loro. Mi creda, Santità, a volte mi sento come un transaltantico costretto tra le sponde di un esiguo lago alpestre e invece sono solo un'umilissima barchetta che rimpiange il mare tempestoso. Forse il mio peccato è proprio questo: un peccato di rimpianto.
Beatissimo Padre, sono certo vorrà perdonare queste mie righe, adesso ritorno alla mia cappella dove, se non disturba alla Curia, tornerò a celebrare messa e a parlare di Dio, dei santi, del Paradiso e dell'inferno e dove insegnerò che non basta essere brutti, stupidi e poveri per avere diritto al Regno dei Cieli ma occorre essere anche buoni e onesti. Per chi vorrà lì c'è ancora il Crocefisso all'altare maggiore e anche i ceri da accendere alla Madonna e ai santi. Sa io non sono d'accordo con quel famoso parroco sociale che hanno fatto cardinale adesso, che i vassoi coi lumini accesi sono uno spettacolo da rosticceria.
Prego Vostra Santità di voler accogliere le espressioni della mia filiale devozione e di accordare la Vostra paterna ed apostolica benedizione.
Don Camillo
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adrianofrinchi-blog · 9 years
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Amici miei al governo
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Comincio a pensare che quel "Raffaello Mascetti" solennemente scandito dal presidente della Camera Laura Boldrini durante le votazioni per il Presidente della Repubblica fosse una profezia. Una profezia che si avvera e sancisce l'avvento al potere degli "Amici miei": il conte Mascetti primo ministro, l'architetto Melandri alle infrastrutture, il primario Sassaroli alla salute, il Necchi all'economia, il Perozzi sottosegretario e la zingarata e la supercazzola come metodo di governo. C'è in giro un'atmosfera che autorizza a burlarsi di tutto e tutti, perchè il mondo intorno, ormai, non da più alcuna affidabilità o via alternativa, e non è più possibile cambiarlo. Non so se è un bene, se è una naturale evoluzione o reazione della società italiana. Forse lo diranno gli storici. Io intanto vado alla stazione, di sicuro ci sarà un treno in partenza con passeggeri da schiaffeggiare. Se non sono incollati al loro smartphone.
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adrianofrinchi-blog · 9 years
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E adesso a chi tocca?
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Non l'ho guardata la folla della "marcia repubblicana" di Parigi, perché le folle nelle piazze oggi ci sono domani non si sa. Ho guardato la prima fila dei capi di stato e l'ho guardata con compassione e un velo di tristezza. Non c'erano condottieri, non c'erano né Churchill né De Gaulle solenni e decisi a gridarci che non ci arrenderemo mai. Non c'era nemmeno il Commander in Chief per eccellenza, il Presidente degli Usa Obama. Con il suo omologo russo si sono chiusi nelle loro fortezze inviolabili di Washington e Mosca. Sulle strade di Parigi i nostri rappresentanti eletti, qualche capo di stato del cosiddetto terzo mondo che a un certo punto si sono stretti tra di loro, le loro diffidenze l'una accanto all'altra e i fardelli dei propri paesi sulle spalle. Ma su tutti la terribile domanda: e adesso a chi tocca?
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Un Papa nella tempesta
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di Giuliano Ferrara, il Foglio (18 ottobre 2014)
Avevo 26 anni quando morì. L' avevo visto per caso la prima volta incontrandolo durante una visita pastorale. C' era un grande macchinone nero in mezzo alla folla, pioveva a Roma, piazzale di Ponte Mil vio, e il Papa sul quale si è levato ovviamente uno sguardo di attonita curiosità, aveva quel bellissimo saturno rosso che si vede molto spesso nelle sue immagini, quello che sembra un sombrero, e il tabarro, elegante, aristocratico. Pallido, in un tempo romano di pioggia, mi fece una grandissima impressione, avevo 16-17 anni e tornavo da scuola. L' ho rivisto una seconda volta che era come più piccolo dell' anello piscatorio, che era tutto consunto dalla malattia, nella messa di Natale del 1977. Lo vidi nella sedia gestatoria, un soffio di umanità senza peso materiale. Molto bella e carismatica fu quell' immagine. Mi ritornò alla luce degli occhi quando ero a Santiago de Compostela, quel 6 agosto del 1978 in cui morì e i giornali spagnoli (allora non c' erano tante notizie online) la mattina dopo titolavano: "Murió Pablo". E' stato il Papa della mia giovinezza, lo dico non perché la cosa abbia alcun rilievo ma per farvi capire il senso iniziale da cui poi è sprigionato quanto c' è, ed è molto, di interesse e di curiosità e, possiamo anche dirlo senza paura, di devozione verso una personalità così straordinaria. Quando è morto Paolo VI ero un giovane comunista, venivo da una famiglia comunista, ero lontanissimo, a parte un rapporto culturale e civile, dalla chiesa cattolica. I comunisti di un tempo erano molto rispet tosi della chiesa, della gerarchia, del Papa, avevano il senso della grandezza che si racchiudeva dentro questa bimillenaria istituzione umana, che si autocomprende come anche divina, che aveva questa identità universale, cattolica appunto, ed è ovvio che noi fossimo attratti, affascinati, però non era un legame fondato sulla fede. E quindi visto che siamo in procinto di una beatificazione, se un elemento di santità era percepibile dal ragazzo che ero allora era una santità intellettuale. La sofferenza di questo Papa, il suo contatto con il mondo e anche con la chiesa, la straordinaria capacità che ebbe di sollecitare la responsabilità di coloro cui parlava, porgergli la loro stessa libertà ma fare di questa libertà per ciascuno di loro un problema su tutti i temi che ha affrontato e di cui il suo pontificato è stato costellato, sono elementi assolutamente straordinari, ed erano una cosa che colpiva ogni mente, ogni spirito non chiuso a un ragionamento sulla storia e sul senso della storia. Sofferenza è una parola abusata nel caso di Paolo VI, ma ho trovato un testo emblematico del 1969, contenuto in una normale allocuzione nel corso di un' udienza generale. Questa sofferenza aveva un' origine spiritualmente e intellettualmente straordinaria di cui Paolo VI era consapevole, e nel '69 era già il Papa del Concilio immerso nei primi soffi, in quelli buoni e in quelli meno benigni, del dopo Concilio. "Un cristianesimo facile: questa Ci sembra una delle aspirazioni più ovvie e più diffuse, dopo il Concilio. Facilità: la parola è seducente; ed è anche, in un certo senso, accettabile, ma può essere ambigua. Può costituire una bellissima apologia della vita cristiana, a intenderla come si deve; e potrebbe essere un travisamento, una concezione di comodo, un 'minimismo' fatale [sentite che termini da grande italiano, da grande scrittore!]. Bisogna fare attenzione. Che il messaggio cristiano si presenti nella sua origine, nella sua essenza, nella intenzione salvatrice, nel disegno misericordioso che tutto lo pervade, come facile, felice, accettevole e comportabile, è fuori dubbio. E' una delle più sicure e confortanti certezze della nostra religione; sì, ben compreso, il cristianesimo è facile. Bisogna pensarlo così, presentarlo così, viverlo così [sembra un motto del pontificato di Francesco]. Lo ha detto Gesù stesso: 'Il mio giogo è soave ed il mio peso è leggero' (Matth. 11, 30). Lo ha ripetuto, rimproverando ai Farisei, meticolosi e intransigenti, del suo tempo: 'Compongono pesan ti e insopportabili fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini' (Matth. 23, 4; cfr. Matth. 15, 2, ss.). E una delle idee maestre di San Paolo non è stata quella di esonerare i nuovi cristiani dalla difficile, complicata e ormai superflua osservanza delle prescrizioni legali del Testamento anteriore a Cristo?". Quindi un atteggiamento misericordioso, persino consapevolmente facilista, "accettevole", "comportabile", come dice in questa splendida lingua Paolo VI, ma con un avviso: tutto questo è ambiguo, è esposto al travisamento. Non è che fosse un Papa del dubbio, Paolo VI aveva una fede fermissima, lo dirò poi citando il cardinale Ratzinger quando parlò della morte di Paolo VI in una bellissima omelia. Paolo VI è un Papa del dubbio, amletico, controverso solo nella percezione che ne abbiamo, ed è normale e giusto che sia così, la tempesta è stata in noi ed è ancora largamente in noi. I Papi non sono controversi, bisogna essere molto presuntuosi per dire che un Papa è controverso. E' controversa l' accoglienza che noi destiniamo a loro, il rapporto del mondo con il vicario di Cristo, con il vicario di Pietro, con il capo di una gerarchia che è anche il primo messaggero di un popolo, di una comunità di credenti, quello sì è controverso. Coi papi si può litigare, ma i papi non litigano con sé stessi, sono ovviamente parte di una storia, sono esseri umani, ma l' istituzione ha un senso univoco, limpido, nitido. Ha quello che può dare, si affida per i credenti ovviamente alla Prov videnza divina, ma di dubbioso non ha nulla, di controverso non ha nulla. Un cristianesimo facile era per Paolo VI contemporaneamente un dovere, un modo di evangelizzare, un modo di credere perfino, il "giogo leggero", un messaggio del Signore, e al tempo stesso però era un problema, era un' ambiguità, perché si può essere contro il legalismo ma, e lo vedremo adesso rapidissimamente percorrendo il senso del suo pontificato, è più difficile escludere l' ordine spirituale, la distinzione di bene e di male dall' orizzonte della nostra vita, dei nostri comportamenti, del nostro pensiero e persino dalla nostra fede quando ci sia la fede. Diciamolo in modo giornalistico: io non sono uno storico e neanche uno specialista, sono un innamorato del pensiero cattolico, della cultura cattolica, del cattolicesimo reale, fisico, vero, che rappresenta un elemento di equilibrio nella vita del mondo e del mio paese. Paolo VI è un grandissimo straordinario uomo di curia che lavora con i papi "pii", Pio XI e Pio XII, pontefici massicci che vivono in una chiesa piena di ombre, una chiesa che oggi non potremmo neanche riconoscere se si fosse mantenuta in qualche parrocchia sperduta di periferia. Una chiesa piena di ombre e probabilmente anche di luce, ma severa, rigorosa, una chiesa strettamente legata al passato, in quanto il passato per quella chiesa era la testimonianza del Regno che viene, la dottrina. Era la dottrina, anche innovandola. Pio XII ha innovato il modo di leggere la Bibbia con l' enciclica Divino afflante Spiri tu, ha lavorato con il cardinale Bea, con i costruttori del Concilio dopo di lui. Quella era la chiesa dove Paolo VI ha concepito, formato la parte più cospicua della sua posizione nella chiesa ed è la vera ragione per cui poi, dopo il fulmine profetico di Giovanni XXIII e la convocazione del Concilio, fu lui a essere eletto Papa. E' stato un pastore attento nella fase milanese come arcivescovo di Milano, molto attento sulla questione della famiglia, e poi è stato il Papa del Concilio. Giovanni XXIII è stato il Papa che ha chiesto al Concilio di essere pastorale, benigno e aperto, ma Paolo VI è quello che ha dovuto governare questo Concilio che si era trasformato, quando lo riconvocò dopo la morte di Giovanni, in un' assemblea della Pallacorda, una sorta di grande confronto dentro la chiesa, un momento di fermenti rivoluzionari che tendevano a grandi svolte, a grandi modifiche. Paolo VI da questo punto di vista è stato tutt' altro che dubbioso, è stato un Papa di sublime certezza perché in uno dei documenti decisivi del Vaticano II, la Lumen Gentium, la costituzione su chi siamo, chi siamo noi chiesa e co sa siamo nel mondo, appose la famosa "Nota esplicativa previa". Come a dire: questo documento è complesso, viene fuori da una larga ispirazione episcopale, in cui i reverendi padri si riconoscono, io non solo ho contribuito a farlo, ma lo faccio integralmente mio, però consentitemi di apporre in latino quelle sette o otto righe fondamentali che dicono: "Tutto questo è vero, ma il governo della chiesa è con Pietro e sotto Pietro". Il Papa nel Vaticano II salva il primato romano, e lo salva attraverso questo atto magisteriale. Non impedisce un passo avanti rispetto all' infallibilità del Vaticano I, non impedisce la collegialità, la nascita del Sinodo, non impedisce un movimentarsi della chiesa, ma è un movimentarsi che non va verso la deriva degenerativa della disunione. "Nota esplicativa previa", un atto di magistero straordinario, eccezione emergenziale che arriva forse nel momento più importante di vita del Vaticano II. Poi cosa altro è Paolo VI per un povero giornalista? Ovviamente oltre a tutto il resto, oltre al poeta della modernità - poeta proprio nel senso che era versificatore, lessicografo, era il dizionario delle cose più importanti che il pensiero di un Novecento tormentato, decadente, un po' rancido, riusciva a produrre nel momento in cui moriva (Paolo VI è stato un Papa della seconda metà del Novecento) - è stato il Papa che ha levato un "no" carico d' amore, carico di pensiero, carico di preoccupazione, carico di sentimento e sensibilità, anche carico di dottrina, un "no" alla via d' uscita che il mondo moderno immaginava e praticava embrionalmente fin da allora. La modernità pensava di avere trovato la via nella rivoluzione del soggetto che supera, che disgrega e supera la famiglia, che disgrega e supera l' unità della personalità, che disgrega e supera la paternità responsabile: e il mezzo è il progresso della scien za che gli consente di decidere lui della procreazione, il progresso sociologico del nuovo ruolo della donna, il divorzio, poi l' aborto. Insomma i grandi drammi che ruotano attorno a un documento secondo me fulgido, straordinario, letto, riletto, pubblicato sul Foglio tante volte pur essendo un testo lungo e non propriamente giornalistico, l' Humanae Vitae. Paolo VI interviene attraverso un documento che parla di un tema a lui sempre caro, sempre caro a un Papa, a un successore di Pietro, per ragioni secondo me assolutamente vere che è il tema della vita. Ora la chiesa sta per reimmettersi - alla fine la beatificazione di Paolo VI è anche una forma di ancoraggio spirituale solido che con grande finezza e sensibilità Papa Francesco ha trovato modo di collocare proprio al culmine del Sinodo - si reimmette nel circuito di questo dramma: la famiglia, dunque la sua unità, il sesso, la procreazione, tutto quello che ruota attorno a questo elemento centrale della vita umana. Non è che abbiamo scoperto adesso che esistono le famiglie cosiddette "patchwork", quello che nel 1960 era uno sfilacciamento (parlo del 1960 perché in quell' anno in una celebre lettera pastorale per la diocesi ambrosiana il cardinale Montini trattò il tema della famiglia), quello che allora era un infragilimento della famiglia che diventava meno solida, meno unita, meno convergente verso fini trascendenti, meno legata a un senso, oggi è distruzione come grande tendenza dei tempi, come perdita completa di autorità, di prestigio, di peso della famiglia biparentale, classica: sposarsi, promettersi definitivamente l' amore, coltivarlo, attraversare tutto, la benevolenza, la malevolenza, la santità e il peccato; attraversare tutto dentro questo vaso di santità che recentemente il cardinale Kasper paragonava a una chiesa domestica. Adesso è più dura e di nuovo c' è un' alternativa. Come sapete Paolo VI, è scritto nell' enciclica in modo chiaro, aveva reinsediato e allargato una commissione voluta da Giovanni XXIII che analizzava il problema della famiglia nei tempi moderni, li ascoltò, li riunì, li fece parlare. Loro gli diedero un impianto sociologico e dottrinale di compromesso, di mediazione, si trattava non di poco. Si trattava di modificare proprio il senso stesso dell' amore cristiano, come amore sacramentale. Il matrimonio è vero che preesiste al cristianesimo ed è stato canonizzato dal cristianesimo.
Ma l' idea sacramentale dell' amore fra uomo e donna come amore fra Cristo e la sua chiesa, quella l' ha inventata il cristianesimo, l' ha portata il Signore, e quindi adesso come allora c' è un problema. Questa commissione aveva dato un' alternativa di compromesso e, come sapete, Paolo VI firmò invece il documento che è stato giudicato più disperato e più di argine, di difesa, di erezione di un muro anziché di guida. Ma non era questo, il Papa invece presagiva il futuro in modo straordinariamente intelligente e con mezzi quasi sovrumani, di sovranità intellettuale assoluta. Paolo VI aveva capito tutto della scienza, dell' eugenetica, dei progressi tecno-scientifici che avrebbero portato alla produzione dei bambini, invece che alla loro procreazione attraverso un atto di amore, che avrebbero portato a un' idea strumentale della pianificazione familiare. Tutto aveva perfettamente capito, e aveva intuito attraverso quale pertugio culturale e psicologico questa tendenza dissolutiva sarebbe passata, e disse di no in un modo che gli attirò poi gli strali, le inimicizie, le sfide di una parte del mondo e di una parte della stessa chiesa cattolica che non accettava questo pensiero e che riteneva che il messaggio, il significato del Concilio Vaticano II fossero un' altra cosa, dovessero proprio culminare in uno sposalizio col mondo così come è. Invece Paolo VI fece di testa sua, nel suo personale, privato, spirituale, altissimo (data la funzione che ricopriva), colloquio con Dio. E quindi fu un Papa criticato, e criticato in modo feroce. Dopo l' Humanae Vitae che è del 1968, non scrisse più un' encicli ca e lo disse esplicitamente: non voleva più essere elemento divisivo nella sua stessa chiesa. Codificare, fissare in una lettera enciclica le sue idee è fatto che sarebbe stato concepito come sfida gerarchica al popolo di Dio. Ma un Papa, disse Ratzinger nell' omelia dopo la morte di Paolo VI, "un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia [qui c' è tutta la sapienza del cardinale Ratzinger], le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l' approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede. E' per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede [grande lezione ripresa nelle sue mani capaci da Papa Francesco] lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni [pensate solo alla discussione che sta imperversando alla vigilia del Sinodo], impone come parametro l' amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. Per questo ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della chiesa". Dalla gioventù alla maturità, fino alla mia turpe vecchiaia, questo è il mio Paolo VI. [Intervento nel dibattito] E' vero: la dottrina di per sé è morta, la lettera è morta, lo spirito vivifica. E lo spirito per una religione come il cristianesimo è incarnato nell' esperienza, nella storia. D' accordo, però il problema è sempre lo stesso, riformulato in modo diverso da Paolo VI, da Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI, e adesso da Papa Francesco: fino a che punto io posso amare, esprimere misericordia, perdonare, restando nella giustizia? Non giudico evangelicamente, ma porto la spada della mia fede nel mondo, e la spada ferisce, induce a comportamenti di volta in volta diversi. Con l' esempio? Sì con l' esempio. Con la sequela dei più deboli, degli svantaggiati, dei poveri? Sì, con quella che è la sequela di Cristo, la sequela evangelica. Con l' apertura mentale, la sensibilità verso gli altri? Certo. Con lo spirito di accoglienza? Ma sicuramente. Però il problema è sempre lo stesso. Un fine santo corre o no il rischio di essere tradito dai mezzi che impiega? Ricordo qui a Brescia delle conversazioni molto belle con Mino Martinazzoli sul teologo Romano Guardini, autore di un bellissimo libro su Pascal, finissimo interprete di Pascal. Filosofo, teologo, letterato del Seicento che fece a cazzotti, si fa per dire, con i gesuiti. Pascal scrisse le famose "Lettere provinciali", disse "state sbagliando tutto, voi reverendi padri gesuiti". Erano nel momento della loro maturità, e Pascal disse di no. Con Martinazzoli, con un certo sense of humour, con una certa capacità di stupirci, ragionavamo su questo. Chi più dei gesuiti ha lavorato per un fine santo? Sono nati per santificare il mondo e la chiesa nel momento della dissacrazione, nel momento scismatico, della grande ubriachezza teologica indotta dal genio e dal talento religioso di Lutero che però l' ha imbracciato contro Pietro, contro Roma, contro la continuità apostolica e diventò la rivoluzione sacramentale per cui niente aveva più importanza salvo la fede e quindi la chiesa veniva virtualmente abolita. I gesuiti, che non sono stati affatto gli agenti segreti della Controriforma (e poi forse non c' è stata nemmeno una Controriforma, ma una Riforma cattolica parallela alla Riforma luterana) e comunque non erano i maestri concertatori, malgrado il contributo del grande orchestratore san Roberto Bellarmino, però hanno cercato di ricostruire lo spazio cattolico e sacramentale anche attraverso la via mistica, anche tagliando tutte le mediazioni, andando al rapporto diretto con il divino. Francesco lo dice spesso: devi farti riempire, svuotarti e lasciare che il tuo spirito si riempia di qualcosa di ineffabile, di non razionalizzabile. E' un linguaggio molto diverso da quello di Benedetto XVI, che invece la sua chiesa la portò sul terreno dell' alleanza tra fede e ragione, ma è comunque un orizzonte straordinario, un modo di fare il Papa. Sta di fatto che i gesuiti interpretarono molto bene questa cosa indistinta che sta tra mistica e politica. Poi però elaborarono una morale comune pazzesca, la morale del probabilismo. Non voglio stare a semplificare, tutto dipende da una serie di fattori che vengono gestiti dalla tua direzione spirituale o da te in quanto direttore spirituale di te stesso, dopo di che si possono fare tante cose, si può nascondere il crocifisso tra gli indiani, si può rubare, si può uccidere, si può combattere: insomma "todo modo para buscar la voluntad de Dios". Questa è la volgarizzazione satirica, pascaliana, della grandezza dei gesuiti, che però fu una grandezza ambigua: per rendere facile il cristianesimo o corrispondergli, perché "il giogo è leggero" e da qualche punto bisogna ripartire, non si può affrontare il mondo soltanto proponendogli manifesti di dottrina, è quasi inutile aprire le porte delle chiese, presentarsi nelle piazze, nelle strade, nelle calli delle villas miserias che sono il nucleo dell' esperienza di Papa Francesco per indottrinare. Non si può parlare ai poveri con il linguaggio della dottrina morale, non si può riconquistare il mondo, anche il mondo mondano, il mondo non povero, d' avanguardia, della cultura, della tecnica, con la dottrina morale. D' accordo. Ma fino a che punto io posso amare, essere misericordioso e per donare senza per questo disperdere quel patrimonio di giustizia che solo rende veramente divina la misericordia? E' questo il punto da cui si riparte ogni volta e che incantò Giovanni Battista Montini. Noi non l' abbiamo citata stasera, ma una sua frase fondamentale è che "la più alta forma di carità è la politica". Papa Paolo VI è stato contestato dai cosiddetti progressisti che gli hanno attribuito la restaurazione post conciliare, e di aver preparato poi il terreno a Giovanni Paolo II. E' stato detestato anche dagli ultraconservatori, dai sedevacantisti, da larghi settori tradizionalisti perché era stato un Papa molto attivo nel cercare di conformare attorno al nucleo della fede un messaggio secolare convincente della chiesa cattolica fino al punto di essere uno dei padri dell' esperienza democratico -cristiana, fino al punto di aver modernizzato l' Italia promuovendo il centrosinistra. Altro che "Papa del dubbio", è stato un Papa di spinta, di trasformazione. Credo che poi sulla percezione disperata del suo pontificato abbia contato molto anche l' esperienza del caso Moro. Paolo VI tenne l' omelia funebre senza la presenza della salma "del fratello Aldo", giustiziato in un carcere del popolo delle Brigate rosse, ricondotta a Turrita Tiberina per un funerale privato da parte della famiglia furiosa con lo stato che non aveva trattato. Andò nella basilica romana più importante, San Giovanni in Laterano, e disse la famosa frase di una bellezza stellare: "Signore, tu non hai esaudito la nostra supplica per la vita del nostro fratello Aldo". Si rivolse in un dialogo diretto con il divino che era in lui e fece una profondissima riflessione in una chiesa vuota dell' innocenza di un prigioniero ucciso nel modo che sappiamo. E quindi sembrò addirittura che fosse un Papa in lite con la Provvidenza, ma non era così. Paolo VI, questo poeta del moderno, questo straordinario Papa che sta per essere beatificato dalla grande assemblea dei vescovi, da uno dei suoi successori che a lui si richiama, nella sua sensibilità, nella sua diffidenza verso il piccolo dogmatismo, il "minimismo" dogmatico e verso il "facilismo", era un uomo di grande certezza, di fede inconcussa. Non un uomo incerto che è una versione stupida, fumettistica che si dà di questa grandissima straordinaria personalità.
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Sentinella quanto resta della notte?
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Li abbiamo visti in molte piazze d'Italia, ritti, silenziosi, uno accanto all'altro, con i loro libri. Hanno avuto l'onore delle cronache perché da qualche parte c'è sempre qualche cretino/a che pensa che la libertà d'espressione valga solo per lui o per le sue idee. 
Metto però da parte la stupida e volgare contestazione verso le Sentinelle in piedi per riflettere su questo fenomeno ma soprattutto perché non mi sono trovato, io cristiano, in piedi con il mio libro nella piazza della mia città.
La mia critica non riguarda persone e idee, che in parte condivido, ma un metodo. Perché di metodo si tratta come dicono le stesse Sentinelle nella loro presentazione. 
Non so chi abbia pensato il nome "Sentinelle in piedi" e a cosa si sia ispirato, personalmente, per gli studi fatti, la sentinella mi rammenta un breve e un po' enigmatico oracolo del libro di Isaia, inserito tra le profezie alle nazioni pagane. 
Mi gridano da Seir: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?». La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!». (Isaia 21, 11-12)
Non è dato sapere se la sentinella di cui parla il libro di Isaia fosse in piedi, seduta o addirittura coricata, di certo ha un'atteggiamento differente dalle sentinelle contemporanee. Un atteggiamento che definirei "sapienziale". 
Le Sentinelle in piedi parlano di resistenza, vigilanza, mobilitazione usando un linguaggio piuttosto militaresco. E non a torto il mio amico Leonardo Lenzi li paragona agli ultimi giapponesi che credono ancora che sia in corso la seconda guerra mondiale. 
Inevitabilmente queste sentinelle in piedi le vedo protese verso lo scontro, verso il buio, con la forza della disperazione e l'eccitazione forse di chi sa di combattere una battaglia impari. 
Le trovò però così distanti dalle sentinelle bibliche che avevano consapevolezza della notte ma con l'animo teso all'aurora:
L'anima mia è protesa verso il Signore più che le sentinelle verso l'aurora, più che le sentinelle verso l'aurora. (Salmo 130,6)
La sentinella di Isaia poi è piuttosto loquace, non rimane in silenzio, risponde a domande anzi le sollecita pur non avendo soluzioni precostituite, avvertendo anzi che sì viene il mattino ma poi ancora la notte. 
Ma è l'appello finale della sentinella dell'oracolo che mi convince: "convertitevi, venite!".
Probabilmente quel "convertitevi" è la sostanza stessa dell'oracolo. La radice ebraica suv, significa per sé “ritornare” ma può esprimere anche, il “rivolgersi” a Dio, cioè la conversione.
Per la sentinella biblica il modo migliore per affrontare la notte che sembra non finire è importante anzitutto trasformarsi interiormente, voltarsi positivamente verso il Dio della salvezza.
Ecco all'angosciante domanda "quanto resta della notte" la sentinella dell'oracolo risponde con queste due parole nuove "convertitevi, venite". 
La resistenza invocata dalle Sentinelle in piedi non è nelle piazze. Non si può resistere all'avanzare delle tenebre, si può però vivere la notte con atteggiamento sapienziale, resistendo a noi stessi anche facendo ciò che suggerisce sempre l'amico Leonardo Lenzi: 
 Lasciar bere al mondo il calice della libertà libertaria fino in fondo. (…) La libertà è un vino inebriante ma ha un fondo amarissimo che la contemporaneità potrebbe utilmente assaporare. Occorre agire all’orientale, lasciando che lo stesso slancio libertario, portato fino alle sue estreme conseguenze, faccia perdere l’equilibrio all’umanità, le consenta di cadere, farsi male e pensare a come rialzarsi.
Ma tutto ciò è molto difficile per i cristiani di quest'occidente imbolsito: quasi sempre seduti, anche nelle liturgie, ora pretendono di stare in piedi e vegliare. 
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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La solitudine del bene
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La tormentata rinuncia di fratel Biagio Conte ha fatto discutere, ha turbato e lasciato molti disorientati. Si sono spese molte parole intorno a questa sua scelta  ma forse nessuno ha considerato il dato teologico di questa vicenda.
E' un dato difficile da comprendere e da accettare. Si tratta della solitudine del bene. Chi compie il bene, chi vive secondo Dio e il Vangelo sovente è solo, sperimenta l'aridità spirituale la totale assenza di compassione da parte degli altri.
Di giusti soli è piena la Sacra Scrittura mentre la compagnia è tipica degli stolti. Di paura, scoramento e sconforto è piena la storia di anime stupende. Dal pianto è caratterizzato il passo del seminatore evangelico.
Alla solitudine di fratel Biagio probabilmente non c'è rimedio. Non serviranno le nostre offerte, la mobilitazione più o meno sincera delle autorità, i nostri singoli appelli. Biagio Conte si sta confrontando con la titanica impresa di vivere totalmente il Vangelo, fino alle estreme conseguenze.
La sua scelta di scalare il monte Grifone per stare solo con il suo Dio ci sembra una fuga ma forse, se fratel Biagio sarà docile allo Spirito, è l'unica via d'uscita.
Biagio Conte sale sul monte con la sua croce, il peso di questa esistenza disperata per affidarlo a Dio. Lascia la mancata compagnia degli uomini per trovare, si spera, la compagnia di Dio.
Mi auguro certamente che fratel Biagio torni a Palermo ad occuparsi degli ultimi ma soprattutto mi auguro che lì, sul monte, egli trovi nella compagnia di Dio le ragioni di una rinnovata compagnia degli uomini.
Biagio scalerà la montagna, il vento scombinerà le sue vesti esgombrerà la testa dai pensieri. Salirà forse con la felicità di guadagnarsi il sole passo a passo e quando giungerà in cima avrà la sensazione, più che di un traguardo, di uno sbarramento, di un confine, dove finisce il mondo e comincia il tempo.
Proverà fratel Biagio una vertigine sublime non nel guardare verso il basso da dove si è partiti, ma nello stare dentro a quell’immensità che non appartiene all’uomo, in quella solitudine luminosa, così diversa da quella che ha sperimentato, in cui sarebbe bello perdersi. Cadrà ogni memoria e si azzererà il ricordo delle cose che si sono lasciate giù.
Si sale sul monte non per scappare, per avere il vuoto intorno e sotto i piedi, ma per abitare il deserto della divinità. Non si sale lassù per paragonare la terra e il cielo, ma per per ascoltare e poi ricordare.
E' preziosa la spinta a scalare le montagne, a cavalcare altezze, ma la compagnia alla "solitudine della divinità" deve essere alimento rinvigorente per l’impresa più ardua che è quella di stare all’altezza della terra per vivere il compito assegnato di abitarla. 
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Sul ponte sventola bandiera nera
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Il nero non è un colore rassicuranti dalle nostre parti. Dall'uomo nero alle camicie nere, passando per i pirati, è un coloro che non evoca nulla di buono. Non è stato dunque difficile associare il drappo nero sventolato dai jihadisti a sentimenti di paura e terrore.
Ma quali sono le reali origini della bandiera nera che i miliziani dell'Isis issano sulle città mediorientali che cadono sotto il controllo del nuovo Califfato?
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Il vessillo nero (al-rāya) viene fatto risalire a Muhammad, addirittura si dice che avesse origine dal velo nero che copriva il capo di sua moglie Aisha. 
Al-raya ha anche un significato escatologico: gli ahadith riportano che l'esercito che preparerà la strada - partendo dal Khurasan, che comprende proprio l'Afghanistan - all'arrivo del Mahdi avrà delle bandiere nere.
La bandiera nera è dunque la bandiera per il Jihad.
Non deve stupire dunque che questa sia stata adottata da parecchi gruppi jihadisti e ora dallo Stato Islamico. 
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Il vessillo dell'Isis è composto da due elementi.
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Nella parte superiore c'è la  Shahada cioè  la testimonianza con cui il fedele musulmano dichiara di credere in un Dio Uno e Unico e nella missione profetica di Muhammad: "Non c'è altro Dio che Allah e Muhammad è il suo profeta".
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Nella parte inferiore è posto il sigillo del profeta Muhammad. Nello specifico il sigillo è quello che compare su una copia di epoca ottomana della presunta lettera di Muhammad ai capi di stato suoi contemporanei per invitarli a convertirsi all'Islam.
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Viaggio nella patria delle bandiere nere
Lo so che a Ferragosto bisognerebbe essere più leggeri ma se avete un po' di tempo vale la pena guardare questo interessante documentario del corrispondente di guerra di al Jazeera Medyan Dairieh. Il reporter ha realizzato per Vice News un documentario sullo Stato islamico vivendo per tre settimane a Raqqa, la capitale del Califfato situata nel nord della Siria. Un viaggio nella patria delle bandiere nere dove anche i bambini crescono a pane e jihad, pronti alla lotta agli infedeli.
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Santa Rosalia in esilio
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Da anni non partecipo più al festino, non mi mischio alla folla, non ne leggo le cronache e le polemiche. E' un mio limite, sarà l'allergia agli eventi di massa, sarà che non mi riconosco più in questa comunità civile e religiosa. Mea culpa.
Eppure questa mattina ho lasciato una Palermo addormentata e stanca dalla notte di bagordi e sono andato a cercare Rosalia sul Monte.
E l'ho trovata in cima a scrutare come sempre il mare. Chissà da quanto tempo sta lì, di certo so che quando i palermitani si stancarono di riparare e curare la statua di marmo la sostituirono con una di bronzo. Invece del bastone dell'eremita la dotarono di un parafulmine e la lasciarono lì, tra cielo e mare.
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Ai suoi piedi un paesaggio desolato: residui di notti disperate fatte di birre, sigarette e amori estemporanei.
Quello che doveva essere un altare è stato divelto e divorato da scritte di ogni tipo.
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“Introibo ad altare Dei”… no, non c'è più nessun prete che si accosta all'altare di Dio.
“Ad Deum qui laetificat iuventutem meam”... e nessuna giovinezza da rallegrare come testimonia il graffito di Max che dopo l'ultima bottiglia di birra infranta come l'ultimo dei suoi sogni ha scritto questa triste supplica: “Padre perdonaci non sappiamo cosa facciamo”.
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“Il Signore ha abbandonato il suo altare, ha rigettato il suo santuario; ha consegnato in balìa del nemico le mura delle sue fortezze. Essi alzarono grida nel tempio del Signore quasi fosse un giorno di festa” (Lam 2,7).
Mi guardo intorno e scorgo segni di resistenza alle barbarie e al paganesimo. Qualche anima pia sale ancora quassù e accende una candela, qualche altra si accosta a questo altare nudo e diroccato e in una insenatura lascia una candela che nonostante tutto riesce a consumarsi e una rosa che appassisce come l'ultima preghiera.
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Faccio ancora un po' di compagnia a Rosalia in esilio.
Non abbiamo i fiumi di Babilonia per sedere e piangere la nostra cattività ma un mare straordinariamente blu oltre il quale probabilmente c'è la fine della nostalgia, la conclusione dell'esilio.
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Tra carnefici e tifoserie cretine
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Ogni volta che la Terra Santa torna a fumare di razzi e raid, e le esplosioni scandiscono la vita di due popoli abituati alla violenza, assuefatti all'odio e alla brutalità, puntualmente riaffiorano le tifoserie cretine.
Avere la presunzione di poter guardare ad una tragedia che si ripete all'infinito dando una risposta immediata e sicura equivale ad ignorare la complessità di ciò che è stato e sarà il dramma di questa Terra benedetta da Dio e maledetta dagli uomini.
Significa essere partigiani di una guerra dove troppi sono i torti e troppo poche le ragioni, dove non ci sono né vincitori né vinti ma solo carnefici.
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Califfato islamico, tornare a Ratisbona
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Un politicamente scorrettissimo Giuliano Ferrara su Il Foglio di ieri.
Con l’insorgenza di un progetto di Califfato, a colpi di città conquistate e di bottini di guerra immensi, tra la crisi abissale siriana e la precaria e già defunta pax irachena, tra conseguenze della guerra di Bush e conseguenze della pacifica resa di Obama, si scopre che in apparenza niente funziona. Non la guerra occidentale (interrotta) contro l’islamismo politico, i suoi regimi e stati carogna, non l’inazione prolungata come in Siria, non le primavere arabe illusorie e fragili, niente di niente. E allora? Per adesso si registrano lo smarrimento, il ritardo, la lentezza di movimento di chi doveva farsi garante di un nuovo ordine dopo l’11 settembre, poi si vedrà. Intanto si regolano conti in sospeso.
Va bene che il regolamento di conti è una delle attività preferite dell’essere umano, ma non bisogna esagerare. Ieri abbiamo pubblicato un formidabile corsivo politico dei Cheney (Dick e Liz, il vice di Bush e sua figlia). Scrivevano i due nel Wall Street Journal che dopo sei anni di presidenza Barack Obama non ha granché nella sua sporta di multilateralista, di premio Nobel per la Pace, di censore delle guerre dei predecessori in Afghanistan e a Baghdad, il che è vero. Aggiungevano, con una mostrificazione alla Michael Moore, che mentre il medio oriente brucia di islamismo jihadista, Obama parla di climate change e gioca a golf, una esagerazione. Gli hanno risposto sul New York Times un paio di corifei dell’Amministrazione democratica (Blow e Kristof). Sostenevano che il dramma dello Stato Islamico e della sua guerra santa tra Siria e Iraq dipende dalla guerra scatenata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, il che è in parte constatazione ovvia (secondo il principio di causa ed effetto, che però è più complicato di quanto sembri a prima vista, almeno nella storia e nella politica dopo l’11 settembre 2001); aggiungevano che Cheney è un rancoroso che dovrebbe andare a nascondersi, e darsi alla pittura come il suo presidente, invece di offrire lezioni, perché il suo track record gronda sangue e 4 trilioni di dollari con i quali tutti i problemi della povertà e della sanità e dell’istruzione nel mondo sarebbero stati risolti, una grottesca esagerazione.
 Il mondo pullula di nemici ideologici della guerra di Bush e Blair, e di sostenitori pentiti (l’Economist è per sua ammissione nella lista dei penitenti, ma non si contano quelli che hanno votato per la presa di Baghdad e ora si accaniscono sull’errore di averla promossa, del novero fa parte addirittura Hillary Clinton, che vuole succedere a Obama). Nemici, sostenitori pentiti e impenitenti (tra cui questo giornale) dovrebbero fare un piccolo sforzo di razionalizzazione e argomentazione.
Alcune verità convenzionalmente accettate, e il riconoscimento dovrebbe essere generale, non funzionano più come sembrava un tempo. Per aggredire quella più pregnante sul piano simbolico, ricordiamo un borioso ambasciatore britannico a Roma, della schiatta “coloniale ma liberal”, che negli anni del dopoguerra iracheno, quando il paese era devastato dalla prima insurrezione sunnita, disse che Bush era “il principale reclutatore di Bin Laden” e del suo gruppo. Abbiamo visto che non è così: da molti anni, da prima del grande attentato contro il World Trade Center e il Pentagono, l’islam politico reclutava truppe di combattimento, chiamateli militanti o terroristi o come volete, in tutto l’arco della umma islamica, e sui fronti più diversi (uno dei primissimi, e con la ovvia complicità occidentale nel culmine della Guerra fredda, fu l’Afghanistan invaso dai sovietici nel 1979). Il reclutamento, ancora oggi, è un labirinto di strade misteriose e diverse; non esistono i combattenti stranieri, i foreign fighters, nel senso che, accada qui o lì (e sempre più spesso si moltiplicano i casi di conversione e arruolamento in Europa e perfino in Italia), l’entrata in guerra del jihadista, da Bruxelles a Mosul, è fatto islamico, riguarda la moschea come cittadella politica, l’imam come leader ideologico di un popolo di Dio che rigetta il Dio degli altri: il gruppo combattente che oggi sfida anche i binladenisti e vuole erigersi in stato califfale è nato in Siria, ha fatto i primi passi nella guerra su due fronti contro Assad e contro i gruppi guerriglieri anti Assad di diversa affiliazione e strategia (li chamano “moderati”).
Blair ha ricordato che non solo la guerra del 2003, comunque la si pensi in proposito, ma anche l’inazione come a Damasco o l’azione parziale e disordinata come in Libia genera jihadisti. Possiamo aggiungere come focolari il Libano, Gaza, l’Iran, Kabul e il Pakistan, tra gli altri. Occorre probabilmente tornare a capire quel che pensavamo di poter dimenticare: l’islam politico è il grande e tremendo problema di questo secolo, è il rifiuto del principio stesso di un ordine mondiale multilaterale, il rifiuto della mediazione politica, della convivenza religiosa con gli apostati e gli infedeli, e non deriva dall’arretratezza, dall’isolamento, dall’imperialismo occidentale, è piuttosto un linguaggio, una cultura, un credo, un movente potente e radicato, intrattabile, che corrisponde a secoli di storia e al racconto originario, mitico storico e teologico, della religione profetica affermatasi a partire dal VI secolo di questa èra e da allora in sussultorio e intermittente movimento.
Conosci il tuo nemico
Tornare a riconoscere questa realtà non equivale a tributare un omaggio all’islamofobia né conduce a conclusioni apocalittiche; semplicemente è un modo per conoscere e riconoscere una inimicizia fondamentalista, la sua scaturigine vera, i suoi sviluppi effettivi e potenziali. E’ un modo per dismettere il senso di colpa politicamente e ideologicamente corretto che indusse l’intero occidente, prima ad assecondare lo spirito di divisione e di resa che rese tormentosa e in certi momenti disperata la reazione dell’America all’incursione fatale di Bin Laden, poi a lasciare solo e a dannare un Papa, Benedetto XVI, quando affermò, citando le discussioni tra un dotto islamico e un imperatore bizantino, che la risposta ai quesiti più grossolani posti dai fatti, con tutte le sottigliezze e le distinzioni necessarie, va cercata nel rapporto degli uomini tra loro e al tempo stesso nella loro relazione a Dio, al trascendente, alla fede e alla ragione, che sono le vere materie del contendere. Tornare a Ratisbona ed elaborare una risposta mondiale di civiltà e di nuovo ordine possibile, questo a occhio e croce è il problema nell’epoca dei Califfati nascenti e del jihad dispiegato, per adesso con particolare virulenza e allarme in medio oriente, domani e dopodomani chissà dove, forse in casa nostra. E’ meno facile che decidere in ritardo un eventuale volo di droni sul cielo di Mosul.
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Quando c'erano gli italiani
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"Che democrazia? I Re non si mandano via mai!" Mi è tornata oggi in mente la voce ferma e stridula della maestra Cristina, così ben inscenata da Julien Duvivier nel suo 'Don Camillo'. 
Mi è tornata in mente oggi mentre ricordiamo la nascita della Repubblica Italiana e mentre in Spagna sua maestà cattolica Juan Carlos lascia il trono al figlio Felipe. 
E l'ammonimento della burbera maestra creata dalla penna monarchica di Giovannino Guareschi oggi sembra quasi una maledizione. Nonostante una certa retorica ufficiale noi non vogliamo bene a questa Repubblica. 
Che sia la Prima o la Seconda la Repubblica sembra non averci appassionato. Alcuni temono perfino l'avvento della Terza. E non c'è bisogno di essere monarchici per sentire qualcuno parlare di 'Repubblica delle banane'. 
Non la troveremmo né ora né mai una vecchia maestra sbraitare in punto di morte per avere la bandiera repubblica sulla sua bara. 
Che cosa è successo?
Forse questa Repubblica è nata male. Il Referendum del 1946 non ha partorito un'Italia, ma due Italie e una di queste ha dovuto cedere il passo all'altra. 
Qualcuno obietterà che neanche il Regno d'Italia nacque con il consenso di tutti. Vero, ma dopo l'Italia ci fu impegno per fare gli italiani. 
E quegli italiani, che avevano la faccia della maestra Cristina o dei protagonisti del deamicisiano 'Cuore', non ci sono più. 
Si sono portati nel regno delle ombre anche la loro bandiera, "la bandiera dei morti, dei mille e centomila morti d’ogni tempo e d’ogni guerra: la bandiera dei giorni lieti e tristi, dei giorni luminosi e dei giorni grigi, la bandiera che accomunò tutti gli Italiani, dalle Alpi all’Etna" per dirla con Guareschi. 
E noi? E noi che rimaniamo nell'ambigua Italia dei vivi ci accontenteremo di recuperare una bandiera per il prossimo mondiale di calcio esaltandoci per la corsa di un centravanti come per la carica di un bersagliere. 
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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La storia può essere, deve essere libertà
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"Gli uomini e le donne, se sanno cogliere il piccolo dono di libertà, di libero arbitrio e di volontà efficace che la natura umana e la storia concedono loro, possono servirsene per cambiare il mondo e la società, faticosamente, attraverso alti e bassi, balzi in avanti e arretramenti, senza che niente sia definitivamente dato per scontato. La storia può essere, deve essere libertà". 
In memoria di Jacques Le Goff (1924 – 2014)
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Papisti che non ti aspetti: Vito Mancuso
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L’identificazione della chiesa col Papa ha subito, dopo il Concilio Vaticano I, una concentrazione e un'accelerazione, ancor più accentuate dalla società dei media, in forme mai prima registrate. 
Questa identificazione, che i protestanti chiamerebbero "papolatria", ha radici antiche ma ha visto probabilmente le sue manifestazioni più evidenti nella modernità complice il circuito mediatico.
In molti credevano che con Karol Wojtila questa identificazione avesse raggiunto livelli insuperabili e che il pontificato di Ratzinger avesse segnato, finalmente, un'inversione di tendenza. 
Il grande – e non vile – rifiuto di Benedetto XVI, è stato anche una presa d’atto di una crisi del ruolo del papato, almeno per come è stato compreso   dal medioevo in poi. Sembrava essere venuta meno l’illusione che una buona dose di carisma personale del pontefice potesse ovviare alla crisi di una funzione. Sembrava ci fosse la possibilità di un papato diverso.
L'elezione di Jorge Mario Bergoglio ha riportato le lancette indietro, più o meno ai fulgori di Giovanni Paolo II. Probabilmente però rispetto al papa polacco non si registra solo una nuova identificazione del papa con la Chiesa, ma anche una incredibile contrapposizione: da un lato il papa riformatore e purificatore, dall'altra la chiesa di curiali avidi e irrigidita nei dogmi e nelle forme. Un mix potenzialmente pericoloso.
Prova evidente di questa deriva sono, rispetto alla figura di Papa Francesco, alcuni repentini "innamoramenti".
Penso ad Eugenio Scalfari, ma soprattutto a Vito Mancuso.
Mancuso, il teologo scomodo e il fustigatore ecclesiale, si è scoperto da qualche tempo "Papa boy", innamorato del pontefice argentino. E dalle pagine di Repubblica si è profuso in articoli più papalini del papa. 
Mi ha colpito l'ultimo fondo di Mancuso ospitato dal quotidiano diretto da Ezio Mauro: "Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco". 
Secondo il teologo il fallimento della "missione" di Papa Francesco segnerebbe "la fine della luce che si è accesa nell'esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l'esistenza". 
L'articolo di Mancuso mi ricorda per certi versi alcune dichiarazioni di fan di Renzi con uno spolverata di teologia. Guardate il titolo ad esempio: "Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco". Provate a sostituire Francesco con Renzi e la Chiesa con l'Italia e avrete una perfetta marchetta politica: "Che ne sarebbe del Paese se fallisse Renzi". 
C'è da dire che pochi ultarenziani sono arrivati a tanto, ma Mancuso non sembra disdegnare queste vette.
In fondo il teologo di Repubblica è forse vittima di se stesso. Non so se ingenuamente o per convenienza ma Mancuso è finito dritto dritto tra le braccia di quel sistema che fino a poco tempo fa ha criticato aspramente. 
E' bene ricordare a Mancuso che il futuro della Chiesa non dipende da Papa Francesco. La fede e una buona teologia ci ricordano che il Vescovo di Roma, o di qualunque altra diocesi, può essere anche un buono a nulla finanche un eretico ma il destino della Chiesa è nelle mani di Dio, non certo del carisma e delle opere degli uomini, che come insegna la storia possono essere assolutamente fallibili. 
Non giova a nessuno, né al Francesco né alla Chiesa, avere un papa "renziano" nello stile e nei contenuti. Figurarsi avere un apologeta di questo "renzismo ecclesiale" che ha però il gusto stantio della papolatria. 
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adrianofrinchi-blog · 10 years
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Elogio, politicamente scorretto, di Pio IX
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Qualche anno fa il "Bollettino salesiano" dedicò il suo consueto calendario  al tema della santità salesiana. Con mio sommo stupore mi accorsi che il mese di Febbraio non era dedicato al Beato Pio IX la cui memoria liturgica è fissata al sette dello stesso mese. Così presi carta e penna e scrissi una cortese lettera rammentando l'opera di Papa Mastai a favore della congregazione salesiana. Mi rispose, altrettanto cortesemente ma per lettera e non sulla rivista, l'allora direttore del mensile fondato da don Bosco che mi diede ragione e mi promise di inserirlo in un futuro calendario.
E' già passato qualche anno da quella missiva, ma non mi pare di aver visto Pio IX in qualche calendario o altrove. Ho visto però Papa Francesco sulla rivista "Rolling stone", e ho visto anche Giovanni XXIII, che era stato beatificato con Papa Pio IX, correre velocemente verso la canonizzazione insieme a Giovanni Paolo II. 
Ma che cosa pretendo? Che Pio IX, quello del Sillabo o del caso Mortara, faccia compagnia ai "papi buoni"? Non sia mai!
Eppure, nella mia cocciutaggine, continuo a credere che il "consensum fideium" di cui godette Pio IX debba avere la meglio sul giudizio interessato degli eredi di coloro che prima inneggiarono al "cittadino Mastai" e alla fine tentarono di gettarne la salma nel Tevere. C'è da dire che questi ultimi hanno lavorato più alacremente di Santa Romana Chiesa per consegnare all'oblio Pio IX. 
Per riscoprire Papa Mastai sarebbe sufficiente leggere uno dei bei libri che Giulio Andreotti dedicò al pontefice originario di Senigallia dove sono fedelmente riportati i ricordi di una zia del divo Giulio, la zia Mariannina, fan sfegatata di Pio IX.
Leggendo i ricordi di zia Mariannina - classe 1845 e sedici anni di Stato Pontificio - si scoprirà che in fatto di bontà e umanità Pio IX non aveva nulla da invidiare all'attuale pontefice.
Ogni giorno Pio IX salutava sorridente la piccola folla che si schierava lungo la via Giulia per salutarlo durante la passeggiata pomeridiana e che poi lo seguiva festosamente quando la carrozza papale invertiva la marcia a piazza Farnese. 
E le sortite? Ai tempi di Papa Mastai erano frequentissime e la zia Mariannina l'aveva visto durante un carnevale pregare a lungo nella chiesa dei Santi Lorenzo e Damaso, in riparazione dei peccati che sembra si commettessero in abbondanza il martedì grasso. 
A quei tempi, pur avendo l'elemosiniere, sua santità non lo delegava troppo spesso per la pietà cristiana. E così si rammenta di una improvvisa visita serale di Pio IX all'ospedale di Santo Spirito. Lo sfortunato cappellano era assente e il Papa recitò personalmente la raccomandazione dell'anima di un moribondo . Una visita straordinaria, ma non senza conseguenze: i religiosi camilliani che facevano servizio all'ospedale vennero licenziati in tronco e sostituiti dai cappuccini. 
Ma chi ricorda più queste cose? Non ci sono più zie mariannine in giro per Roma ma solo torvi e nostalgici tradizionalisti, forse solo qualche rompiscatole che non si arrende al politicamente e all'ecclesialmente corretto che il 7 Febbraio vuol rendere omaggio, volendo usare una battuta di Pio IX a mons. Michelangelo Celesia, al "vescovo che non scende a patti". 
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