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#palazzi aristocratici
morelin · 1 year
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Sciacca
Che ne dite di fare una breve sosta a Sciacca (Agrigento), cittadina resa famosa dalle acque termali? Qui potete visitare il Duomo fondato nel 1100 circa ma poi rimodulato nel seicento il cui soffitto è interamente affrescato con scene tratte dall’Apocalisse e dalla vita di Maria Maddalena. 
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Prima di uscire ammirate il tabernacolo marmoreo del 1538 raffigurante i Santi Apostoli Pietro e Paolo e le storie della Passione di Gesù. 
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Nel tempo la città ha subito diverse dominazioni di cui esistono ancora delle testimonianze come le mura difensive e le porte, le torri, i castelli ed il fortino. Passeggiando vedrete anche palazzi aristocratici come Palazzo Steripinto, uno dei rari esempi di bugnato in Sicilia, ma vale la pena anche affacciarsi sul bel chiostro del Palazzo Comunale. 
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Come tante altre città, Sciacca ha attivato iniziative di valorizzazione del territorio: per esempio nel quartiere San Leonardo potete fare uno street art tour. 
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Oltre a questo non dobbiamo dimenticare le importanti risorse economiche della città: la pesca e l’artigianato artistico. Purtroppo non ho avuto modo di scendere al porto per ammirare il pittoresco borgo marinaro, tuttavia, ho trovato un punto panoramico da cui apprezzare le stupende sfumature dei colori del mare.
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Per quanto riguarda l’artigianato artistico, Sciacca è nota per la produzione di ceramiche che potete vedere sparse per la città e per la lavorazione del prezioso corallo. Proprio il corallo sarà il tema del prossimo post.
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aureliablr · 1 year
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sciatu · 4 years
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STAMPE ANTICHE DELLA SICILIA  (1700 -1800)
Quando sir Patrick Brydone descrisse la Sicilia nel suo libro “Viaggio in Sicilia e a Malta” molti non gli credettero, ribadendo che molte delle cose descritte non potevano esistere. La bellezza di Palermo, il porto a falce di Messina con i palazzi distesi sul lungomare, l’incredibile Etna, i dolci fatti di ghiaccio, le navi che trasportavano la neve dalla Sicilia a Malta, tutte queste sembravano cose troppo assurde per essere vere.La Sicilia, nel 1767, era nella concezione del Nord Europa un luogo remoto e brutale, pieno di briganti e di antichissimi reperti storici;  lo stupore e la meraviglia di sir Brydone per la luce di quei luoghi lontani dove i principi erano alleati con i briganti, il suo amore per i paesaggi e la storia che conteneva, appariva fuori luogo, sopra le righe. Sir Brydone, che di professione faceva il Travel Tutor, accompagnava cioè i giovani nobili inglesi nella scoperta dell’Europa, era uno scienziato, uno studioso che aveva visitato tutti i paesi europei dal  Portogallo fino all’Ungheria e che eppure era rimasto stupito ed affascinato dall’isola persa nella luce del mediterraneo. Furono i suoi scritti ed il suo entusiasmo a collocare la Sicilia come tappa obbligata del Gran Tour (il viaggio in Europa che gli aristocratici e gli intellettuali facevano appena finiti gli studi) che avrebbe portato nell’isola, malgrado le difficoltà e il pericolo del viaggiare, decine e decine di intellettuali europei, tutti colpiti da luoghi e dai paesaggi. Uno di questi,  l’architetto Friedich Maximillian Hessemer , scrisse della Sicilia   «la Sicilia è il puntino sulla i dell'Italia, [...] il resto d'Italia mi par soltanto un gambo posto a sorreggere un simil fiore» e questo spiega cosa i viaggiatori del Gran Tour trovassero in Sicilia.
When Sir Patrick Brydone described Sicily in his book "Journey to Sicily and Malta", many did not believe him, reiterating that many of the things described could not exist. The beauty of Palermo, the sickle-shaped port of Messina with the buildings lying on the seafront, the incredible Etna, the sweet ice-creams, the ships that transported the snow from Sicily to Malta, all of these seemed too absurd to be true. Sicily, in 1767, was in the conception of Northern Europe a remote and brutal place, full of brigands and very ancient historical finds; the amazement and wonder of Sir Brydone for the light of those distant places where the princes were allies with the robbers, his love for the landscapes and the history that he contained, seemed out of place, over the top. Sir Brydone, who was a Travel Tutor by profession, that is, accompanied the young English nobles in the discovery of Europe, was a scientist, a scholar who had visited all the European countries from Portugal to Hungary and yet was amazed and fascinated from the island lost in the light of the Mediterranean. It was his writings and his enthusiasm that placed Sicily as an obligatory stop on the Grand Tour (the trip in Italy that the aristocrats and intellectuals had just finished their studies) that would bring to the island, despite the difficulties and the danger of traveling , dozens and dozens of European intellectuals, all affected by places and landscapes. One of these, the architect Friedich Maximillian Hessemer, wrote of Sicily "Sicily is the dot on the i of Italy, [...] the rest of Italy seems to me only a stem placed to support a similar flower" and this explains what the Grand Tour travelers found in Sicily.
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weirdesplinder · 3 years
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Liala e Barbara Cartland
Sono mesi che pensavo a come strutturare dei post di approfondimento su due autrici capostipiti del genere romance, Liala e Barbara Cartland e alla fine ho deciso di fare un post unico per entrambe, in modo da poterle anche confrontare.
Entrambe sono donne la cui vita è stata riflesso, o si è riflessa nelle loro opere letterarie e per cui l’amore è stato al centro delle loro esistenze.
Barbara Cartland autrice inglese e capostipite di tutto il genere romance in lingua inglese (quindi anche dell’americano) viveva quasi una fantasia in rosa nella sua vita di tutti i giorni, e questo è un buon modo per descrivere i suoi romanzi: delle fantasie perfette, delle favole con lieto fine.
Brevi, poco realistici, molto scorrevoli e soprattutto delle vere e proprie fiabe, dove di solito la protagonista femminile è socialmente inferiore al protagonista maschile, o ha altri problemi di parenti orribili o altro, e quando incontra l’amore, non solo il suo lui l’innalzerà socialmente, ma anche gli latri problemi si risolveranno e lei in cambio renderò lui un uomo moralmente migliore. Questa più o meno la trama base, ma poi ci sono molte varianti più o meno vivaci. Di solito i protagonisti sono aristocratici (almeno uno dei due), qualche volta ci sono anche personaggi secondari simpatici, animali o comprimari che vivacizzano il tutto, il misundertstanding, l’equivoco è spesso usato, così come il mistero, per creare un poco di azione nella trama, ma tutto si risolve in modo perfetto con il classico lieto fine da favola.
Non cercate realismo in Barbara Cartland, cercate il sogno che sia avvera, un mondo edulcorato, Cenerentola. Certo ci sono trame dove ha dovuto dare un’approfondimento in più ai personaggi, ma mai niente di troppo realistico. Lei vuol far vivere un sogno ai suoi lettori. E anche per questo io trovo sia un’autrice adatta a tutti e a tutte le età. Molto semplice e godibile. Non per niente ancora oggi molte scrittrici di romance si ispirano alla favole per i loro romanzi, addirittura costruiscono serie su questo.
Ha scritto 700 romanzi nella sua carriera, e dai suoi libri sono stati tratti anche film e serie tv. Era ed è ancora un mito che bisognerebbe conoscere se si ama il genere romance.
Io, per quanto mi riguarda ho letto i suoi libri grazie a mia madre e mia zia che ne avevano una collezione e anche se ero molto giovane me li sono goduti senza problemi proprio perchè erano come delle favole.
I miei libri preferiti della sua produzione sono quelli con protagonisti dei reali: principi, re o principesse, perchè già che si tratta di leggere delle favole, facciamo sul serio e facciamo tutto in stile Principessa Sissi, per intenderci.
Ma tra le mie amiche sembra che siano imprescindibili "Pantera Nera" e "Passione sotto la Cenere", che hanno trame un poco più complicate ed avvincenti.
Il valzer dell’amore
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Trama: Vienna, 1814 - Il principe austriaco Metternich è preoccupato per i risvolti che il congresso di Vienna potrebbe avere, soprattutto per le mire espansionistiche dello zar Alessandro. Per questo ha bisogno di una spia che si avvicini a lui e carpisca le informazioni che gli servono. La bella e innocente Miss Wanda fa al caso suo. Lei ha bisogno di denaro e giocare il ruolo della spia le può tornare utile. Peccato che anche lo zar abbia pensato di muovere le stesse pedine per paura di un complotto e chiede a un suo lontano parente che gli somiglia, Richard Melton, di sostituirlo. La finzione sembra funzionare da entrambe le parti finché un sentimento vero e inaspettato sorprende i due sotto copertura, che dovranno fare i conti con nemici pericolosi e onestà patriottica.
Pantera nera
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Trama: Sin dalla prima volta che Lady Gwendolyn Scherbrooke incontrò Sir Philip Chadley, l’affascinante ed intelligente membro del Parlamento inglese, rimase alquanto perplessa. C’era in lui qualcosa di stranamente familiare, eppure lei era certa di non averlo mai visto prima. C’era forse qualche misterioso legame tra la nascita di Gwendolyn e la morte dell’unico grande amore di Sir Philip, eventi accaduti a pochi minuti di distanza in due palazzi adiacenti? La risposta in quest’avvincente romanzo che affronta l’antico problema della possibile reincarnazione.
La ballerina e il Principe
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Trama: 1867 Vi è un mistero sulla nascita e le origini dell'affascinante Lokita, costretta dopo la morte del padre a guadagnarsi la vita come ballerina in teatro.  Un mistero che il principe Ivan Volkonski, innamoratosi della fanciulla, giura di scoprire a tutti i costi. Un mistero che, dopo inseguimenti e viaggi tra Parigi e Londra, verrà svelato e donerà a Lokita ed Ivan la felicità.
Nelle mie ricerche ho trovato solo 4 dei film tratti dai suoi libri disponibili anche in italiano, potete vederli anche su you tube:
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- Passione sotto la cenere con una giovanissima Helena Bonham Carter
Link: https://www.youtube.com/watch?v=Hlr0R8IoU58
- La bella e il bandito con Hugh Grant
Link: https://www.youtube.com/watch?v=SYVzgfajeFc
- Duello d’amore
https://youtu.be/quTexPGszUs
e Un fantasma a Montecarlo.
https://www.youtube.com/watch?v=B-to1Q7fSW8
Furono trasmessi dalla RAI molti hanno fa e credo ne circolassero anche delle videocassttte, non credo che in italiano siano mai stati riversati su DVD
Amalia Liana Negretti Odescalchi, scrittrice sotto il nome di Liala, si pone in modo molto diverso dalla Cartland. Anch’essa riflette la sua vita nei suoi romanzi, ma in modo molto più realistico (tra virgolette, poichè parliamo di genere rosa e perciò pur sempre di realtà edulcorata), infatti è facile riconoscere nei protagonisti dei suoi romanzi del periodo che va dal 1931 al 1948 (la sua prima fase per così dire) sia lei che il suo grande amore  il marchese Vittorio Centurione Scotto, un ufficiale della Regia Aeronautica, che fu il grande amore della sua vita.  E anche l’ambientazione dei suoi libri al contrario di quella standard storica e mai troppo messa a fuoco della Cartland, è un’Italia precisa a cavallo delle due Guerre, e i suoi personaggi sono quasi sempre rappresentanti della piccola nobiltà/alta borghesia italiana dell’epoca. Non possiamo cercare verismo nei suoi romanzi, o vedere rappresentata l’intera popolazione, ma una sua piccola fetta, seppur edulcorata sì. Ed è uno specchio di una classe sociale e di un’epoca che esaltava la guerra, le sue figure eroiche  e vedeva nella carriera militare la possibilità di elevarsi socialmente per l’uomo stavolta. Inaftti nei romanzi di Liala è spesso l’uomo che deve elevarsi socialmente non la donna. Nei suoi libri si trovano tracce di patriottismo e molta moralità borghese, ma alla fine sono romanzi d’amore dove il sentimento è sempre al centro.
Se personalmente trovo la Cartland e i suoi libri (a parte quelli di gusto più gotico) allegri, ho sempre riscontrato in Liala invece come una specie di malinconia. Ma questo è totalmente soggettivo.  Ed è innegabile che i personaggi di Lila spesso siano più approfonditi psicologicamente di qyelli della Cartland.
Se nel primo periodo di scrittura di Liala (1931-1948), l'ambiente dell'Aeronautica Militare costituisce spesso lo sfondo dei suoi romanzi e delle sue novelle, a partire dagli anni cinquanta, l'opera della scrittrice si rivolge al mondo della pura fantasia narrativa e non fa più riferimento a luoghi, fatti o personaggi di realtà, salvo qualche caso sporadico. Ma resta comunque lgata la mondo della borghesia e ad un certo ambiente sociale italiano. Sono pochi i romanzi, tra cui ad esempio il  Pianoro delle ginestre, in cui parla di ambienti più provinciali e meno altolocati. Mentre sono comuni a quasi tutta la sua produzione i temi del ritorno, dell’attesa, della speranza nel domani.
Personalmente se considero la Cartland una lettura adatta a tutti, non posso dire lo stesso di Liala, che penso possa essere apprezzata solo da lettori con un certo gusto e con la capacità di apprezzare quella data epoca storica di ambientazione.
Non ho dei libri prefriti che la riguardano, ho letto qualcosa di suo, ma non è nelle mie corde, perciò ho chiesto alle mie amiche che sugeriscono tra le sue opere di leggere:
Signorsì
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Trama: Questa è la storia di un ufficiale pilota, Furio, la cui vita si divide tra impegno aviatorio e amori facili fino a quando l'incontro con Renata cambia la sua esistenza. Grande amico di Furio è Mino, legato ad una donna sposata da cui ha avuto una figlia. L'amore appassionato tra Furio e Renata fa affiorare un'antica ossessione della donna: il timore di somigliare alla madre reputata una poco di buono. Un incidente scatenerà la tragedia. Renata perde il bambino che stava aspettando da Furio assistendo ad una esercitazione di volo. Un aereo disperso la fa temere per la vita dell'amico di Furio, Mino. Trovata conferma della sua strada di perdizione, a Renata non resta che percorrerla.                    
Tempesta sul lago
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Trama: Durante l'ultima guerra sbocciano, accanto a una nonna aristocratice e dura, le giovinezze di Ubalda e Cipriana Làrici Drei. Una, energica e coraggiosa, corre verso il suo destino incurante dell'obbligo di ubbidienza cui la dovrebbe tenere avvinta il suo nome gentilizio; l'altra, pur dolce e remissiva, torverà la forza, attraverso lotte non lievi, di vivere accanto all'uomo che per primo le aveva offerto l'amore in tutta la sua smagliante bellezza.
Il vento inclina le fiammelle
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Trama: Tre fratelli, Michele, Roberto e Loni Sarteana, vivono la loro irripetibile stagione degli amori che possono rivelarsi fonte di gioia infinita o di infelicità. Amori che, come sostiene l'autrice, se avranno diritto a essere considerati come tali riusciranno a sopravvivere, ma che in caso contrario saranno inesorabilmente spenti dal soffio implacabile della vita.
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comicsovunque · 3 years
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Zagor n.674 - Non morti Rauch, Venturi, Piccinelli Ed. Bonelli - settembre 2021
Venturi scatenato! Questo secondo me è il titolo giusto per questo albo che devo ammettere rilancia una trama che inizialmente non mi aveva conquistato, ma che con questo numero riesce a comunicare, forse addirittura in modo un po' ridondante, il senso di minaccia e di urgenza provata dalla Compagnia del Vampiro durante questa sua epopea. Compagnia che in realtà pagina dopo pagina si assottiglia lasciando Zagor sempre più sguarnito di aiutanti e munizioni.
Fanciulla in pericolo e soldati in sacrificio non possono mancare neanche stavolta e la diabolica lucidità di Rakosi aleggia in gran parte dell'albo chiarendo alcuni punti della trama, ad esempio mettendo Frida al centro di un sistema di "spionaggio bidirezionale" dal momento che grazie alle sue percezioni alterate dal morso vampirico è in grado di informare tutti gli schieramenti delle reciproche scelte costringendo in particolare lo Spirito con la Scure a giocare a carte fin troppo scoperte.
Il gran numero di comprimari, lo spazio loro dedicato e il ruolo che ciascuno di loro riveste all'interno della storia, rendono quest'ultima una sorta di racconto corale in cui lo stesso Zagor fatica a svettare, non fosse per le sue consuete capacità atletiche e grazie a quell'inguaribile debolezza del cattivone di turno di voler catturare viva la propria nemesi permettendogli così di sfuggire a micidiali occasioni di raggiungere anzitempo il paradiso degli eroi.
Rauch questa volta ha messo davvero alle strette il buon vecchio Zagor e ha diverse frecce al suo arco per fargli passare qualche brutto quarto d'ora: prigionieri di alto rango, vampiri prestigiosi in trasformazione, servitori fortissimi se non quasi invulnerabili. Forse è anche per questo che Patrick sembra passare numerosi momenti di silenziosa riflessione, quasi stesse caricando le batterie per l'epico scontro frontale che lo attende. Direi che lo sceneggiatore si è messo davvero spalle al muro e sono molto curioso di vedere se riuscirà a sorprendere il lettore o sceglierà la via più tranquilla della classicità. In ogni caso non è argomento di questo numero.
Dopo diversi albi in cui ne lamentavo l'assenza, vengo accontentato: finalmente Cico combina uno di quei casini che l'hanno reso fastidiosamente celebre e che tingono le storie di Zagor di quella leggerezza che ha reso originale l'associazione tra questi due improbabili partner stemperando i momenti più drammatici delle loro avventure. E così per ben 15 tavole si potrà assistere a cosa significhi dare del denaro a Cico perché vada a sgranocchiare qualcosa al mercato di Vienna!
Ma all'inizio dicevo Venturi scatenato ed è giunto il momento che mi spieghi meglio... Numerose tavole di ampio respiro permettono al disegnatore di divertirsi a raffigurare diversi tipi di scenari. E questo fin dalla prima tavola, in cui l'artista si cimenta con guglie, torrioni e montagne innevate per passare dopo solo una manciata di pagine a raffigurare dettagliatamente l'ambiente ottocentesco viennese, sempre con dovizia di particolari per quel che riguarda l'architettura degli straordinari palazzi asburgici e delle ampie piazze attraversate da soldati a cavallo, carrozze e aristocratici a passeggio. La seconda parte dell'albo invece si sviluppa all'interno delle carrozze di un treno in corsa e nell'ambiente preferito da Zagor, il bosco in cui potrà dare buona prova di sé e mantenersi in allenamento.
Su questo contesto grafico di tipo realistico, i personaggi si sovrappongono in uno stile più "fumettoso", a volte quasi cartoon, soprattutto sui primi piani di Cico, che rende però estremamente chiari i loro stati d'animo e le relative espressioni facciali. Ognuno di loro è ben caratterizzato e per niente confondibile con gli altri favorendo grandemente la lettura.
Forse a volte Venturi si lascia prendere un po' la mano dai primi piani ad effetto e così se quelli a pagina 48 (di Cico e di Korasi) trasmettono l'opportuno senso di pericolo, quando a pagina 74 l'ennesima ombra teatrale copre parte del volto in tre quarti del nostro conte pizzuto, la cosa inizia a venire un po' a noia. Non sarà un caso che il conte prima della fine si prenderà una bella graffiata in pieno petto e se ne finirà a letto senza passare dal via: aveva scocciato, quel sapientino!
Prosegue la mia personale, ma nelle intenzioni leggera e bonaria battaglia per lo svecchiamento del volto di Zagor e conseguente emancipazione dall'imprinting ferriano, in fondo come è successo per il Tex post-Galeppini e come peraltro è già stato fatto nelle copertine. Venturi per gran parte dell'albo si attiene al mainstream grafico, ma ogni tanto pare dimenticarsene e, forse approfittando di una certa distanza dell'inquadratura, abbozza uno Zagor decisamente convincente, sempre dinamico e atletico, ma dall'espressione più contemporanea. Mi riferisco ad esempio alla bella sequenza di pagina 80 o alla seconda vignetta di pagina 77 che personalmente mi piace un sacco. Quando ha le mani più libere, quindi con figure "minori" rispetto al boss con la scure, il disegnatore mostra quello che potrebbe fare con le figure umane e con i tratti dei volti: due su tutti, lo Janos nella prima vignetta di pagina 30 e ancora più ritrattistico, il Korasi nella prima di pagina 28.
Beh, pare proprio che nel n.675 Zagor ce l'avrà dura ad avere la meglio sul suo perfido avversario sovrannaturale, ma sono certo che Rauch non saprà deludere le aspettative create con questo avvincente numero di passaggio che ha permesso al gruppo di rimescolarsi prima di raggiungere i Carpazi e di mostrare forza (e debolezze) di Rakosi. L'unica cosa certa fin qui è che i vampiri ridono nell'ombra. Tantissimo.
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margiehasson · 4 years
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Capodanno 2020: dove andare? 10 destinazioni romantiche (oltre Parigi e le Hawaii)
Volete festeggiare un anniversario o una ricorrenza, oppure desiderate semplicemente passare del tempo a guardarvi negli occhi sorseggiando vino e facendo passeggiate al tramonto. Sì, ma dove andare? Se la prima idea che vi viene in mente vi sembra anche la più scontata, non temete. Al mondo ci sono tanti luoghi suggestivi e romantici che non aspettano altro che di accogliervi e farvi sognare. Se non ve ne viene in mente nemmeno uno, qui sotto troverete dieci idee atipiche per iniziare a pianificare una vacanza zuccherina con il partner. Non temete perché andare lontano e spendere una fortuna non è necessario: esistono luoghi incantevoli proprio dietro l’angolo.
Una gita sotto le stelle in Olanda Situato nella regione di Wadden, il parco naturale di Lauwersmeer è immerso nella totale oscurità. E, nonostante i Paesi Bassi siano il paese con il maggior inquinamento luminoso, da qui è addirittura possibile vedere l’Aurora Boreale. Vengono organizzate gite su speciali barche illuminate che, di notte, conducono i visitatori in punti strategici per vedere il firmamento in tutto il suo splendore. La zona è ricca di laghi e scenari naturali mozzafiato, dove potrete passeggiare indisturbati mano nella mano.
Sull’Orient Express per una notte indimenticabile Un’esperienza indimenticabile che sicuramente non lascerà indifferente la vostra dolce metà. Passare una notte (o magari di più, a seconda del budget) sul mitico treno che da Parigi raggiunge Venezia, Londra e Istanbul. Vi basterà scegliere la destinazione e salire a bordo per trovarvi catapultati in quello che più che un convoglio è un vero e proprio hotel a cinque stelle su rotaie.
A Copenhagen per un week-end ecosostenibile  La capitale danese merita una visita per svariati motivi: durante il periodo natalizio, grazie ai canali innevati e alle case colorate, sembra un luogo incantato. Inoltre se siete appassionati di moda e design non avrete che l’imbarazzo della scelta tra gallerie e shop all’avanguardia. Se desiderate dormire in un luogo davvero unico, l’Hotel cinque stelle Manon Les Suites è quello che fa per voi: le stanze si affacciano su una piscina coperta che sembra uscita da una cartolina balinese mentre dalla terrazza posta sul rooftop potrete godere di una vista mozzafiato sulla città.
Civita di Bagnoregio Il minuscolo comune si trova nella provincia di Viterbo, nel Lazio, ed è uno dei borghi più belli d’Italia. Arroccato su un’altura nella valle dei Calanchi, si raggiunge grazie a un ponte pedonale costruito solo nel 1965. Un vero gioiello dove trascorrere qualche giorno in totale intimità, assaporando i piatti tipici del luogo e facendo escursioni per scoprire i suggestivi dintorni.
Un week-end londinese con Afternoon Tea al Ritz Esiste qualcosa di più inglese del tè delle cinque? Probabilmente no. Se siete in città dovete quindi provare questa experience indimenticabile. Non vi resta che prenotare un tavolo per due nella Palm Court del Ritz di Londra. La sala, per l’occasione addobbata a festa con abeti e nastri di velluto, vi farà sentire dei veri aristocratici british: potrete scegliere tra 18 tipi diversi di te, piccoli sandwich, delicati dolcetti e classici scones alla marmellata. A fare da sottofondo, canzoni natalizie e tintinnio di argenteria. Occhio al dress code: l’hotel ha delle regole molto precise sull’abbigliamento.
 Kyoto alla scoperta del mondo delle Geishe Nell’antichità fu la capitale dell’Impero Giapponese: ora è considerata la meta culturale più interessante del paese. Potrete visitare numerosi templi buddisti, palazzi e giardini considerati patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ma non solo: è possibile cenare con una vera Geiko, come vengono chiamate qui, che vi intratterrà nel corso della serata e si esibirà con performance teatrali e canore.
Dormire in un riad marocchino Marrakesch è la meta perfetta per passare qualche giorno in un luogo affascinante, ricco di storia, ‘esotico’ e a poche ore di volo di distanza. Perdetevi nel grande souk, visitate il giardino Majorelle oppure sorseggiate il te alla menta in terrazza: l’importante è assaporare ogni esperienza con lentezza, come fanno i locals.
Alla scoperta della Venezia del Nord Amsterdam ha molti pregi: il romanticismo dei suoi canali, un’offerta vastissima di mostre e musei da visitare e, soprattutto, svariati chilometri di piste ciclabili perfetti per gite su due ruote con la vostra dolce metà. Lui/lei non sono sportivi? Ancora meglio: potrete portarli a vedere le stelle sul sellino posteriore della vostra bicicletta. Per farvi abbracciare ancora più stretti, basterà aumentare la velocità della pedalata.
Su un’isola deserta nelle Filippine A Boracay, per l’esattezza. Palme, acqua cristallina e sabbia bianchissima: un minuscolo paradiso (l’isola è larga appena 7 chilometri) dove sarete solo voi, immersi in un paradiso incontaminato a godervi il meritato relax.
Alla scoperta di Edimburgo La città che ha ispirato la saga di Harry Potter. Perdetevi tra le sue stradine di pietra, le case con i tetti a punta e le facciate colorate e visitate i castelli della capitale scozzese. Non fatevi trarre in inganno: il panorama culinario della città va ben oltre i soliti bar e birrerie. E on-line troverete persino una guida con tutti i luoghi più romantici da visitare se avete in programma una gita nella capitale scozzese.
  Regalare un viaggio alla propria dolce metà è senz’altro uno dei gesti più romantici che si possano compiere! Lo sostengono buona parte delle 70 donne di età compresa fra i 5 e i 75 anni, video intervistate da Glamour US. Ecco come hanno risposto alla domanda “Qual è la cosa più romantica che qualcuno potrebbe fare per te?”
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pangeanews · 4 years
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“Più impazienti dell’avvenire che rispettosi del passato”. Il Risorgimento secondo Anna Banti: “Noi credevamo”
“Noi vecchi gufi risorgimentali, che i giovani d’oggi trascurino le nostre glorie e i nostri nomi, più impazienti dell’avvenire che rispettosi del passato. In un certo modo sono con loro”. Con queste parole Domenico Lopresti, il protagonista di Noi credevamo (1967), il romanzo di Anna Banti, la raffinata scrittrice scomparsa 35 anni fa (e nata a Firenze nel 1895), sintetizza la sua vita e il contenuto dell’opera.
Don Domenico, oramai settantenne, scrive il suo memoriale nel 1883 nella casa di Torino, egli sa che è stato un protagonista della storia d’Italia, ma il protagonista di un’opera tragica. La fase del risorgimento italiano per lui ha avuto un esito amaro. L’unificazione nazionale che si sarebbe dovuta compiere con lo sviluppo di uno stato repubblicano, senza monarchi, è fallito. Ha vinto la monarchia di Vittorio Emanuele II grazie all’attenta e intelligente politica di Cavour.
*
Sin da giovane, aderente alla Giovine Italia e, nel 1848, a Napoli, uno degli organizzatori della fallita insurrezione contro il regime borbonico, che si conclude con il suo arresto: condannato a trent’anni di carcere per cospirazione, don Domenico ne passerà dodici nella fortezza di Montefusco. Proprio l’esperienza della prigionia sarà la sua vera formazione morale e intellettuale, quella che pensava di avere avuto negli anni giovanili del settarismo. Legge Dante, conversa con i contadini, gli artigiani, finiti in prigione per essersi ribellati a quel regime opprimente e classista, certi che l’Unità d’Italia avrebbe portato l’uguaglianza tra tutti quanti. Lì Domenico impara che l’idea di rivoluzione è diversa in tutti gli essere umani. Intanto, nel carcere giungono le notizie che Garibaldi è sbarcato in Sicilia. I compagni sono in frenesia, pensano che il momento tanto atteso è finalmente giunto. Ma Domenico non si illude, sa che l’unica vera rivoluzione è stata quella del 1848, che avrebbe portato un cambiamento radicale per tutti.  Questo avvenimento è solo l’annessione di uno Stato ormai al collasso, il Regno delle Due Sicilie, da parte di un altro Stato, con una burocrazia ed un esercito più efficiente, e la spedizione di Garibaldi nel sud non è altro che un’azione permessa e voluta da Cavour; alle troppe vecchie ingiustizie ne  susseguiranno altre, nuove: “L’azione vittoriosa dei mille, quella specie di miracolo, rimetteva in gioco le carte ormai senza valore… ma Cavour e Vittorio Emanuele maneggiavano con astuzia per sfruttare a loro vantaggio l’impresa del Generale”.
*
Anche se l’esito dell’impresa dei Mille è segnato, Domenico non può non intervenire, perché voglia o no fare il rivoluzionario è il suo mestiere, l’unica cosa che sa fare. Evade dalla prigionia e parte alla volta della Calabria per incontrarsi con le truppe garibaldine oramai sbarcate sul continente, pronte ad arrivare a Napoli. Proprio durante il viaggio per andare incontro all’avanguardia garibaldina, giunge nella terra che gli aveva dato i natali, la Sila calabrese.  Lì incontra i vecchi notabili borbonici che presiedevano i tribunali del ’48, in quel momento intenti a sistemare la coccarda tricolore pronti ad accogliere Garibaldi, mentre dai palazzi aristocratici si moltiplicano scritte inneggianti a Garibaldi e Vittorio Emanuele. “Nessuno credeva più a nulla, solo al potere taumaturgico delle reliquie”.
Quella era la prova dell’esattezza dell’analisi di Domenico a cui si aggiungeva l’eterna cultura nella cultura dello schierarsi sempre con il vincitore di turno.
Lorenzo Bravi
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lacameliacollezioni · 4 years
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TRA REALISMO E SUBLIME BELLEZZA NELLE PIEGHE DELLA TESSITURA
ARTISTICA DELLA LIGURIA ITALIANA DAL XV AL XIX SECOLO
Introduzione
Siamo ai primi decenni del 1600, il secolo del Barocco, sfarzoso e ricco e le tre dame*, raffigurate nei loro sontuosi e magnifici abiti, rappresentano l’epitome della straordinaria qualità e raffinatezza raggiunta dalle manifatture tessili, nell’ambito della produzione ligure di sete, broccati, damaschi e velluti di pregevole fattura, che già nel Medioevo e nel Rinascimento avevano raggiunto traguardi ragguardevoli.
Questi preziosi panni serici avevano dei costi molto elevati e se li potevano permettere solo i nobili o le classi molto agiate, per loro venivano confezionati abiti di seta, arricchiti da ricami e trame broccate dorate, sottolineando così una evidente differenza sostanziale tra gli abbienti, le classi di alto lignaggio e il popolino che vestiva sempre di scuro.
Un ulteriore impulso a questa manifattura venne favorito, nel 1500, dalla richiesta di tessuti pregiati per l’arredamento delle già opulente residenze, che si consolidò nel secolo successivo. Erano pannelli utilizzati come termoregolatori del caldo estivo e della rigidezza del rigore invernale, ma ben presto assunsero il ruolo di status symbol: gli interni delle dimore vennero ovunque rivestiti con preziosi arazzi di seta riccamente decorati, armonicamente assortiti nelle sfumature di colore tanto che, per un certo periodo, assunsero un valore aggiunto preminente rispetto alla pur apprezzabile mobilia.
Arte della seta a Genova: alcuni cenni storici
Fino all’ inizio del 1300 non si può parlare di una vera e propria produzione locale, ma piuttosto di commercio delle sete, perché Genova era il porto di transito per i tessuti provenienti da diverse zone del sud Italia e del Mediterraneo,che avevano come meta il nord d’Italia e diversi paesi europei.
Nella fase tumultuosa dei primi anni del XIV secolo, mentre Lucca era sconvolta dalla lotta fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, due mercanti lucchesi decisero di trasferirsi a Genova per tessere “zendado”, una stoffa impalpabile, simile al taffetà, che assunse tale importanza da essere citata più volte sia dal Boccaccio nel Decameron sia dall’ Ariosto nell’ Orlando Furioso, per descrivere l’abbigliamento della maga Alcina quando si reca all’ incontro amoroso col guerriero saraceno Ruggiero:
… benché né gonna né faldiglia avesse;
che venne avolta in un leggier zendado…
Durante il secolo successivo, nel 1400, il numero degli artigiani setieri, provenienti da altre città in crisi, come Venezia per esempio, aumentò e contribuì a consolidare le basi dell’industria serica genovese. Con gli Statuti approvati nel 1432, si riconobbe all’ Arte della Seta la supremazia sulle altre arti per numero di artigiani raccolti, per il prestigio che dava alla città e per l’incremento dei beni pubblici e individuali.
Nella seconda metà del 1500 si era giunti all’ apice di queste manifatture: la lavorazione, la produzione e il commercio della seta impegnavano circa 38000 abitanti di Genova su un totale di 60000 che allora vivevano nella città. A maggior gloria di questo straripante successo, un artista lucchese, tale Baldo, come si può evincere dagli atti notarili stilati allora, si impegnava a fornire di nuovi disegni per i broccati e i velluti un nutrito gruppo di “setaiuoli” genovesi di fama e, nella sua scia, altri ne arrivarono.
Gli artigiani di origine toscana, che giunsero a Genova per svolgere la loro attività,portarono con sé anche una certa confusione, perché oltre a possedere doti artistiche eccellenti, avevano anche buone cognizioni tecniche nel comporre e riparare i telai ma, soprattutto, c’era fra di essi un continuo scambio tra i ruoli di pittori, ricamatori e disegnatori,che finivano per sovrapporsi nei lavori da svolgere.
Le stoffe di Genova, dette “Jeane” dal nome della città d’origine, ormai non temevano confronti in nessun paese europeo. I ricchi, i nobili, i principi, persino i re facevano a gara per arredare i propri palazzi con i damaschi, i velluti, i broccati, le sete genovesi con ricami e decorazioni sempre nuove e dalle nuances sempre più varie e armoniose,a costi inverosimili. Persino nell’ inventario stilato dopo la morte di Enrico VIII, si trovano descritte varie tipologie di questi velluti.
Anche il potente cardinal Mazzarino, primo ministro di Luigi XIV, in Francia, chiedeva continuamente che gli fossero inviati campioni di broccati, velluti e damaschi in varie tonalità di colore, per il tramite di uno dei molti rappresentanti che Genova aveva dislocato in tutto il territorio europeo, perché curassero i suoi interessi e ne sviluppassero il commercio.
Industria serica genovese: tecnica e commercio
Il grande apprezzamento che suscitavano i manufatti serici genovesi era dovuto all’ altissima qualità del prodotto. In origine, per la lavorazione, veniva utilizzata la seta greggia proveniente dalla Cina e dall’ Asia Minore ma, in seguito, tra il Cinquecento e il Seicento, il quantitativo maggiore di materia prima arrivava dall’ Italia meridionale.
Il livello di perfezione raggiunto era il frutto di una complessa filiera produttiva, a cominciare dal baco da seta per arrivare al manufatto, alla quale lavoravano numerosi artigiani molto abili ed esperti, che compivano al meglio ogni fase della lavorazione fino alla tessitura, coadiuvati dai tecnici, che si occupavano dei telai, delle loro componenti e della manutenzione.
L’industria serica genovese, dopo aver raggiunto l’acme nel 1500, vide l’avvio del suo declino nella seconda metà del 1600 quando, all’ interno della città, diminuì in modo drastico il numero degli imprenditori, a causa della crisi finanziaria che aveva provocato il rialzo del prezzo degli alimentari, della manodopera e una diminuzione del potere d’acquisto dei mercati europei, tartassati dalle guerre e dalle epidemie.
Il mercato, comunque, conservò una sua nicchia, grazie a facoltosi clienti aristocratici che prediligevano le stoffe genovesi, rinomate per qualità e resistenza e grazie all’ ascesa di nuove famiglie facoltose o di fresca nobiltà come Balbi, Durazzo, Moneglia, Saluzzo, Brignole, desiderose di emulare i nobili di antico lignaggio.
Il setaiolo doveva godere di cospicua disponibilità finanziaria per poter sostenere la sua impresa, poiché esercitava diverse tipologie di attività, anche se apparentemente affini. Svolgeva il ruolo di mercante, commerciante, ma anche di imprenditore che, in quanto proprietario sia delle materie prime sia del prodotto finito, rispondeva del successo o dell’insuccesso dell’intero processo produttivo ed era responsabile anche di tutte le maestranze che ne facevano parte.
A lungo andare, si crearono anche contrasti tra artigiani e imprenditori per le retribuzioni, sempre a causa della crisi finanziaria e la conseguenza fu l’esodo dei tessitori dalla città verso le zone rivierasche,causando molti problemi ai tessitori rimasti.
Questo fenomeno si rivelò positivo per la manifattura della seta, perché bilanciò la pesante diminuzione della produzione cittadina,strozzata dai problemi economici e,anche se non vennero raggiunti nel corso del secolo seguente i successi passati, tessuti come il velluto piano, operato e i damaschi mantennero sempre una qualità altissima e il primato anche in ambito europeo, senza cedere ai dettami della moda, che propendeva per l’introduzione di nuovi disegni; la parola d’ordine rimaneva sempre la medesima: alta classe e qualità indiscussa.
Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento questo orientamento si affermò sempre più, grazie anche alla maggiore diversificazione tra tessuti destinati all’arredamento e quelli destinati all’abbigliamento, ognuno caratterizzato da una gamma di diversificazioni ben distinta. I primi erano contrassegnati da elementi decorativi di grandi dimensioni, spesso incorniciati da temi vegetali disposti a specchio ai lati della pezza. I secondi, invece, presentavano piccoli motivi sempre più soggetti a variazioni col procedere del secolo.
La vigilanza dei setaioli sulla produzione è sempre ferrea sia sulla qualità sia  sulla esecuzione tecnica, a scapito però della creatività e delle novità proposte dalla moda.
* n. 1 –  Dama genovese con bambino
* n. 2 –  Marchesa Balbi
* n. 3 –  Dama rossa di Bernardo Castello
Un articolo di Maria Cristina Cantàfora  ©  per “La Camelia Collezioni” 
STORIA DELLA TESSITURA LIGURE – I ° PARTE di 5 TRA REALISMO E SUBLIME BELLEZZA NELLE PIEGHE DELLA TESSITURA ARTISTICA DELLA LIGURIA ITALIANA DAL XV AL XIX SECOLO…
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mademoisellesabi · 5 years
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La Bretagna è una regione straordinaria ricca di bellissimi paesaggi dalla forte identità. Circondata per buona parte dall’oceano vanta cittadine, villaggi e borghi dal fascino inestimabile. Rimarrete conquistati dalle sue colorate case a graticcio o quelle tutte in pietra, le sue baie dalla spiaggia finissima bagnate da un mare cristallino, le scogliere battute dal vento e dal mare talvolta placido altre impetuoso, i suoi fari spettacolari, le leggendarie foreste di maghi e cavalieri, costituiscono il patrimonio della Bretagna una terra che non lascia mai indifferenti.
La Bretagna è suddivisa in 5 dipartimenti: l’Ile et Vilaine, le Cotes d’Armor, il Finistère, il Morbihan e la Loire Atlantique, ognuno dei quali ha la sua allure peculiare e affascinante. In questo articolo voglio raccontarvi quali sono i luoghi da non perdere nel dipartimento dell’ILE-ET-VILAINE, il territorio della capitale Rennes, delle leggendarie Brocéliande e Fougères, della storica Vitré, della patria delle ostriche Cancale, delle località glamour che ricordano i fasti della belle epoque Saint Malo e Dinard. 
Clicca qui per vedere l’itinerario per visitare l’Ile et Vilaine dove sono indicate in ordine le tappe indicate in seguito.
FOUGÈRES
Bellissima cittadina medievale, sovrastata da un meraviglioso e immenso castello con bastioni merlati, le cui torri offrono un’incredibile punto di vista della città e del paesaggio circostante, è davvero notevole. Offre un’autentica e importante testimonianza del Medioevo. Immancabile una passeggiata nella città vecchia partendo da Rue Nationale, passando per il municipio e la chiesa di Saint-Léonard e suoi giardini, fino ad arrivare all’antico quartiere dei conciatori e dei tintori, dove ancora troverete case in legno. Una sosta in Place du Marchix ad ammirare le antiche case a graticcio. I primi di luglio la città si anima con i Voix de Pays, festeggiamenti e musica in tutte le piazze e in tutti i locali della cittadina.
VITRÉ
Cittadina d’arte medievale considerata la porta della Bretagna per chi arriva da Est. Da visitare il castello medievale e i suoi vicoli antichi e ricchi di fascino grazie alle case a graticcio perfettamente restaurate e al magico paesaggio.
CHÂTEAUGIRON
Un simpatico villaggio, nei dintorni di Rennes, definito Cité de Caractère, con le caratteristiche casette poste attorno ai resti dell’imponente castello medievale. Se avete tempo o siete di passaggio fateci una visitina.
BROCELIANDE
Broceliande é il nome della mitica foresta dove sono ambientate le storie e leggende di Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Broceliande è anche conosciuta con il nome di Foresta di Paimpont. A Broceliande trovate il Castello di Comper con il museo dell’immaginario Arturiano. Tra lande e laghi potrete ritrovare il fantastico mondo dalla fata Viviana, Mago Merlino o di Lancillotto. Un luogo magico, tutto da scoprire.
RENNES
La capitale della Bretagna è una città dalla radicata identità bretone, ma non molto amata dai francesi, vanta un bel centro medievale (anche se ho preferito Vannes e Dinan). Una città vivace con una massiccia presenza di giovani e studenti grazie all’Università. È assolutamente da visitare le Vieux Rennes, la parte più interessante e ricca di atmosfere d’altri tempi. Il centro storico offre incredibili scorci di architettura medievale, nonostante il grande incendio del 1720 è rimasto intatto il quartiere che si snoda intorno alla cattedrale Saint-Pierre. Vie da non perdere: Rue de la Psalette, costeggia la Cattedrale ed è incantevole per l’insieme di vecchie case dall’aspetto fiabesco; Rue Saint-Michel che porta alla graziosa Sainte Anne; Rue de Chapitre la via degli antiquari e delle gallerie d’arte dove non mancano dimore medievali; Rue de Dames e Rue Saint-Yves per le dimore antiche; Place des Lices dove si tenevano i tornei cavallereschi e dove si tiene, ogni sabato mattina, uno dei mercati più affascinanti e pittoreschi di Bretagna, in particolare ai nn. 26 e 28 ci sono delle vecchie abitazioni con bellissime facciate e tetti curiosi, in particolare l’Hotel Racapé de la Feuillée con le colombaie a forma di carena di nave. Oltre alla Rennes medievale esiste un’altra Rennes quella classica e ricca con il Parlamento di Bretagna, il municipio, gli eleganti palazzi di rue Saint-Georges e la chiesa di Saint-Germain. Per gli amanti di storia, quella bretone, è consigliata la visita al Musée de Bretagne, mentre per gli appassionati d’arte c’è il Museo della Belle Arti con opere di Rubens e Picasso.
CANCALE
Adagiata in una meravigliosa baia, la vita della cittadina ruota tutto attorno al porto, che attira turisti e viaggiatori tutto l’anno, un villaggio che è una piacevole scoperta sia per gli occhi che per il palato. Eletta Site Remarquable du Goût (importante sito del gusto) è l’indiscussa e rinomatissima patria delle ostriche. La prima cosa che verrà da fare arrivati è un giro tra le bancarelle degli ostricai e scegliere tra una ricca varietà di ostriche freschissime, direttamente dai banchi dei pescatori, quali assaggiare. Ce ne sono di molti tipi: dalle huîtres creuses, meno costose, partono da 0,50 centesimi alle Cancalaise, più dispendiose e rinomate. Uscendo da Cancale dirigetevi verso Pointe du Grouin per ammirare il bellissimo panorama della baia e della riserva ornitologica dell’Ile des Landes.
DINARD
Situata di fronte a Saint Malo, è una delle più belle e antiche stazioni balneari di Francia, località mondana e sofisticata è stata molto frequentata, in passato, dagli aristocratici inglesi. Rinomata per le sue incredibili scogliere e le bellissime ville dai molteplici stili architettonici. Da non perdere: Pointe du Moulinet, per godere di un bel panorama, l’ideale è fare una passeggiata al tramonto e ammirare sia il paesaggio che offre la natura che le grandi dimore d’epoca. Col buio, da qui si vede Saint-Malo, completamente illuminata. Plage de l’Écluse, la spiaggia principale di Dinard, con le sue caratteristiche tende a strisce blu e bianche dal sapore rétro è il luogo ideale per una giornata al mare tra la sabbia finissima, ma anche per una cena al tramonto in uno dei bar o ristoranti esclusivi. In Promenade du Clair de Lune, potete regalarvi un’escursione a piedi, tra bellissime ville fiorite, palme e mimose, fino ad arrivare alle scogliere da cui godere un privilegiato panorama sulla spiaggia, sull’oceano e su Saint-Malo. Visitate anche Dinard Street Market, uno dei mercati più belli dell’intera Bretagna, aperto le mattine del martedì, giovedì e sabato e si trova proprio sulla spiaggia principale.
SAINT MALO
Il fascino delle maree, lo spirito ribelle di questa comunità marinara, l’essere stata covo di pirati, l’ottima posizione con affaccio sull’Oceano rendono questa città murata da pareti in granito di una bellezza unica al mondo, adagiata nella Côte d’Émeraude (Costa di Smeraldo). La sua bellezza mozzafiato unita a una storia lontana e ricchissima di eventi ne fanno un luogo davvero interessante. Piena di musei, edifici storici, chiese e attrazioni, Saint Malo è una tappa indispensabile in terra francese. Città corsara per definizione, ha un’atmosfera tutta sua che non si trova nelle altre città francesi, tanto che già in passato si diceva: “Non sono né francese né bretone: Sono di Saint-Malo”. Il suo centro storico, si trova su un’isola ed è collegato alla terraferma da un ponte, è cinto dai famosi bastioni risalenti al dodicesimo secolo, si entra dalle porte, le due principali sono: la Grande-Porte e la Porte-St Vincent. Il centro storico è molto vivace, negozi e locali in abbondanza, pieno zeppo di turisti in tutti i momenti dell’anno. Non mancate la passeggiata sul lungomare ne resterete soggiogati.
Bretagna: i più bei villaggi della Ille-et-Vilaine La Bretagna è una regione straordinaria ricca di bellissimi paesaggi dalla forte identità. Circondata per buona parte dall'oceano vanta cittadine, villaggi e borghi dal fascino inestimabile.
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morelin · 2 years
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Rolli Days Autunno
Ve lo dico un po’ in anticipo così potete organizzarvi con calma sia dal punto di vista logistico sia con le prenotazioni ;-) Dal 14 al 16 ottobre si svolgerà l’appuntamento autunnale dei Rolli Days a Genova, un’occasione unica per visitare i bellissimi palazzi aristocratici genovesi.
A questo link trovate ulteriori informazioni: https://www.visitgenoa.it/rollidays-online/
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allmadamevrath-blog · 6 years
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L'arte in Mesopotamia. L'arte assira. Il palazzo, dimora del sovrano. Le arti figurative
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Lamassù. 713-707 a.C.
L'arte in Mesopotamia
L'arte assira
Il palazzo, dimora del sovrano
Il palazzo, dimora del sovrano
Gli Assiri erano una popolazione semitica insediatosi nel corso superiore del Tigri intorno alla metà del XIII secolo a.C., un'importante programma espensionistico che li portà a dominare l'intera regione mesopotamica. Attività di conquista ed espressione di potere centralizzato erano i grandi palazzi, quali quelli di Ninive e Dur-Sharukin: celebrare le vittorie dei re. In tutta l'area mesopotamica, furono forse i palazzi reali degli Assiri a raggiungere con più chiarezza una propria identità tipologia, cui si legava una notevole abbondanza di decorazioni. Accanto ad essi si ergevano poi le costruzioni religiose, come le ziqqurat, che, imponenti, raggiungevano fino a sette livelli terrazzati. Il palazzo, si sviluppava in senso orizzontale, Era arricchito da scalinate, portici, ampie sale con colonne, corridoi. Doveva apparire una fortezza quasi inaccessibile, con il massiccio muro di cinta rafforzato da torri, in cui si apriva una sola porta. La cittadella di Dur-Sharrukin, l'odierna Khorsabad, eretta probabilmente del 713 al 707 a.C. ad opera del re Sàrgon. All'interno della città murata si innalzava la cittadella rettangolare, sede del palazzo reale, della ziqqurat, dei templi, dei palazzi aristocratici e di servizio. Il palazzo reale, aveva forma quadrata e le sue sale erno organizzate a numerosi cortili. Uno di questi, rettangolare, collegava le sale del quartiere reale, tra cui la sala del trono lunga ben 50 metri. Al complesso erano affincati, numerosi templi, tra cui quello dedicato al dio della apienza Nabu, e la ziqqurat, forse dedicata a Ninurta, dio della guerra. Gli Assiri affermarono il definitivo uso dell'arco e della volta in mattoni, frequenti nelle sole monumentali e nelle grandi porte urbane.
Le arti figurative
L'intensa attività bellica degli Assiri è documentata in rilievi narrativi, di pietra o di bronzo. Le figurazioni che ornavano i palazzi e le mura urbane erano spesso dipinte a colori vivaci e formavano scene continue, dal carattere ecomiatico ma di facile lettura. Rilievi del Palazzo di Assurbanipal a Ninive, del VII secolo a.C., le scene sono senz'altro convenzionali, ad esempio nelle pose di guerrieri e degli animali, rigidamente laterali e povere di ambientazione paesaggistica. Grazie all'utilizzo di appuntiti scalpelli di ferro, il rilievo bassissimo è nitido nel segno e fa emergere figure quasi astratte in una purezza formale dove le varie parti (gli abiti regali, i finimenti dei cavalli, le barbe dei combattenti, il manto degli animali) creano un'elegante e fitta forma ornamentale. Ne deriva un ritmo serrato, in cui l'equilibrio è affidato a contrappunti e a giustapposizioni di figure simili tra loro, con esiti di un'inquietante dinamica espressiva. La grande statuaria, come nei due colossali Lamassù, figure di mostri antropocefali (ovvero con testa umana) che ornavano gli stipiti del Palazzo di Sàrgon a Dur-Sharrukin. Un effetto di sintetismo è dato dalla presenza di cinque zampe, utili a fornire un'iimponente e compiuta visione su due punti di osservazione, anteriore e laterale. Fin dalle prime manifestazioni artistiche, nella seconda metà del XIV sec. a.C., si evidenzia una accentuata differenza fra gli oggetti destinati al culto, fortmenete stereotipati, e i più espressivi manufatti di uso profano.
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retegenova · 6 years
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Venerdì 3 Agosto, visita guidate serale nei Musei di Strada Nuova: gli “ultimi” nei  dipinti di Magnasco e la città degli ultimi : Amore Sacro e Amore Profano.
 Venerdì 3 agosto alle 19.00:   visita guidata serale Museo e città.  Alessandro Magnasco è uno degli autori più originali del ‘700 in Italia che  ha rappresentato “gli ultimi”  della società del suo tempo, seguendo un filone già esistente ma esprimendosi in uno stile autonomo ed artisticamente all’avanguardia che ci affascina ancora oggi, come vedremo nella sala a lui dedicata di Palazzo Tursi.    La visita proseguirà  all’esterno, con un percorso nella città nascosta attorno alla Meridiana alle spalle  dei Palazzi aristocratici, per raccontare la città degli ultimi attraverso i secoli. Fabrizio De André era un suo grande estimatore per lo stile originale e l’attenzione  per i più deboli. Inoltre, la villa che compare nel famoso “Trattenimento in un giardino d’Albaro”  è la stessa abitata dalla famiglia del cantautore. Appuntamento: ore 18.45 presso il bookshop di via Garibaldi. Costo: 15 euro. Per prenotare: 370 328 91262 [email protected] ————————————————————- 
VISITE A PALAZZO DUCALE:  
Sabato 4  agosto ore 16.30 visita guidata agli ambienti storici di  Palazzo Ducale (saloni del Maggiore e Minor Consiglio e Torre e carceri. Costo: 12 euro
Domenica  5 agosto ore 17.00 visita guidata Mostra México!   Costo, biglietto e visita: 18 euro
Per info e prenotazioni: 370 328 91262 [email protected]
  Claudia Bergamaschi
Ass. Culturale Genova In… Mostra
Cooperativa Battelieri del Porto di Genova
NetParade.it
Quezzi.it
AlfaRecovery.com
Comuni-italiani.it
Il Secolo XIX
CentroRicambiCucine.it
Contatti
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Impianti Elettrici
Informatica Servizi
Edilizia
Il Secolo XIX
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MusicforPeace Programma 29 maggio
Programma eventi Genova Celebra Colombo
Genova Celebra Colombo
Visite Musei e Ducale Venerdì 3 Agosto, visita guidate serale nei Musei di Strada Nuova: gli "ultimi" nei  dipinti di Magnasco e la città degli ultimi : Amore Sacro e Amore Profano.
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levysoft · 6 years
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La colazione che diventa pranzo, la scomparsa della cena, il pasto notturno. Come sono cambiati i tempi della tavola dal Settecento a oggi. Un segno di distinzione borghese. Lo studio di Alessandro Barbero
Non c’è medico, e soprattutto dietologo, che non raccomandi di stare attenti alla regolarità degli orari dei pasti. Tuttavia, esiste ancora una certa confusione sui nomi con cui siamo abituati a designarli. Confusione che però non è solo italiana. Perché gli orari dei pasti “sono una costruzione culturale e cambiano non solo da un paese all’altro, ma da una classe sociale all’altra e anche da un’epoca all’altra”, come dimostra Alessandro Barbero in un dotto e divertente saggio (A che ora si mangia? Approssimazioni storico-linguistiche all’orario dei pasti, secoli XVIII-XXI, Quodlibet, 87 pp.,10 euro). L’autore, per quanto storico del Medioevo, come romanziere (ha vinto lo Strega nel 1996) non ha mai nascosto la sua passione per i manzoniani “due secoli / l’un contro l’altro armato” (il Settecento e l’Ottocento). Continuando a scavare in quel suo prediletto periodo, si è imbattuto in una rivoluzione sociale avvenuta nelle due capitali che allora contavano in Europa, Parigi e Londra. Lorario settecentesco prevedeva una colazione al mattino appena svegli, che nella lingua internazionale dei ceti elevati era chiamata “déjeuner"; un pranzo molto abbondante, o “dîner”, fra mezzogiorno e le due; una cena più leggera (“souper”) in serata. Questi orari sembrano essere stati condivisi ovunque. Carlo Goldoni, trasferitosi nel 1762 a Parigi, scoprì che l’ora normale in cui la corte e la buona società andavano a tavola erano proprio le due. Nel 1764 James Boswell, nel corso del suo “Grand Tour”, riesce a farsi invitare a pranzo da Rousseau, e il filosofo ginevrino lo invita a venire a mezzogiorno, in modo da avere il tempo di chiacchierare un po’ prima di sedersi a tavola, ma alle due e mezza il pranzo era comunque finito. Bisogna tener conto che all’epoca il pranzo, per chi poteva permetterselo, non comprendeva mai, neppure nella piccola borghesia, meno di quattro o cinque piatti, di cui almeno due di carne. Per averne conferma, basta consultare i menù con cui Pellegrino Artusi conclude la sua Scienza in cucina (1891). Kant, secondo Thomas De Quincey, si alzava al mattino presto, prendeva diverse tazze di té e lavorava senza mangiare nulla fino a pranzo, che cominciava all’una e, quando c’erano ospiti, poteva durare anche fino alle quattro o alle cinque; poi andava a letto e non cenava più. Questi orari sono abbastanza simili a quelli in uso oggi in Italia o in Francia, ma – avverte Barbero – chi ne concludesse che da allora ai nostri giorni non si sia verificato nessun mutamento sbaglierebbe di grosso. In realtà, gli orari dei pasti hanno subito un mutamento così accentuato fra la Rivoluzione francese e la Prima guerra mondiale da ricollocarsi, alla fine, sulle stesse posizioni. Ma è rimasta una differenza linguistica a segnalarci che nel frattempo era successo qualcosa: adesso in francese il pasto di mezzogiorno è chiamato “déjeuner”, mentre “dîner” è riservato al pasto della sera. Questa sostituzione di parole è l’indizio di un mutamento di abitudini che si sarebbe manifestato in pieno entro la fine del secolo. È probabile che la tendenza a spostare in avanti l’ora del pranzo sia iniziata in Inghilterra. Nel 1793 Jeremy Bentham, che non era soltanto un giurista e filosofo notissimo ma un ricco gentiluomo, invita un conoscente a pranzo pregandolo di venire alle cinque del pomeriggio. In quel grande manuale delle usanze sociali che è Vanity Fair, scritto nel 1847-1848 ma ambientato nel 1812-1815, in casa del businessman della City Mr. Sedley si pranza alle cinque anone n giorno in Cui le gazzette riportano la notizia della battaglia di Lipsia (16 ottobre 1813), che segna il definitivo tramonto dell’èra napoleonica. Ciononostante il figlio Jos, ingenuamente vanitoso e snob, invitava a pranzo alle sei e mezza. Nella Gran Bretagna ottocentesca lo spostamento dell’orario del “dinner” diventa ben presto un bersaglio della satira: si pranza tardi perché ci si alza tardi. In altri termini, è una moda che fa comodo alle classi oziose. In Francia, invece, prevale una lettura del tutto diversa, razionale e coerente col trionfo del capitalismo: il ritardo nell’orario non è infatti attribuito ai cattivi stili di vita del bel mondo, ma a un’esigenza di efficienza e produttività, essendo ovvio per tutti che dopo il pranzo non si lavora più. Le cose non cambiano A Londra lo spostamento dell’orario diventa un bersaglio della satira. A Parigi è visto come un segno di produttività nella Restaurazione: nel febbraio 1815 il futuro presidente degli Stati Uniti, John Quincy Adams, invitato a pranzo da Madame de Staël, esce dalla sua residenza di ambasciatore non prima delle cinque e mezza. Stendhal ci informa che in casa del marchese de la Mole “l’on dinait à six” (Il rosso e il nero, 1830). Questi orari non erano seguiti soltanto a corte e nei palazzi nobiliari, ma da tutti coloro che volevano essere considerati “à la page”. La cena rimase così vittima delle nuove abitudini. Il “souper” diventa un pasto notturno. Come racconta Gustave Flaubert nel ballo di Madame Bovary alla Vaubyessard: “À sept heures, on servit le dîner”; poi seguono il ballo, una partita a whist e un “souper” freddo, dopo il quale si balla ancora un valzer e si va a dormire all’alba. Accanto alla scomparsa della cena, la novità più significativa è l’irresistibile ascesa della colazione “à la fourchette”. Prima d’allora, si sedevano a tavola a metà mattina – per fare un robusto spuntino prima del pranzo – soltanto gli americani: nel 1789 i piantatori della Virginia si alzavano alle otto e bevevano un “julep”, cioè un un whisky con zucchero ghiaccio e menta; alle dieci facevano un breakfast di prosciutto, pane tostato e sidro; e, dopo qualche bicchiere di liquore, andavano a dormire. Ma con i nuovi orari la colazione “à la fourchette” prende piede ovunque, imposta proprio dalla posticipazione del pranzo. Sotto il Primo impero, a Parigi si fa colazione talmente tardi che nasce l’abitudine di invitare la gente a colazione, anziché a pranzo. Questo “déjeuner dînatoire”, in cui di solito viene servita persino una minestra, poteva durare anche quattro ore. Nella conservatrice Germania, alzarsi di buon’ora e pranzare presto erano punti fermi anche negli ambienti aristocratici, che pure non ignoravano il prolungamento notturno della vita di società. La maggioranza dei tedeschi rimaneva fedele agli orari tradizionali, ancor più di quanto non si usasse alla corte prussiana, moderatamente esterofila. Sempre Stendhal riferisce incredulo che negli alberghi teutonici si serviva il “dîner vers les une heure”. Non si può quindi non scorgere un’influenza cosmopolita – osserva Barbero – nei personaggi dei Racconti di Hoffmann (1880), che fanno colazione con vino e biscotti, o con champagne e ostriche alle undici, e pranzo dalle tre alle quattro. In effetti, nel corso dell’Ottocento gli orari si spostano in avanti anche in Germania, ma meno marcatamente che altrove. Un manuale di conversazione tedesca stampato a Vienna nel 1856 presenta come esempio la frase “Noi pranziamo alle quattro”, orario evidentemente divenuto normale presso la borghesia – ma è significativo che enunciare l’ora a cui una famiglia ha l’abitudine di mangiare sia sentito come un fatto socialmente rilevante. Nell’autobiografico Tonio Kröger (1903), Thomas Mann scrive che “Hans e Tonio avevano il tempo di andare a passeggio dopo la scuola, perché entrambi appartenevano a famiglie in cui non si pranzava prima delle quattro. I loro padri erano grandi commercianti, che ricoprivano cariche pubbliche ed erano potenti in città”. E l’America? I ceti possidenti del New England tendevano a imitare le abitudini inglesi, ritardando l’ora del pranzo, ma senza spingersi così in là come accadeva a Londra. Un libro di cucina pubblicato a New York nel 1847, interessante – fra l’altro – per la perentorietà con cui afferma che gli orari dei pasti sono parte dell’eredità culturale della nazione americana, colloca l’ora del “dinner” fra l’una e le tre, oltre a confermare che “i bona-fide [gli autentici] Americans” non cenano, preferendo il té fra le sei e le otto. L’élite sociale bostoniana, poliglotta e di educazione europea, non era evidentemente per nulla tipica abitudini americane. Anche oltre Atlantico, però, l’orologio non si ferma. In Russia la moda di pranzare tardi attecchisce in alcuni circoli intellettuali di Pietroburgo, ma non conquista la nobiltà di provincia. Nei primi capitoli di Guerra e pace, dai mondani Rostov si pranza alle quattro, mentre il vecchio principe Bolkonskij, uomo dei tempi di Caterina, pranza alle due. Ma in un altro celebre romanzo di Tolstoj, Anna Karenina (uscito a partire dal 1875), gli altolocati Karenin pranzano alle cinque, e in villeggiatura si vive “tout-à-fait à l’anglaise. On se réunit le matin au breakfast et puis on se sépare… Il pranzo è alle sette”. Nel 1858 Alexandre Dumas, in visita presso il governatore del Caucaso, nota che “on dînait a six”. In Italia i ceti benestanti sembrano pronti a far propri i nuovi orari. “Io pranzo alle quattro”, proclama l’arrogante e facoltoso conte, protagonista della commedia Un matrimonio alla moda di Giovanni Carlo Cosenza, andata in scena a Napoli nel 1823. Nel 1826 Alessandro Manzoni scrive che “la nostra solita ora è le cinque”. Dal 1850 a Milano gli uffici chiudono alle quattro; solo gli operai, che si svegliano presto e lavorano tutto il giorno, fanno un pasto a mezzogiorno, mentre i signori fanno al massimo uno spuntino alle undici, equivalente alla colazione “à la fourchette”. Ma queste abitudini così sobrie, che si accordavano con i ritmi dell’incipiente modernità, erano diffuse solo nel milieu sociale del conte Manzoni, e solo nella metropoli. In provincia si pranzava assai prima. Ne deriva una disparità di orari tra città e campagna che provoca qualche sconcerto. A Roma, Gioachino Belli nota che l’abitudine di chiamare “dopopranzo” le ore da mezzogiorno a sera non ha più alcun rapporto con l’ora in cui si mangia realmente, tanto che può scrivere in un sonetto (Santa Luscia de quest’anno, 1832): “Doppo-pranzo dà un pranzo er zor Micchele”. I nuovi orari raggiungeranno le classi popolari soltanto più tardi, e vi rimarranno in uso più a lungo. Il fante Luigi Colombini, fatto prigioniero a Caporetto, il giorno di Natale del 1917 annota nel campo di concentramento in cui era rinchiuso: “Alle sei e mezza, al momento che nella vita famigliare si va a tavola, vado sul pagliericcio”. Tutti questi esempi confermano che pranzare tardi è un`innovazione fortemente connotata, che concorre a distinguere la capitale dalla provincia, e in ambedue la borghesia degli affari dal popolo. Un tema Il cerchio si chiude e si torna al lessico di Carlo Goldoni. Nel ’900 si è assestata l’abitudine di due pasti più o meno equivalenti ricorrente dei romanzi di Balzac, da Béatrix alla Vieille fille ai Paysans, sono gli orari arcaici dei pasti in provincia, che non cancellano tuttavia le diversità di abitudini tra gli operai e la “bonne compagnie”. Lo stesso oltremanica. In Tempi difficili di Charles Dickens (1854), Mr. Bounderby, l’industriale che si è fatto da sé, dovendo invitare a pranzo un gentiluomo, decide di “postponing the family dinner till halfpast six” (di ritardare il pranzo fino alle sei e mezza). Arriviamo così al più curioso dei fenomeni: a forza di spostarsi in avanti, il pranzo raggiunge l’orario in cui prima si consumava la cena. Flaubert annota argutamente e con un tocco d’ironia nel Dictionnaire des idées reçues (1850-1880): “Dîner. Autrefois on dînait a midi, maintenant on dîne à des heures impossibles. Le dîner des nos pères était notre déjeuner, et notre déjeuner était leur dîner. Dîner si tard que ça ne s’appelle pas dîner, ma souper”. Sono passati circa centocinquant’anni, ma i linguisti francofoni ancora discutono su questo slittamento semantico. Ai cittadini comuni, naturalmente, non interessano i dibattiti sull’importanza di questo o quel pasto. I nomi sono sentiti esclusivamente come indicatori di orario, peraltro in una società in cui l’orario continuato e la pausa pranzo breve hanno introdotto uno squilibrio di cui ancora non sono chiare tutte le conseguenze. In Italia lo stesso fattore – conclude Barbero – ha prodotto un risultato diverso, e cioè che il pranzo, dopo che il suo orario è slittato alle otto o nove di sera, viene chiamato cena, restituendo il nome di pranzo al pasto di mezzogiorno, che solo in rare occasioni formali viene chiamato, con una sfumatura di snobismo, colazione. Insomma, il cerchio si è chiuso e tutto è ritornato al lessico di Carlo Goldoni. Ma questo ritorno è stato possibile solo perché nel Novecento, diversamente che nei secoli precedenti, nelle regioni italiane l’uso si è assestato su due pasti più o meno equivalenti. Beninteso, eccezion fatta per coloro – come chi scrive – che talvolta non disdegnano di saltare la cena pregustando un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino a mezzanotte.
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margiehasson · 4 years
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Capodanno 2020: dove andare? 10 destinazioni romantiche (oltre Parigi e le Hawaii)
Volete festeggiare un anniversario o una ricorrenza, oppure desiderate semplicemente passare del tempo a guardarvi negli occhi sorseggiando vino e facendo passeggiate al tramonto. Sì, ma dove andare? Se la prima idea che vi viene in mente vi sembra anche la più scontata, non temete. Al mondo ci sono tanti luoghi suggestivi e romantici che non aspettano altro che di accogliervi e farvi sognare. Se non ve ne viene in mente nemmeno uno, qui sotto troverete dieci idee atipiche per iniziare a pianificare una vacanza zuccherina con il partner. Non temete perché andare lontano e spendere una fortuna non è necessario: esistono luoghi incantevoli proprio dietro l’angolo.
Una gita sotto le stelle in Olanda Situato nella regione di Wadden, il parco naturale di Lauwersmeer è immerso nella totale oscurità. E, nonostante i Paesi Bassi siano il paese con il maggior inquinamento luminoso, da qui è addirittura possibile vedere l’Aurora Boreale. Vengono organizzate gite su speciali barche illuminate che, di notte, conducono i visitatori in punti strategici per vedere il firmamento in tutto il suo splendore. La zona è ricca di laghi e scenari naturali mozzafiato, dove potrete passeggiare indisturbati mano nella mano.
Sull’Orient Express per una notte indimenticabile Un’esperienza indimenticabile che sicuramente non lascerà indifferente la vostra dolce metà. Passare una notte (o magari di più, a seconda del budget) sul mitico treno che da Parigi raggiunge Venezia, Londra e Istanbul. Vi basterà scegliere la destinazione e salire a bordo per trovarvi catapultati in quello che più che un convoglio è un vero e proprio hotel a cinque stelle su rotaie.
A Copenhagen per un week-end ecosostenibile  La capitale danese merita una visita per svariati motivi: durante il periodo natalizio, grazie ai canali innevati e alle case colorate, sembra un luogo incantato. Inoltre se siete appassionati di moda e design non avrete che l’imbarazzo della scelta tra gallerie e shop all’avanguardia. Se desiderate dormire in un luogo davvero unico, l’Hotel cinque stelle Manon Les Suites è quello che fa per voi: le stanze si affacciano su una piscina coperta che sembra uscita da una cartolina balinese mentre dalla terrazza posta sul rooftop potrete godere di una vista mozzafiato sulla città.
Civita di Bagnoregio Il minuscolo comune si trova nella provincia di Viterbo, nel Lazio, ed è uno dei borghi più belli d’Italia. Arroccato su un’altura nella valle dei Calanchi, si raggiunge grazie a un ponte pedonale costruito solo nel 1965. Un vero gioiello dove trascorrere qualche giorno in totale intimità, assaporando i piatti tipici del luogo e facendo escursioni per scoprire i suggestivi dintorni.
Un week-end londinese con Afternoon Tea al Ritz Esiste qualcosa di più inglese del tè delle cinque? Probabilmente no. Se siete in città dovete quindi provare questa experience indimenticabile. Non vi resta che prenotare un tavolo per due nella Palm Court del Ritz di Londra. La sala, per l’occasione addobbata a festa con abeti e nastri di velluto, vi farà sentire dei veri aristocratici british: potrete scegliere tra 18 tipi diversi di te, piccoli sandwich, delicati dolcetti e classici scones alla marmellata. A fare da sottofondo, canzoni natalizie e tintinnio di argenteria. Occhio al dress code: l’hotel ha delle regole molto precise sull’abbigliamento.
 Kyoto alla scoperta del mondo delle Geishe Nell’antichità fu la capitale dell’Impero Giapponese: ora è considerata la meta culturale più interessante del paese. Potrete visitare numerosi templi buddisti, palazzi e giardini considerati patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ma non solo: è possibile cenare con una vera Geiko, come vengono chiamate qui, che vi intratterrà nel corso della serata e si esibirà con performance teatrali e canore.
Dormire in un riad marocchino Marrakesch è la meta perfetta per passare qualche giorno in un luogo affascinante, ricco di storia, ‘esotico’ e a poche ore di volo di distanza. Perdetevi nel grande souk, visitate il giardino Majorelle oppure sorseggiate il te alla menta in terrazza: l’importante è assaporare ogni esperienza con lentezza, come fanno i locals.
Alla scoperta della Venezia del Nord Amsterdam ha molti pregi: il romanticismo dei suoi canali, un’offerta vastissima di mostre e musei da visitare e, soprattutto, svariati chilometri di piste ciclabili perfetti per gite su due ruote con la vostra dolce metà. Lui/lei non sono sportivi? Ancora meglio: potrete portarli a vedere le stelle sul sellino posteriore della vostra bicicletta. Per farvi abbracciare ancora più stretti, basterà aumentare la velocità della pedalata.
Su un’isola deserta nelle Filippine A Boracay, per l’esattezza. Palme, acqua cristallina e sabbia bianchissima: un minuscolo paradiso (l’isola è larga appena 7 chilometri) dove sarete solo voi, immersi in un paradiso incontaminato a godervi il meritato relax.
Alla scoperta di Edimburgo La città che ha ispirato la saga di Harry Potter. Perdetevi tra le sue stradine di pietra, le case con i tetti a punta e le facciate colorate e visitate i castelli della capitale scozzese. Non fatevi trarre in inganno: il panorama culinario della città va ben oltre i soliti bar e birrerie. E on-line troverete persino una guida con tutti i luoghi più romantici da visitare se avete in programma una gita nella capitale scozzese.
  Regalare un viaggio alla propria dolce metà è senz’altro uno dei gesti più romantici che si possano compiere! Lo sostengono buona parte delle 70 donne di età compresa fra i 5 e i 75 anni, video intervistate da Glamour US. Ecco come hanno risposto alla domanda “Qual è la cosa più romantica che qualcuno potrebbe fare per te?”
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patriziadidio · 5 years
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Nasce -La Vie En Rosalia- della collezione -La Vie En Rose-
NASCE “LA VIE EN ROSALIA” DELLA COLLEZIONE “LA VIE EN ROSE”
STAMPE ESCLUSIVE CREATE PER ESALTARE I SIMBOLI DELLA TRADIZIONE SICILIANA
Presentazione a Villa Niscemi con il vice sindaco Giambrone e con le sorelle Patrizia e Stefania Di Dio, amministratore delegato e responsabile stile
  Per celebrare i 40 anni di attività la società C.I.D.A. srl, operante nei settori dell’abbigliamento donna, con il marchio La Vie En Rose, che firma collezioni di prêt-à-porter femminile, ha presentato oggi a Villa Valguarnera Niscemi, il nuovo progetto, che prevede appunto un nuovo brand “La Vie En Rosalia”, alla presenza del vice sindaco Fabio Giambrone, di Patrizia Di Dio, amministratore delegato di C.I.D.A. srl, e Stefania Di Dio, socia e responsabile “prodotto” e ufficio stile. La prestigiosa sede istituzionale e altamente simbolica per Palermo, Villa Valguarnera Niscemi, è stata scelta per la presentazione del nuovo progetto imprenditoriale perché alla città, a Palermo e alla Sicilia, è dedicato questo nuovo progetto. La nuova capsule collection La Vie En Rosalia, della collezione La Vie En Rose, ha una forte connotazione di sicilianità, per valorizzare il “mood” Sicilia, l’artigianalità e la tradizione siciliana con le stampe esclusive, appositamente create, e l’immagine della nostra terra, la cui tradizione e cultura sono sempre più apprezzate nel mondo e dai turisti. L’ispirazione di questo nuovo progetto stilistico e aziendale nasce da Palermo dalle sue bellezze insite nel nostro territorio: la natura, l’arte, le radici e i simboli, popolari e culturali, la sua religiosità. Una bellezza non fine a se stessa, ma motore di sviluppo.
  LA VIE EN ROSALIA
Il nuovo progetto è una “capsule collection” inserita in collezione, da promuovere nei mercati esteri, on line, con una forte caratterizzazione della tradizione, della cultura siciliana. Stampe esclusive, appositamente create e ispirate dalla Sicilia e ai suoi simboli sempre più apprezzati nel mondo e dai turisti. Con La Vie En Rosalia l’obiettivo è quello di esaltare le icone e i simboli del patrimonio culturale e popolare declinandoli in chiave moderna e “fashion”.
Con la scelta del nome, Rosalia, l’azienda celebra uno dei massimi simboli della nostra città, la Santuzza, la Santa Patrona di Palermo, la liberatrice dalla peste, la donna suscitatrice di speranza, di voglia di ripresa, di rinascita, di nuova vita che prevale sulla morte, di liberazione la grande santa, venerata dai palermitani e non solo. Chi meglio della Santuzza rispecchia la città di Palermo? Quale marchio migliore si poteva dare alla nuova capsule collection? Che siano le stesse donne siciliane, le turiste o altri operatori della moda nel mondo, a valorizzare i nostri simboli.
“Siamo qui oggi – dice Patrizia Di Dio - partendo dal nostro ieri. Presentiamo La Vie en Rosalia come novità. Ma il nuovo ha un volto antico. Perché La Vie en Rose, in qualche modo, ha anticipato La Vie en Rosalia. Un progetto di amore per la nostra terra e la sua bellezza. Nel volere mettere nel mercato un business che esprime un sentimento di amore per la nostra terra, sconfiggendo degrado e rassegnazione, suscitando in tutti i modi possibili rinascita e bellezza. Con questo nuovo progetto non miriamo “solo” a vendere “prodotti”, bensì “significati”, a far innamorare della nostra terra e delle sue bellezze i siciliani e non solo. Il nostro desiderio – spiega Patrizia Di Dio, amministratore delegato di C.I.D.A. – è quello di valorizzare il “mood Sicilia”, sempre più apprezzato in Italia e nel mondo, esaltando le bellezze artistico-culturali che il nostro territorio offre. Con La Vie en Rosalia miriamo a contribuire a parlare della Sicilia e della sua bellezza. Bellezza della natura, bontà dell’eno-gastronomia, fascino storico-culturale e tradizione dei saperi e dei mestieri. Oggi – aggiunge - siamo consapevoli che la bellezza non è fine a se stessa, ma produce valore e muove sviluppo. I tempi sono finalmente maturi per poter affermare il nostro orgoglio nei confronti della Sicilia, di cui non avevamo adeguata consapevolezza della sua grandezza e della sua importanza. Anche l’impresa ne prende spunto”.
“Le fantasie dei tessuti utilizzati per la realizzazione dei capi – dice Stefania Di Dio - sono esclusive e caratterizzate dai colori e dalle icone della tradizione siciliana. Le fantasie “maiolica” rievocano le classiche ceramiche della tradizione popolare e dei palazzi della nobiltà. Tutti gli accessori sono realizzati artigianalmente ed ogni pezzo è unico e diverso dall’altro. Decorazioni barocche colorate, nappine, coralli e pietre dure impreziosiscono ogni accessorio richiamando le icone della tradizione siciliana. Ispirata allo splendore dei palazzi aristocratici siciliani; in essi ricche decorazioni si fondono dando vita ad un’immagine opulenta, magnifica e sfarzosa”.
“Sono molto felice che la presentazione de La Vie En Rosalia si sia svolta a Villa Niscemi – dice il vice sindaco Fabio Giambrone – perché l’amministrazione comunale non può che essere fiera di una azienda come La Vie En Rose, che è una eccellenza palermitana che si distingue nella moda ormai da tantissimi anni. Noi abbiamo il dovere di tutelare e sostenere tutte le aziende che portavano alto il nome della città di Palermo, poi, in questo caso legare il proprio brand a Santa Rosalia, patrona della città, caratterizza questa collezione che mette al centro la palermitanità e la sicilianità”, conclude Giambrone.  
  LA VIE EN ROSE
La Vie En Rose è il marchio della nostra società Cida. È registrato in Italia e in Unione Europea. Dà nome alla nostra collezione di “total look” distribuita attraverso negozi diretti, in franchising e multi brand, in Italia e all'estero. Quando è stato creato questo marchio, ci si è rifatti a un simbolo universalmente conosciuto, la canzone La Vie en Rose, melodia bellissima che parla della vita nel bello, in rosa appunto; il colore che associa la donna è il senso del buono e del giusto. E si dice in francese. Perché la moda e l’eleganza sono da sempre rappresentate dall’Italia e dalla Francia. Si evoca così la forza di un connubio vincente di culture e visioni. Da anni, La Vie en Rose realizza collezioni di pret a porter superando le difficoltà di fare impresa in una terra, sì bellissima, ma difficilissima. “Facciamo moda in Sicilia, quando tutti ritenevano non ci fossero le condizioni per farlo. Abbiamo materializzato un sogno – sottolinea Patrizia Di Dio -. Ma questa ormai è storia, è una sfida vinta. Da vent’anni la La Vie en Rose va. E punta sul Made in Italy, sul design italiano, sulle capacità artigianali italiane, sulla qualità che qui in Italia è favorita da norme che inducono al rispetto dell’ambiente, alla tutela di chi consuma e di chi lavora”. La Vie En Rose firma una collezione “day by day”, metropolitana, con un design moderno che capta e rielabora, caratterizzandole, le tendenze nazionali e locali. Muovendo su questo percorso, ecco ora una nuova tappa. un nuovo progetto di collezione che verrà promosso nei mercati esteri, on line, con il marchio forte dei simboli siciliani, della cultura siciliana, tutto quello che viene sempre più apprezzato nel mondo, da chi sa di noi siciliani e dai turisti che arrivano.
  LE STAMPE ESCLUSIVE DEI “MOOD” SICILIA 
Le fantasie dei tessuti utilizzati per la realizzazione dei capi sono esclusive, tratte dai colori e dalle icone della tradizione siciliana. Quelle in maiolica, per esempio, rievocano le classiche ceramiche della tradizione popolare e dei palazzi della nobiltà. Quelle damasco richiamano lo splendore delle tappezzerie dei palazzi aristocratici siciliani, quelle barocco fondono ricche decorazioni aristocratiche in una combinazione opulenta, magnifica e sfarzosa come il periodo a cui sono ispirate. Quelle arabesque riflettono l’influenza che, dopo più di mille anni, la dominazione araba continua ad avere nei segni e nei colori della Sicilia. Grande spazio non si poteva poi non dare alla natura siciliana, lussureggiante e unica, dove si incrociano piante e colture di luoghi dai climi diversi e del nostro meraviglioso mare.
  VESTE GRAFICA DEL LOGO LA VIE EN ROSALIA
Nella realizzazione del logo è stato deciso di reinterpretare la tradizionale ruota siciliana, rileggendola in chiave moderna, con la convinzione che tradizione ed innovazione debbano camminare di pari passo. Il logo del marchio raffigura una ruota; la scelta, in questo caso, può essere ricondotta a tre ordini di ragioni: la ruota è idealmente elemento tipico del patrimonio popolare siciliano, è il carretto siciliano sfarzosamente decorato, sia nella struttura centrale che nelle ruote, con i tradizionali colori rosso, blu e giallo. Peraltro, durante il festino di Santa Rosalia, la Santuzza, attraversa la città sul carro e anche qui si ritrova l’assonanza con la ruota. Inoltre, la ruota rispecchia l’idea del movimento, quindi lo sviluppo economico.  
  MOOD
I primi 4 “mood” vengono declinati in tanti modelli: abiti, pantaloni, casacche, accessori. L’attività è il “pret a porter”, quindi, durante tutta la stagione inseriremo nuove proposte di stampe e stilistiche.
  I NOSTRI PRIMI 40 ANNI…MA SONO QUASI 100
Oggi la famiglia Di Dio, con le collaboratrici e i collaboratori, vuole condividere un altro bel momento che dà ancora più significato a questo progetto. Quest'anno ricorrono i primi 40 anni dell’azienda. Era marzo 1979 quando il fondatore, Nicola Di Dio, costituì la società Cida. Di fatto, però, continuando un’attività iniziata nel 1965. Con la moglie Franca, Nicola portò avanti l’azienda coinvolgendo in seguito anche i figli. Oggi Patrizia e Stefania Di Dio continuano sulla strada avviata dai genitori. Ancora oggi, Nicola Di Dio è in azienda e Patrizia e la sorella Stefania dedicano questo nuovo progetto proprio ai genitori Nicola e Franca, genitori e imprenditori, dai quali hanno imparato a fare impresa e ai quali devono quello che sanno fare. Il destino dell’attività della famiglia Di Dio parte ancora da più lontano degli stessi anni ‘60 quando iniziò Nicola. La storia parte fin dai primi anni '20. A raccontarla è Patrizia Di Dio: “E’ una storia, che sembra la sceneggiatura della storia di una famiglia del Sud. Nostro nonno materno nasce a Pettineo, in provincia di Messina nel 1913. A 10 anni comincia a lavorare in una piccola bottega del paese dove si vendevano stoffe, prodotti di merceria con accanto la sartoria, dove apprende il mestiere di sarto. Continuerà a svolgere la sua attività di sarto insieme con i fratelli e farà anche da insegnante sarto ai ragazzi del paese. A causa delle emigrazioni interne verso i poli industriali del Nord e la scarsissima rendita dei prodotti agricoli, il lavoro artigianale in un paese rurale non aveva più clienti o quasi. Così, il nonno trasferì la famiglia a Palermo dove continuò l’attività di sarto. Nel 1964 i nostri nonni Michele e Maria si trasferirono a Modena, dove realizzarono un laboratorio artigianale conto terzi, cosiddetti “facon”, fino a metà degli anni ‘70. Sfruttando la sua abilità di sarto, nostro nonno creava i modelli base da sviluppare nelle varie taglie per le quali creava su carta i disegni di base per il taglio sul banco e per la produzione in serie. Prima per conto di un paio di ditte di Modena e Reggio Emilia (nascente galassia Max Mara), ma svolse l’attività artigianale conto terzi anche per aziende di Perugia e Nonantola. La ditta artigianale di produzione di abbigliamento femminile a Modena si chiamava GEMAR – acronimo di Gentile Maria, nostra nonna a cui era intestata l’azienda. Mio nonno Michele concluse la sua attività nel campo della moda a Modena, dopo circa un cinquantennio, guerre a parte. Raccontiamo questa storia perché riteniamo che sia una storia tipica di emigrazione, di talenti del Sud costretti a migrare.
Durante le mie vacanze a Modena, dove amavo trascorrere qualche settimana finite le scuole, nel laboratorio dei miei nonni, con gli scampoli delle lavorazioni, facevo i vestiti delle barbie che vendevo alle amichette di Modena. Il nostro destino parte già da li. Racconto una storia di riscatto perché siamo riusciti a rimanere, a impiantare qui l’azienda, e dal profondo Sud a far lavorare conto terzi i laboratori artigianali del Nord. Un tempo, un abile sarto del Sud lavorava per le aziende di moda del Nord. Noi adesso siamo un’azienda di moda del Sud che fa lavorare piccoli laboratori artigianali. Un’inversione di tendenza che abbiamo voluto raccontare per celebrare la nascita del nostro nuovo progetto, dei nostri primi 40/100 anni di storia imprenditoriale e familiare.
di Patrizia Di Dio Articolo originale https://ift.tt/2CGyvFI
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pangeanews · 4 years
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“Il terrore era un fantasma che ti seguiva ovunque”. Imre Kertész e Ágnes Heller: la scrittura contro l’incanto del male
Lì dove i morti sono tenuti in gran conto, anche per i vivi c’è speranza (Imre Kertész)
Nelle vie, nelle case, nei palazzi di Firenze ho incontrato un sogno, o meglio, ko incontrato il mio sogno di un mondo adeguato all’uomo (Ágnes Heller)
Budapest, dicembre 2019. Una mattina calda e luminosa, nel rigido inverno ungherese, l’ideale per una passeggiata sulla riva del Danubio. Sul lato di Pest procede la teoria dei palazzi aristocratici, dei lampioni eleganti, delle panchine accoglienti, delle aiuole curate, mentre il fiume scorre placido e solenne, e i ponti sono sospesi nell’aria azzurra, a disegnare un paesaggio incantato. Ogni giorno nella imponente piazza del Parlamento si celebra il rito del cambio di guardia e delle foto dei turisti davanti alle statue degli eroi d’Ungheria, davanti alla bellezza dei luoghi. Belli nonostante i loro mostri, di cui accanto al Parlamento, nel tratto compreso tra il ponte delle Catene e il ponte Margherita, sul bordo della banchina del fiume, vi è testimonianza, con un singolare monumento dell’Olocausto: scarpe in bronzo dell’epoca, femminili e maschili, “usate”, disposte a caso, come appena lasciate dai piedi che le calzavano, un’installazione realizzata dal regista Can Togay con lo scultore Gyula Pauer, per ricordare l’eccidio degli ebrei rastrellati nella notte dell’8 gennaio 1945 dalle Croci Frecciate (il partito filonazista e antisemita che sotto Ferenc Szálasi governò l’Ungheria dall’ottobre 1944 al gennaio 1945), uccisi dopo aver dovuto togliere le scarpe (erano utili ai vivi e non certo ai morti), legati a tre per volta e gettati nel Danubio. Poco più in là una lastra, anch’essa bronzea, infissa a terra, e datata 16 aprile 2005, richiama il 60º anniversario della Shoah nel Giorno ungherese della Memoria e ricorda il 16 aprile 1944, quando incominciava la ghettizzazione degli ebrei ungheresi, con la costruzione, in maggio, del ghetto (uno dei più ampi tra i ghetti nazisti, e uno tra quelli costruiti più tardi, di cui oggi rimane un muro nel vivacissimo e centrale quartiere ebraico di Budapest, dominato dalla splendida Sinagoga Grande). Davanti a quel memoriale, i turisti, ma non solo, si fermano a deporre fiori, lumini e ciottoli, a scattare foto e a mettersi in posa per gli immancabili selfie.
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Il ricordo dell’orrore è più accettabile in una giornata di sole, resa gioiosa dall’atmosfera natalizia. Eppure, era appena passato il Natale quando il fiume, che dovette sembrare spettrale, ingoiava i cadaveri di quei cittadini ebrei, mentre le urla di vittime e carnefici arrivavano agli abitanti delle “case protette” che si affacciavano sul fiume e in cui l’italiano Giorgio Perlasca, nell’inverno tra il 1944 e il 1945, faceva rifugiare quanti più ebrei riusciva a salvare. Il comasco Perlasca, fingendosi, per una serie di vicende, console spagnolo (in realtà si trovava a Budapest per motivi di lavoro ma aveva militato nel Corpo Truppe Volontarie durante la guerra civile spagnola, a fianco dei nazionalisti di Franco e parlava perfettamente lo spagnolo), riusciva a ottenere “lettere di protezione” (protezione diplomatica, nel caso di Perlasca, garantita dal governo spagnolo, cui si aggiungeva quella dei governi svedese e svizzero), recandosi audacemente a Buda, nel quartiere della Fortezza, dove si trovavano i ministeri in cui andava a stringere rapporti con le alte cariche ungheresi dell’epoca. Cinquemila ebrei vennero così salvati (tra essi anche Giorgio Pressburger, lo scrittore ungherese naturalizzato italiano), ammassati in edifici ancora oggi rintracciabili grazie ai numeri civici, in strade il cui nome di allora è cambiato, mentre è ancora lì lo storico hotel Astoria, tra i viali Károly e Kossuth Lajos (lo stesso in cui si acquartierò il comando della Wehrmacht) che all’epoca ospitava al sesto piano gli uffici della Saib, la ditta per cui Perlasca lavorava (commerciava carni dall’Est Europa in Italia). E a Budapest, Perlasca è ancora ricordato dai monumenti che gli sono dedicati: un busto davanti all’Istituto Italiano di Cultura, nella centralissima via Bródy Sandor, la stessa che fu teatro, il 23 ottobre 1956, di uno dei focolai della rivoluzione, e un monumento nel cortile della Sinagoga Grande che lo ricorda tra i Giusti delle Nazioni.
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In quel terribile anno 1944, il quindicenne liceale Imre Kertész, che sarebbe diventato Premio Nobel per la Letteratura 2002, figlio di genitori divorziati, della media borghesia ungherese, si recava, con altri sedici compagni della sua età, a Csepel, nel distretto XXI di Budapest, per lavorare presso la raffineria di petrolio Shell. Già da alcuni anni le restrizioni discriminatorie del regime Horthy avevano ridotto gli ebrei budapestini ad una condizione di inferiorità (la stella gialla, le classi ebraiche, il divieto di possedere la radio, la perdita del lavoro, l’obbligo di coabitare insieme ad altre famiglie), ma proprio il reggente Horty aveva, fino a quel momento, impedito le deportazioni dei cittadini di Budapest, purché non superassero i confini della città. E così, fu proprio quella sorta di rilassamento psicologico, di sentirsi comunque ebrei” privilegiati”, cittadini della nobile Budapest al contrario di quelli della provincia, a far credere alla gente (che peraltro in gran parte, compreso Kertész, non aveva mai sentito il nome di Auschwitz) di sopportare e continuare a vivere senza pensare di poter finire su un treno merci e da lì in un campo di sterminio. Fino a quando, nel marzo del 1944, i tedeschi occuparono l’Ungheria e a Budapest arrivò un ufficiale di alto rango delle SS di nome Adolf Eichmann, accolto con onore persino dal Consiglio ebraico. Perciò, un giorno all’alba la gendarmeria, il cui ambito non si estendeva a Budapest (dove invece agiva la cosiddetta “polizia azzurra”), accerchiò la città e ne mise sotto controllo i confini amministrativi; quel giorno la polizia, di cui si avvalse la gendarmeria, arrestò tutti gli individui che portavano una stella gialla che oltrepassavano i confini di Budapest, che fossero eccezionalmente autorizzati a farlo oppure no. Fu così che Imre venne catturato insieme ai compagni – tutti ragazzini tra i quattordici e i quindici anni – e deportato ad Auschwitz. Vi sopravvisse, fu liberato a Buchenwald, e dopo tredici anni dal suo ritorno a Budapest, fu pronto per scrivere “Essere senza destino”, «con l’intenzione di portare a termine la catastrofe di Auschwitz».
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Il protagonista, Köves György, è un adolescente che, come Kertész stesso, aveva dovuto diventare, durante le lunghe vacanze estive, per disposizione delle autorità competenti, apprendista manovale presso la raffineria petrolifera Shell, e che, catturato, finiva ad Auschwitz. “Essere senza destino” (da cui è stato tratto nel 2005 un film per la regia dell’ungherese Lajos Koltai, la sceneggiatura di Kertész, le musiche di Ennio Morricone e Daniel Craig nel ruolo del soldato americano) viene raccontato dal punto di vista di  György, detto Gyurka, uno sguardo bambino, che registra tutto con un racconto straniato, con la «voce furtiva, in un certo senso vergognosa della sua stessa insensatezza, la voce di un desiderio sommerso quanto ardente: poter vivere ancora un pochino in quel bel campo di concentramento», perché – scrive Kertész –, «nelle dittature ogni uomo è trattato come un bambino e tenuto in uno stato di ignoranza e bisogno». Perciò il Gyurka del romanzo racconta l’“inavvicinabile” come un succedersi di momenti “ordinari” della “quotidianità” verso la morte, momenti in cui «persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità». “Naturale”, che in un campo di sterminio ci fosse almeno un forno crematorio, “naturale” che, una volta liberato da Buchenwald, sporco e sgradevole com’era, salisse su un autobus per “tornare a casa” e venisse fermato per non avere il biglietto, mentre provocava fastidio all’anziana signora che sdegnata si voltava dall’altra parte a guardare fuori dal finestrino, “naturale” che anche gli altri che non erano stati in un campo di sterminio, si lamentassero perché anche loro avevano cercato di sopravvivere.
E “naturale” che «con un simile peso non si potesse cominciare una vita nuova» (così dice Gyurka nelle pagine finali di “Essere senza destino”). Eppure, la vita doveva ricominciare, come apparve chiaro a Imre nell’attimo in cui dalla stazione ferroviaria Nyugati uscì, “libero”, nella piazza omonima, tranquilla nella luce del tramonto (che un tempo si chiamava piazza Berlino e più tardi piazza Marx, oggi Nyugati).
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Tornato in Ungheria, Imre, come racconta in Dossier K., piombò nel mezzo di una società “singolare” nel cui ambito dovette fare in fretta le sue scelte, a rivedere la sua identità (cosa che uno scrittore, e per di più ungherese, fa continuamente, perdendola dopo averla rintracciata). Insomma, tra persone morte (il padre, i compagni, i nonni materni, anche loro finiti ad Auschwitz) e vuoti enormi (senza più casa, inesistente quella paterna di via Baross, momentanea quella della madre, risposatasi), s’iscrisse al partito comunista.  Una cosa “naturale”, non certo per redimere il mondo. Per diventare cosa? Un ingegnere, un medico, o altro, come desiderava la madre (donna di fascino e dalla grande personalità, che quando lui era sparito ad Auschwitz, aveva osato presentarsi alla Gestapo per averne notizie, poi in fuga dalla fabbrica di tegole di Óbuda dove lavorava e dove i carichi erano già in direzione per Auschwitz, quindi rifugiatasi nel ghetto dove si salvò). «Non esiste assurdità che non possa essere vissuta» dice nelle battute finali Gyurka, «il prezzo da pagare è accettare qualunque punto di vista». Così fece Imre e per un po’ di anni, senza alcun progetto di vita davanti, vivendo giorno per giorno, e facendo un po’ di tutto, si appassionava alla lettura e al giornalismo, cominciando anche a scrivere di notte… Ebbe poi la “fortuna”, nell’epoca di Rákosi, di essere “semplicemente” licenziato nel 1951 dal giornale in cui lavorava (allora il licenziamento coincideva con l’arresto e qualche pretesto di conflitto politico), di essere assunto in una fabbrica e quindi di ritornare a fare “l’intellettuale senza impiego”, con collaborazioni giornalistiche sporadiche, in un tempo in cui viveva ancora in «un mondo di fantasmagorie, nell’assurdità più totale, esiliato nella mancanza di serietà», una condizione strana, se non pericolosa («le dittature trasformano gli uomini in infanti, in quanto non permettono loro di compiere le loro scelte esistenziali, privandoli dello splendido peso della responsabilità personale»). Fino a quando un giorno, in una situazione kafkiana, in un corridoio a L in una casaufficio delle Ferrovie di Stato Ungheresi (doveva scrivere un articolo sul motivo per cui i treni facevano ritardo) prese coscienza di sé, della volontà di scrivere. Intanto aveva conosciuto per caso in un bar Albina, quella che sarebbe diventata la sua prima moglie per quarantadue anni, che gli chiese di essere ospitata nella stanza in cui Imre viveva all’epoca, perché uscita dal carcere della Polizia Segreta Sovietica (era stata arrestata nell’epoca Rákosi, per non aver commesso nulla, poi liberata durante il breve governo di Imre Nagy), aveva trovato il suo appartamento occupato e non aveva più dove dormire. Iniziarono la loro vita insieme, in un appartamento in subaffitto, Albina da borghese benestante fu ridotta a fare l’autista (per la “fortuna” di avere la patente) di autocarri per il trasporto di latte e verdure, che scaricava all’alba fermandosi negozio per negozio, ma in seguito per un “miracolo” burocratico, le fu restituito l’appartamento (di 28 metri quadrati) in via Török dove si trasferirono e vissero per quarant’anni. La svolta avvenne quando dopo la lettura di Morte a Venezia di Thomas Mann e poi di Lo straniero di Camus e Il processo di Kafka, Imre capì una volta per tutte che «la letteratura è uno sconvolgimento abissale» e che in quello sconvolgimento, nella sua vita segreta, voleva vivere, anche se ci voleva molto coraggio «per far uscire dalle mani» un libro. E così, nel 1960, tredici anni dopo la liberazione, decise di scrivere Essere senza destino, che ebbe prima vari rifiuti da diversi editori, e rimase inedito fino a quando fu pubblicato nel 1975, ma fu quasi ignorato e sarebbe stato dimenticato nello «scantinato magiaro» se la Germania non lo avesse pubblicato e non ne avesse decretato il successo (in Italia sarà Feltrinelli a pubblicarlo nel 1999).
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Per decenni in Ungheria il nome di Kertész rimase quasi sconosciuto, e per decenni lo scrittore abitò il silenzio. Non “lo fecero fuori” negli anni in cui era assai attiva la Casa del Terrore (quartier generale della polizia politica sia nazista che comunista, dove avvenivano le torture e le esecuzioni, oggi visitatissimo monumento-museo nell’elegante viale Andrássy), perché – ricorda Kertész –, erano distratti. Eppure quegli anni di sistema del terrore kadariano (il “regno” di János Kádár si affermò dopo che Imre Nagy che aveva animato il governo liberale e democratico post rivoluzione 1956 e che aveva aiutato Kádár a uscire di prigione, venne condannato a morte), se come scrittore si correva il rischio di finire nel meccanismo dell’annichilimento, quegli anni furono anni creativi: e se vivere dopo Auschwitz era imbarazzante perché essere sopravvissuti, essere diventati un’eccezione, provocava la nausea (che portò alcuni intellettuali come Amery, Celan, Levi a darsi il suicidio), fu proprio la scrittura che, sublimando l’idea latente del suicidio, divenne «l’unica maniera per restare in rapporto con l’offesa profonda subita». Così scriveva nel romanzo-saggio-diario Lo spettatore, lo stesso spettatore/Kertész che guarda un Secolo infelice (altro suo scritto) che per vivere si dedica alla traduzione (Canetti, Wittgenstein, Freud, Nietzsche), attività simile allo stordimento da alcolismo, a scrivere pièce teatrali, commedie e lavori leggeri apolitici, e quindi alla scrittura “segreta” per sentirsi a casa, lui che si riteneva un esiliato in patria. «Scrivo per sentirmi a casa, affinché almeno per un attimo possa sentirmi di nuovo a casa, pur nella nostra fuga dall’inumanità, dall’alienazione, dall’esilio: una casa che per me significa la vita e la morte».
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E venne il 1989, con la caduta del Muro di Berlino (il regime kadariano era durato fino al 1988), il brutto anatroccolo stava diventando un cigno e dopo qualche anno ebbe la “fortuna” di essere tradotto (come altri ungheresi) in Germania, dove a Berlino diventerà di casa, soprattutto dopo il Nobel, e trascorrerà lunghi periodi insieme alla seconda moglie Magda. «Propriamente – diceva Kertész – non ho ricevuto in nessun luogo tanto affetto quanto me ne ha dato quella Germania dove vollero uccidermi. Berlino divenne la vita, Budapest l’esilio». Prima del Nobel non ebbe mai nessun effetto sulla cosiddetta letteratura ungherese (anche la lingua era esiliata, come recita il titolo di un altro suo scritto), poi, insieme al riscoperto Sándor Márai, proprio l’interesse nato intorno a Kertész ha fatto rivalorizzare autori come: Pèter Esterhàzy, Istvàn Orkeny, Agota Kristof, Magda Szabó. Imre trascorse l’ultimo quindicennio della sua vita tra viaggi e conferenze, sempre insieme a Magda, benché diffidasse delle celebrazioni e si rammaricasse che gli orrori vissuti e i suoi conflitti si risolvessero, suo malgrado, in letteratura, in un fatto estetico. Molti luoghi della memoria, tra i quali l’Holocaust Memorial Center di Budapest, nella via Páva, una vecchia sinagoga trasformata in museo della memoria e centro di ricerca dagli architetti István Mányi e Attila Gáti (una costruzione asimmetrica fortemente simbolica) e inaugurata nel 2005, lo onorarono del loro invito, ma egli cercava di sottrarsi perché riteneva che Auschwitz si era trasformato in un evento musealizzato, globalizzato. Eppure, insieme a Magda si recò con l’Accademia Tedesca di Cracovia ad Auschwitz-Birkenau dove visse in silenzio una situazione grottesca: quando un collega accademico tedesco gli si gettò piangendo tra le braccia, quasi a chiedergli una sorta di assoluzione, Kertész fuggì verso l’uscita vergognandosi profondamente di quell’escursione con la quale gli sembrava di offendere i morti. Ma poi, per il suo carattere dolce e cortese, non rifiutava di raccontare malinconicamente l’avventura della sua vita e ricevere premi (in Italia ricevette il Premio Flajano 2001 e il Premio Grinzane 2009). A Budapest si spense, dopo una malattia, nel 2016, vivendo anche «il disilluso coraggio della vecchiaia», come diceva il suo amico Márai, nella «grandezza della preparazione alla morte».
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Nello stesso inverno tra il 1944 e il 1945, in cui Kertész era in quel “bel campo di concentramento” e il comasco Giorgio Perlasca batteva le strade di Budapest per cercare alloggi di salvezza per i “suoi” ebrei, in quello stesso anno Ágnes Heller (nata nel 1929 come Kertész) la filosofa budapestina, allieva di Lukács, morta nello scorso luglio 2019 mentre nuotava nel suo amato lago Balaton, si trovava nel ghetto di Budapest, dove era entrata a 15 anni, con la famiglia di intellettuali non praticanti (padre ebreo austriaco, uomo di legge, ma anche pianista e cultore della filosofia e dell’arte), dopo essere stata privata della sua casa e delle colte abitudini di borghese benestante. Il padre Pál, un giusto oltre che fine intellettuale, s’impegnò in prima persona a salvare vite di ebrei in fuga, così, mentre Ágnes e la madre Angyalka rimanevano nel ghetto, un giorno non tornò a casa perché caricato su un’auto della Gestapo, e deportato ad Auschwitz, dove fu ucciso nel gennaio del’45. Ágnes ricordava bene la domenica 19 marzo 1944 in cui le truppe tedesche occuparono militarmente l’Ungheria: la mattina si seppe dell’occupazione e il pomeriggio la giovanissima Ágnes aveva prenotato un posto per un concerto di Stravinskij. La madre si arrabbiò, il padre, invece, le disse di andare pure, perché pensava che fin quando si era in vita bisognava sfruttare al massimo il tempo e le occasioni. E Ágnes rimase un’ottimista anche nel ghetto, benché nel ghetto stesso la solidarietà- raccontava- era scarsa, e regnavano ugualmente sia invidia e gelosia, che momenti di forte empatia, e benché i piani di Eichmann fossero di deportare tutti gli ebrei ungheresi nell’arco di tre mesi, ma da Budapest ne venne deportata solo la metà perché intanto l’armata russa aveva bloccato la strada per Auschwitz.
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Quando arrivarono i sovietici fu per Ágnes, come scrive in I miei occhi hanno visto, «la giornata più felice della sua vita: la liberazione dal nazismo». Ma capì presto che liberazione non vuol dire libertà, che è gravosa, fragile, e si accompagna a gravi responsabilità, come sostiene Lévinas. La Repubblica Popolare instaurata in Ungheria, che sarebbe durata con vari rivolgimenti fino alla caduta del muro di Berlino, fu salutata con entusiasmo dai giovani marxisti, allievi, come la Heller, di György Lukács. Lo aveva conosciuto nel 1947 al primo anno di università, quando era iscritta nella facoltà di fisica e di chimica. Un giorno un suo fidanzato di allora la portò a una sua lezione: non aveva nessuna idea della filosofia, ma bastò una lezione per «rimanerne soggiogata ed essere presa in ostaggio dalla sua parola». Si capiva che nelle sue lezioni rimaneva attento a non oltrepassare certe linee dell’insegnamento; era un uomo del partito ed era controllato dal partito al quale la stessa Heller si iscrisse nel 1947, per una sorta di emulazione, e fino al 1949 aveva avuto un ruolo determinante nella politica culturale del partito comunista. Era subito nato un rapporto di grande amicizia tra il filosofo, uno dei massimi pensatori della filosofia moderna, e la giovane Ágnes che dal 1953 al 1956 divenne sua assistente all’università.  Ma Ágnes, come il suo maestro, sentiva, tra delazioni e menzogne, tutta l’ambiguità e la falsità del sistema sovietico, mentre apprezzava la lucidità di pensiero del filosofo e la ricerca della verità, che virava verso un marxismo “umanistico”. Quando venne il 1956, e, con la rivoluzione, si respirava aria di riforme, Lukács, sotto il governo di Imre Nagy era divenuto ministro, ma in seguito, con la durissima repressione sovietica, il filosofo fu “ghettizzato” dal partito che lo considerava un eretico (del resto anche il suo realismo nella letteratura con il libro Teoria del romanzo del 1916 e il suo Storia e coscienza di classe del 1923, non furono mai riconosciuti dal partito). Così Lukács venne deportato in Romania, da cui poté tornare a Budapest nel 1957, anche se venne estromesso dal partito che gli impose di non pubblicare in Ungheria (fu poi pubblicato in Germania e anche in Italia, dove nel 1963 uscì il fondamentale Estetica).
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La Scuola di Budapest, che si formò tra il 1956 e il 1960 con un gruppo di amici filosofi fortemente influenzati dalla lezione di Lukács, era un circolo che credeva in un rinascimento del marxismo, una visione “umanistica” di Marx, con un Marx senza -ismo (da allora la Heller considerò ogni -ismo come una sorta di siero urticante), meno legato all’ideologia e più vicino ai bisogni della gente. La Scuola di Budapest, animata tra gli altri da Férénc Fehér, secondo marito della Heller, da György Markus, Mihály Vajda, e dalla stessa Heller, rimaneva marxista, ma si opponeva al sistema. Il Sessantotto fu un anno entusiasmante per la Scuola, un tempo di grandi attese, con la primavera di Praga e il maggio francese, anni di incontri internazionali e di contatti con Marcuse, Habermas, Fromm e Bloch, ma poi tutto precipitò con l’invasione della Cecoslovacchia, e il circolo budapestino fu sempre più isolato anche da parte di altri intellettuali e di persone comuni che – ricorda la Heller – «neanche ci salutavano più». Gli anni Settanta furono terribili, Lukács era morto nel 1971, e qualche mese prima di morire confessava alla Heller e agli amici con i quali si ritrovava per le vacanze estive in campagna in zone lontane dalla città, di essere «un’esistenza fallita»; per il resto, il terrore «era un fantasma che ti seguiva dovunque – diceva la Heller –, al lavoro, per la strada, tra le stesse mura di casa». La Scuola di Budapest era tenuta sotto osservazione e spiata, i filosofi furono giudicati sovversivi, inadatti al lavoro filosofico, antimarxisti, pericolosi per la società. E anche se Ágnes, che da tempo, lavorando alla sua Teoria dei sentimenti aveva rinunciato quasi completamente a Marx, vestiva l’ottimismo come sua abitudine, quando la polizia andò a fare un’ispezione nella sua casa, provò la stessa angoscia di quando la Gestapo aveva gettato tutto all’aria e li aveva portati nel ghetto. Emarginati nella società ungherese, l’unica soluzione era l’espatrio con il marito e il figlio, l’unico modo per vivere e muoversi nella filosofia: dopo vari impedimenti, la filosofa si recò prima in Australia, nel 1977, dove ebbe una docenza universitaria e scrisse tantissimo (anche su Lukács, la Scuola di Budapest e la rivoluzione del ’56), poi nel 1986 a New York, dove visse una vita intellettuale intensa e conobbe grandi pensatori, da Rorty a Cohen, a Butler, a Chomsky. Quando cadde il muro (intanto Kádár era morto nel 1989), la Heller con la famiglia poté tornare a Budapest, dove Ágnes ha vissuto in un luminoso appartamento sul Danubio nei pressi della piazza Boraros; subito dopo esservisi trasferiti, nel 1994, il marito morì, ma Ágnes non avrebbe mai perso la sua voglia di vivere, la gioia di stare a contatto con la natura, di continuare la ricerca di studio, di scrivere (da Marx a Una teoria della storia, da Male radicale a Morale e rivoluzione, da Paradosso Europa all’ultimo suo libro, Il valore del caso. La mia vita, Castelvecchi 2019), di viaggiare (adorava l’Italia e il Rinascimento italiano di cui ha scritto nel corposo saggio L’uomo del Rinascimento. La rivoluzione umanista, si fermò in Toscana, portava in giro la sua lezione sulla democrazia e venne anche a Messina nel 2013), e di incontrare gli altri (l’amicizia era per lei sacra), come dimostra il fatto che, benché novantenne, amava ancora regolarmente nuotare, mentre era in vacanza con amici nella località di Balatonalmádi, sul lago Balaton.
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Non si può vivere la libertà nello stesso luogo in cui si è vissuta la prigionia, dicevano sia Kertész che la Heller, eppure sono tornati a Budapest dove hanno terminato i loro giorni, e oggi riposano, il primo nel cimitero monumentale di Kerepesi, la Heller nel grande cimitero ebraico di Kozma. Si conoscevano (la Heller era presente ai funerali di Kertész, onorati dal governo e da Viktor Orbán), da ragazzi condivisero il sentimento di sentirsi esclusi dal futuro, amavano la Arendt, e osservavano gli avvenimenti del terzo millennio: i nazionalismi che sono la forma effimera dell’odio e della distruzione universali, l’“incanto quotidiano del male”, l’idea che Auschwitz è il grande fallimento dell’Europa intera e che attiene alla natura umana più che a Hitler. Concordavano sul fatto che «Auschwitz è stato un evento religioso». Ma non nel senso comune del termine. Ma nel senso che Hitler si sentiva un dio. Il suo scopo era l’annientamento totale degli ebrei, perché egli stesso voleva uccidere Dio e farsi, lui, Dio. Quando ci si chiede dove fosse Dio per permettere tutto questo, i laici Kertész ed Heller osservavano che bisognava lasciare in pace Dio e che invece bisognava chiedersi dove fossero gli uomini: come poteva Dio che è infinito occuparsi di un fatto finito come lo sterminio degli ebrei?
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Si dovrebbe indagare – pensavano – perché il mondo si odii così tanto e per quale motivo si diriga con tanta foga verso la distruzione. È terribile quanto la trasmissibilità estetica della violenza continui a valere. In genere si è soliti dare la colpa alla cosiddetta storia, come se fosse una forza divina, estranea all’uomo, anzi un potere che divora l’uomo. e invece è l’uomo stesso l’unico colpevole delle azioni. Secondo loro anche il nome Olocausto (così come scrive il filosofo Giorgio Agamben nel suo libro Quel che resta di Auschwitz) è un’espressione infelice (negli anni Sessanta non esisteva ancora), un eufemismo che analizza un fatto da un unico lato e cerca di dare un senso a ciò che appare completamente insensato. Il fatto è Auschwitz, che può continuare in ogni luogo e in ogni tempo. Attenzione – dicevano – a dare una lettura semplicistica dell’Olocausto (inevitabile ormai usare questo termine) che potrebbe commuovere in maniera superficiale anche chi sarebbe il nuovo carnefice. Troppi film (Kertész non amava Schindelr’s List di Spielberg e apprezzava invece La vita è bella di Benigni perché – diceva – solo così si può raccontare l’“inavvicinabile”), troppe celebrazioni, troppa retorica. Oggi, se non si compiono gli sforzi necessari per restarne lontani si rischia di essere tutti “nazisti”, perché l’antisemitismo è subcosciente (tenuto a bada per lunghi anni, «sgorga a fiotti come lava che sa di zolfo dalla palude dell’inconscio» scriveva Kertész) e gli istinti stupidi e omicidi dei fondamentalismi (anche quelli degli ebrei) hanno dimostrato che l’uomo non è affatto cambiato dall’età della pietra. Attenzione ai fascismi di tutti i giorni (l’espressione è di un film del 1995 del regista sovietico Michail Il’ič Romm), perché il fascismo si rigenera, come forma aperta, come desiderio delle masse e di chi sta al potere. Del resto la liquidazione del comunismo ha portato allo sbilanciamento del dondolo: se non c’è più comunismo, viva il nazismo. Che banalità, che luogo comune! (ancora Kertész).
Patrizia Danzè
*In copertina: Imre Kertész ha ottenuto il Nobel per la letteratura nel 2002
L'articolo “Il terrore era un fantasma che ti seguiva ovunque”. Imre Kertész e Ágnes Heller: la scrittura contro l’incanto del male proviene da Pangea.
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