Tumgik
#calcio e cultura dall'Italia e da tutto il mondo
googletokblog · 1 year
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ufficiosinistri · 7 years
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Duri a Marsiglia
Quel giorno andai a comprare le birre al supermercato vicino a casa. Confinava con il mio cortile tramite un'altissima cancellata rossa, arrugginita e vertiginosa. Da piccolo, assieme ai miei amici del cortile, scavalcavamo un'altra cancellata, disposta appena di fianco a quella rossa, attraversavamo degli orti abbandonati a loro stessi, dei roveti, ed arrivavamo nel cortile del supermercato. Eravamo agili, magri, alti. In tre o quattro compravamo al massimo una lattina di Coca-Cola o un paio di ghiaccioli marca Supermercati Brianzoli gusto arancia. Poi tornavamo a casa, nel nostro cortile, passando però per la via principale, fieri di aver avuto i soldi per comprarci qualcosa da riportare indietro, al campo base, al villaggio, al fortino. Sorridevamo e camminavamo a testa alta.
Quel giorno, invece, uscii di casa nel primo pomeriggio, nel calore inutile di un giugno vacanziero, per comprare le birre per la partita. Arrancai su per la via principale, entrai nel cortile di quello che era diventato GS, che vidi come parcheggio, rimasi un attimo a contemplare l'aria condizionata dell'ingresso del negozio. La partita, dicevamo. Italia – Repubblica Ceca, Europeo del 1996. L'avvio del torneo era stato quasi avvincente, con una vittoria abbastanza sbiadita sopraggiunta grazie ad una doppietta di Casiraghi, che aveva salvato la formazione di Sacchi da Tsymbalar. Si giocava a Liverpool, quella sera, e davanti non c'era più Casiraghi, bensì Ravanelli. Aveva appena vinto la Champions League con la Juventus, era uno degli attaccanti più forti del momento. Ma forti a livello mondiale intendo. Dai è facile, la vinciamo. La Repubblica Ceca aveva Nedved, Poborsky e Berger, capelloni, mentre da noi comunque giocava un campione d'Europa là davanti. Eravamo in cinque o sei, assiepati quasi svogliatamente sui divani disposti a L del salotto di casa dei miei, che quel giorno erano andati a prendere un po' di fresco in montagna dato i due giorni di riposo di fila di mio padre. Alcuni avevano parcheggiato e legato le biciclette in cortile, nessuno aveva ancora la patente. Casa libera, partita e compagni di scuola, una partita che avremmo vinto. E invece Ravanelli non giocò, praticamente. E l'Italia perse due a uno, illusa dal pareggio di Enrico Chiesa, che andò a riparare solo temporaneamente la rete di Pavel Nedved e soprattutto l'espulsione diretta ai danni di Apolloni, centrale azzurro ruvido ma non cattivo. Berger fu adottato da Liverpool in occasione di quel match e rimpiansi il fatto che sotto ai riflettori ci stette lui e non il nostro, di attaccante. Avevamo ancora, comunque i tre punti guadagnati con la prima partita contro i russi, non c'era nulla da temere, anche perché Fabrizio Ravanelli si sarebbe fatto presto sentire: alto, spigoloso, furbo, un masnadiero navigato su cui potevamo contare, un centravanti mancino che era in grado di colpire di testa con la stessa forza con la quale calciava. Nella terza partita contro la Germania, però, non fu nemmeno schierato. Sacchi tornò a puntare e sperare sull'attaccante pesante, Casiraghi, con “Gianco” Zola alle sue spalle. Due destri di cui uno, l'incerottato laziale, abbastanza macchinoso e pesante. Indubbiamente efficace, ma di certo non elegante come il mancino di Fabrizio. L'altro, "The magic box", invece, sbagliò un rigore che avrebbe sicuramente permesso agli Azzurri di cambiare marcia, non vi erano dubbi. Partita patta nonostante un'espulsione, quella di Strunz, che parve riaccendere le speranze, ma non accadde davvero nulla: dopo un avvio sicuro e premonitore, ecco che si ritorna la stessa Italia di sempre, che con due soli gol subiti esce dall'Europeo. Un'Italia che nonostante la ferrea egida di Arrigo Sacchi sembrava avere finalmente, dopo anni di catenaccio, delle validissime alternative offensive di cui una, identificata in Fabrizio Ravanelli, destinata ad incarnare il centravanti europeo che tutte le maggiori squadre del Vecchio Continente avevano.
L'avventura di Ravanelli, attaccante umbro e corrucciato, a quell'Europeo, fu fugace e sazia come una notizia di politica letta svogliatamente dai quotidiani comprati in edicola durante la settimana di vacanze di Ferragosto. Quando si entra nelle boutiques argentee e si adocchiano gli Harmony ingialliti e i romanzi di Wilbur Smith già sciupati accampati sugli espositori verdi agli ingressi, come a far da tramite tra la vita da spiaggia e la sapidità della stampa rinchiusa in quegli spazi angusti. Una notizia commentata con spiccata razionalità nonostante il disinteresse del proprio volatile pubblico. Tra bambini che frignano, mamme e padri che li rimproverano, caldo e vociare in aumento. Quel Campionato Europeo fu una competizione balneare vissuta ahimè troppo balnearmente. Fu una sciocchezza alla quale Fabrizio Ravanelli, il nostro pirata, non prese parte con tutto il suo potenziale, partecipandovi da giocatore viziato, irritato e ansiogeno e soprattutto da ctonio spettatore di un epilogo sportivo, quello di Mister Sacchi, che dopo aver compiuto il miracolo di Usa '94 non seppe smouversi da quella mentalità difensiva troppo statica per i tempi che stavano cambiando. La fine fisica della sua avventura da CT arrivò comunque dopo un pareggio in amichevole contro la Bosnia-Herzegovina, cinque mesi più tardi.
Quell'estate sancì inoltre interessanti verdetti geografici: Berger andò a Liverpool e Ravanelli a Middlesbrough, la città dove nacque l'espoloratore James Cook. Dopo quell'Europeo la Juve lo vendette per molti soldi alla società dello Yorkshire, e mi ricordo la sua cessione all'estero come una delle prime riguardanti calciatori forti che militassero nei nostri campionati. Sui media si scatenò subito la corsa alla giusta pronuncia della cittadine inglese: "Middelbrug", "Middelsbraf", "Middelburg" e tante altre varianti per nominare una realtà che ci rese partecipi del cambiamento che stava sopraggiungendo nel mondo del mercato e del calcio mondiale. Guardavamo il dito che ci indicava la luna, come sempre. Fabrizio, comunque, ci andò arrabbiato, ancora più corrucciato, "sbattendo la porta": aveva appena vinto una Champions League con la squadra che lo aveva prelevato direttamente dalla serie B dandogli fiducia, insomma. Con Reggiana era riuscito a segnare una valanga di gol, per esempio. Un Europeo così balneare non aveva potuto scalfirne così irrimediabilmente la reputazione. Lassù in Premier giocò tanto, chiaramente, e segnò anche tanto, ma non così tanto da tener lontani prese in giro e insuccessi. "Penna Bianca" diventò "Silver Fox" per coloro che dall'Italia continuavano a seguirne le gesta, sino a quando non andò a Marsiglia, appena un anno dopo. Da duro, come sempre, da chi è in perenne ricerca di riscatto. O di tranquillità e comprensione. Mentre in televisione iniziavano a comparire sue imitazioni che non mi hanno, davvero, fatto mai ridere.
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"Duri a Marsiglia", di Giancarlo Fusco, parla di un giovane anarchico spezzino scappato dall'Italia fascista nel 1932 che trova rifugio e comprensione nei vicoli della città francese, per l'appunto. Invischiato negli affari malavitosi dei principali clan criminali di Marsiglia e ricoprendo diversi ruoli, accresce giorno dopo giorno la sua personalità e diffonde a chi incontra lungo il suo cammino i principi della propria cultura, impregnata di ideali libertari, antifascisti e romanticismo letterario. Il tortuoso percorso formativo arriverà ad una definitiva consacrazione grazie alla comprensione che viene dimostrata nei suoi confronti da parte delle persone con cui ha a che fare nella sua esperienza marsigliese. Una formazione opposta a quella di cui andava fiero Truffaut, legata al comprendere libri e film esclusivamente dal lato culturale. Perché solamente grazie all'accettazione si può crescere. Anche i più forti lo ammettono, anche Ravanelli, che era riuscito ad imporre il suo modo di giocare in qualsiasi serie o divisione avesse calciato. Da vero duro.
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